“L’Italia, un Paese strutturalmente di mobilità e di emigrazione”

Intervista di Andrea Malpassi (ITACA) a Rodolfo Ricci (FIEI)

Rodolfo Ricci, Segretario della FIEI e vicesegretario del CGIE, è una delle persone con le quali parliamo più abitualmente dei temi della migrazione e della mobilità –andando dai ragionamenti sui “massimi sistemi” agli interventi nelle singole realtà specifiche, da ardite considerazioni sociali e geopolitiche all’aneddotica puntuale di fatti “antichi” avvenuti in piccole esperienze locali. Lo facciamo da anni, nelle occasioni formali del CGIE, nell’ambito delle iniziative legate all’associazionismo e anche e soprattutto in mille momenti informali, discorsivi, colloquiali.

Per esperienza personale e per studi sul settore, è probabilmente una delle persone che lavorano e studiano più “accanitamente” sul tema della cosiddetta “Nuova Emigrazione”, cercando di coniugare l’analisi dei dati specifici e dettagliati alle dinamiche socio-economiche che determinano le cause delle migrazioni di massa, interrogandosi continuamente sui nuovi bisogni emergenti e le possibilità di rispondervi.

Qui abbiamo provato, soltanto su alcuni punti, a mettere nero su bianco e a dare una forma un po’ ordinata a quello che può capitare di affrontare in modo più segmentato nelle iniziative formali  o di dirci –in modo disorganizzato e affastellato- davanti ad un caffè. Cercando di affrontare, con alcune domande molto ampie, l’universo nel quale si inserisce il mondo della migrazione italiana.

Come potrete vedere, il risultato è andato ben oltre le nostre aspettative. Si va dalle differenze tra vecchie e nuove migrazioni italiane al ruolo storico della rappresentanza, dagli stati a forte emigrazione che diventano “razzisti” all’inserimento scolastico dei bimbi italiani nati all’estero; dai Comites e CGIE a Fabrizio De André, dal “referendum contro l’inforestieramento” al neoliberismo. Passando –e certo non superficialmente- a quale idea di società abbiamo in mente per garantire ai migranti i diritti di cui devono godere tutti i cittadini: anche – e soprattutto- il diritto a non essere costretti ad emigrare.

Ne viene fuori un lungo racconto, che vale davvero la pena di leggere. Per conoscere, sicuramente, e ancora di più per essere stimolati a riflettere e interrogarsi.

Fosse un libro, consiglieremmo di regalarlo per Natale: di questi tempi, è una lettura che può fare solo bene.

Andrea Malpassi (Itacaonline.org)

 

Potete scaricare il testo completo –per leggerlo più tranquillamente e conservarlo-  nella nostra sezione documenti.

 

Intervista a Rodolfo Ricci

 

Trecentomila persone nell’ultimo anno, oltre un milione negli ultimi cinque, una “bilancia” tra chi arriva e chi parte che –ormai da due anni- ha riaffermato che l’Italia è un paese di emigrazione, più che di immigrazione. Che cosa sta succedendo nel nostro Paese? Possiamo limitarci a considerare il fenomeno come “fisiologico” all’interno di un’economia e di un sistema sociale nord-occidentale interconnesso economicamente e socialmente agli altri Paesi dell’area o è indice di elementi più profondi e strutturali specifici della nostra realtà nazionale?

Penso che il nostro Paese stia rinverdendo la sua antica tradizione di essere strutturalmente Paese di mobilità e di emigrazione. Dico strutturalmente intendendo sia una certa propensione culturale che gli deriva dall’essere un Paese di mezzo, marinaro, all’incrocio tra più mondi e civiltà (che ha sempre contraddistinto in particolare settori specifici e pezzi delle élites del Paese, che fossero tecnici, artisti, scienziati, religiosi, ecc.), sia la ricorsiva reazione delle masse popolari che si è riprodotta pressoché in tutti i diversi momenti di grandi crisi economico-sociali che hanno riguardato l’Italia: quando la politica non ha voluto o non è riuscita a risolvere le contraddizioni che emergevano in delicati passaggi storici, si è sempre aperto il fiume dell’emigrazione di massa, cioè dell’emigrazione forzata. Mi ha sempre colpito, a questo proposito, l’espressione di Carlo Levi che, considerando la prima grande emigrazione di fine Ottocento e inizio Novecento, la attribuiva alle modalità con cui era stata condotta l’unificazione del Paese, cioè, sostanzialmente, all’annessione (o colonizzazione) del meridione italiano. “O brigante o emigrante”, secondo l’espressione che Levi mutua da Francesco Saverio Nitti, ultimo presidente del Consiglio prima del fascismo ed esule a Parigi insieme ai fratelli Rosselli, il quale l’aveva a sua volta ripresa da altri studiosi meridionalisti che sedevano nel Parlamento e che improntarono le diverse indagini parlamentari sul meridione che si svolsero in quel tempo.

