Gli incidenti sul lavoro dei lavoratori migranti: i minatori, memoria e storia.

di Antonio D’ Orazio

Premessa

Questa rubrica intende onorare la memoria e la storia di un antico lavoratore: il minatore. In particolare quello italiano (anche se tra loro, in quei “musi neri” scomparivano le nazionalità) emigrato attraverso il mondo, in particolare occidentale. I minatori sono ancora oggi milioni. Lavorano sottoterra e scavano sopra. Lavorano da 10 anni (Africa, America Latina e Asia) in su, fino a una età senza riposo. Si parla di loro, ogni tanto, a secondo delle “sciagure”, termine brutto che sa di fatale, senza responsabilità. Muoiono di svariate malattie professionali a secondo dei minerali estratti. Rappresentano ancora i maggior fornitori per le energie vitali di sviluppo diventate sempre più indispensabili. Da millenni.

In questa rubrica intendo raccontarvi drammatici fatti storici di disastri (altro termine anonimo, come quello di incidenti, fatti che succedono) minerari nei quali sono morti migliaia di nostri emigrati e che sono scomparsi dalla nostra storia, dalle nostre radici e dalla nostra memoria. Non ritengo sufficiente pensare solo “che la terra ti sia lieve”.

Inizio questa rubrica con i miei ricordi.

È sempre molto difficile parlare di avvenimenti come Marcinelle, nei quali è stata coinvolta la propria esistenza, e dei quali molti hanno scritto, parlato e mostrato. Anzi, proprio il coinvolgimento della vita propria e della famiglia porta a tentare di sapere tutto o il più possibile su avvenimenti tragici, scolpiti nella memoria popolare e nella sua “pietas” ricorrente.

Guardare e leggere tutto quello che si racconta di quegli avvenimenti, sapere di avervi “partecipato”, ritornarci costantemente con la memoria, propria e degli altri, e aver sempre lavorato, in un modo come un altro, alla sua conservazione, può rappresentare una filigrana della propria vita e del proprio impegno.

Questo vale anche per le commemorazioni della tragedia mineraria belga di Marcinelle dell’8 agosto 1956. All’epoca avevo 7 anni e ci avevano appena trasferiti dalle baracche di legno del Pont, che costeggiavano la ferrovia vicino alla stazione di Havré-Ville/Haine e a ridosso di un umidissimo canale, alle case popolari, in mattoni, di La Bosse a Havré. (Oggi inglobato nel comune capoluogo dello Hainaut, Mons).

Sono il primo di sei figli. Mio padre lavorava nella miniera di Beaulieu, a 5 Km da casa. Vi andava in bicicletta. Non voleva andarci più. Non capivo. Ascoltavo la radio. Mia madre piangeva. Piangevamo anche noi. Piangemmo per parecchi giorni.

Vicino alla miniera di Beaulieu, in mezzo al bosco, fummo alloggiati dall’autunno del 1951 al 1953. Avevo due anni. Mio fratello Ezio due mesi. I primi ricordi risalgono ai miei tre/quattro anni. Baracca di legno, ex campo di concentramento tedesco per gli ufficiali prigionieri inglesi e americani della guerra recente. Vi furono poi segregati, sul finire della guerra, gli ufficiali tedeschi a loro volta prigionieri. Tra l’altro questi furono anche costretti a lavorare in miniera (fino alla metà del 1948).

Baracca di due piani. Entrata unica. Al piano superiore, un monolocale con una famiglia polacca. Al piano terra un monolocale per noi. Eravamo quattro. Mia madre Teresina, la sera, sbriciolava del pane dall’unica finestra per far cenare i ratti ed evitare che entrassero la notte a morderci.

Tre baracchette-bagno, a pozzo nero, nei campi vicini, per tutto il quartiere, 20 baracche. Intorno ad esse, qualcuno aveva dimenticato anche di togliere il filo spinato. Il ricordo passa ai pantaloncini che mia madre rammendava continuamente. Sembra che tra i due e quattro anni parlassi anche il polacco. Forse perché anche mio padre parlava un po’ di slavo. Era stato in guerra e prigioniero tra Albania e Jugoslavia; 7 anni di vita. Mio fratello Ezio era troppo piccolo per le lingue.

