n°05 – 29/1/2022 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Leo Lancari *: MATTARELLA: «NAZISMO IDEOLOGIA DELIRANTE» IL CAPO DELLO STATO CELEBRA LA GIORNATA DELLA MEMORIA. L’ALLARME DI URSULA VON DER LEYEN: «L’ANTISEMITISMO NON È SCOMPARSO»

02 – Andrea Fabozzi*: Parte nell’urna l’operazione Mattarella Quirinale. Fronda organizzata nel Pd, nei 5 Stelle e nel misto.                                        

03 – Schirò (Pd)*: trasformare la memoria in impegno morale e civile e in pratica democratica quotidiana27 gennaio 2022 – giorno della memoria.

04 – Jessica Hamzelou *: Toronto, Canada, La nebbia cognitiva causata dal covid-19. Negli ultimi due anni abbiamo imparato che il covid-19 può avere gravi ripercussioni sul cervello, sia a breve sia a lungo termine.

05 – Guri Schwarz *: Il tentativo di riscrivere la storia. Dall’inizio della pandemia abbiamo assistito, in Italia e all’estero, al moltiplicarsi di analogie banalizzanti tra la Shoah e il nostro presente. Merita però interrogarsi sul significato di quelle tentazioni analogiche in questo Giorno della Memoria 27 gennaio

06 –  Schirò (Pd)*: fissate le retribuzioni convenzionali 2022 per i lavoratori italiani inviati all’estero, 26 gennaio 2022

07 – Brevi dal mondo: Usa, Siria, Tonga, Cile. Internazionale. Un detrito di Space X colpirà la luna. Hasakah festeggia la vittoria sull’Isis. Aiuti Covid free da Uk e Australia per Tonga. Cile, l’esercito resta nelle regioni ribelli. Un’afroamericana alla Corte Suprema

08 – Mattia Ferraresi*: Oltre al voto sul Quirinale c’è la guerra in Europa. La politica se n’è accorta?

L’Italia vive la peggiore crisi politico-militare alle porte dell’Europa dai tempi dell’invasione russa della Crimea come una fastidiosa distrazione dalla trattativa per l’elezione al Quirinale, circostanza che ha sospeso praticamente ogni funzione del governo.

09 – Garavini (IV): Bollette, “Governo al lavoro già da questa estate contro rincari, risorse e azioni concrete per cittadini e imprese”

10 – Quirinale, Garavini (IV)*: “Presidente non può che essere europeista e atlantista, no ritorno a politica estera ambigua”

11 – Marco D’Eramo *: LE SANZIONI POSSONO ESSERE UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO- UNA NAZIONE BOICOTTATA È UNA NAZIONE SULL’ORLO DELLA RESA.

 

01 – Leo Lancari *: MATTARELLA: «NAZISMO IDEOLOGIA DELIRANTE» IL CAPO DELLO STATO CELEBRA LA GIORNATA DELLA MEMORIA. L’ALLARME DI URSULA VON DER LEYEN: «L’ANTISEMITISMO NON È SCOMPARSO»

DOVEROSO RICORDARE «I MILIONI DI MORTI, I LUTTI E LE SOFFERENZE DI TANTE VITTIME INNOCENTI, TRA CUI MOLTI ITALIANI», RICORDA SERGIO MATTARELLA. MA PER IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA L’IMPORTANZA DELLA GIORNATA DELLA MEMORIA, CELEBRATA IERI IN TUTTO IL MONDO, STA ANCHE NELLA CAPACITÀ «DI PREVENIRE E COMBATTERE, OGGI E NEL FUTURO, OGNI FORMA DI RAZZISMO, ANTISEMITISMO, DISCRIMINAZIONE E INTOLLERANZA». A PARTIRE DALLA SCUOLA, SOTTOLINEA IL PRESIDENTE, «PERCHÉ LA CONOSCENZA, L’INFORMAZIONE E L’EDUCAZIONE RIVESTONO UN RUOLO FONDAMENTALE NEL PROMUOVERE UNA SOCIETÀ GIUSTA E SOLIDALE».

Sono passati 77 anni da quando le truppe sovietiche entrarono nel campo di Auschwitz e videro l’orrore di cui era stato capace il nazismo. «Una delirante ideologia – spiega il capo dello Stato – basata su grottesche teorie di superiorità razziale aveva cancellato, in poco tempo, i valori antichi di solidarietà convivenza, tolleranza e perfino i più basilari sentimenti umani: quelli della pietà e della compassione». Le cronache di questi giorni, con il dodicenne ebreo aggredito da due ragazze in Toscana, dimostrano come sarebbe sbagliato abbassare la guardia, illudersi che certe ideologie appartengano ormai al passato. Anche perché i segnali che arrivano dall’Europa sono gravissimi e raccontano tutt’altro: «L’antisemitismo non è scomparso. Avvelena ancora le nostre società» avverte infatti la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen denunciando come, ancora oggi, «il 70 per cento degli ebrei europei non si sente al sicuro quando indossa una kippah o una stella di David».

Il 2021 si è contraddistinto come l’anno più «antisemita» dell’ultimo decennio. La pandemia ha fornito infatti nuovi pretesti e alimentato forme di antisemitismo inedite, come denunciato a novembre scorso da un rapporto dell’Agenzia Ue per i diritti fondamentali (Fra). Come quella che – specie sul web – vede gli ebrei come nuovi untori, responsabili della diffusione del Covid. «La proliferazione delle cospirazioni antisemite online – si legge nel rapporto – mostra come il numero degli incidenti registrati non sia indicativo della situazione. Dai sondaggi effettuati emerge infatti che gli attacchi contro gli ebrei sono fortemente sottostimati e che l’odio sul web, incluso l’antisemitismo ha messo radici nelle società europee». Senza contare la banalizzazione dell’Olocausto fatta paragonando le misure sanitarie adottate per contenere e contrastare la pandemia a quelle che nel secolo scorso hanno portato allo sterminio degli ebrei.

Significativi i dati riportati sempre a novembre scorso dal vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas secondo i quali nove ebrei su dieci ritengono che l’antisemitismo sia in aumento nel proprio paese e il 38% ha preso in considerazione l’idea di migrare altrove. Francia e Polonia, secondo un altro sondaggio effettuato questa volta dall’Università ebraica di Gerusalemme, sono invece considerate le due nazioni più antisemite d’Europa.

Alimentare l’insicurezza, generare paura, è anche così che agisce l’antisemitismo. E non certo da oggi: «Questo era il pano dei nazisti non solo per sterminare milioni di persone i base all’etnia, alla religione o all’orientamento sessuale, ma anche per togliere l’umanità delle persone, per spogliarle di ogni dignità, identità, amore per la vita», ha proseguito von der Leyen. «La nostra identità è costruita sulla Memoria dell’Olocausto – ha concluso la presidente della Commissione -. Perché il motivo stesso per cui è stata fondata la nostra Unione risiede in due semplici parole: mai più, ’nie wieder’».

*(Leo Lancari, giornalista del ll Manifesto)

 

02 – ANDREA FABOZZI*: PARTE NELL’URNA L’OPERAZIONE MATTARELLA QUIRINALE. FRONDA ORGANIZZATA NEL PD, NEI 5 STELLE E NEL MISTO. AL PRESIDENTE USCENTE 166 VOTI, SOLO DEL CENTROSINISTRA. ANCHE CONTE COSTRETTO A PRENDERNE ATTO, MENTRE IL GRUPPO DEM PROVA A CONTENERE I DANNI ORGANIZZANDO LA SORVEGLIANZA DEI GRANDI ELETTORI. DAL COLLE NESSUN SEGNALE, MA SI VA VERSO UN DOPPIO VOTO AL GIORNO E SALIRÀ LO STRESS PER LA MANCATA SOLUZIONE

In assenza di soluzioni si moltiplicano le occasioni. Per due. Stamattina la conferenza dei capigruppo di senato e camera approverà, come richiesto ormai da molti partiti, il doppio scrutinio, forse già da oggi, più probabilmente da sabato. Un modo per accelerare ma anche per drammatizzare l’elezione del presidente della Repubblica. E avvicinarsi alla svolta che ancora non si vede. Drammatizzare si deve. La strage di quirinabili è vasta, quotidiana, ma ancora incruenta. Nessuno è stato sacrificato nell’urna, come avvenne nel 2013 quando in cinque votazioni si tentò e ogni volta bruciò un candidato prima di tornare a Napolitano. Invece stavolta i candidati muoiono ogni giorno nelle agenzie di stampa, al massimo cadono in Transatlantico senza che il loro nome entri in aula e sulle schede elettorali. A volte muoiono due volte, come Franco Frattini, il candidato filo russo recuperato e ri-fulminato per concludere la giornata cominciata con la filo americana Elisabetta Belloni, direttrice dei servizi segreti. Dietro c’era sempre Matteo Salvini, motore primo del caos.

