Tra cicli e interludi: sull’ultimo libro di Enrico Pugliese e Mattia Vitiello, “Storia dell’emigrazione italiana dall’Unità a oggi”

Lo scorso 5 giugno, presso il CNR a Roma è stato presentato il libro di Enrico Pugliese e Mattia Vitiello, “Storia dell’emigrazione italiana – Dall’Unità a oggi”. Un lavoro importante perché ci riconnette con un pezzo di storia del nostro paese che non è un epifenomeno secondario, ma è piuttosto costitutivo dell’Italia contemporanea. E con ciò si vuole intendere la scelta operata in ripetute occasioni dalle classi dirigenti che si sono susseguite alla sua guida, di lasciare andare, quando non sollecitare, la partenza di consistenti masse di persone verso l’estero ogniqualvolta non si era in grado – o non si è voluto – affrontare i nodi strutturali posti dagli squilibri territoriali o di classe.

Il libro è importante perché nel suo schema di cicli e interludi ricomprende anche l’ultimo flusso emigratorio, quello che stiamo vivendo da circa 15 anni a questa parte e che va sotto il nome di nuova emigrazione italiana; come a confermare che il tempo passa, ma il vizio rimane; ed è un vizio che consiste nell’incapacità o nella mancata volontà di valorizzare le persone e le competenze prodotte dal lavoro di generazioni, solo perché una loro endogena e piena valorizzazione metterebbe in discussione gli equilibri dati, sul piano nazionale, ma anche sul piano dei rapporti con i paesi limitrofi, con l’Europa, ad esempio e con il rapporto che intercorre tra libera circolazione e coesione interna.

Se aggiungiamo alla nuova emigrazione verso l’estero, i flussi emigratori da sud a nord, che sono continuati dal dopoguerra ad oggi e che sono tuttora in grande spolvero, possiamo leggere, attraverso questa lente di ingrandimento che è l’emigrazione, molte delle contraddizioni centrali che attanagliano l’Italia.

Dall’ultima grande crisi globale del 2007-2008 ad oggi sono defluiti dall’Italia circa 3 milioni di persone. E la seconda regione italiana dopo la Lombardia, fatta di 7,1 milioni di persone, è quella all’estero. Numeri, storie personali, storie di territori, che avrebbero dovuto preoccupare e dovrebbero preoccupare chi è stato e chi è alla guida del governo del paese, alla classe politica nel suo complesso, al mondo delle imprese, ai tanti attori sociali che definiscono il presente e il futuro dell’Italia. Si tratta di vicende che Enrico Pugliese e Mattia Vitiello avevano già in parte affrontato in diversi saggi e pubblicazioni fin dal 2017 (vedi.: “La ripresa dell’emigrazione italiana e i suoi numeri: tra innovazioni e persistenze” – Mattia Vitiello, la Rivista delle Politiche Sociali / Italian Journal of Social Policy, 4/2017 – “Quelli che se ne vanno” – E.Pugliese, Il Mulino, 2018).

Invece, da 30 anni a questa parte, il dibattito sulle migrazioni si è concentrata su discussioni e scontri talvolta degradanti riguardanti esclusivamente  l’immigrazione, in un paese, tra l’altro, con il più alto indice di declino demografico dell’occidente che avrebbe grande necessità di accogliere e integrare seriamente chi arriva. (Soltanto nelle dichiarazioni recentissime del nuovo governatore della Banca d’Italia, Panetta, le due vicende vengono rappresentate insieme, anche in riferimento agli scenari demografici, salvo poi non affrontare, ci sembra, neanche in questa occasione, in modo limpido, i nodi della questione).

Forse tutto ciò è avvenuto proprio per nascondere il fallimento – secolare – sull’altro lato della medaglia: quello dell’emigrazione italiana. Un fallimento che ha coinvolto gran parte della politica politicante soprattutto da quando l’egemonia culturale riassunta nei dogmi neoliberisti del pareggio di bilancio, nel jobs act, nella produttività e competitività costruita a spese del lavoro, si è insediata nelle teste dei più cancellando ogni pregressa conquista della teoria economica.