In realtà eravamo tenuti lontano dalle città o dai centri abitati, nascosti in campi sconosciuti alla maggioranza dei belgi: eravamo un popolo invisibile, diverso, inquietante, anche un po’ colpevole della guerra recente. Dal settembre ’53 all’inizio del ’55 ci trasferirono in una baracca bi-locale, quella del Ponte, 2 metri a ridosso del binario ferroviario. Piano unico. Le mura erano di sottili tavole di legno, il tetto di carta catramata. Un colabrodo quando pioveva, e pioveva spesso. Mia madre si divertiva a spostare recipienti vari nelle stanze.

Vi nacque mia sorella Liliana. Non nel recipiente. Comunque ha sempre odiato la pioggia. I fratelli di mio padre non ce la fecero più e nel ’54 partirono, in seconda emigrazione, per il Canada, erano muratori e la ricostruzione edile dell’Italia del dopoguerra era finita per povertà. Eravamo spesso ammalati e veniva a curarci un giovane medico belga vestito da militare, ho saputo dopo che a ogni sciopero venivano “precettati”, cioè richiamati sotto le armi.

Era una baracca vibrante, che si animava violentemente a ogni passaggio del treno a vapore che trascinava fragorosamente decine di vagoni carichi di carbone e di minatori. Imparai a contare fino a cinquanta. A volte si fermava e mio padre vi saliva, insieme a mio nonno, i miei zii e ad altri italiani, a volte di giorno, a volte di notte, e “andava in miniera”. Forse ancora a Beaulieu, o a Montignéé o a Bois-du-Luc o a Marchienne.

Nomi che solo dopo ho imparato bene, nomi dello stesso comprensorio di La Louvière e di Charleroi. Nelle baracche vicine non vi erano italiani, ma siciliani, veneti, bergamaschi e bresciani, sardi, campani, pugliesi e altri abruzzesi. C’era anche un toscano che parlava strano.

Devo aver iniziato proprio allora a imparare alcuni dialetti regionali, e in seguito dai bambini italiani che ho conosciuto per lavoro. Mi piacciono tuttora e li utilizzo ancora, a volte malamente, quando posso.

Fummo trasferiti in una casa di mattoni, nelle case popolari, a La Bosse, sempre a Havré. Vi nacquero Roberto, Marcello e Rosanna. Dietro la casa c’era il bosco. Un’infanzia felice, poverissima, avventurosa, piena di graffi e tintura di iodio.Amici russi, della famiglia dei Romanov in esilio, minatori anche loro, sotto falso nome di Garazzà.

Nel ‘57 o nel ‘58 mio padre Armando (Armandino-Mandino detto quindi Mandinello) riuscì a lasciare la miniera e a lavorare come carpentiere. Penso vi riuscissero in molti. Le miniere ormai stavano chiudendo. Era iniziata silenziosamente l’era sanguinaria del petrolio e dell’atomo.

L’8 agosto del 1956 le truppe anglo-francesi avevano occupato Suez oscurando Marcinelle. Questa tragedia fu la fine di un’era e l’inizio di un’altra e cambiò fortemente i contratti di lavoro dei minatori, le loro “garanzie” sulla sicurezza, veri aumenti salariali, i contratti “A” e “B” degli emigrati, e soprattutto il riconoscimento, più che tardivo, della silicosi come malattia professionale.

Ho vissuto poi per tanti anni con i lavoratori emigrati, e non solo italiani. Tutta la mia famiglia porta il “marchio” e l’impegno del movimento dei lavoratori, delle lotte (nulla è mai definitivamente acquisito) e della tutela dei loro diritti. In Belgio un nome, un eco.

E gli emigrati ne hanno sempre avuto molto pochi di diritti, erano immigrati.

 

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