Anche ieri è passato per la sconfitta quotidiana. A fatica ha portato il centrodestra all’astensione, unico mezzo per evitare una seconda figuraccia come quella di mercoledì, quando gli hanno sbattuto in faccia il successo di Crosetto, nome di bandiera di Giorgia Meloni. Peccato (per lui) che l’astensione ha dimostrato una cosa: il centrodestra conta 441 voti, lontanissimi dalla metà più uno che da ieri è necessaria per eleggere il presidente. Fine della storia del diritto di prelazione del centrodestra. Raddoppio dei mugugni tra i tre partiti della coalizione. Dove le doti politiche di Salvini sono ormai stimate più o meno quanto la famosa rosa dei tre nomi, lanciati ma mai votati.

Lo scrutinio di ieri ha dimostrato anche un’altra cosa: la forza di Sergio Mattarella come candidato da ultima spiaggia. Lo hanno votato in 166. Senza che nessuno lo avesse mai pubblicamente proposto. Anzi, in teoria la quasi totalità dei partecipanti al voto – Pd, M5S, Italia viva e Leu – aveva il mandato di votare scheda bianca. Ma già dal giorno precedente, quando Mattarella aveva raccolto 125 voti, era chiaro che la consegna non sarebbe stata rispettata. Soprattutto dai 5 Stelle, senatori e seguaci di Di Maio in primis. Lo stato maggiore di Conte è infatti corso ai ripari. Prima con una nota surreale nella quale si spiegava che la linea era scheda bianca «ma anche libertà di coscienza». Poi a cose fatte spiegando con dichiarazioni dei vicepresidenti e dello stesso Conte che per Mattarella c’è «grande apprezzamento e riconoscimento trasversale».

Trasversale, ma i consensi di ieri erano tutti di centrosinistra visto che il centrodestra non ha votato, facendo così mancare alla conta sul presidente uscente, che era organizzata e niente affatto casuale, una trentina di voti. L’obiettivo dei parlamentari di 5 Stelle, Pd e gruppo misto che stanno lavorando al Mattarella bis era infatti quello di raggiungere 200 voti. Ci riproveranno oggi. Ieri intanto la capogruppo del Pd Serracchiani è stata costretta a organizzare una vigilanza vecchio stile per controllare che i grandi elettori Pd non si fermassero nel seggio oltre il tempo necessario a piegare la scheda, lasciandola bianca. Il vicepresidente del gruppo De Luca (Piero) e il delegato d’aula Fiano scrutavano dall’alto, tanto che più di un deputato ha protestato con il segretario Letta per il controllo e qualcuno ha anche sfidato i colleghi di partito dichiarando apertamente la sua intenzione di votare Mattarella. Comunque molti si sono trattenuti il tempo utile per esprimere una preferenza nel seggio, non seguendo l’esempio di De Luca che invece lo ha attraversato a passo di corsa.

Nei corridoi del palazzo abbiamo ascoltato questa battuta: «Se in conclave si chiudessero i capi partito da soli e lasciassero l’aula libera di votare, Mattarella avrebbe la quasi unanimità». Ma il presidente che lo ha così tante volte escluso, sarebbe convincibile al bis? Certo non come candidato di una parte. Resta dunque l’ostacolo di Salvini e Meloni. Anche se il primo è – come dimostrano questi giorni – variabile e la seconda – già fuori dal perimetro della maggioranza – probabilmente trascurabile. Al Quirinale le domande rimbalzano: «Silenzio, nulla da dire, nessun commento, nessun contatto». Ma se la strada resterà chiusa per Draghi, se su Amato reggerà il no del centrodestra, è di nuovo a Mattarella che si dovrà tornare a bussare. Per scoprire solo allora se la risposta sarà la stessa anche di fronte allo stallo e con almeno un candidato sacrificato nell’urna.

*(Andrea Fabozzi)

 

03 – SCHIRÒ (PD): TRASFORMARE LA MEMORIA IN IMPEGNO MORALE E CIVILE E IN PRATICA DEMOCRATICA QUOTIDIANA27 GENNAIO 2022 – GIORNO DELLA MEMORIA.

Avere memoria della più grave e atroce lacerazione che ha subito la coscienza dell’uomo moderno non è mai un fatto rituale di fronte all’annientamento di milioni di vittime innocenti, colpite dall’odio razziale, e al tentativo di cancellare la libertà e la democrazia per imporre violenza e sopraffazione.

In nessun giorno dell’anno, in nessuna ora del giorno possiamo dimenticare quelle nostre sorelle e quei nostri fratelli, sterminati perché considerati “diversi” o “resistenti” politici e culturali, né possiamo dimenticare che la nostra libertà viene da quel sacrificio e da chi ebbe la forza di ribellarsi alle dittature.

La memoria, tuttavia, non va solo celebrata, ma attualizzata e investita nelle realtà di oggi. Intanto per perseguire la pace e disinnescare le tensioni nelle relazioni internazionali e su troppi fronti ancora aperti. Per educare poi le giovani generazioni – cosa essenzialissima! – all’amore della libertà, alla democrazia, al rispetto della persona e al dialogo tra culture diverse.

Le notizie di cronaca, provenienti in questi giorni dalla provincia di Livorno, di adolescenti che aggrediscono un ragazzo solo perché ebreo non vanno sottovalutate, ma ci devono indurre a non abbassare mai la guardia. Per vedere, inoltre, in chi emigra per necessità o per desiderio di miglioramento non una minaccia o un pericolo dal quale difendersi, ma un portatore di diritti umani, un potenziale compagno di viaggio nel cammino per sviluppare le nostre culture, risanare le nostre economie e per rendere più coese, nella legalità e nella sicurezza, le nostre comunità. Per legittimare e dare forza alle istituzioni che possano garantire pace duratura, democrazia, benessere e rispetto tra i popoli. Ad iniziare dalle istituzioni europee, che vanno messe al riparo dalle tensioni sovraniste e nazionalistiche, se si vuole veramente imparare la lezione della storia recente e trasformare le tragedie del Novecento, ad iniziare da quella dell’Olocausto, in impegno morale e civile e in fede incrollabile nella democrazia.

*(Angela Schirò – Deputata PD – Rip. Europa – Camera dei Deputati)

 

04 – Jessica Hamzelou *: TORONTO, CANADA, LA NEBBIA COGNITIVA CAUSATA DAL COVID-19. NEGLI ULTIMI DUE ANNI ABBIAMO IMPARATO CHE IL COVID-19 PUÒ AVERE GRAVI RIPERCUSSIONI SUL CERVELLO, SIA A BREVE SIA A LUNGO TERMINE. OGGI GLI SCIENZIATI COMINCIANO AD AVERE UN QUADRO PIÙ CHIARO DI COME IL CORONAVIRUS POTREBBE DETERMINARE UNA SERIE DI DISTURBI CHE INCLUDONO NEBBIA COGNITIVA, DEPRESSIONE, CONFUSIONE E PERFINO ICTUS. LE SCOPERTE PIÙ RECENTI SUGGERISCONO CHE DI RADO IL VIRUS INFETTA LE CELLULE CEREBRALI IN MODO DIRETTO, MENTRE DANNEGGIA IL CERVELLO INDIRETTAMENTE CAUSANDO COAGULI DI SANGUE O STIMOLANDO UNA RISPOSTA IMMUNITARIA NOCIVA.

In base alle ultime ricerche, la notizia incoraggiante è che molte di queste pericolose alterazioni del cervello probabilmente sono reversibili.

SOFFERENZA COSTANTE

Fin dall’inizio della pandemia, è emerso che i casi gravi di covid-19 potrebbero portare a ictus, confusione e debolezza muscolare. Si stima che, nelle prime fasi dell’infezione, circa una persona su quattro sperimenti una forma di depressione, e una su otto una forma d’ansia. A lungo termine, però, il prezzo da pagare al livello neurologico e mentale potrebbe essere ancora più alto: un’analisi delle cartelle cliniche di più di 230mila pazienti guariti dal covid ha dimostrato che più o meno un terzo dei pazienti ha continuato a riportare disturbi neurologici o psichiatrici fino a sei mesi dopo aver contratto il virus.

In un sondaggio condotto negli Stati Uniti su quasi mille persone con sintomi da covid a lungo termine (long covid), il 47 per cento degli intervistati ha riferito di soffrire in modo costante di nebbia cognitiva, difficoltà di concentrazione o perdita delle memoria.

Diversi studi condotti sulle autopsie di persone decedute in seguito al covid hanno individuato tracce del virus o proteine virali nel cervello

Non è raro che un’infezione virale abbia degli effetti sul cervello: lo si è visto con il virus zika, con la polio, con il morbillo e con l’influenza. Ma il tasso di sintomi persistenti, come disturbi mentali o ansia, sembra essere più alto in chi ha contratto il covid-19 che non, per esempio, l’influenza.

