DOCUMENTO PROGRAMMATICO. Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale. NON ABBIAMO PIÙ TEMPO

DOCUMENTO PROGRAMMATICO. Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale. NON ABBIAMO PIÙ TEMPO

Con l’enciclica Laudato Si’, papa Francesco ha chiesto agli abitanti della Terra, credenti e non credenti, di fermarsi a riflettere sull’evidenza che l’umanità sta creando le condizioni per la propria estinzione. L’analisi è inappellabile: «La maggior parte del riscaldamento globale degli ultimi decenni è dovuta alla grande concentrazione di gas serra emessi soprattutto a causa dell’attività umana. La loro concentrazione nell’atmosfera ostacola la dispersione del calore che la luce del sole produce sulla superficie della terra. A sua volta, il riscaldamento ha effetti sul ciclo del carbonio, crea un circolo vizioso che inciderà sulla disponibilità di risorse essenziali come l’acqua potabile, l’energia e la produzione agricola delle zone più calde, e provocherà l’estinzione di parte della biodiversità del pianeta. Se la tendenza attuale continua, questo secolo potrebbe essere testimone di cambiamenti climatici inauditi e di una distruzione senza precedenti degli ecosistemi, con gravi conseguenze per tutti noi. L’innalzamento del livello del mare, ad esempio, può creare situazioni di estrema gravità se si tiene conto che un quarto della popolazione mondiale vive in riva al mare o molto vicino ad esso, e la maggior parte delle megalopoli sono situate in zone costiere». «IL CLIMA È UN BENE COMUNE, DI TUTTI E PER TUTTI», SCRIVE PAPA FRANCESCO, E «L’UMANITÀ HA ANCORA LA CAPACITÀ DI COLLABORARE PER COSTRUIRE LA NOSTRA CASA COMUNE» AFFIDANDOSI A «UNA NUOVA SOLIDARIETÀ UNIVERSALE». Ma l’enciclica non si limita a una predicazione del bene: delinea le fratture sociali e i guasti ambientali connessi al predominio economico e alla cultura predatoria industrialista che ci sovrasta, nomina le cause dell’ingiustizia e indica gli strumenti per contrastarla, vede nell’impegno dei cittadini e delle cittadine, degli attivisti e delle attiviste del mondo la via per la riconciliazione con le creature: umani, animali, piante, ecosistemi. La Laudato Si’ è un testo pienamente politico, in dialogo con la teologia della liberazione e i paradigmi del “buen vivir” dei popoli nativi, confluiti nelle costituzioni della Bolivia e dell’Ecuador. Le sue argomentazioni sono stringenti e le sue indicazioni rivoluzionarie. «Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri», scrive papa Francesco. Eppure, dopo quattro anni dalla pubblicazione dell’enciclica, non si è prodotta l’auspicata diffusione del “grido della Terra” nelle coscienze, fatta eccezione per l’avvento del movimento globale di ragazze e ragazzi decisi a difendere il proprio futuro e quello del pianeta. Tantomeno la politica sembra esserne stata risvegliata, benché la crisi ecologica sia tanto profonda e di così imprevedibile esito da mettere alla prova le convinzioni più consolidate. Lo scenario che abbiamo di fronte ci mostra un’umanità spezzata da diseguaglianze sempre più profonde e una natura non più in grado di rigenerarsi al ritmo di crescente consumo e degrado imposto dai suoi dominatori: si tratta di una consapevolezza che scuote le nostre stesse radici, interrogando il senso profondo di ogni politica. Per questo motivo abbiamo sentito la necessità di elaborare un documento programmatico che facesse propria la lezione dell’enciclica, cercando di tradurla in indicazioni di lotta e resistenza culturale, etica e politica. La contraddizione tra la durata inconsueta della crisi in corso e la velocità incessante degli adattamenti cui il mondo artificiale (la tecnosfera) costringe quello naturale, porterebbe a dichiarare il fallimento del modello economico dominante. Invece assistiamo al perpetuarsi di un sistema ignaro delle persone e dei corpi, cui non basta ormai una sola Terra, in cui i poteri eludono le ribellioni e stremano ogni alternativa con la forza dell’esclusione, arma ancor più letale dello sfruttamento. Siamo su un crinale molto esposto, chiamati a fare i conti con un progetto economico e tecnocratico che accantona la natura e promuove il superamento dell’umano. La crudezza di una crisi che mette in forse i presupposti della convivenza umana viene acuita dalle attuali politiche di respingimento di migranti e profughi. L’abbandono in mare e alle frontiere e il progressivo scadimento delle condizioni di accoglienza in Italia e in Europa stanno portando allo snaturamento dell’istituto dell’asilo – forse la più alta conquista del Novecento, dopo che la Seconda guerra mondiale e la Shoah ci hanno mostrato come l’individuo possa essere annientato dalla violenza degli Stati, in assenza di una nuova entità statuale disposta a concedergli la protezione della cittadinanza. Ad esserne colpiti, insieme ai migranti – figure della modernità che ieri eravamo noi e che domani potremmo esserlo ancora – sono la solidarietà, l’umanità, intesa come avanzamento positivo della civilizzazione umana, e l’impianto stesso dei diritti umani. Con questo documento ci proponiamo di portare un contributo all’elaborazione di un programma alternativo ispirato all’ecologia integrale: un contenitore organico di idee e di esperienze capaci di gettare luce l’una sull’altra e di indicare percorsi condivisi di esistenza e resistenza. Così come fa l’enciclica, abbiamo cercato di superare le specializzazioni imposte da un’idea parcellizzata di mondo, dove chi si occupa di migrazione non sempre vede le profonde implicazioni legate al cambiamento climatico e alla depredazione ambientale, chi si occupa di povertà spesso non considera gli effetti della privatizzazione dei beni comuni e della finanziarizzazione dell’economia, chi si batte contro il nuovo schiavismo non si mette in dialogo con le battaglie condotte dall’ecofemminismo e dall’antispecismo. L’autoreferenzialità e la velocità orizzontale imposte dai nuovi media fanno sì che spesso siamo informati sui fatti ma ci sfuggono i processi e la direzione in cui essi ci portano, rendendoci connessi ma lontani, esposti a un doppio registro di realtà – fattuale e virtuale. Ascoltarci e dotarci di strumenti condivisi che valorizzino e mettano in circolo le molteplici esperienze implica un ritorno al “terrestre”, una prospettiva che ci rimetta in sintonia con la biosfera e il senso del limite segnato dalla natura, consapevoli della stretta interconnessione tra il futuro della società umana e la cura per l’ambiente nella sua interezza. Se la biosfera è un insieme di processi, rigenerazioni e riparazioni che contrastano e dilazionano nel tempo il disordine e l’entropia, assumere coscientemente la cura della Terra e dei suoi abitanti – umani e non umani – è l’obiettivo culturale, antropologico, scientifico e politico da condividere.