In pratica si sosteneva che, fallita la rivolta sociale che diede vita al brigantaggio, che con tutte le sue ambiguità era fondamentalmente una rivolta sociale, per sopravvivere non restava che la via dell’espatrio, cioè della Fortuna. Andare a cercare Fortuna in America era la soluzione alternativa a quel fallimento. Ed era una soluzione individuale: la Fortuna è una dea individuale, non condivisibile o collettiva. E’, in un certo senso, la presa di coscienza che non ci sono alternative collettive. Quando in molti convengono su questa presa d’atto, il fenomeno, da individuale si trasforma tuttavia in fenomeno di massa. Se ci pensiamo, la stessa cosa si ripete nel secondo dopoguerra con una configurazione analoga: fallimento della riforma agraria, insostenibilità della competizione internazionale sul prezzo dei prodotti agricoli di cui viveva gran parte della popolazione, e cioè fallimento di una politica di riequilibrio tra areee del Paese e tra classi sociali, quindi di nuovo emigrazione, sia interna, dal sud verso il nord, sia verso l’estero.

Adesso, secondo me ci troviamo ad uno snodo simile: la crisi ha accelerato i differenziali di produttività tra l’Italia e in generale tra i Paesi periferici e quelli centrali dell’Europa; questi differenziali acuiscono le contraddizioni sociali nei Paesi più deboli; non vi sono prospettive di riequilibrio a livello continentale, come mostrano anche gli eventi greci del 2015 e quelli della cronaca più attuale; cioè non c’è un’alternativa sistemica, i singoli Paesi continuano a tenere al centro i propri interessi particolari, non quelli generali dell’Unione; i cosiddetti mercati fanno il resto o inducono i singoli Paesi a comportarsi in questo modo. Mentre all’interno non c’è volontà di ridistribuzione della ricchezza, come mostra la difficoltà a prendere solo in considerazione l’introduzione di una vera patrimoniale, non quella sulla prima casa, per capirci, ma quella sui grandi redditi e patrimoni, e quindi il risultato è che il Paese produce e crea lavoro per una frazione del suo potenziale. Si riproduce l’alleanza tra grande finanza nei Paesi guida e rentiers nei Paesi in difficoltà, l’economia reale viene compressa in periferia e concentrata nei centri direzionali. A chi è fuori del circuito produttivo, non resta che emigrare.

Da questo punto di vista, questa non è mobilità o libera circolazione. E’ a tutti gli effetti emigrazione. Anche molto forzata, al di là del sentimento di liberazione che una giovane o un giovane possono sentire una volta superati i confini nazionali. E guardando le statistiche sui movimenti di popolazione in Europa, dal sud e dall’est nell’ultimo trentennio, il quadro è chiarissimo.

 

Dopo oltre dieci anni, viene ancora spontaneo ad una cospicua parte dei media e delle istituzioni marginalizzare il fenomeno come “fuga dei cervelli”; ma in alcune realtà, come ad esempio nel Regno Unito in vista della Brexit, ragionano esplicitamente di come far accedere i nostri ragazzi al loro Paese con un “visto per camerieri”. Considerando dunque la nostra emigrazione come supporto lavorativo non particolarmente qualificato: esattamente come avveniva nel secondo dopoguerra. Quanto è diversificata la realtà migratoria italiana oggi e quanto è possibile analizzarla davvero, visti i limiti che presentano gli strumenti istituzionali (quale è ad esempio l’AIRE)?