Alcuni neuroscienziati hanno ipotizzato che potrebbe essere il virus stesso a causare questi sintomi attaccando le cellule del cervello, cosa che sono in grado di fare anche altri virus, come l’hiv e quello responsabile dell’herpes. Ma il quadro che ne emerge, sostiene Serena Spudich della Yale university, suggerisce che anche se il coronavirus può penetrare nel cervello non sembra replicarsi al suo interno o danneggiarne direttamente il tessuto.

Diversi studi condotti sulle autopsie di persone decedute in seguito al covid hanno individuato tracce del virus o proteine virali nel cervello. Ma se il virus si fosse replicato nel tessuto cerebrale, sottolinea Spudich, avrebbero dovuto esserci ammassi di cellule contaminate, che invece erano assenti.

Inoltre, le cellule infette di solito sono circondate da cellule immunitarie, e nemmeno queste sono state rinvenute nel cervello dei malati, continua Spudich, che, insieme ad Avindra Nath del National institute of neurological disorders and stroke (una struttura statunitense che svolge ricerche sui disturbi del cervello e del sistema nervoso), ha raccolto alcune delle scoperte più recenti.

UNA SORPRESA

Il virus era presente nel liquido che bagna il cervello e nel midollo spinale, ma si tratta di un evento raro. “Su centinaia e centinaia di studi pubblicati, meno del 3 per cento ha evidenziato la presenza del coronavirus nel liquido cerebrospinale dei pazienti con casi acuti di covid-19”, conferma Spudich. “Ed è stata una sorpresa”.

Altri due fattori sembrano giocare un ruolo importante. Uno è l’impatto sui vasi sanguigni. Diversi studi hanno individuato dei trombi anomali nelle persone che hanno sofferto di covid-19 in forma grave, e questi trombi potrebbero causare degli ictus. Le autopsie su chi è deceduto in seguito alla malattia hanno riscontrato danni ai vasi sanguigni nel cervello: le pareti dei vasi si assottigliano, e i vasi stessi sembrano rilasciare delle proteine che potrebbero innescare una risposta immunitaria.

Proprio questo secondo fattore, la risposta immunitaria con produzione di anticorpi, potrebbe essere tra le principali cause dei disturbi neurologici e mentali, compresi quelli che proseguono per mesi dopo l’infezione.

Esaminando campioni di liquido cerebrospinale prelevati da persone affette da covid-19, i ricercatori hanno riscontrato delle mutazioni nelle cellule immunitarie, e sembra che alcune di queste producano un numero maggiore di sostanze chimiche che potrebbero rivelarsi tossiche per determinate cellule cerebrali. Le autopsie invece hanno individuato in tutto il cervello una maggiore attività della microglia, preposta alla difesa immunitaria del sistema nervoso centrale.

Mission Viejo, California, Stati Uniti, 27 gennaio 2022. Un medico visita una paziente nell’ospedale Providence Mission. – Shannon Stapleton, Reuters/ContrastoMission Viejo, California, Stati Uniti, 27 gennaio 2022

Non è ancora chiaro se qualcosa di simile si stia verificando nel cervello di chi si è ammalato in forma lieve e può ancora soffrire di long covid. “Le persone che hanno trascorso la convalescenza a casa”, afferma Spudich, “hanno accusato forme lievi di covid-19 e si sono riprese, ma in un secondo momento si sono rese conto di avere difficoltà di concentrazione e problemi di memoria, facevano fatica a lavorare e soffrivano di gravi disturbi dell’umore come ansia e depressione”.

Lei stessa ha trattato casi simili. “Queste persone all’improvviso hanno sviluppato forme di delirio, paranoia, comportamenti violenti… sintomi davvero terribili”, racconta. Un paziente non ha risposto ai farmaci antipsicotici, così il team di Spudich gli ha proposto una terapia messa a punto per rallentare il sistema immunitario, registrando un certo successo. Quando successivamente hanno esaminato il liquido cerebrospinale del paziente, gli specialisti hanno trovato degli anticorpi che potrebbero avere attaccato il tessuto cerebrale.

I MECCANISMI DELLE RISPOSTE IMMUNITARIE

Naturalmente questo è solo un caso, e i sintomi del long covid possono variare molto da persona a persona. È anche difficile determinare con certezza quali di questi sintomi siano innescati dal covid-19 e quali siano invece casuali dopo l’infezione, ma le prove raccolte suggeriscono che i cambiamenti duraturi nella risposta immunitaria sono più comuni dopo il covid-19 che in seguito ad altre malattie come l’influenza.

Il passo successivo è comprendere i meccanismi delle risposte immunitarie. Michelle Monje e i suoi colleghi della Stanford university in California hanno fatto dei passi avanti. Come neuro-oncologa, Monje ha notato delle similitudini tra la nebbia cognitiva da long covid e i disturbi del pensiero e della memoria causati dalla chemioterapia contro il cancro.

Ricerche precedenti hanno dimostrato che i sintomi successivi alle terapie antitumorali sembrano essere dovuti alla reazione immunitaria innescata dai farmaci, con il rilascio di sostanze chimiche che provocano un’infiammazione e danneggiano le cellule del cervello. La microglia si infiamma, in particolare nella sostanza bianca (costituita dalle fibre nervose che uniscono l’encefalo al midollo spinale), influenzando il comportamento delle altre cellule cerebrali. Di conseguenza si riduce la mielina (una sostanza con funzione isolante e protettiva) intorno ai neuroni, vengono distrutte altre cellule cerebrali e il numero di nuovi neuroni generati è inferiore.

Per capire se qualcosa di simile si verifichi anche nelle persone affette dal covid lungo, Monje e i suoi colleghi hanno condotto degli studi sui topi, che vengono infettati dal coronavirus ma solo nelle vie respiratorie, perché il virus non è in grado di colpire direttamente le loro cellule cerebrali, dal momento che questi animali non hanno il recettore Ace2.

UN MESSAGGIO DI SPERANZA

Stando a quanto i ricercatori sono riusciti a capire, i topi infettati presentavano sintomi lievi, spiega Monje. Ma nel loro sangue e nel liquido cerebrospinale hanno rinvenuto sostanze chimiche che facevano supporre che al livello cerebrale stessero sperimentando i medesimi effetti di una chemioterapia. Il cervello dei topi mostrava inoltre gli stessi cambiamenti nella microglia e una minore produzione di nuove cellule cerebrali. “Abbiamo osservato dei parallelismi davvero evidenti”, conferma Monje.

Per quello studio, che non è ancora stato sottoposto a revisione paritaria, i ricercatori hanno esaminato anche il tessuto cerebrale di nove persone morte a causa del covid-19 o mentre l’infezione era in corso. Alcuni dei decessi erano attribuibili alla malattia, altri no (una persona per esempio era caduta dalle scale), ma la microglia, dice Monje, sembrava comportarsi allo stesso modo nella materia bianca di tutti e nove i cervelli.

Gli scienziati hanno notato che nei topi era presente la CCL11, una particolare proteina prodotta dal sistema immunitario. In passato questa sostanza è stata associata a disturbi cognitivi negli esseri umani, e a quanto pare la sua presenza nell’organismo aumenta con l’età. Grazie a un altro esame, Monje e i suoi colleghi hanno scoperto che i livelli di CCL11 erano più alti nei campioni di sangue dei pazienti con covid lungo che presentavano sintomi di alterazioni cognitive rispetto a quelli di chi soffriva di long covid ma non aveva quei sintomi.

Nel complesso, tali risultati rafforzano l’ipotesi che dalle risposte immunitarie dell’organismo possano dipendere alcuni tra gli effetti del covid-19 sul cervello. Ma mentre conseguenze gravi come l’ictus possono causare danni permanenti, secondo Monje “niente di ciò che abbiamo documentato nel nostro studio dovrebbe essere irreversibile”, e ritiene che sia possibile sviluppare delle cure per rimettere in sesto il cervello. “È un messaggio di speranza”, dice.

Non tutte le ripercussioni sul cervello e sulla mente sono riconducibili a fattori immunologici o a coaguli di sangue. Depressione e ansia sono i disturbi più comuni diagnosticati a chi è guarito dal covid, e probabilmente molti sono legati all’esperienza della malattia, sostiene Maxime Taquet dell’università di Oxford.

Rimangono da chiarire diversi dubbi, per esempio quanto tempo possano durare i problemi neurologici e psichiatrici. In base a uno studio condotto da Taquet e dai suoi colleghi, a circa un terzo delle persone coinvolte sono stati diagnosticati sintomi fino a sei mesi dopo la malattia. “Dopo sei mesi non c’erano segnali che il numero di nuove diagnosi si stesse stabilizzando”, dice Taquet, che ha in programma di condurre ulteriori ricerche sulle diagnosi tra i dodici e i diciotto mesi successivi alla prima infezione.