Proprio mentre si abbondava in misure rigoristiche e di contrazione salariale che secondo alcuni avrebbero dovuto attrarre grandi investimenti internazionali per la ripartenza del paese, il paese ripartiva, effettivamente, ma verso l’estero. E il redivivo patto di stabilità post-pandemico ci annuncia che questa stagione migratoria, questo terzo ciclo dell’emigrazione italiana del XXI° secolo avrà probabilmente lunga vita.

Quest’ultimo libro di Enrico Pugliese e Mattia Vitiello merita di essere letto con attenzione e fatto conoscere ai più. E’ un libro di storia sociale, come lo definiscono gli autori, ma apre a scenari di riflessione molto ampi sul presente e sul futuro.

Di seguito pubblichiamo una parziale recensione.

 


Riflessioni su cicli e interludi della storia dell’emigrazione italiana, come proposti da Enrico Pugliese e Mattia Vitiello nel loro recente libro “Storia dell’emigrazione italiana – Dall’Unità a oggi”- Ed. Il Mulino, 2024

 

Tra i meriti di questo libro il principale è forse quello di fornire una visione unitaria, ampia e coerente della storia dell’emigrazione italiana sviluppatasi fin dall’unità d’Italia. Una sorta di lettura in filigrana della storia del Paese letta con le lenti dell’emigrazione.

Si tratta dei tre cicli (e i due interludi) in cui gli autori suddividono questa storia: sono quello della grande emigrazione di fine ottocento/inizio novecento, quello del secondo dopoguerra e, l’ultimo, quello della nuova emigrazione nata dopo la crisi globale del 2007-2008.

I due interludi corrispondono alle due lunghe fasi di parziale pausa o di consistente riduzione dei flussi emigratori, il primo tra gli anni ‘20 e la fine del secondo conflitto mondiale e, il secondo, quello che va dagli anni ‘80 fino alla metà degli anni zero del ventunesimo secolo.

Emerge, nella suddivisione temporale proposta dagli autori, una sorta di filo rosso o di continuità strutturale che lega questi periodi e in un certo senso caratterizza tutti i 160 anni che ci separano dall’unità del Paese: si tratta della originale e singolare modalità di gestione di contesti e situazioni sociali ed economiche critiche che compendiano – sempre – la scelta di lasciare defluire dal Paese ingenti masse di persone, anziché tentarne una loro valorizzazione endogena, cosa che implicherebbe altre scelte e altre opzioni.

Sia nel primo che nel secondo ciclo, questo deflusso è trascinato dalle forze motrici dei mercati internazionali in fasi espansive: nella prima fase, o ciclo, la grande globalizzazione commerciale (tra il 1875 e il 1914), l’apertura di nuovi mercati di approvvigionamento e di sbocco (Americhe), l’innovazione tecnologica nei trasporti internazionali (piroscafi e grandi bastimenti); nella seconda fase (dal 1946 al 1980) siamo nel mezzo della ricostruzione postbellica in Europa e del successivo affermarsi del modello di produzione fordista e dei beni di consumo di massa.

Sono entrambi periodi di grande apertura e di ottimistica proiezione internazionale: le persone emigrano seguendo la stessa direzione dei grandi movimenti di capitali e verso le aree di loro maggiore concentrazione.

In entrambi i periodi, le condizioni di innesco dei movimenti migratori sono formalizzate da accordi taciti o espliciti tra stati: necessità di colonizzazione di grandi aree agricole e costruzione di grandi metropoli nelle Americhe; necessità di ricostruzione industriale di ciò che aveva distrutto la guerra in Europa, accompagnata da accordi internazionali (per quanto riguarda l’Italia, prima col Belgio, poi con la Germania) e dal pacato e apparentemente neutro invito di De Gasperi “imparate una lingua e andate all’estero”.