 

1. CLIMA

1.1 La questione climatica come punto di non ritorno. Il mutamento del clima è un processo complesso e non governabile nelle sue imprevedibili accelerazioni, le cui conseguenze potrebbero minare irreparabilmente la presenza umana sulla Terra. L’aumento della temperatura media sul pianeta porterà a modificazioni sostanziali e drammatiche del modo di vivere e relazionarsi, sia nelle città sia in aree aggredite da siccità crescente, dall’intensificarsi di eventi meteorologici estremi e dalla risalita del livello dei mari. Per la prima volta nella storia, la specie umana si trova a un punto di non ritorno, che possiamo avvicinare o allontanare a seconda del comportamento economico, politico e sociale dei singoli, delle comunità, dei governi, degli attori politici ed economici. L’umanità è a un bivio e deve assumersi la responsabilità della propria salvezza o della propria perdita.

1.2 Contenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 °C. Il cambiamento climatico ha un carattere di assoluta specificità e si manifesta come fenomeno globale che riguarda tutte le aree del nostro pianeta: perciò è stato definito la più grande minaccia del terzo millennio. L’instabilità climatica, oggi rilevabile ovunque, prelude a effetti catastrofici. I moniti del mondo scientifico richiedono che il ritardo dei governi, delle amministrazioni pubbliche, delle istituzioni, dei corpi sociali intermedi e dei singoli cittadini venga colmato al più presto. Gli obiettivi degli accordi di Parigi, ratificati nel 2016 senza obblighi cogenti da 180 paesi, devono diventare oggetto di concertazione obbligatoria, con l’introduzione di un meccanismo sanzionatorio concordato che prevenga i governi dall’infrangere il limite di emissioni consentito per contenere l’aumento della temperatura terrestre al di sotto di 1,5°C.