IL RUOLO DEL VACCINO

Diversi neuro-scienziati hanno ipotizzato che le conseguenze del covid sul cervello potrebbero esporre alcune persone a un rischio maggiore di patologie neurodegenerative come l’Alzheimer nel corso della loro vita, ma non è facile valutare se si tratti di un rischio elevato o meno, dato che la causa stessa dell’Alzheimer non è ancora chiara. “Non esistono prove che il covid possa generare problemi neurologici a lungo termine”, dice Spudich.

Al momento esistono prove contrastanti sul fatto che il vaccino sia in grado di proteggere contro alcuni effetti del covid lungo sul cervello. Una ricerca di Paul Kuodi e colleghi della Bar-Ilan University di Safed, in Israele, ipotizza che chi si ammala di covid dopo due dosi di vaccino non abbia maggiori probabilità di riportare sintomi come mal di testa e stanchezza rispetto a chi non si è infettato.

Ma Taquet e la sua équipe hanno esaminato oltre diecimila infezioni, contratte per lo più negli Stati Uniti, e hanno scoperto che mentre le vaccinazioni hanno ridotto i casi di malattie respiratorie gravi, non hanno influito sui sintomi da covid lungo e sui disturbi dell’umore e del sonno.

Un’altra questione di enorme importanza è se i bambini possano sviluppare disturbi cognitivi in seguito a infezioni lievi. Nei primi anni di vita, il nostro cervello cresce e si trasforma in modo significativo, e questo processo in qualche misura continua quasi fino ai trent’anni. “Vorrei capire quale impatto potrebbe avere il virus sullo sviluppo dei cervelli più giovani”, dice Monje. I ricercatori non sanno ancora se a livello cerebrale i giovani presentino la stessa risposta immunitaria al virus degli adulti. “Potrebbe essere, ma anche no, e questo mi preoccupa”.

“Credo che dovremmo fare molta attenzione con i nostri bambini”, conclude Spudich, “perché, semplicemente, è una cosa che non sappiamo”.

*(Jessica Hamzelou, New Scientist, Regno Unito, Traduzione di Davide Musso, Questo articolo è uscito sul settimanale britannico di divulgazione scientifica New Scientist, da Internazionale)

 

05 – Guri Schwarz *: IL TENTATIVO DI RISCRIVERE LA STORIA. DALL’INIZIO DELLA PANDEMIA ABBIAMO ASSISTITO, IN ITALIA E ALL’ESTERO, AL MOLTIPLICARSI DI ANALOGIE BANALIZZANTI TRA LA SHOAH E IL NOSTRO PRESENTE. MERITA PERÒ INTERROGARSI SUL SIGNIFICATO DI QUELLE TENTAZIONI ANALOGICHE IN QUESTO GIORNO DELLA MEMORIA 27 gennaio

Dall’inizio della pandemia abbiamo assistito, in Italia e all’estero, al moltiplicarsi di analogie banalizzanti tra la Shoah e il nostro presente: manifestanti No-vax che sfilano con la stella gialla sugli abiti o indossando finte divise da deportati, intellettuali che non resistono alla tentazione di vedere nel nostro inquietante presente l’inveramento delle loro teorie, e così descrivono il green pass come una «stella gialla virtuale».

Per usare le parole del grande storico Marc Bloch, questi usi metaforici del passato costituiscono «crimini di lesa esperienza e di lesa storia».

Merita però interrogarsi sul significato di quelle tentazioni analogiche. Perché oggi, in contesti diversi e lontani, molti evocano nazismo e Shoah per esprimere il proprio disagio di fronte alle politiche di gestione della pandemia? Come è possibile che le stesse trite metafore siano condivise da esponenti della cultura alta e dai manifestanti più sprovveduti? E come mai quelle analogie attecchiscono in maniera trasversale tanto a destra quanto a sinistra?

Ragionare su questo punto credo sia utile non solo per capire come una parte della società e della cultura abbiano reagito alla diffusione del Covid-19, ma anche per capire come funziona la memoria, cioè per mettere a fuoco attraverso quali meccanismi essa opera e si sviluppa, a quali bisogni, individuali e collettivi, risponde.

PIEGARE IL PASSATO

Indagare il funzionamento delle memorie significa addentrarsi nella casa degli specchi dove esse dimorano, misurandosi dunque con rifrazioni e distorsioni prospettiche. Infatti, quando è cosa viva, la memoria si nutre di analogie, di metafore e di allegorie, di accostamenti spesso azzardati, di connessioni multidirezionali e di ibridazioni della più diversa specie.

Questo avviene non solo, e non tanto, perché ci siano (e ci sono) soggetti dediti a forme di ghignante dissacrazione che puntano a degradare e corrompere il riferimento a quella specifica esperienza storica, quanto perché la memoria fisiologicamente abita nel territorio che collega il presente al passato.

Cos’è del resto la solenne invocazione “mai più” se non un modo per rendere operativo oggi il riferimento alle politiche di sterminio, facendone stella polare di orizzonte morale? Ecco che allora quel passato può esser piegato, ed è stato piegato, ai più diversi usi, talvolta con le migliori intenzioni, anche se sovente operando evidenti forzature sul piano storico.

Un breve, e non esauriente catalogo, può forse aiutarci a mettere a fuoco i tanti volti assunti da quella memoria nel tempo: nel suo noto libro La mistica della femminilità (1963) la femminista americana Betty Friedan definiva la famiglia borghese come «un comodo campo di concentramento».

Pochi anni dopo, su vari organi della stampa anglosassone, si fece ricorso alla formula «l’olocausto del Biafra» per descrivere la carestia che colpisce il paese, associazione forse innescata dalla circolazione di foto che ritraevano corpi ischeletriti che potevano ricordare quelli dei sopravvissuti ai campi della morte.

Nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni, il segretario del Pcus Breznev suggerì che gli israeliani facevano ai palestinesi ciò che i nazisti avevano fatto a loro, un’immagine perturbante perché comporta il rovesciamento del rapporto vittime.

Venendo a tempi più recenti, con la fine della guerra fredda, specie in ambito statunitense ma non solo, sono state ripetute le evocazioni della Shoah per giustificare l’azione sullo scacchiere geopolitico globale: il gruppo Jews against genocide provò a mobilitare l’opinione pubblica americana di fronte alla guerra in Bosnia suggerendo che lì la violenza raffigurata in Shindler’s List stava accadendo di nuovo; Elie Wiesel, con la sua autorevolezza di sopravvissuto e testimone, elogiò il bombardamento della Serbia da parte dell’amministrazione Clinton proprio paragonando la Shoah al potenziale genocidio dei kosovari.

Sempre negli Usa, nel rivendicare il riconoscimento di una condizione di sofferenza, si è fatto ampio ricorso, per una fase, all’analogia tra la Shoah e l’Aids. L’elenco potrebbe proseguire a lungo.

Una connessione tra politiche sanitarie e oppressione di stampo nazista era già circolante e operativa nell’immaginario collettivo ben prima della pandemia. In Italia nel 2018, in reazione alle iniziative della ministra della Salute Beatrice Lorenzin per rafforzare l’obbligo vaccinale, si moltiplicarono fotomontaggi e caricature che la ritraevano in uniforme nazista.

Nella primavera del 2019, a Brooklyn, un gruppo di ebrei ultraortodossi contestò le politiche di vaccinazione obbligatoria contro il morbillo paragonandole alla Shoah.

Col Covid tutto questo è solo detonato in forme più prorompenti. Tuttavia non sempre il labile nesso simbolico Covid-Shoah è servito a una retorica No-vax.

Nella prima fase della pandemia, quando la risposta istituzionale furono i lockdown, a rinforzo e a sostegno di quelle scelte ci fu chi, per nobilitare e nel contempo sminuire il nostro disagio, pensò di paragonare le nostre sorti a quelle di Anna Frank, chiusa nell’appartamento segreto ad Amsterdam. Curiosamente quell’immagine affiora in modo indipendente in contesti lontanissimi: dal Times of India alla rivista ebraica newyorkese The Forward, sino a una vignetta della fumettista Elena Triolo.

Quelle rappresentazioni prospettano un “teatro del Male”, uno spettacolo che lungi dal costringere a misurarsi con la complessità, offre ben più immediate gratificazioni, consentendo di immergersi nel passato per vivere l’emozione di sentirsi dalla parte giusta della storia. Alla base c’è un irrefrenabile impulso ad approssimarsi all’orrore presentato come pietra angolare della nostra moralità.

Non può sorprendere che, dopo decenni di investimenti su quella memoria, essa sia diventata patrimonio comune: offre un insieme di immagini, di parole chiave, di metonimie che non solo sono pronte all’uso ma che suscitano forti reazioni.