La narrazione dei cervelli in fuga è una sorta di escamotage per cui il fenomeno sarebbe relegato ai settori elitari di popolazione con alti livelli culturali; per la verità, anche solo questo fatto dovrebbe indurre una grande preoccupazione, perché la sfida della competizione si gioca sempre più sulla disponibilità di competenze alte. Forse se si sapesse che il 30% dei ricercatori attivi in Francia sono italiani, che solo a Zurigo ve ne sono 2.500, che altre decine di migliaia sono distribuiti tra Gran Bretagna, Germania, Spagna, USA, ecc. a sostenere l’innovazione di quei Paesi, la questione cambierebbe. Alcuni sostengono, candidamente, che il problema non è l’esodo di cervelli, ma la mancata circolazione di cervelli: ci si dovrebbe chiedere perché mai un giovane ricercatore tedesco o francese o americano dovrebbe venire a operare in Italia con uno stipendio che se va bene è un terzo di quello che può prendere nel suo Paese o in altri Paesi. Qui, ad esempio, si vede come è del tutto illusorio, se non tragico, pensare di fare competizione e attrarre capitali internazionali comprimendo il lavoro. O meglio, tu puoi comprimere il lavoro, ma il risultato è che la risorsa lavoro se ne va. E sfiderei a valutare il peso del patrimonio umano che se ne va ogni anno e la mancata crescita del PIL che si porta con sé, con l’afflusso di investimenti esteri, i quali, tra l’altro, se arrivano, vanno mediamente, per forza di cose, verso settori maturi, non verso l’innovazione.

In ogni caso, i cosiddetti “cervelli” sono ormai una piccola parte della nuova emigrazione. La gran parte è costituita da persone alla ricerca di occasioni di lavoro più degno e di semplice sussistenza. Di questi circa il 30% è laureato, il 35% dispone di diploma; oltre il 50% è compreso nella fascia di età tra i 18 e i 39 ani, poi c’è un 20% di ragazzi e bambini sotto i 18 anni e il resto dai 40 anni in su. Cioè si muovono intere famiglie, per giunta talvolta con i nonni al seguito che cofinanziano il progetto migratorio dei figli e magari danno un contributo ad accudire i bambini ed infine ci sono anche i pensionati che sbarcano il lunario meglio in Portogallo, o in Brasile o in anche in Bulgaria o in Tunisia piuttosto che in Italia.

Il quadro che ne viene fuori non è settoriale, ma di un’emigrazione di massa. La cui prima città è Londra, con 700mila italiani e il primo Paese la Germania, probabilmente con ben oltre un milione di italiani. Sono dati forniti dalle locali autorità, mentre il riferimento all’AIRE è decisamente sottostimato. Ormai tutti convengono su questo. Più accurata è la dimensione fornita dalle anagrafi consolari, che ci parlano di 5,7 milioni di italiani censiti all’estero. Ma anche in questo caso, il dato non comprende coloro che non si sono cancellati dai rispettivi comuni in Italia e non si sono registrati presso i consolati. Recentemente qualcuno ha fatto notare che anche i dati di ingresso dei Paesi di accoglienza sono sottostimati, poiché non comprendono coloro che, lavorando al nero, non possono neanche registrarsi presso le autorità locali. Sono i nostri italiani illegali all’estero, o clandestini, se si vuole usare questo termine. E pur essendo all’estero non figurano da nessuna parte.

Certo, quando vi sono movimenti di queste entità non è che vai all’estero e trovi l’occupazione dei tuoi sogni. La trafila è la solita e, come di consueto, si parte molto dal basso, lavapiatti o camerieri sono tra i primi gradini da affrontare; e non è detto che l’ascesa sia breve o garantita, perché la precarizzazione del mercato del lavoro è un dato costante dappertutto: in Germania ci sono circa 7 milioni di persone che vivono di mini-job e integrano con gli aiuti sociali. Suppongo che la situazione in Gran Bretagna non sia molto diversa; vi sarebbe anche da riflettere sul peso che l’immigrazione europea in questo paese ha avuto nella decisione della Brexit. L’atteggiamento che sta emergendo ovunque è quello di selezionare sempre di più i flussi in arrivo rispetto alle competenze necessarie ai rispettivi Paesi; cioè la fine della “libera circolazione”. Qualche settimana fa il ministero dell’economia e del lavoro tedeschi hanno varato un portale web in più lingue che cosentirà il reclutamento selezionato della forza lavoro straniera alla partenza, sulla base delle loro necessità interne.

E parallelamente, però, cominciano a intensificarsi le comunicazioni dei comuni per cui se resti senza lavoro per un certo periodo è meglio che lasci il Paese. Questo è singolare: da una parte si opera per rendere il lavoro sempre più flessibile per le imprese (e quindi sempre più precario per il lavoratore), dall’altra i sistemi di welfare ragionano come se il lavoro fosse stabile e certo, scaricando sul lavoratore la difficoltà di rimanere dentro il mercato del lavoro, come se fosse una colpa individuale. In realtà vogliono solo risparmiare sui costi di previdenza e assistenza alimentando la crescita del privato in questi settori, come richiesto dai fondi di investimento e da una finanza alla ricerca incessante di occasioni di valorizzazione.

