Spopolamento, stipendi bassi e pochi servizi. L’emigrazione in Italia diventa un problema anche ambientale

Rilanciamo un interessante servizio pubblicato da La repubblica nella versione on line:

Ormai si va via perfino dalla Lombardia, come non accadeva oltre un secolo. Ma a pagare di più sono le cosiddette “aree interne”, il 60% del Paese, dove mancano collegamenti, scuole, sanità. E sono le zone più esposte alla crisi climatica. Eppure un piano per cambiare lo avevamo fin dal 2013, ma lo abbiamo dimenticato

di Jaime D’Alessandro

“L’emigrazione dal nord, specie dalla Lombardia, è una novità. Da lì si partiva verso le Americhe oltre un secolo fa e oggi si è tornati ad andar via con numeri che solo la Sicilia eguaglia, benché i motivi di fondo siano diversi”. Enrico Pugliese, professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma e in passato direttore dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Cnr, lo racconta con voce bassa, scandendo le parole. Originario di Cosenza, classe 1942, ha al suo attivo diversi saggi sul tema, fra i quali l’ultimo: Quelli che se ne vanno, la nuova emigrazione italiana. “Il punto è che in Italia si emigra come non accadeva da tanto tempo”, prosegue. “C’è una trasversalità che abbraccia le classi benestanti e quelle che lo sono meno, tutte colpite dalla continua diminuzione degli stipendi e dalla precarizzazione del lavoro. Nelle aree lontane dalle metropoli, prive di servizi essenziali, il fenomeno è ancora più forte. E le conseguenze saranno profonde, aggiungendosi all’impatto economico causato dal cambiamento climatico“.

Si dice che la nuova emigrazione sia giovanile e scolarizzata. Secondo Pugliese è vero solo in parte. Benché sia una componente del nuovo volto di un fenomeno antico, a lasciare il Paese sono prevalentemente i non scolarizzati. Se guardiamo in particolare a Milano, Bergamo e Brescia, dove ovviamente c’è anche il fenomeno dell’immigrazione a bilanciare, si va via perché l’offerta di lavoro è nel terziario avanzato e comunque non è abbastanza. Con una aggravante: la migrazione di rimbalzo che ricorda gli anni Cinquanta: si cresce al Sud, si fa tappa a Milano per studiare magari economia e ingegneria, si va all’estero dato che gli stipendi sono più alti e il costo della vita equiparabile. Contribuisce, almeno in parte, la crescita degli affitti nelle città, – non solo nel capoluogo lombardo – dove hanno raggiunto prezzi insostenibili, e dall’altro il sottoimpiegare chiunque. Il racconto diventato virale di Ornela Casassa, ingegnere ventottenne di Chiavari, che a Genova si è vista proporre una collaborazione da 900 euro lordi dopo il tirocinio a 750 euro netti, è solo uno dei tanti casi.

Stagnazione e declino delle retribuzioni, spopolamento, crisi ambientale, sono alcuni dei tasselli dello scenario che si sta configurando. Va aggiunta la denatalità, il sorpasso dei pensionati sugli occupati in alcune regioni del Sud, la perdita di produttività delle aziende così poco inclini ad innovare, il crollo dei patrimoni di quella metà della popolazione che ha meno, passati da una media di 25mila euro circa degli anni Novanta agli attuali 5mila. Tutto questo ci rende una nazione fragile, specie se si presta fede alle previsioni fatte fra gli altri dal Centro comune di ricerca (Jrc) della Commissione europea: le conseguenze economiche dell’innalzamento delle temperature sull’area mediterranea saranno cinque volte superiori rispetto a quanto dovrà subire l’Europa del centro nord.

Non siamo i soli

Difficile fronteggiare una tale emergenza con un Paese che si svuota, perde ricchezza e nel frattempo si desertifica. L’unica consolazione, per modo di dire, è che la precarietà non ha investito solo l’Italia. Altrove però, come in Germania, si viene pagati di più e comunque raramente in nero. Anche lo spopolamento è un fenomeno con il quale stanno facendo i conti in tanti.