1.3 Combattere il negazionismo climatico. Interessi industriali, economici e finanziari legati alla produzione e all’utilizzo di combustibili fossili, insieme a governi e media complici o succubi, alimentano un negazionismo di fatto che irride o ignora l’origine antropica dei cambiamenti climatici in corso, suffragato dalle road map tracciate dall’IPCC (Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico). I popoli che abitano il pianeta – ad eccezione di quelli indigeni, non ancora egemonizzati da una cultura estrattiva – hanno finora ignorato il grido della Terra, distratti dalle finte emergenze di cui si fa scudo un sistema che non sa e non vuole abbandonare l’obiettivo della crescita della produzione e dei consumi, insieme all’illusione di uno sviluppo meramente quantitativo. Un sistema economico e politico che tende a scaricare la crisi ecologica sulle figure più deboli dal punto di vista sociale ed economico, e su chi abita i territori più vulnerabili del pianeta.

1.4 La giustizia climatica è giustizia sociale. Se la posta è la salvezza dell’umanità sul pianeta – insieme a tutto il vivente, nella sua diversità biologica e nella sua unità elementare – giustizia climatica e giustizia sociale devono procedere di pari passo, come indica l’enciclica Laudato Si’. In un mondo in cui la stragrande maggioranza della popolazione, divorata da una crisi imposta, si impoverisce e perde diritti, venendo al contempo esposta alle conseguenze dei disastri climatici e ambientali, solo le grandi multinazionali e i gruppi finanziari globali vedono crescere vertiginosamente i propri profitti. Pretendere un profondo e non più eludibile cambiamento del sistema produttivo e di consumo comporta una rivoluzione nelle scelte energetiche, nelle politiche che ne dipendono e nei modi di vita a livello globale: un cambiamento strutturale che può procedere solo di pari passo con l’estensione di diritti e giustizia sociale a livello universale.

1.5 Abbandonare una globalizzazione univoca. L’esauribilità dei beni comuni, la crescente infertilità dei suoli e soprattutto l’inevitabile aumento della temperatura del pianeta sono conseguenze di un ordine sociale che non contempla il futuro. É urgente imboccare la strada di una conversione ecologica radicata nel locale, inteso come “terrestre” – unica prospettiva che risponda a un’evoluzione dell’umanità nel rispetto delle differenze, capace al contempo di confrontarsi con un sistema capitalista globale – superando la visione antropocentrica ed estrattivista che impedisce di combattere o anche solo mitigare e dilazionare nel tempo il cambiamento climatico e il degrado ambientale.

1.6 Frenare la domanda di energia e decarbonizzare l’economia. Mantenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C, richiede profondi tagli delle emissioni di CO2 (dall’80 al 95% entro il 2050). In questa prospettiva, la maggior parte delle riserve di combustibili fossili deve rimanere incombusta sottoterra, compreso il gas, che viene invece estratto e trasportato con pesanti effetti ambientali. Il gas viene sostenuto e incentivato per interessi geopolitici, allo scopo di mantenere centralizzato il sistema energetico e impedire che l’impiego dei fossili venga direttamente sostituito da fonti rinovabili gestite su reti territoriali, com’è ormai tecnologicamente possibile.

1.7 Territorializzare produzione e consumo energetico verso l’autogestione. La rivoluzione industriale ha disconnesso i territori dalle fonti di energia e di materie prime, ma è possibile ridisegnare città e territori come sistemi in cui l’energia è distribuita più vicino alla domanda, e in cui la fonte è diffusa e di provenienza solare diretta o indiretta (energia solare, eolica, biomasse). Ognuno può produrre gran parte dell’energia che serve alla sua abitazione, alla sua famiglia. In questo sistema, le perdite di rete sono minimizzate, l’efficienza e il risparmio vengono incentivati, gli edifici sono a condizionamento passivo e in rete per scambiarsi il surplus accumulato, i rifiuti vengono trasformati in nuovi prodotti anche sulla base della loro progettazione, che mette in conto il recupero di componenti e materiali a fine vita.