 

Nella diversificazione e varietà del fenomeno migratorio odierno, che sia italiano o no, emerge chiaramente che le esigenze, i bisogni, le necessità sono incredibilmente più variegati rispetto al passato. Così come gli strumenti necessari per garantire tutele, aiuto e diritti. In passato l’Italia ha sempre avuto una sua straordinaria rete di supporto –spesso decisamente più forte e strutturata rispetto ad altri Paesi: la rete consolare diffusa, la struttura capillare dei patronati all’estero, realtà associative di ispirazione “locale” praticamente ovunque, aggregazioni di ispirazione politica, sociale o religiosa… Appare evidente che tutti questi “strumenti”, oggi, sono inadeguati –se agiscono da soli o seguendo impostazioni anche organizzative nate nel passato- a rispondere a tutti i bisogni e alle richieste di chi emigra. In quale modo dovrebbero “incontrarsi”, cooperare, definire in modo sia strutturato che specifico per singola realtà le proprie azioni comuni?

Mi pare che l’emigrazione del dopoguerra, quella tra gli anni ’50 e ’70, sia diversa da molti punti di vista, non ultimo quello dell’approccio istituzionale: mentre nel dopoguerra i flussi erano in qualche modo programmati, prima bilateralmente e poi all’interno di un quadro di libera circolazione in cui comunque l’orientamento pubblico era consistente, oggi, almeno in questi ultimi 10 anni, i movimenti sono stati orientati solo macro-economicamente, cioè dal mercato.L’intervento istituzionale a livello di orientamento è stato pressoché assente almeno alla partenza. Questa assenza è una conseguenza della dogmatica neoliberista: libertà di movimento di capitali, merci e forza lavoro, su cui la funzione pubblica, meno dice ed interviene e meglio è. Tra l’altro, l’ammissione di flussi di emigrazione così consistenti sarebbe stata ed è, per la politica italiana, l’ammissione di un fallimento.

Quindi c’è stata e continua ad esserci una grande difficoltà anche soltanto a puntare gli occhiali sulla vicenda. La narrazione mediatica è da anni irretita nei modi che conosciamo, sulla questione immigrazione, mentre almeno dal 2014, i flussi di emigrazione hanno superato quelli immigratori. Eppure questo dato non riesce ad emergere e a imporsi alla discussione dell’opinione pubblica. E’ davvero molto strano che ciò avvenga. Sembra quasi che il discrimine tra governo e opposizione debba alimentarsi continuamente e vicendevolmente dalla vicenda immigrazione, per tutti i vantaggi che essa comporta a molti ambiti politici e economici. Proviamo a pensare se invece venisse alimentato anche dalla questione della nuova emigrazione italiana. Io ho la sensazione che a molti non convenga, sia nel governo che nell’opposizione. Ne emergerebbe infatti una diversa parametrazione del confronto, forse in grado di mettere in discussione le presunte verità che ci vengono scientificamente somministrate.

Ma torno alla tua domanda: parlavo di intervento istituzionale perché la storica presenza organizzata dell’emigrazione, fatta di un reticolo vastissimo di strutture di servizio, patronati, associazioni, che costituirono l’interlocutore fondamentale dei lavoratori e delle famiglie che si insediarono all’estero in quel periodo, rispondeva ad una concezione della struttura sociale che contemplava proprio questi corpi intermedi come soggetti indispensabili per evitare frantumazione e anomia. Le istituzioni e la politica erano parte di questo modello e lo sostenevano. Con l’avvento della riduzione della funzione politica, del pubblico e parallelamente con il consolidarsi del nuovo immaginario neoliberista, tutto quel tessuto viene via via ridotto ai minimi termini. E’ un processo che ha riguardato l’intero Paese ed anche le grandi istituzioni intermedie che hanno fatto la storia del Paese. Figuriamoci cosa poteva accadere all’estero. Inoltre l’introduzione del voto all’estero ha agito, su questo piano, come un improprio rafforzativo di quel processo, demandando ai 18 eletti la soluzione di tutti i mali. Parallelamente, la funzione di mediazione sociale è stata assunta sempre più, quasi senza che ce ne accorgessimo, dalle nuove produzioni tecnologiche di intermediazione che sono i social network, una funzione di intermediazione che ha poco di sociale e molto di individuale e che ben corrisponde ai caratteri della soggettività di fine ‘900 / inizio del nuovo millennio.