Evocare la persecuzione degli ebrei è oggi forse il modo più semplice ed efficace per alludere a una condizione di oppressione. È proprio la pervasiva presenza di quella memoria nel nostro immaginario che rende forse inevitabile il fatto che essa sia manipolata, financo stravolta e violata, per i più diversi scopi.

Giusto denunciare gli abusi e le falsificazioni, ma senza perdere di vista che una memoria viva non può esser messa sotto teca, e che difficilmente sdegno e condanne spegneranno le provocazioni; anzi, è plausibile che le alimentino perché confermano che esse colpiscono nel segno. Quando si stimola l’inconscio collettivo con temi sovraccarichi di potenza emotiva, quale è la Shoah, gli esiti sono imprevedibili.

*(Guri Schwarz è professore associato di Storia Contemporanea all’Università di Genova, dove è anche vicedirettore del Centre for the History of Racism and anti-Racism in Modern Italian History. Codirige la collana “Routledge Studies in the Modern History of Italy” ed è membro della direzione della rivista «Quest. Issues in Contemporary Jewish History». Le sue pubblicazioni includono: Attentato alla Sinagoga. Roma, 9 ottobre 1982 (con A. Marzano, Viella 2013); After Mussolini: Jewish Life and Jewish Memories in Post-Fascist Italy (Vallentine Mitchell, 2012); Tu mi devi seppellir. Riti funebri e culto nazionale alle origini della repubblica (Utet 2010)

 

06 –  SCHIRÒ (PD): FISSATE LE RETRIBUZIONI CONVENZIONALI 2022 PER I LAVORATORI ITALIANI INVIATI ALL’ESTERO, 26 gennaio 2022

Come tutti gli anni anche quest’anno con il Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 23 dicembre 2021 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 18 gennaio scorso, sono state aggiornate e stabilite le retribuzioni convenzionali dei lavoratori dipendenti italiani inviati all’estero, in via continuativa ed esclusiva, – e che mantengono la residenza fiscale in Italia – su cui viene applicato il calcolo dei contributi assicurativi obbligatori e delle imposte sul reddito dovuti per il periodo di paga 2022.

Come è noto la legge n. 317 del 1988 ha stabilito l’obbligatorietà delle assicurazioni sociali per i lavoratori italiani operanti all’estero in Paesi extracomunitari con i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale, alle dipendenze dei datori di lavoro italiani e stranieri.

Le retribuzioni convenzionali sono utilizzate, dunque, come base per il calcolo dei contributi dovuti per le assicurazioni obbligatorie dei lavoratori italiani operanti all’estero e, dal punto di vista fiscale, dell’imposta sul lavoro dipendente, nei casi in cui il salariato presta la propria attività all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendente che nell’arco di dodici mesi soggiorna nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni.

Tali lavoratori sono quindi obbligatoriamente iscritti alle seguenti forme di previdenza ed assistenza sociale, con le modalità in vigore nel territorio nazionale (fatte salve alcune eccezioni): a) assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti; b) assicurazione contro la tubercolosi; c) assicurazione contro la disoccupazione involontaria; d) assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali; e) assicurazione contro le malattie; f) assicurazione di maternità.

La legge stabilisce che i contributi dovuti per i regimi assicurativi sopra elencati sono calcolati su retribuzioni convenzionali e non su quelle effettivamente percepite. Tali retribuzioni, fissate appunto con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sono determinate con riferimento e comunque in misura non inferiore ai contratti collettivi nazionali di categoria raggruppati per settori omogenei.

Quindi a decorrere dal periodo di paga in corso dal 1° gennaio 2022 e fino a tutto il periodo di paga in corso al 31 dicembre 2022, le retribuzioni convenzionali da prendere a base per il calcolo dei contributi dovuti per le assicurazioni obbligatorie dei lavoratori italiani operanti all’estero sono stabilite nella misura risultante, per ciascun settore, dalle tabelle allegate allo stesso Decreto e che ne costituiscono parte integrante (in poche parole sia l’Inps che il Fisco, per i versamenti contributivi e per tassare i redditi di questi lavoratori, non vanno a vedere quanto effettivamente corrisposto, ma fanno riferimento ai valori convenzionali stabiliti annualmente).

Come detto le disposizioni della legge n. 398/87 si applicano ai lavoratori operanti all’estero in Paesi extracomunitari con i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale. Per i lavoratori che si spostano nell’ambito dell’Unione europea la normativa di sicurezza sociale applicabile è quella invece contenuta nei regolamenti CE nn. 883/2004 e 987/2009 e successive modifiche.

Sono esclusi inoltre dall’ambito di applicazione della legge n. 398/1987 anche la Svizzera e i Paesi aderenti all’Accordo SEE – Liechtenstein, Norvegia, Islanda – ai quali si applica la normativa comunitaria.

Le retribuzioni di cui al decreto citato costituiscono base di riferimento per la liquidazione delle prestazioni pensionistiche, delle prestazioni economiche di malattia e maternità nonché per il trattamento ordinario di disoccupazione per i lavoratori rimpatriati.

Riguardo ai risvolti fiscali di questa materia, i chiarimenti sono contenuti nella circolare n. 207/2000 emessa dall’allora Dipartimento delle entrate del ministero delle Finanze.

La disciplina che fa riferimento ai redditi convenzionalmente calcolati: si rivolge a coloro che, pur svolgendo l’attività lavorativa all’estero, continuano a essere qualificati come residenti fiscali in Italia in base all’articolo 2 del Tuir; non si applica se il contribuente presta la propria attività lavorativa in uno Stato con il quale l’Italia ha stipulato un accordo per evitare le doppie imposizioni e lo stesso preveda per il reddito di lavoro dipendente la tassazione esclusivamente nel Paese estero (in questo caso, infatti, la convenzione prevale sulle disposizioni fiscali interne); si applica a condizione che sia stipulato uno specifico contratto che preveda l’esecuzione della prestazione in via esclusiva all’estero e che il dipendente sia collocato in un apposito ruolo speciale estero; non si applica ai dipendenti in trasferta, in quanto manca il requisito della continuità ed esclusività dell’attività lavorativa all’estero.

*(Angela Schirò – Deputata PD – Rip. Europa – Camera dei Deputati)

 

07 – BREVI DAL MONDO: USA, SIRIA, TONGA, CILE. INTERNAZIONALE. UN DETRITO DI SPACE X COLPIRÀ LA LUNA. HASAKAH FESTEGGIA LA VITTORIA SULL’ISIS. AIUTI COVID FREE DA UK E AUSTRALIA PER TONGA. CILE, L’ESERCITO RESTA NELLE REGIONI RIBELLI. UN’AFROAMERICANA ALLA CORTE SUPREMA

UN DETRITO DI SPACE X COLPIRÀ LA LUNA

Un frammento (pesante 4 tonnellate) di un razzo di Space X di Elon Musk, lanciato nel 2015, si schianterà sulla luna a marzo, creando un nuovo cratere sulla sua faccia nascosta . Lo ha scoperto l’astronomo Bill Gray, che ha calcolato la traiettoria del detrito. Uno dei tanti che fluttuano nello spazio dagli anni 60 e che ora serve cominciare a «regolamentare», ha detto l’astronomo Jonathan McDowell.

HASAKAH FESTEGGIA LA VITTORIA SULL’ISIS

Mercoledì sera per le strade di Hasakah, nella Siria del nord-est, è stata festa:

le Forze democratiche siriane hanno ripreso il controllo della prigione di Sina’a e arrestato 3.500 miliziani islamisti che una settimana prima avevano preso parte all’attacco dell’Isis. Ma gli scontri non cessano: cellule di Daesh sono ancora presenti in città. Ieri ne sono stati individuati altri 60.

AIUTI COVID FREE DA UK E AUSTRALIA PER TONGA

Un terremoto di magnitudo 6.2 è stato registrato a Tonga a solo due settimane dall’eruzione vulcanica seguita da uno tsunami che ha ucciso 3 persone e ricoperto le isole di cenere. E ieri delle navi di aiuti australiani e Uk hanno raggiunto l’arcipelago consegnando gli aiuti senza nessun contatto per evitare contagi: Tonga è uno dei pochi posti al mondo dove il Covid non è arrivato e si è registrato un solo caso.

CILE, L’ESERCITO RESTA NELLE REGIONI RIBELLI

Ottava proroga dello stato di eccezione nell’Araucania e nel Bio Bio. C’è l’ok del parlamento cileno alla misura con cui Piñera in scadenza manterrà l’esercito nelle strade delle due regioni fino al 24 febbraio con la scusa della lotta ai «gruppi terroristi». Per la futura ministra dell’Interno Izkia Siches invece «militarizzare la zona ha solo aumentato la violenza, va costruito un dialogo con tutti per recuperare la pace».