Una caratteristica comune di entrambi i due primi cicli è la condizione di sostenibilità dei flussi di espatri che è essenzialmente rappresentata dall’alto tasso di crescita demografica della popolazione italiana che, quindi, può essere rinnovata in modo relativamente rapido.

Per contro, i due interludi, cioè gli spazi temporali tra un ciclo e l’altro sono caratterizzati da periodi di contrazione dei livelli di globalizzazione commerciale, da grandi crisi e da due guerre: il primo interludio corre, oltre il termine del conflitto interimperialista, dal 1926 e si protrae fino al 1945, a conclusione della seconda guerra mondiale. In questo frattempo si assiste alla grande crisi del 1929, con i suoi esiti planetari e con modalità diversificate di risposta tra aree e paesi: fascismo e nazismo, prospettive economiche autarchiche o protezionistiche, contenimento dei flussi di espatrio per i paesi tradizionalmente erogatori e barriere progressive all’ingresso nei paesi tradizionalmente accettori di flussi migratori.

I primi sintomi del secondo interludio possono invece essere riconosciuti nella crisi petrolifera del 1974; poi la successiva ristrutturazione industriale con la fine della grande fabbrica fordista e della produzione di massa; e conseguentemente l’affermarsi della “fabbrica diffusa” prima a livello nazionale e poi transnazionale con le lean productions che compendiano produzione e approvvigionamenti intercontinentali, delocalizzazioni produttive verso i Pvs e parallela deindustrializzazione e finanziarizzazione dell’economia in molti grandi paesi occidentali.

Anche se con differenze talvolta molto accentuate da paese a paese (la Germania è altra cosa dalla Gran Bretagna), la tendenza generale successiva ai 30 gloriosi non richiede più grandi masse concentrate di lavoratori disponibili, se non quelli di tecnici al seguito di grandi imprese per opere infrastrutturali (vedi ricostruzione della Germania Est o grandi opere in paesi terzi e Pvs), mentre buona parte delle precedenti generazioni di emigrati si sposta nei settori del terziario o dei servizi in economie che richiedono spesso più lavoro autonomo che lavoro dipendente.

Il secondo grande flusso emigratorio quindi si attenua, e resta sottotraccia un turn over tra l’Italia e i paesi che erano state precedentemente mete migratorie privilegiate, con tassi di espatri e di rientri ridotti e che più o meno si equivalgono.

Questo interludio è accompagnato, a partire dagli anni ‘90, dal progredire del processo di unificazione europea (Mercato Unico del 1992, completamento della Libera Circolazione, Programmi FSE, Erasmus, Socates, Horizon, ecc.) che cambia e sposta lo stesso concetto di “emigrazione” trasformandolo in “mobilità interna”, come fatto ovvio, accessorio al progredire dell’unificazione dello spazio europeo e connotandolo come elemento augurabile di modernità e di emancipazione che viene coniugato, all’inizio degli anni 2000, col termine“expat”.

In questo frattempo, che dalla prospettiva italiana possiamo chiamare un interludio, accade però uno dei massimi sconvolgimenti demografici e migratori dell’intera storia europea: la caduta del muro dell’89 apre le porta ad un esodo colossale da est verso il centro del continente di cui pochi hanno chiare le dimensioni; quasi tutti i paesi est europei perdono dal 15% fino al 20% delle rispettive popolazioni, con punte che arrivano, per alcuni paesi balcanici, come la Croazia e l’Albania ad oltre il 35%.

Ma per quanto ci riguarda, il terzo ciclo, quello più recente, inizia al termine di un interludio durato oltre 30 anni che corrisponde all’ascesa e all’affermarsi del neoliberismo, con le innovazioni tecnologiche di internet, della digitalizzazione e delle protesi di comunicazione individuale (smartphone, social, ecc.) e con la sua egemonia culturale globale.