La questione dei bisogni e delle nuove modalità con cui approcciarsi ad essi va vista in questo contesto: da una parte abbiamo nuove soggettività individuali che con l’emigrazione si atomizzano ulteriormente, dall’altra abbiamo problemi individuali e sociali vecchi e ne abbiamo di nuovi. Quelli vecchi sono più o meno gli stessi che avevano gli emigrati del dopoguerra in riferimento all’insediamento e all’integrazione nel Paese di arrivo. A noi sembrano nuovi perché non eravamo più abituati a trattarli con intensità perché il flusso emigratorio si era quasi interrotto, sino al 2007. Invece si ripresentano in tutta la loro pregnanza: per esempio l’integrazione dei figli dei nuovi emigrati nei sistemi scolastici locali, un problema non da poco. I problemi nuovi sono invece quelli legati ai nuovi contesti determinati dalla globalizzazione, cioè essenzialmente la precarizzazione del lavoro e ciò che ne consegue a breve e a lungo termine. Fino agli anni ’70 gran parte di chi emigrava, una volta superato lo scoglio del primo insediamento e di una almeno parziale integrazione, aveva di fronte scenari sufficientemente solidi sul piano lavorativo e di progettazione della propria esistenza. Le strutture organizzate intervenivano e mediavano in questi scenari.

Oggi il fronte di intervento è molto più ampio e complesso. Non soltanto sul piano tecnico. La funzione aggregativa della domanda sociale una volta era garantita dall’associazionismo più o meno identitario, o sul piano politico, o su quello religioso, o culturale. Oggi la funzione aggregativa è fortemente assottigliata anche perché non ha più una visione comune e condivisa; non solo per un mancato rinnovamento generazionale interno, ma soprattutto perché ci troviamo di fronte a nuove soggettività che esprimono una diversa visione del mondo, si concepiscono in partenza diversamente da ciò che eravamo abituati e conoscere. Una delle certezze che abbiamo di fronte è dunque la difficoltà di far colloquiare vecchia e nuova emigrazione. Vi sono prospettive, immaginari e linguaggi molto diversi tra queste realtà. Riguardo alla nostra rete associativa ho visto che l’integrazione tra questi momenti è avvenuta solo in alcune puntuazioni della rete, cioè dove l’apertura e direi la curiosità dell’emigrazione consolidata è stata più ampia. Per meglio dire, dove la storia dell’insediamento della prima emigrazione è stata data in dono alla nuova. E dove la prima emigrazione ha agito come un buon padre di famiglia, dispensatore gratuito di consiglio, senza dover rivendicare altro. Naturalmente l’altra condizione necessaria e indispensabile è che le nuove soggettività siano disponibili ad assumersi i relativi oneri e responsabilità. Dove manca l’una o l’altra cosa, mi pare di cogliere difficoltà serie.

Un altro scenario possibile è quello di una nascita autonoma di aggregazione del nuovo che prescinde dal vecchio insediamento. Ci sono anche questi esempi. E questo è un processo che si produrrà. Ma è un peccato se i saperi costruiti dalle precedenti generazioni non vengono assunti e valorizzati e aggiornati. Anzi, credo che la vera sfida sia, per tutti, proprio questa: il general intellect costruito dal vissuto di più generazioni non va sprecato, né reso subalterno. Penso che ne riavremo ben presto bisogno. Resta però un problema più a monte: ricostruire reti di interessi comuni, di servizi, di aggregazione, significa condividere una comune lettura degli eventi, della storia che stiamo attraversando. Lo stallo in cui ci troviamo dipende anche da questa difficoltà che ci riguarda un po’ tutti.

 

Se guardata dall’esterno, la rappresentanza istituzionale che l’Italia prevede per i propri connazionali all’estero non è “leggera”: 18 tra parlamentari e senatori eletti direttamente all’estero, un centinaio di Comites elettivi, il CGIE che si compone di rappresentanze delle realtà locali e dei soggetti italiani coinvolti sul tema degli Italiani all’estero… e però resta evidente che, ancora oggi, il tema dei diritti e dei bisogni dei nostri connazionali che emigrano è ancora ben lontano dall’essere adeguatamente presente nell’intervento politico, nonché nel dibattito mediatico. Quanto è “chiuso” il mondo italiano alle sollecitazioni di tutti questi organismi e quanto invece sono proprio questi organismi stessi a dover agire diversamente o essere proprio ripensati?