UN’AFROAMERICANA ALLA CORTE SUPREMA

Una donna afroamericana alla Corte Suprema: è la promessa di Joe Biden (fatta anche durante la campagna elettorale) dopo la notizia, ieri, che il giudice liberal Stephen Breyer si ritira a 83 anni. La nuova nomina di Biden non cambierà però i rapporti all’interno della corte, dato che Breyer è uno dei tre giudici progressisti rimasti contro sei conservatori.

 

08 – Mattia Ferraresi*: OLTRE AL VOTO SUL QUIRINALE C’È LA GUERRA IN EUROPA. LA POLITICA SE N’È ACCORTA? L’ITALIA VIVE LA PEGGIORE CRISI POLITICO-MILITARE ALLE PORTE DELL’EUROPA DAI TEMPI DELL’INVASIONE RUSSA DELLA CRIMEA COME UNA FASTIDIOSA DISTRAZIONE DALLA TRATTATIVA PER L’ELEZIONE AL QUIRINALE, CIRCOSTANZA CHE HA SOSPESO PRATICAMENTE OGNI FUNZIONE DEL GOVERNO.

100mila soldati russi sono pronti sul confine orientale dell’Ucraina, la Nato è mobilitata, la Casa Bianca ha messo in stato d’allerta 8.500 soldati, Vladimir Putin sfida l’occidente e i suoi «annunci isterici» e il governo cosa fa? Rimira il catafalco.

Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, già acclamato (soprattutto dalla stampa straniera) come erede naturale di Angela Merkel alla guida dell’Europa, riceve leader di maggioranza e in generale dedica più energie alle trattative per il suo futuro che alla crisi internazionale.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha disertato la riunione Ue sull’Ucraina perché giudica più importante rimanere a trattare con i parlamentari a Roma, dove del resto s’adopera da mesi per contendere la leadership di Giuseppe Conte. Il vertice del Dis, Elisabetta Belloni, è candidata a tutto.

Se non sei abbonato, clicca qui per non perderti nulla

LA GUERRA DELLA SCHEDA BIANCA

Mentre Mosca prosegue minacciosamente la sua linea di provocazione e la Casa Bianca si attrezza finalmente per una risposta, i leader della maggioranza coordinano la strategia della scheda bianca.

Di fronte all’evidente stridore fra l’enormità dei fatti e la pochezza delle preoccupazioni della politica italiana c’è stata una specie di resipiscenza.

Il segretario del Pd, Enrico Letta, insieme allo stato maggiore del partito, e per una volta in coro con Matteo Renzi, ha detto che è «preoccupato per la situazione tra Ucraina e Russia» e questo impone la necessità di un «un profilo atlantico» per la massima carica dello stato.

Nessuno s’inganni: non è un severo monito per il ritorno al senso di responsabilità internazionale, ma solo un modo per dire che il Pd non voterà mai Franco Frattini, accusato di eccessi filorussi.

Poco importa, nel calcolo di Letta, che il ministro degli Esteri suo alleato sia stato l’artefice della Via della Seta e che il Movimento 5 stelle non sia nella posizione per dare lezioni di atlantismo a nessuno.

Di Maio non è riuscito nemmeno a scrivere correttamente il nome del segretario di Stato americano nel suo prezioso libro di memorie.

“Quirinale, la giornata” è la newsletter del quotidiano Domani sull’elezione del presidente della Repubblica. Da oggi e fino alla scelta del capo dello stato seguiremo ogni giorno le votazioni, vi informeremo su quali sono i candidati favoriti, gli scenari più probabili e gli aneddoti più gustosi. Se non siete già iscritti potete farlo cliccando qui.

TUTTO FERMO?

È stata ormai interiorizzata l’idea che l’elezione al Quirinale paralizzi completamente l’azione di governo, un pensiero invero curioso, dato che perfino la durata del mandato del capo dello stato è stata appositamente concepita per essere fuori sincrono rispetto a quella della legislatura.

Il clima provincial-ridanciano in cui si svolgono le elezioni non aiuta. Di fronte all’adolescenziale carrellata di nomi improbabili votati fra una scheda bianca e l’altra gli elettori a Montecitorio si sono fatti quattro risate, mentre molti osservatori, anche fra quelli pagati per fare questo lavoro, si sono premurati di notare che questa volta Rocco Siffredi non ha preso nemmeno una preferenza.

Ognuno si dà le priorità che crede, ma la sovrapposizione fra la crisi in Ucraina e le elezioni per il Quirinale ha sottolineato l’assenza dell’Italia, bloccata in un autoimposto lockdown politico e marginalizzata nelle trattative che contano.

La Nato ha fatto sapere che i suoi membri sono in movimento per scongiurare l’invasione russa. La Danimarca invia una nave nel Baltico ed è pronta a schierare gli F-16 in Lituania, la Spagna dà sostegno navale all’alleanza, la Francia valuta l’invio di truppe in Romania sotto il comando della Nato, i Paesi Bassi contribuiscono con gli F-35 in Bulgaria.

L’Italia, invece, tramite la Camera di commercio italo-russa, organizza una videoconferenza fra le maggiori imprese italiane e Putin in persona, che si conferma uno dei massimi specialisti mondiali nell’occupare i vuoti della politica.

Oggi i vertici di Eni, Enel, Unicredit, Pirelli, Barilla e altri discutono con il presidente russo «le prospettive per l’espansione futura dei legami fra gli imprenditori dei due paesi», questione naturalmente legittima per un paese che ha un tradizionale ruolo di “cerniera” con l’est e dipende dall’energia di Mosca, ma la circostanza irrituale, vista sullo sfondo dei carri armati nel Donbass, non fa che amplificare il senso di vuoto lasciato dal governo.

In questi anni Putin ha sempre scommesso sul fatto che le democrazie liberali dell’occidente hanno perfezionato nel tempo una certa vocazione al suicidio. Imbrigliate in dialettiche litigiose e inconcludenti, finiscono per autosabotarsi, lasciando sguarniti spazi politici che spesso non richiedono nemmeno iniziative militari per essere occupati.

Osservando l’irreale paralisi politica di queste giornate a Montecitorio si capisce perché gli autocrati come Putin, pur guidando potenze regionali di dimensioni economiche modeste, dettano l’agenda della politica internazionale.

 

09 – GARAVINI (IV): BOLLETTE, “GOVERNO AL LAVORO GIÀ DA QUESTA ESTATE CONTRO RINCARI, RISORSE E AZIONI CONCRETE PER CITTADINI E IMPRESE”

Roma, 25 gen. – “Il Governo è ben consapevole dei disagi creati a famiglie e imprese dal caro bollette. Tanto da aver stanziato risorse importanti già questa estate, ampliate poi in legge di bilancio e con gli ultimi stanziamenti nel decreto sostegni. Oltre 5 miliardi per mitigare gli effetti della fiammata dei prezzi. Risorse unite a misure concrete, come lo stop agli oneri di sistema per il primo trimestre 2022. O il credito di imposta per le imprese energivore che abbiano subito incrementi del costo per KWh superiori al 30 per cento. O ancora il meccanismo di compensazione sul prezzo dell’energia prodotta da impianti a fonti rinnovabili. Tutte iniziative con le quali l’esecutivo conferma una linea pragmatica nel voler fronteggiare la questione con effetti immediati in bolletta per i cittadini”. Lo ha dichiarato la senatrice Laura Garavini, Vicepresidente commissione Esteri e Vicecapogruppo vicaria Italia Viva-Psi, intervenendo a Tv Qui Modena.

*(Barbara Laurenzi- Ufficio stampa Sen.ce Laura Garavini – Vicepresidente III Comm. Esteri – Vicepresidente vicaria Gruppo Italia Viva – Psi)

 

10 – GARAVINI (IV)*: QUIRINALE, “PRESIDENTE NON PUÒ CHE ESSERE EUROPEISTA E ATLANTISTA, NO RITORNO A POLITICA ESTERA AMBIGUA”

Roma, 25 gen. – “Dopo anni di ambiguità in politica estera, con questo esecutivo l’Italia ha recuperato leadership internazionale e rinsaldato i legami con gli alleati tradizionali. Non possiamo tornare indietro. Il nuovo Presidente della Repubblica deve avere una collocazione fortemente europeista e atlantista”. Lo dichiara la senatrice Laura Garavini, Vicepresidente commissione esteri e Vicecapogruppo vicaria Italia Viva-Psi.