Si chiude bruscamente, tra il 2007 e il 2008, con il crollo dei mutui sub-prime, della grande banca Lehman&Brothers e con gli effetti a catena che si irradiano dagli Usa all’Europa, colpendo il debito sovrano di diversi paesi, in particolare dei paesi mediterranei, Grecia, Spagna e Italia.

Il 17 novembre del 2011, durante il suo discorso di investitura, Mario Monti, nuovo Presidente del Consiglio ex commissario europeo alla concorrenza richiamato da Giorgio Napolitano a sostituire Berlusconi e a porre un argine al rischio di default e alla crescita esponenziale dello spread sui titoli pubblici italiani (che avevano prodotto la famosa lettera di Trichet/Draghi con gli ammonimenti e prescrizioni della Commissione Europea all’Italia onde evitare l’intervento della Troika), ad un certo punto, nel passaggio riferito alle modifiche necessarie al mercato del lavoro a sostegno del raggiungimento del pareggio di bilancio, pronuncia quasi sottovoce l’invito fatale rivolto ai giovani e ai “talenti”: “(…) la mobilità sociale e anche geografica è la nostra migliore alleata (per il risanamento del paese, nda); mobilità non solo all’interno del nostro paese, ma anche e soprattutto nel più ampio orizzonte del mercato del lavoro europeo e globale (…)” (vedi: https://youtu.be/Dr3DxGw-_Ns?si=TLEZCchkppBhoWon dal min. 36 e seguenti).

Le caratteristiche di questo ultimo ciclo mostrano dunque alcune analogie con il secondo, almeno per quanto riguarda la direzione dei flussi che si indirizzano per la gran parte, come nel secondo dopoguerra, verso il centro-nord Europa; nuove mete minori sono i paesi emergenti del Golfo persico e dell’Asia al seguito di imprese dislocate, e l’Australia, che registra intorno al 2012-13 e di nuovo nel 2021-22 ingressi paragonabili ai massimi raggiunti negli anni ‘50. Irrisori invece sono i flussi verso sud e nord America.

Ma la vera specificità e la novità del nuovo ciclo emigratorio, che complessivamente si avvicina per entità a quello degli anni ‘60, è che esso avviene in un contesto internazionale di grave crisi, non di crescita.

Inoltre i nuovi flussi si sviluppano in un contesto di forte contrazione demografica dell’Italia (e dell’intera Europa); infine, diversamente dai precedenti, essi non producono significative rimesse verso l’Italia, anzi, spesso implicano fonti di finanziamento a loro sostegno da parte delle stesse famiglie che sostengono i giovani nel loro tentativo di dislocazione all’estero.

Diversamente dai canali di emigrazione del secondo dopoguerra che prevedevano contratti di lavoro alla partenza, i nuovi emigranti seguono un percorso di avvicinamento successivo ad occasioni di occupazione mirando ad una progressiva stabilità, ma in un contesto di accentuata precarizzazione del mercato del lavoro anche nei paesi di arrivo.

Si tratta dunque, contrariamente alle fasi precedenti, di una emigrazione della crisi, che si produce dentro la crisi e in un momento di contrazione e declino economico certamente dell’Italia, ma senza prospettive convincenti di crescita neanche negli altri paesi.

Si parte anche senza un saldo progetto emigratorio che, salvo necessaria verifica, intravvede qualche speranza di un avvenire più stabile; si parte perché viene messo sul piatto della bilancia il vantaggio relativo – e magari provvisorio – di una collocazione in altri mercati del lavoro e sistemi di welfare che offrono qualche maggiore garanzia rispetto al desolante quadro italiano.