Per rispondere a questa domanda penso che sia necessario ricordare il contesto storico in cui furono costruiti gli strumenti di rappresentanza (Comites e CGIE) e successivamente la rappresentanza parlamentare della circoscrizione estero: si tratta di conquiste della seconda Conferenza nazionale dell’emigrazione del 1988. Conquiste tardive perché arrivarono dopo molti decenni di rivendicazioni, quando le nostre comunità stavano ormai registrando progressivi livelli di integrazione più o meno in tutti i Paesi e che ne consentivano una crescita di partecipazione sociale e civile nelle istituzioni locali. Vi fu, in quel periodo, una forte discussione sull’intensità dell’impegno da agire per costruire queste rappresentanze rivolte all’Italia o se non fosse più corretta l’opzione di accelerare questi elementi di partecipazione in loco. In linea di massima si percorsero entrambe le opzioni, ma dal punto di vista generazionale, almeno in Europa, furono le prime generazioni ad impegnarsi di più sul versante italiano, mentre le successive prediligevano le relazioni sociali e politiche costruite dalla progressiva integrazione. Da questo punto di vista, gli organismi di rappresentanza italiani risentirono fin dall’inizio di questa parziale cesura. E dopo le prime due elezioni di questi organismi cominciarono ad essere in affanno, anche per la scarsa operatività che la legge consentiva loro, in particolare ai Comites, mentre la funzione consultiva del CGIE era in grado di influire su alcune questioni nella misura in cui Parlamento e politica ne acquisissero suggerimenti e progettualità.

L’introduzione dell’esercizio di voto all’estero, varato nel 2001 e praticato nelle elezioni politiche per la prima volta nel 2006, ha costruito la rappresentanza della Circoscrizione Estero solo 12 anni fa. E anche in questo caso, si trattò di una storica conquista, ma arrivata ancora più tardi dei Comites e del CGIE. La novità concettuale che rafforzò l’introduzione del voto all’estero fu prodotta dalla Conferenza del 2000, che si chiamò “Prima conferenza degli italiani nel mondo” e non terza conferenza dell’emigrazione. Essa fu caratterizzata dalla nuova lettura della presenza italiana all’estero che passò sotto lo slogan di “risorsa emigrazione”, quasi a definirne la sua importanza per il Paese nel tempo della globalizzazione, in quanto collettività insediate da tempo, sempre più integrate, con cui conveniva consolidare relazioni e interlocuzione, da una parte garantendo diritti acquisiti e dall’altra cercando di valorizzarne la funzione di interfaccia interculturale con i paesi di accoglienza. Un dato che sottostava a questa interpretazione era però che l’emigrazione, in termini di flussi, era sostanzialmente finita, salvo le esperienze di mobilità che riguardavano piccoli settori di popolazione e una limitata emigrazione di tecnici e operai a seguito delle imprese italiane che conseguivano commesse all’estero.

Negli anni a seguire vi fu una forte innovazione sul piano degli interventi che fecero effettivamente emergere le grandi opportunità potenziali di questo approccio. E ci si attendeva che l’arrivo della compagine parlamentare dell’estero nel 2006 avrebbe potuto consolidare questa prospettiva.

Ma nel 2007-2008 inizia la crisi. Per loro stessa ammissione, quasi tutti i parlamentari eletti, a prescindere dalla loro collocazione politica, hanno denunciato un ampio disinteresse di partiti e Parlamento rispetto alle vicende della parte di cittadini che rappresentavano e una difficoltà di ascolto che ha attraversato tutte le tre legislature che si sono susseguite. Spending review e austerity hanno fatto il resto, con una riduzione drastica dell’intervento dello Stato proprio in contemporanea con l’arrivo dei parlamentari dell’estero in Parlamento.

Il bilancio è dunque da contestualizzare. Adesso ci troviamo però in uno scenario del tutto diverso, di cui abbiamo già parlato, con il raddoppio dello stock di emigrazione che si avvicina ai 6 milioni di persone, rispetto ai 3 milioni del 2000, e che se consideriamo le stime comprendenti chi non si iscrive all’AIRE o alle anagrafi consolari è più vicino ai 7 milioni di persone. Infine, e forse è la cosa più importante da tener presente, per la prima volta nella lunga storia dell’emigrazione italiana, essa si verifica in un momento di grave contrazione demografica del Paese. La popolazione dentro i confini diminuisce, ma ancora di più, a causa dell’emigrazione, diminuisce la popolazione attiva. Se questi flussi continuano con questa intensità per i prossimi 5-10 anni, il declino del Paese potrebbe essere ineluttabile. Svimez e Istat prevedono un crollo di popolazione al 2050-2060 tra i 5,5, milioni (solo al sud) e i 7 milioni complessivamente.

