Il Notiziario FCLIS 31 marzo 2021

Il cantiere della democrazia e i diritti delle donne

«Finché le donne non possono votare, la Svizzera non è una democrazia»: questa frase è scritta su uno striscione tenuto da due donne in una vecchia foto scelta dalla Commissione Federale per le Questioni Femminili (CFQF) per celebrare il 50° anniversario del suffragio femminile in Svizzera. Una storia centenaria di lotte delle donne per il diritto di voto che la CFQF illustra con fatti e cifre sul suo sito.

Il 7 febbraio 1971, grazie al 65,7% di uomini che votarono sì, 12 donne entreranno a far parte del parlamento: undici consigliere nazionali e una consigliera agli stati. Gli uomini di Appenzello Esterno approveranno, a scarsa maggioranza di levata di mani, il suffragio femminile cantonale nel 1989. L’anno seguente nell’Appenzello Interno sarà il Tribunale federale a «imporre» alle donne e agli uomini del cantone il diritto, o meglio, il «dovere» di votare. Se si prende alla lettera lo slogan scelto dalla CFQF, potremmo dire che la Svizzera è una democrazia giovane.
E se prendessimo in considerazione anche le donne nate e vissute in Svizzera con passaporti esteri? E le lavoratrici arrivate nel dopoguerra che hanno scelto di rimanere? La Svizzera è una democrazia, ma con paradossi e contraddizioni.

L’emigrazione italiana in Svizzera, fino alla metà degli anni 50, è un fenomeno femminile. Le donne maggiorenni arrivano con lo statuto di cittadine: nel 1946 avevano già votato nelle consultazioni amministrative e politiche. È un diritto conquistato dopo una battaglia centenaria. La stessa delle donne svizzere, che però hanno guadagnato il suffragio solo con le votazioni federali del 1971, dopo la sconfitta del 1959. Le italiane arrivate in Svizzera avevano nel loro bagaglio di cittadine italiane diritti sociali che non hanno ritrovato in Svizzera. Una legge tutelava la maternità delle italiane fin dal 1950, nel 1971 sarà statuito il congedo maternità, le svizzere dovranno aspettare il 1998.

In Svizzera l’uguaglianza di genere sarà inscritta nella costituzione nel 1981. La costituzione italiana nel 1948, oltre alla parità di genere, introduce anche quella salariale; all’articolo 37 si legge: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». Si pensi che in Svizzera il diritto di famiglia fino al 1988 prevedeva che le donne potessero scegliere di lavorare solo con il consenso del marito. Dal 1979 la Convenzione ONU sui diritti delle donne CEDAW sancisce l’obbligo del principio di parità a livello internazionale, la Svizzera l’ha sottoscritta nel 1997. Ma le discriminazioni persistono, non c’è ancora la parità salariale, né le pari opportunità, le donne sono vittime di violenza domestica, l’accesso a cariche dirigenziali e politiche è ancora a livelli insufficienti.

Come spiegare questi ritardi in uno dei primi paesi al mondo ad aver aperto le porte dell’università alle donne? Università in cui le prime donne ad insegnare sono state delle migranti. Perché in un paese che si vuole paladino della democrazia, la lotta per la parità in tutti i campi non è al primo posto nell’agenda politica di uomini e donne? È del 15 marzo la notizia che il Consiglio degli Stati in Svizzera, ha approvato l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne da 64 a 65 anni, in nome del risparmio per il sistema previdenziale AVS. Ma la parità dell’età pensionabile corrisponde non alla parità salariale. E il lavoro di cura svolto a titolo gratuito dalla maggioranza delle donne nel corso della loro vita?

Una delle possibili cause del ritardo del suffragio femminile in Svizzera è la democrazia diretta che si regge sul federalismo: la partecipazione politica delle donne ha dovuto affermarsi prima sul piano locale. I rifiuti alle proposte municipali e cantonali sono stati innumerevoli. Tuttavia come negare le resistenze sul piano culturale? A scorrere le pagine dei vari dossier pubblicati in occasione del 50°, ci si rende conto della portata storica e politica delle lotte delle donne per i loro diritti. Una storia fatta da donne visionarie che dalla fine dell’Ottocento hanno lottato da e su diversi fronti, con diverse appartenenze politiche, religiose, di classe.

Recenti studi dimostrano che gli impulsi al cambiamento sociale, e all’impegno politico, sono stati spesso innescati da esperienze migratorie, di donne e di uomini. Il ruolo delle donne in generale, e delle donne migranti in particolare, nella fabbricazione e rivendicazione dei diritti, è spesso trascurato, se non addirittura negato. La storiografia nazionale ha dato rilievo all’esperienza delle migrazioni femminili in Svizzera solo recentemente; giovani docenti e ricercatrici hanno fatto riemergere dagli archivi esperienze trascurate per anni dagli storici.

Nel Manifesto della donna emigrata del 1975 le donne delle Colonie Libere Italiane rivendicavano i diritti delle lavoratrici, di tutte le lavoratrici, non solo italiane: equità salariale, congedo maternità, riduzione delle ore di lavoro, abolizione dello statuto di stagionale, diritto ad alloggi adeguati, diritto alla formazione professionale, creazione di asili nido, diritto di voto in Svizzera e maggiore rappresentatività nelle strutture degli italiani all’estero. Le donne delle CLI hanno lottato contro la selezione scolastica e per un accesso agli studi superiori dei propri figli e delle proprie figlie. Le donne delle Colonie Libere Italiane, portatrici di visioni politiche, di competenze sociali trasversali, hanno preso coscienza dei propri livelli di diversità e ne hanno fatto materia per dialogare, costruire ponti con altre donne e con la società svizzera. Prendere coscienza del diritto di abitare il mondo, un diritto universale e condiviso, è il fondamento del vivre ensemble, della democrazia.
Il cantiere della democrazia è sempre aperto, mettiamoci al lavoro.