Pronti ad una successiva ripartenza verso altri lidi qualora la situazione peggiori anche lì dove si è arrivati, come in effetti accade stando alle restrizioni successive applicate in diversi paesi verso i nuovi immigrati provenienti dagli stessi paesi comunitari e dunque predisponendosi ad una sorta di nomadismo esistenziale (v. anche: Quelli che se ne vanno, E.Pugliese. Il Mulino 2018)

I progetti migratori appaiono incerti, quasi connotati da un realismo malinconico, piuttosto orientati ad una sussistenza dignitosa, decente; la dea Fortuna, che aveva assistito i precedenti disegni individuali e collettivi di espatrio, sembra essersi eclissata. (v. anche: On the road again. Sulla nuova emigrazione italiana, M.Grispigni, P.Lunetto. Futura, 2021)

Da tutti questi punti di vista, l’ultimo ciclo appare allora molto diverso qualitativamente dai precedenti.

E diversi appaiono anche gli effetti che esso produce sui territori di origine, già aggrediti dalla crisi, o da gentrificazione, o da spopolamento delle aree più svantaggiate, che vedono evaporare donne e uomini in età giovanile per i quali sono stati investiti risorse importanti e che non potranno fornire il proprio contributo non solo allo sviluppo, ma anche alla stabilità demografica delle aree di partenza; mentre, sulla base della sua composizione in termini relativamente alti di scolarizzazione e qualificazione, sono anche diversi – e maggiori che nel passato – gli apporti diretti o potenziali che esso fornisce ai paesi di arrivo in competizione per aggiudicarsi nuova forza lavoro qualificata. E ci sembra questo il punto in cui sostiamo.

Ma un’ultima considerazione va fatta sul futuro interludio: vi si perverrà ? in che tempi ? e quali caratteristiche avrà?

A bocce ferme, considerando la recente conferma di politiche di contenimento e riduzione del debito approvate in sede comunitaria, quindi di ulteriore austerità, il flusso potrebbe avere lunga vita a causa della ovvia permanenza di forti differenziali di produttività e parallela scarsità di coesione territoriale interna all’Unione; e l’interludio procrastinarsi in avanti nel tempo dentro un scenario stabile nel suo insito e conosciuto squilibrio.

Ma vi è un’altra possibilità che potrebbe essere anche peggiore; una causazione ricorsiva del contesto geopolitico internazionale che potrebbe ripercorrere passaggi già vissuti: i due interludi del novecento sono delimitati, il primo, da una guerra mondiale e chiusi dalla successiva; il secondo interludio si apre con una crisi energetica sistemica che apre le porte alla ristrutturazione industriale e al neoliberismo. Il futuro interludio possibile potrebbe essere aperto, come nel ‘14-’18, dalla guerra che è già in corso.

Oppure, come terza variante, dalla ricomposizione in blocchi più o meno autarchici e in competizione e dal nuovo protezionismo dell’emisfero che si annuncia in occidente secondo il principio del friend-shoring. Ma questa ridefinizione delle catene del valore in termini di sovranismo euro-occidentale con annessa nuova cortina di ferro al suo limes orientale, potrebbe allontanarne l’avvento incentivando ulteriormente la mobilità interna al sistema auro-atlantico (che riguarderebbe quindi tutti paesi implicati, non solo l’Europa) in funzione di accentuata competizione con gli altri blocchi e a spese di un mondo del lavoro sempre più segmentato e subalterno alle decisioni di classi apicali transoceaniche arroccate e rinserrate alla loro perpetuazione. Quest’ultima variante implicherebbe, tendenzialmente, anche l’assottigliarsi della classica differenziazione tra emigrazione e immigrazione.

Davvero difficile decidere quale sia la prospettiva migliore.

(Rodolfo Ricci)

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1 commento

  1. La riflessione prodotta è indubbiamente notevole. Sono consapevole di vivere in una regione che ha già subito un fenomeno di emigrazione, dal 2013 al 2020, di 48.906 abitanti, decrescendo del 3,68 %. Ma è il forte decremento giovanile ad allarmare in quanto stà già creando un problema nel arpporto tra le generazioni a svantaggio della popolazione potenzialmente più attiva e produttiva con implicazioni allarmanti di carattere sociale ed economico. 

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