Rispetto a questi dati, credo che la riflessione a cui sono tenuti Comites, CGIE, i nuovi parlamentari e tutte le organizzazioni sociali dell’emigrazione, sia decisiva. Tutto è cambiato e probabilmente continuerà ad evolversi nei prossimi anni. Come hai detto, la questione dei diritti e dei bisogni dei nostri connazionali si ripropone in tutta la sua intensità parallelamente al crescere dei flussi e delle dinamiche globali che abbiamo di fronte che prefigurano un irrigidimento sul piano nazionale che si registra più meno ovunque, mentre, allo stesso tempo vi è una competizione nell’accaparramento delle risorse umane qualificate a discapito di altri Paesi.

La globalizzazione nei termini in cui l’abbiamo conosciuta (o forse immaginata) negli anni del passaggio di secolo è finita. Si è aperto uno spazio incerto in cui, come vediamo ogni giorno, la dimensione dei migranti è sempre più necessitata e allo stesso tempo sempre più complicata e difficoltosa. C’è dunque bisogno, a mio parere, di un cambio deciso di registro nell’azione degli organismi di rappresentanza e della rappresentanza parlamentare. E il primo obiettivo di questo cambio di registro è riuscire a porre la questione della nuova emigrazione al centro della discussione sociale e politica del Paese, perché si tratta di una questione nazionale che riguarda il paese nel suo complesso, non è più una questione marginale come poteva essere letta, al di là del suo potenziale di risorsa, all’inizio degli anni 2000. Solo a questa condizione è possibile immaginare di conseguire dei risultati concreti. In questo senso, forse la funzione di questi momenti diversi di rappresentanza non è mai stata così di auspicabile rilievo.Come ho detto, furono conquiste arrivate in ritardo, ma oggi possono essere perfettamente in frequenza e utili nel nuovo contesto.

 

Negli ultimi anni, tutte le democrazie “tradizionali” si trovano a dover affrontare fenomeni di crescenti rigurgiti xenofobi, nazionalisti, talvolta marcatamente razzisti se non addirittura neofascisti. E ovunque questi rigurgiti innalzano il tema della “chiusura delle proprie frontiere nazionali” per veder immediatamente aumentato il proprio consenso popolare, “giocando” sulle condizioni disagiate delle proprie popolazioni, sulla diffusa assenza di lavoro o sul restringimento dello spazio delle tutele sociali, additando negli “immigrati” il capro espiatorio. E’ un fenomeno inevitabile e inarrestabile, basterà contrastarlo riaffermando i valori di solidarietà e inclusione, bisogna aggredire le cause sociali che lo determinano ed eventualmente quali sono, dobbiamo attrezzarci a riconsiderare i paradigmi della nostra visione di un mondo “aperto” e giusto di persone libere e uguali?

Mi verrebbe da rispondere: niente di nuovo sotto il sole. Queste cose sono già accadute in altri tempi, sempre nei momenti di più profonda crisi che il sistema del momento non era in grado di risolvere. E il sistema, fatte salve alcune differenze riguardo al livello tecnologico, è lo stesso. Paolo Cinanni, allievo di Pavese e fondatore della Filef insieme a Carlo Levi ne accenna nei suoi libri: in Svizzera agli inizi degli anni ’70 c’era un industriale che si chiamava Schwarzenbach, i cui dipendenti erano per 2 terzi stranieri. Promosse il famoso “referendum contro l’inforestieramento”, cioè contro i forestieri, contro l’eccessivo numero di stranieri che arrivavano. Non vinse. Ma nell’analisi del voto, emerse che nei quartieri operai delle città svizzere, gli operai avevano votato a favore delle sue proposte. Cinanni ci dice che quando emergono contraddizioni che mettono in forse il comando del capitale, la prima mossa che i suoi esponenti fanno, è di introdurre nella discussione pubblica elementi di divisione soprattutto all’interno del mondo del lavoro. E’ il modo migliore per venirne fuori e evitare la sua preoccupante unità. Gli esiti nefasti della crisi del ’29 in Europa seguirono la stessa linea di sviluppo.