*(Barbara Laurenzi Ufficio stampa Sen.ce Laura Garavini Vicepresidente III Comm. Esteri Vicepresidente vicaria Gruppo Italia Viva – Psi)

 

11 – Marco D’Eramo *: LE SANZIONI POSSONO ESSERE UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO- UNA NAZIONE BOICOTTATA È UNA NAZIONE SULL’ORLO DELLA RESA. APPLICA QUESTO RIMEDIO ECONOMICO, PACIFICO, SILENZIOSO, LETALE, E NON CI SARÀ BISOGNO DELLA FORZA. È UN TERRIBILE RIMEDIO. NON COSTA UNA VITA FUORI DALLA NAZIONE BOICOTTATA, MA ESERCITA UNA TALE PRESSIONE CHE, A MIO GIUDIZIO, NESSUNA NAZIONE MODERNA PUÒ RESISTERVI. 26 gennaio 2022

Nessuno ha espresso meglio la crudeltà, la fredda violenza insita nelle sanzioni economiche quanto queste frasi pronunciate dal presidente statunitense Woodrow Wilson nel Coliseum di Indianapolis il 4 settembre 1919: le sanzioni sono un “rimedio letale” che “non uccide fuori dalla nazione boicottata”, cioè che uccide solo lì.

Le parole di Wilson ci ricordano che – nonostante alcuni illustri precedenti, su cui torneremo tra poco – il metodo delle sanzioni si è imposto come pratica corrente di politica internazionale solo nel ventesimo secolo, per dilagare poi nei primi due decenni del ventunesimo. La Società delle Nazioni, nata nel 1920 dal trattato di Versailles su impulso proprio di Wilson, contemplava nell’articolo 16 del suo statuto la possibilità di imporre sanzioni ai paesi che non ne avessero osservato le regole, cioè ingiungeva di “rompere immediatamente tutte le relazioni commerciali o finanziarie, e proibire ogni rapporto fra i loro nazionali e quelli dello stato in rottura di patto e far cessare ogni comunicazione commerciale o personale tra i nazionali di questo stato e quelli di ogni altro stato, che faccia parte o no della Società”.

Le prime sanzioni che la Società delle Nazioni impose furono contro l’Italia nel 1935, quando il regime fascista invase l’Etiopia (nel 1937 l’Italia uscì dalla Società delle Nazioni). Sanzioni furono comminate anche al Giappone nel 1940-1941. Nel 1950 il dipartimento del tesoro statunitense creò l’Office of foreign assets control (Ofac). Nel 1956 la crisi di Suez – quando Francia, Inghilterra e Israele volevano intervenire per bloccare la nazionalizzazione del canale da parte del presidente egiziano Nasser – fu risolta dagli Stati Uniti impedendo all’Inghilterra di usare le riserve depositate presso il Fondo monetario internazionale per difendere la sterlina. L’embargo contro Cuba del 1962 fu l’esempio più classico di come gli Stati Uniti usarono le sanzioni nella guerra fredda contro il blocco sovietico. Ma l’uso e abuso delle sanzioni esplose dopo il crollo dell’Unione Sovietica (il primo a farne le spese fu il dittatore iracheno Saddam Hussein).

Ma Wilson ci ricorda anche che le sanzioni sono un atto di guerra, economica sì, ma pur sempre guerra. Questo vuol dire che il moltiplicarsi delle sanzioni e dei paesi sanzionati implica il moltiplicarsi delle guerre economiche. E in questi decenni il metodo delle sanzioni è stato applicato sempre più spesso contro sempre più paesi da parte di sempre più potenze, sub-potenze, sub-sub-potenze. Naturalmente la potenza sanzionatrice per eccellenza sono gli Stati Uniti. Secondo un rapporto del dipartimento del tesoro, dal 2000 al 2021 le sanzioni imposte da Washington sono cresciute del 933 per cento: da 912 sanzioni attive nel 2000 a ben 9.421 nel 2021.

La prima sanzione economica che si ricordi fu il blocco commerciale imposto dall’Atene di Pericle alla città di Megara nel 432

In questa crescita le sanzioni si sono raffinate, diversificate, fino a costituire un arsenale di armi diverse. Così, prima di imporre sanzioni a tutto il paese preso di mira, si colpiscono individui singoli, o singoli aerei, o singole navi. O singole società. Oggi l’Ofac amministra e fa rispettare (enforces) ben 37 diversi programmi di sanzioni su dodicimila entità o persone. Se si entra nel sito dei programmi di sanzioni del dipartimento del tesoro, si penetra in un labirinto kafkiano in cui si rischia di perdersi.

Scegliendo a caso tra le persone inserite nel dicembre scorso nella lista Specially designated nationals (Sdn ) dell’Ofac, si trova per esempio “FRAGOSO DO NASCIMENTO, Leopoldino (a.k.a. “DINO”), Luanda, Angola; DOB 05 Jun 1963; POB Luanda, Angola; nationality Angola; Gender Male; Passport N1999980 (Angola) expires 08 Apr 2036 (individual) [GLOMAG]”.

Questo signore, noto come “general Dino” era il capo del servizio comunicazioni dell’uomo forte dell’Angola dal 1979 al 2017, José Eduardo do Santos. Ma Dino è anche presidente del consiglio di amministrazione del gruppo Cochan; perciò è sanzionato insieme alle società Cochan Angola, Cochan Group, Cohan S. A., Geni Group, Geni Novas Tecnologias, Geni Novas Tecnologias S. A., Geni S. A., Geni Sarl. Se poi sbirciate nella lista alfabetica dei sanzionati, trovate in sequenza l’industria aeronautica iraniana Afagir; l’Afak, una società di Dubai; un cittadino russo (Sergej Afanasev) e sua moglie Julia Andreevna e così via.

Una tabella pubblicata dall’Economist mostra bene la varietà dei bersagli di Washington: per esempio del Venezuela sono sanzionati 56 aeroplani, 47 vascelli, 141 individui e 89 entità giuridiche varie (tra cui banche, industrie, ecc.). Della Corea del Nord è sanzionata anche l’Accademia delle scienze.

Dopo la fine della guerra fredda, le sanzioni si sono moltiplicate anche perché l’impero statunitense ha preso la forma della globalizzazione e quindi le sanzioni finanziarie si sono rivelate molto più efficaci di quelle commerciali.

Storicamente le sanzioni commerciali sono state poco efficaci. La prima sanzione economica che si ricordi fu il blocco commerciale imposto dall’Atene di Pericle alla città di Megara nel 432, blocco che – secondo una frase sibillina di Tucidide – condusse alla guerra del Peloponneso che si concluse con la disfatta di Atene e la vittoria di Sparta. Idea che anche Aristofane sembra condividere nella commedia Gli acarnesi (I cavalieri), ritraendo il blocco commerciale in una parodia della guerra di Troia, con ratti incrociati e reciproci di prostitute ateniesi e megaresi:

E allora Pericle l’Olimpio per l’ira fulminò, tuonò, mise a soqquadro la Grecia, fece leggi scritte come canzoncine, che i megaresi non potessero rimanere né in terra né sul mercato né sul mare né sul continente. E allora i megaresi, quando pian piano furono affamati, chiesero ai Lacedemoni che fosse cambiata quella tal legge, fatta a causa di tre puttane; e noi non volemmo, pur avendoci tanto pregato. E quindi venne il fracasso degli scudi. (vv. 530 -538)

Aristofane nota che i megaresi furono “piano piano affamati”, primi di una lunga serie di popoli sanzionati.

Passarono più 22 secoli prima che altri due embarghi commerciali fossero applicati, ambedue con un effetto boomerang. Il primo fu il Blocco continentale, il divieto di attracco nei porti europei a ogni nave battente bandiera inglese, dichiarato da Napoleone Bonaparte nel 1806. Come si sa, questo blocco gli si ritorse contro e finì per diventare un blocco inglese contro il commercio europeo. L’anno dopo il presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson fece approvare un Embargo act per punire Regno Unito e Francia per i loro attacchi alle navi statunitensi. Quest’embargo si rivelò un disastro perché a quel tempo gli Stati Uniti avevano più bisogno dei mercati europei di quanto gli europei avessero bisogno del mercato statunitense.

Si può ricordare che l’embargo sul petrolio e altre materie prime contro il Giappone accelerò l’attacco giapponese a Pearl Harbour nel 1941. Né fu granché utile alla causa palestinese il blocco petrolifero imposto dai paesi dell’Opec dopo la guerra del Kippur del 1973.

Washington, Stati Uniti, 9 dicembre 2021. Il presidente statunitense Joe Biden in collegamento al vertice per la democrazia. – Al Drago, Bloomberg/Getty Images Washington, Stati Uniti, 9 dicembre 2021. Il presidente statunitense Joe Biden in collegamento al vertice per la democrazia. (Al Drago, Bloomberg/Getty Images)

Nel 2014, per l’annessione di una parte dell’Ucraina, le sanzioni commerciali contro Mosca (a cui Vladimir Putin rispose con l’embargo delle importazioni alimentari dall’Europa) costarono sì al paese qualche punto in percentuale del pil, ma per altri versi ebbero effetti benefici: costrinsero la Russia a prodursi da sola quei manufatti che prima importava pagandoli con il denaro delle esportazioni di materie prime (greggio, gas, legname, minerali), spingendola quindi a industrializzarsi e a essere più indipendente. Tanto che nel gennaio 2020 il Financial Times poteva titolare: “Russia: l’adeguamento alle sanzioni lascia l’economia in buona salute. Secondo gli analisti Mosca ora ha più da temere dalla rimozione delle sanzioni che dall’aggiunta di nuove”.