Morena La Barba
ex presidente della CLI di Losanna
professore a contratto all’Università di Ginevra

Foto di Debora (WMCH) tratta da Wikimedia

 


 

La Turchia lascia la Convenzione volta a prevenire e combattere la violenza contro le donne

Difendere le donne dalle violenze domestiche minerebbe la famiglia, favorirebbe il divorzio e incoraggerebbe le relazioni omosessuali. È una motivazione allucinante (allucinata?) in base alla quale la Turchia decide di lasciare la Convenzione di Istanbul.

Il trattato del 2011 – firmato da 34 Stati europei e considerato lo standard internazionale per la protezione delle donne dalla violenza quotidiana – era stato pensato per prevenire e combattere la violenza contro le donne. Ora la Turchia lo abbandona tramite un decreto presidenziale firmato il 20 marzo che ha suscitato le critiche dei principali partiti dell’opposizione.

La Convenzione obbliga i governi ad adottare una legislazione che contrasti la violenza domestica e gli abusi simili, come la violenza coniugale e le mutilazioni genitali femminili. Secondo il decreto firmato da Recep Tayyip Erdogan, come detto, il provvedimento minerebbe l’unità familiare, incoraggiando il divorzio e concedendo maggiore spazio alla comunità lesbica, gay, bisessuale e transgender (Lgbt), affinché possa essere maggiormente accettata nella società.

Contro la decisione del governo turco, sono immediatamente scese in piazza a Istanbul migliaia di donne turche. Le manifestazioni più numerose si sono svolte a Kadiköy, roccaforte laica sulla sponda asiatica della metropoli sul Bosforo, dove si sono date appuntamento diverse associazioni femministe, lgbt+ e gruppi di opposizione.

«Non potrete cancellare in una notte anni di nostre lotte. Ritira la decisione, applica la Convenzione», è stato lo slogan intonato dalle dimostranti al sit-in organizzato anche dalla piattaforma Fermiamo i femminicidi, che da anni monitora in modo indipendente i casi di violenza contro le donne in Turchia.
Scandalizzata la reazione della segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejcinovic Buric, che ritiene la decisione della Turchia «un enorme passo indietro che compromette la protezione delle donne in Turchia, in Europa e anche oltre».

In un anno in cui in Svizzera ricorrono le celebrazioni per il 50° anniversario del voto alle donne, una decisione come quella adottata dal governo turco, giustificata da motivazioni che, in un modo che si crede civile speravamo archiviate nel passato più retrivo, non solo è intollerabile nei confronti dell’universo femminile, ma è un oltraggio verso l’intero genere umano.

Fonte della foto a questo link

 


 

Chez moi, chez toi, chez nous.
Un film sociologico tra verbi e preposizioni.

Segnaliamo l’uscita del film «Chez moi, chez toi, chez nous» che racconta la storia della biblioteca interculturale Globlivres di Renens.

Il film sociologico di Morena La Barba si compone di 25 brevi capitoli, ognuno legato a un verbo con un valore simbolico e traccia la storia e il grande impegno sociale e culturale, che la biblioteca Globlivres porta avanti dal 1988 quando è stata inaugurata. A fondarla è stata una donna italiana, Elena Borio.

Il film è uscito per una rivista di sociologia italiana, assieme ad un articolo e incarna un modello di protagonismo sociale e culturale delle donne migranti, di tutte le donne.

Questo è il link all’articolo e questo al video, la durata è di circa 40 minuti.

Vi auguriamo una buona visione!

 


 

Mostra: Donne.Diritti | Dal secolo dei Lumi ai giorni nostri

Le donne svizzere sono rimaste a lungo prive dei diritti civili e politici. Il loro cammino verso l’introduzione del suffragio femminile nel 1971 e dell’articolo costituzionale sull’uguaglianza tra uomo e donna nel 1981 è stato difficile e fortemente osteggiato.

Le donne hanno lottato a lungo per ottenere la parità, un principio che ancora oggi suscita ampie discussioni tra donne e uomini. 50 anni dopo l’introduzione del suffragio femminile in Svizzera, la mostra al Landesmuseum di Zurigo illustra gli oltre 200 anni di lotta per i diritti delle donne nel Paese, tra successi e delusioni.

Accanto a importanti prestiti concessi da istituzioni svizzere, la mostra presenta pregevoli testimonianze provenienti da collezioni internazionali.

La mostra sarà esposta fino al 18 luglio 2021 al Landesmuseum di Zurigo. Il programma e ulteriori informazioni si trovano al seguente link.

 


 

Mostra: Quoi de neuf pussyhat? 

Cinquant’anni dopo l’introduzione del suffragio femminile in Svizzera e nonostante i progressi avvenuti, la lotta per l’uguaglianza tra donne e uomini si scontra con la realtà dei fatti in termini di salario, carriera, legittimità di parola, libertà di apparire o condivisione delle faccende domestiche.

Se l’evoluzione della società tende verso una maggiore inclusività, norme e stereotipi continuano a pesare, condizionando sia le donne che gli uomini.

La mostra Quoi de neuf pussyhat? offre una riflessione sulla costruzione dei ruoli e delle identità di uomini e donne.

La mostra sarà esposta fino al 27 giugno 2021 al Musée historique Lausanne. Il programma e ulteriori informazioni si trovano al seguente link.

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