1.8 Introdurre la Carbon Tax alla fonte. La Carbon tax alla fonte è complementare alle eco-tasse sull’utilizzatore finale. Va imposta alle compagnie che operano nel campo dei combustibili fossili, addebitando una tassa per tonnellata di CO2 emessa al pozzo minerario o al punto d’ingresso del processo attivato dal combustibile. L’ammontare del prelievo può risultare neutrale perché, una volta incassato, verrebbe ridistribuito come dividendo alla popolazione e in maggior misura agli indigenti che consumano meno: lo si potrebbe definire un reddito di cittadinanza ecologico. Per rimborsare il debito atmosferico che i Paesi sviluppati hanno contratto con i Paesi più poveri del pianeta dovrebbe venir istituito un Fondo Atmosferico Globale finanziato con la carbon tax. Un’altra utile misura per combattere la CO2 e i suoi effetti climalteranti è introdurre, attraverso i modelli di valutazione integrata, la quantificazione reale dei danni associati a ogni tonnellata di aumento delle emissioni di CO2, non solo quelli economici – produttività agricola, usi energetici, inondazioni – ma anche quelli alla salute o ai servizi ecologici resi alle società dagli ecosistemi naturali.

1.9 Ridisegnare e riconvertire la mobilità. Il trasporto collettivo è la chiave di volta della riprogettazione necessaria della mobilità. Per tutti gli autoveicoli va velocizzato il passaggio all’elettrico in un quadro di progressiva riduzione del ricorso all’auto di proprietà individuale per sostituirlo con sistemi di trasporto collettivo, sia di massa che personalizzato, comunque alimentato da fonti di energia rinnovabile.. L’indicazione per il phase out dei veicoli a benzina e diesel non deve andare oltre il 2030; nel contempo non va incoraggiato l’uso del metano per autotrazione. Di riflesso alla riconversione del settore auto, va segnalato come il ricorso all’elettricità in siderurgia e nei processi industriali dell’indotto, assieme a processi a temperature meno elevate nella manifattura in generale, produca una significativa riduzione della domanda energetica.

1.10 Innescare la transizione energetica: consumo di territorio e rifiuti zero, 100% rinnovabili. L’inversione della tendenza all’aumento di emissioni di climalteranti deve portare entro il 2050 all’azzeramento (previsto dalla COP di Parigi e confermato dal Parlamento europeo, ma non dalla Commissione europea) delle emissioni di CO2 per produrre elettricità, con la chiusura delle centrali a carbone entro il 2025. Questi obiettivi sono totalmente disattesi ovunque. Li disattende anche il Piano nazionale per l’energia e il clima, assunto alla fine del 2018 dal governo italiano: un piano irresponsabile che prevede di mantenere una quota fossile elevata nella produzione di elettricità e che punta sul metano sia a livello territoriale sia nel campo dei trasporti. La riduzione delle emissioni climalteranti deve essere un obiettivo primario perseguito anche in agricoltura e nell’allevamento, di pari passo con lo stop al consumo di suolo e con la chiusura del ciclo di vita dei prodotti (“rifiuti zero”), su cui l’Unione europea deve finalmente emanare la direttiva da tempo in gestazione.

1.11 Organizzare le comunità dell’energia e ripubblicizzare le municipalizzate. Le comunità dell’energia si stanno diffondendo sotto forma di cooperative di produttori/consumatori o direttamente di auto produzione di energia per gestire lo sfasamento tra la richiesta e la produzione locale con tecnologie di efficienza, gestione intelligente dei carichi e cambio di abitudini degli utenti, minimizzando i prelievi dalla rete che ricorre a fonti non rinnovabili. Infatti, la continua riduzione dei prezzi degli impianti e la possibilità di consumare direttamente e contemporaneamente l’energia prodotta (oppure di scambiarla, ma anche accumularla) consente integrazioni di impianti e utenze di grande interesse basate sulle rinnovabili. Occorre abbattere i muri alzati contro la tendenza e integrare questi sistemi nel sistema energetico europeo ed italiano. Anche per questo, contrariamente alla tendenza in corso, sono da rilanciare le aziende energetiche municipali pubbliche, nella prospettiva di diffusione di una democrazia energetica.