In Giappone ad esempio, davanti alla prospettiva di un declino certo del numero di cittadini, dai 125 milioni attuali a 88 nel 2065, quasi un terzo in meno, il governo ha pensato di correre ai ripari. Lo ha fatto con una mossa che non risolverà il problema del calo demografico, ma che comunque prova a invertire una delle tendenze dell’era industriale, ovvero la sempre maggiore concentrazione di persone nelle città. Le metropoli globalmente occupano circa il 2% della superficie terrestre, ma ospitano metà del gene umano e producono due terzi dell’inquinamento atmosferico. E mentre si continua a migrare verso le città, il resto viene abbandonato come sta succedendo in Giappone e in Italia.

Di qui l’offerta di circa 8mila euro per ogni figlio alle famiglie che si trasferiscono dall’area di Tokyo in altre regioni per arrestare l’emorragia di cittadini nella provincia e il continuo afflusso verso la capitale. Avevano già provato questa strada in passato ma con sovvenzioni più basse. Agli ottomila euro per ogni figlio, si sono aggiunti altri ventiquattromila euro per chi vive nei ventitré quartieri centrali di Tokyo. Malgrado la popolazione della capitale sia diminuita per la prima volta nel 2022, è diventato chiaro perfino per una politica immobile come quella giapponese che non si può continuare ad amministrare le cose come in passato. È però una strategia dalle possibilità di riuscita incerte. Come dicevamo prima, c’è infatti un rapporto diretto fra assenza di servizi e fuga dalle zone periferiche del Paese. Poco possono fare la sovvenzione diretta ai singoli cittadini, le ristrutturazioni dei palazzi, il dare le case a pochi euro, quando mancano le infrastrutture per permettere di avere una vita al passo con i tempi lontano dalle metropoli.

Più della metà dell’Italia è lontana da tutto

“Vengono definite aree interne tutte quelle zone dove è complicato raggiungere servizi essenziali come sanità, scuola e trasporti”, racconta Filippo Tantillo, romano di 54 anni, ricercatore presso l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp) e autore assieme a Sabrina Lucatelli Daniela Luisi del saggio L’Italia lontana: Una politica per le aree interne.

“Si dividono in periferiche ultra periferiche e sono quelle che perdono più popolazione rispetto alla media nazionale che è comunque in declino in Italia. Spopolamento e assenza di servizi sono legati a doppio filo. Parliamo di borghi come di ex distretti industriali, paesi nelle valli come in montagna, zone costiere sia al sud che al nord. Non sempre sono aree povere: la marginalità viene dalla lontananza dei servizi più che dalla tipologia geografica del territorio o dal livello del reddito della popolazione“.

In Francia li chiamano “territori dimenticati”, dallo Stato e dal mercato, in Spagna è la “Spagna vuota”, per gli inglesi “i territori lasciati indietro”. Sono comprese aree che svolgono o svolgevano un ruolo importante nella produzione agricola e industriale. Per quanto riguarda l’Italia, è il sessanta per cento del territorio: cinquemila comuni dove vivono fra i dodici e i quindici milioni di abitanti. Sono all’estremo opposto rispetto alle grandi città sempre più affollate, care e inquinate. Ma è una contrapposizione, la frattura fra centri e campagna, che si verifica anche in contesti come la provincia di Trento. I villaggi montani si svuotano e si riempie il fondo valle dove perfino gli asili nido sono sovraffollati. Aprire piccoli uffici postali, scuole e pronto soccorso, garantire collegamenti efficienti, portare la banda larga, ha un costo dove la densità abitativa è bassa. Fino a ieri si sarebbe potuto sostenere che non ne valeva la pena, oggi però il prezzo di non farlo potrebbe essere anche più alto. E i fondi in teoria li avremmo, come vedremo più avanti.

 

Perché è anche una questione ambientale

Stando alle proiezioni del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc), la crisi climatica porterà cambiamenti profondi nell’agricoltura, nel turismo e probabilmente anche nel settore immobiliare, producendo come effetto un ulteriore svuotamento di alcune delle zone già colpite dal fenomeno dell’emigrazione. Rispettivamente da noi questi tre settori valgono il 12%, 13% e 15% del prodotto interno lordo. Ne abbiamo già parlato in passato, ma riassumiamo alcune cifre.