Le più recenti sanzioni commerciali sono state le barriere doganali imposte nel 2018 da Trump ai prodotti cinesi: “Tutt’al più, le sanzioni si ritorsero contro, nuocendo i settori agricolo e high-tech degli Stati Uniti. Secondo Moody’s Investors Service, solo l’8 per cento dei costi aggiuntivi furono sopportati dalla Cina; il 92 per cento furono pagati dagli importatori statunitensi e alla fin fine trasferiti sui consumatori sotto forma di aumento dei prezzi”, osserva Daniel Drezner in un bel saggio apparso su Foreign Affairs nel numero di settembre/ottobre 2021.

Ciò non toglie che la mania sanzionatrice faccia discepoli: per esempio la Cina ha imposto varie sanzioni ad Australia, Corea del Sud, Giappone, Lituania, perfino alla lega di basket statunitense, l’Nba. La Russia ha sanzionato diverse repubbliche ex sovietiche. Persino l’Arabia Saudita ha tentato d’imporre sanzioni.

Più efficaci però si sono rivelate le sanzioni finanziarie. Grazie anche al dollaro, gli Stati Uniti sono in grado, con un semplice gesto, di estromettere un intero paese (o un’azienda, banca, industria) da tutto il circuito finanziario mondiale: basta precludergli l’uso del codice Swift. Io me ne sono reso conto un giorno che con mia moglie volevamo mandare dei fiori a un’amica iraniana per il suo compleanno: fu impossibile perché i fiorai di Teheran non potevano incassare le somme trasferite dalle carte di credito. Ecco: isolare un paese dal circuito finanziario significa perfino che non puoi mandare dei fiori a un amico.

Le sanzioni finanziarie hanno anche un altro vantaggio. Mentre quelle commerciali possono essere aggirate e causano la crescita di un prospero mercato nero, quelle finanziarie si applicano anche ai partner stranieri dei sanzionati: si chiamano “sanzioni secondarie”. Chiunque abbia rapporti finanziari con il paese sanzionato si vede sanzionare a sua volta e quindi escludere dal mercato. “Nel 2014 la banca francese Bnp-Paribas si dichiarò colpevole di aver eseguito migliaia di transazioni che coinvolgevano paesi sulla lista nera degli Stati Uniti, pagò una multa di 8,9 miliardi di dollari e fu costretta a sospendere le sue operazioni in dollari a New York per un anno”, scrive l’Economist. Anzi, le banche sono restie ad avere contatti con individui dei paesi sanzionati anche quando sarebbe lecito, perché in caso di future sanzioni avrebbero difficoltà a rescindere in tempo i contratti.

Anche in questo caso però le sanzioni presentano inconvenienti. Il primo è quello d’indebolire la signoria del dollaro e di spingere gli altri paesi (compresi gli alleati europei) a cercare un’alternativa al circuito Swift. Il boom delle criptovalute è dovuto anche al tentativo di liberarsi dal giogo del dollaro.

Ma l’inconveniente di gran lunga più deleterio dell’aver fatto diventare le sanzioni il principale, se non unico, strumento di pressione politica estera, sta nel fatto che è molto difficile abrogarle. Scrive Drezner:

I presidenti sono sempre propensi a imporre sanzioni ma restii a toglierle, e ciò espone i leader all’accusa di essere deboli in politica estera. E questo rende difficile per gli Stati Uniti essere credibili quando s’impegnano a rimuovere le sanzioni. Per esempio, quando Biden soppesava se alleggerire qualche sanzione contro l’Iran, i deputati repubblicani lo criticarono come ingenuo pacifista. Per di più, molte sanzioni statunitensi – tipo quelle contro Cuba e la Russia – sono imposte con una legge, il che significa che solo il congresso può revocarle definitivamente. E, data la polarizzazione e l’ostruzionismo che ora caratterizzano Capitol Hill, è improbabile che un numero sufficiente di parlamentari appoggi qualunque iniziativa presidenziale per distendere i rapporti con avversari di lunga data. E, anche se i problemi politici fossero superati, il ginepraio legale delle sanzioni sarebbe difficile da dipanare. Ci sono paesi soggetti a così tante sanzioni sovrapposte che si trovano intrappolati in una situazione kafkiana, non sapendo se c’è qualcosa che possano fare per ottemperarle tutte.

Ma se un paese sa che, anche se si sottomette ai diktat americani, le sanzioni non verranno rimosse comunque, sarà molto meno disposto a cedere. Quale motivo c’è di accontentare gli Stati Uniti se non ci sarà nessuna ricompensa? E poi, va bene che gli Stati Uniti sono il più potente impero della storia, e il più mondiale, ma continuando a imporre sanzioni senza mai abrogarle finiscono per mettersi contro quasi tutto il pianeta.

Oltretutto la storia insegna che ci sono due tipi di sanzioni, che differiscono per i loro obiettivi. Il primo tipo di sanzioni è di contenimento: la misura economica è imposta per impedire a un paese o a un blocco di accrescere il proprio potere, come avvenne con l’embargo nei confronti dei paesi del Patto di Varsavia durante la guerra fredda. In questo caso il paese colpito dalle sanzioni non si aspetta nessuna concessione. L’altro tipo di sanzioni è quello coercitivo (compellence), che vuole cioè costringere un paese a fare (o a non fare) qualcosa, per esempio obbligare l’Iran a smettere di arricchire l’uranio. Ma in questo caso gli Stati Uniti dovrebbero rendere credibile la prospettiva di abolizione delle sanzioni a patto di condizioni chiare e definite e non in un’escalation di pretese.

Uno dei problemi delle sanzioni imposte da Washington negli ultimi decenni è che in definitiva esigono un cambio di regime, cosa che il regime preso di mira evidentemente rifiuta e preferisce che il proprio popolo sopporti privazioni e stenti, come è avvenuto innumeri volte da Cuba all’Iran, dalla Russia alla Siria, alla Libia, alla Birmania, al Venezuela.

Il secondo problema è che ormai la politica estera statunitense è fatta solo di bastone e mai di carota. Anzi, guardando i network occidentali (Bbc, Cnn, France 24) tutti mettono in guardia l’Africa contro la “generosità cinese” avvertendo i beneficiari di tante infrastrutture (metropolitane, dighe, linee ferroviarie eccetera) dei pericoli che incorrono, del rischio di rimanere prigionieri del debito cinese: come se gli africani non fossero già da decenni prigionieri del debito occidentale, con la differenza che, dal neocolonialismo in poi, gli occidentali di infrastrutture in Africa non ne hanno costruita più nessuna. Invece da almeno trent’anni, da quando si sentono i padroni del mondo, gli americani mostrano solo il proprio volto arcigno, iracondo, versione terrena di Yahweh, “dio geloso” che guarda Pechino proporre e finanziare la Road and belt initiative, la “nuova via della seta”, come un marito guarda i sorrisi che la moglie rivolge a uno spasimante rivale.

Non è che a Washington non si rendano conto dei rischi di questa deriva monodimensionale della politica estera americana. Sanno bene che troppe sanzioni indeboliscono l’impero, invece di rafforzarlo. È un po’ che ne dibattono, come mostrano anche il saggio su Foreign Affairs e vari articoli apparsi sulla stampa internazionale. Il problema è che le sanzioni non solo in alcuni casi sono di un’efficacia letteralmente letale, ma sono anche facili, dal punto di vista sia pratico sia politico (fanno fare bella figura e sono semplici da far approvare al congresso). Il punto è che sono diventate quasi un tic della diplomazia mondiale, reazione automatica a ogni e qualunque contrarietà: 9.421 sanzioni in un anno significano circa 26 sanzioni per ogni giorno che dio comanda, più di una sanzione l’ora. Finirà che dovremo dire: la guerra è la prosecuzione delle sanzioni con altri mezzi.

L’ironia è che sanzioni tanto estese minano per forza il tessuto stesso della globalizzazione proprio perché frappongono ostacoli insormontabili alla libera circolazione delle merci e, soprattutto, dei capitali. Come dire che a questo ritmo gli Stati Uniti finiscono per sanzionare se stessi.

*( Marco D’Eramo, New Left Review, Regno Unito, Questo articolo è stato pubblicato dalla New Left Review.)

Views: 1081

AIUTACI AD INFORMARE I CITTADINI EMIGRATI E IMMIGRATI

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.