1.12 Salvare le grandi foreste pluviali. Le regioni che costituiscono il sistema “respiratorio” del nostro Pianeta sono a rischio di distruzione, così come lo sono i “popoli della foresta” che si oppongono agli interessi dei grandi proprietari terrieri e delle società minerarie, del petrolio, della soia, della frutta e del legname. Agire per la giustizia climatica significa difendere i popoli della foresta dalla violenza, abbracciare la loro attività, rispettarne l’autodeterminazione, contrapporre alla depredazione delle multinazionali e dei governi qualificate attività di cooperazione e conservazione.

1.13 Il clima come cardine di tutte le lotte di giustizia sociale e ambientale. La priorità e l’urgenza della lotta contro i cambiamenti climatici e di una conversione ecologica che riporti produzione e consumo entro i limiti della sostenibilità, fanno sì che tutte le questioni messe all’ordine del giorno dai conflitti sociali e dalla politica – lavoro, reddito, alloggio, salute, istruzione, sicurezza, politiche di migrazione, sviluppo della persona – debbano essere viste in dialogo con quell’obiettivo primario, arricchendolo di articolazioni e al contempo trovando in esso la loro destinazione. É un principio di valenza costituzionale, come emerge anche da una proposta di integrazione della costituzione tedesca avanzata fin dal 2006 in base alla quale “Lo Stato deve osservare il principio di sostenibilità nelle sue azioni e proteggere gli interessi delle generazioni”. Questa consapevolezza sembra emergere anche dal Fridays for future, il movimento messo in moto dalla protesta di Greta Thunberg.

 

2. DEPREDAZIONE AMBIENTALE

2.1 Il disastro come dimensione politica del nostro tempo e come terreno della battaglia per i diritti. É con la sofferenza e il disordine imposto dalle attuali emergenze che si devono misurare le crisi prodotte dalle politiche che determinano mutamenti climatici, inquinamento, guerre, conflitti, furto di terra e di acqua, estrattivismo, disseminazione di discariche tossiche, migrazioni. La vita umana sul pianeta è messa in discussione da poteri globali che ne traggono vantaggio, con depredazioni sistematiche di suolo e risorse idriche, privatizzazioni dei beni comuni, liberalizzazioni del commercio di materie prime, trattati economici iniqui e politiche di “risanamento del debito”. É in questa cornice che vanno ristabiliti i diritti delle comunità e dei singoli.

2.2 Fermare il land grabbing, paradigma dell’esproprio. Tra le cause principali della riduzione in miseria delle comunità rurali e dei popoli della foresta c’è l’accaparramento dei terreni agricoli e boschivi a vantaggio sia di grandi società transnazionali o multinazionali e singoli grandi imprenditori, sia di Stati del Nord del mondo e di paesi emergenti come Cina e India. Negli ultimi 18 anni, è passato di mano per cifre irrisorie – d’intesa con i governi locali e grazie a paradisi fiscali e piattaforme finanziarie off-shore – un territorio pari a otto volte la superficie dell’Italia, adibito principalmente a colture alimentari intensive e a produzioni di agrocarburanti, o ad aree industriali, soprattutto estrattive, e turistiche. Occorre fermare un modello di produzione e consumo che devasta le comunità locali creando le condizioni di emigrazioni inarrestabili e di lavoro in schiavitù, all’unico scopo di ottenere profitti e assicurare continuità agli stili di vita dei paesi ricchi ed emergenti. Occorre portare in giudizio i grandi poteri nazionali e globali, sostenere le lotte delle comunità locali, restituire le terre alle comunità espropriate, agire sul piano comunicativo ed educativo per rendere tutti consapevoli degli impatti dei nostri stili di vita.