Nell’agricoltura lavorano circa un milione di persone, in diminuzione di 32 punti percentuali rispetto ai valori del 2000. Già cinque anni fa l’Istat avvertiva che “gli eventi sfavorevoli connessi ai cambiamenti climatici, che ormai si presentano in modo ricorrente, hanno pesantemente condizionato la performance del settore, determinando una diminuzione della produzione”. Bisognerà puntare su maggiore efficienza e innovazione, in certi ambiti si può adottare l’acquaponica e l’idroponica, che permettono di produrre ortaggi usando un decimo dell’acqua dell’agricoltura tradizionale e un quinto della terra. In ogni caso molte colture dovranno essere spostate verso nord e ad altitudini maggiori virando su mais, girasole e soia. Ci sarà infatti un calo quantitativo e qualitativo della produzione di uva e olive nel sud dell’Italia. In parte compenserà la produzione di frumento, riso e orzo. Nell’allevamento di bestiame, a causa del caldo, si assisterà in generale ad una maggiore diffusione delle malattie e ad una decrescita del rendimento.
Dal turismo viene il 13% del nostro prodotto interno lordo. Quello balneare genera la maggior parte delle presenze, con il 31%. Seguono le città d’arte, con il 25% delle presenze, e il turismo montano con il 13%. Con l’aumento delle temperature si prevede uno spostamento verso maggiori latitudini e altitudini, mentre i turisti provenienti dai climi più temperati trascorreranno sempre più tempo nei loro Paesi d’origine. “È probabile, inoltre, il verificarsi di un mutamento anche a livello stagionale, con la crescita dell’afflusso di turisti verso le coste nei mesi in cui la temperatura dell’aria e dell’acqua non saranno troppo calde, quindi dai mesi caldi estivi verso i mesi primaverili e autunnali”, recita uno dei rapporti del Cmcc. Sempre più turisti stranieri sceglieranno destinazioni meno afose delle nostre, mentre sempre più turisti italiani resteranno in Italia invece di fare le vacanze in luoghi ancora più caldi. Ma il saldo sarà negativo, anche perché parte degli italiani contribuirà al flusso verso Paesi storicamente freddi. Il fenomeno non sarà uniforme, è però molto probabile che le più colpite saranno le aree costiere.

Per il turismo invernale, la vulnerabilità ai cambiamenti climatici si esprime nella Linea di Affidabilità della Neve (Lab), quell’altitudine che garantisce spessore e durata sufficienti dell’innevamento stagionale e quindi la praticabilità degli impianti sciistici. Con un aumento medio di oltre un grado centigrado, l’attuale situazione, la presenza di neve naturale è garantita per il 75 per cento dei comprensori alpini. A quattro gradi invece, lo scenario più pessimista da qui al 2050, le stazioni sciistiche si ridurrebbero a solo il 18% di quelle attualmente operative.

Riguardo all’immobiliare, bisognerebbe chiedersi se i prezzi per metro quadro raggiunti da alcuni quartieri di alcune grandi città e all’estremo opposto la perdita di valore nelle aree interne, sia un fenomeno positivo. Due terzi delle famiglie italiane vive in case di proprietà. Alcune di queste hanno visto il valore dei loro immobili crescere negli anni, a differenza degli stipendi, molte altre si sono ritrovate per le mani abitazioni che non hanno alcun mercato. In fatto di valore a metro quadro i centri più cari d’Italia sono alcune aree di Cortina, Portofino e Capri. Milano, fra Scala, Manzoni, Vittorio Emanuele e San Babila, è al sesto posto. Roma, nell’area di Piazza Navona, è all’undicesimo. All’altro capo della classifica Poggioreale, Salaparuta, Gibellina, tutte in provincia di Trapani. Fra questi due estremi, con il primo cinquanta volte maggiore dell’altro, c’è l’Italia.

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