Però, per venire all’oggi è interessante notare che i livelli più elevati di xenofobia e razzismo in Europa sono riscontrabili non nei Paesi con maggiori flussi di immigrazione, ma piuttosto nei Paesi che registrano maggiori flussi emigratori: si tratta dei Paesi dell’est e, per quanto ci riguarda, anche del nostro Paese. Analogamente, se consideriamo la Germania, i partiti di estrema destra raggiungono nei Laender dell’est del Paese, livelli di consenso che sono il doppio di quelli riscontrati nei Laender dell’ovest: quelle dell’est sono le regioni più afflitte da emigrazione, non da immigrazione.

Il livello di razzismo e xenofobia è determinato dalla sensazione di mancanza di futuro, nei territori in declino, nei posti in cui “il sole non dà i suoi raggi”, come canta De André e non è raro incontrare in questi posti anche migranti della prima ora. La chiusura delle frontiere nazionali è l’arroccamento a difesa di ciò che si ritiene irrinunciabile da parte di chi ha già perso quasi tutto o ha paura di perderlo e vive l’estraneo come concorrente e aggressore. Ma queste sono ovvietà e banalità. Meno banale è la constatazione che chi non vive queste dure contraddizioni si presenta generalmente come aperto e solidale e tratta gli altri come barbari. Alcuni sono arrivati a ipotizzare l’introduzione del voto basato sul livello culturale dell’elettore. Questa è una vera novità. E’ la prima volta che, dopo un secolo di alterne vicende democratiche, settori di élites si azzardano a proporre la madre di tutte le riforme costituzionali…vuol dire che in un certo modo si trovano in un cul de sac che non avevano previsto.

Intelligenza (politica) vorrebbe che non si dovesse mai arrivare a spremere il limone fino a produrre questi esiti. Da questo punto di vista, la responsabilità dei fatti che abbiamo di fronte è facilmente addebitabile. Quando si transita in queste situazioni storiche drammatiche quali quelle che abbiamo oggi difronte, mi pare poco serio anelare al ritorno alla situazione immediatamente precedente, perché invece è proprio quella situazione che ha prodotto gli esiti di cui parliamo. Temo che sia anche insufficiente il solo richiamare alla sfera di valori universali e di civiltà, di apertura, di solidarietà, di libertà. Quello è certamente l’orizzonte di riferimento, ma i modi, i linguaggi e soprattutto le pratiche per riavvicinarlo non sono così semplici e scontati. C’è da ricostruire un equilibrio, cioè un sistema sostenibilenon solo per noi umani ma anche per la natura in cui siamo immersi. Romperlo è stato relativamente facile e ci sono voluti i 30 anni di intenso neoliberismo. Riscostruirlo necessita di tempo e dedizione, più che di parole, ammonimenti o slogan. Negli anni ’70, qualcuno diceva che gli operai hanno sempre ragione, sta ai dirigenti e agli intellettuali interrogarsi sui quesiti che pongono. E’ una cosa che mi è tornata in mente in questi ultimi mesi abbastanza concitati; una cosa su cui tornare a riflettere.

Per quanto ci riguarda e per quanto riguarda la questione migratoria in generale, sia essa l’emigrazione che l’immigrazione, debbo essere sincero con me stesso, te lo dico anche perché ho vissuto direttamente l’esperienza migratoria. Io credo che i diritti dei cittadini migranti siano intoccabili; che debbano essere sempre rivendicati e difesi in ogni contesto; credo che debba essere garantita un’integrazione completa sia sociale che civile che politica iniziando dal lavoro. Non si tratta solo di una battaglia di ordine morale, ma è anche il solo modo per rendere meno praticabile l’accentuazione della concorrenza tra lavoratori su cui gioca questo modello di economia.

Allo stesso tempo credo che l’emigrazione non debba essere sollecitata o incentivata. Nessuno dovrebbe essere costretto a emigrare forzatamente per ragioni politiche, sociali o economiche. Penso che dovremmo batterci perché sia garantito a tutti di vivere dignitosamente anche nei luoghi e nelle terre in cui è nato. Non so se sia un principio umanistico o keynesiano o marxista o cristiano, ma è un principio di equilibrio tra i territori e le genti di cui è fatto questo pianeta. Non riconoscere questo diritto e non battersi perché anche esso si avveri, significa creare squilibri dovunque e poi dover rincorrere l’agenda stabilita da altri, creando inevitabili contraddizioni anche al nostro interno.

 

 

Fontehttps://itacaonline.org/

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