2.3 Fermare il water grabbing e le guerre per l’acqua. Il land grabbing ha tra le sue conseguenze anche il water grabbing. Più in generale, il modello della monocoltura imposto ai popoli africani, latinoamericani e asiatici è basato su enormi consumi d’acqua predata in loco agli acquiferi, che spesso viaggia verso i paesi ricchi incorporata nei prodotti agricoli alimentari, nella carne degli allevamenti e negli agrocombustibili. Enormi dighe costruite da multinazionali, spacciate per sviluppo sostenibile e finanziate dalla Banca Mondiale, bloccano i fiumi di 14 Stati africani e prosciugano laghi per produrre energia e dare acqua a gigantesche aziende agricole in mano a imprese cinesi, arabe e occidentali. I popoli che vivono a valle delle dighe sono spesso costretti a fuggire nel nome di un presunto interesse nazionale che li priva di terre, case ed economie di sussistenza tradizionali. Una situazione potenzialmente esplosiva: già un rapporto del Pentagono del 2004 prevedeva che nell’arco di vent’anni l’accesso all’acqua sarebbe diventato un motivo primario di conflitti, e che molti dei principali bacini idrici sarebbero diventati luoghi ad alto rischio di guerra.

2.4 Impedire la scomparsa del contadino africano. L’Africa ha oggi un miliardo e duecento milioni di abitanti. Età media 18 anni. Nel 2050 saranno 3,5 miliardi. Il 60% della popolazione è impegnato nell’agricoltura, per quasi metà di sussistenza e di villaggio. L’accaparramento di terra e acqua a favore di imprese che non danno lavoro e la costruzione di enormi infrastrutture determinano il rapido svuotamento delle campagne e l’inurbamento di milioni di persone negli slum delle megalopoli: la fine del contadino africano. Lo sfratto dei popoli indigeni dalle loro terre tradizionali – spesso catalogate come “sottoutilizzate” o, nel caso di popoli nomadi, “non occupate” – comporta la perdita dei mezzi di sostentamento, compromette i legami sociali e culturali con il territorio, mette a repentaglio l’esistenza dei singoli e delle comunità, provoca masse di sfollati e tensioni sociali e politiche sempre a rischio di sfociare in guerre locali.

2.5 Fermare il circolo vizioso degli accordi di libero scambio (EPA). Gli accordi di libero scambio (Economic Partnership Agreements) che l’Unione europea, in nome della libertà di mercato, ha imposto ad Africa, Caraibi e Pacifico (ACP) – così come gli analoghi DCFTA (Deep and Comprehensive Free Trade Area) che sta imponendo ai paesi del Maghreb e del Mashrek – impediscono agli africani e agli altri popoli di difendere i loro prodotti con i dazi doganali, mentre l’UE può sostenere, con enormi sovvenzioni, le multinazionali che producono cibo, cotone e altre merci. In questo modo i prodotti europei riescono a invadere l’Africa, con pesanti conseguenze: i contadini locali diventano disoccupati, le multinazionali rilevano i terreni non più coltivati con il land grabbing e vi impiantano monoculture finalizzate all’esportazione, provocando crisi economiche e aumento dell’emigrazione. Nel rapporto 2015, CONCORD – la Confederazione europea delle Ong per l’emergenza e lo sviluppo – affermava: «L’Unione europea, la più grande zona economica nel mondo, sta cercando di ottenere sproporzionati vantaggi commerciali da una delle regioni più povere del mondo».

2.6 L’Agricoltura 4.0 compromette i diritti umani, sociali e della natura. Le multinazionali occidentali e cinesi stanno esportando in Africa e in altri paesi del Sud del mondo un modello agricolo ipertecnologico, la cosiddetta Agricoltura 4.0, con aziende agricole computerizzate, fornite di droni, GPS, tecnologie satellitari e digitali che impongono un’accelerazione impensabile allo smantellamento delle comunità rurali, molto più devastante rispetto ai tempi occorsi in Europa per produrre l’inurbamento di massa e il disastro ambientale che ne è conseguito. Solo la ricostituzione della piccola azienda familiare o comunitaria può provvedere alla rigenerazione e alla ricostituzione della fertilità dei suoli.

2.7 Bloccare il capitalismo estrattivo e le grandi opere inutili. I popoli vengono depredati di terra e acqua da un estrattivismo dissennato di petrolio, gas, gas di shisto e minerali strategici come il coltan. Incessante è la ricerca e l’estrazione delle “terre rare” e dei minerali preziosi per la sempre più ampia diffusione dell’elettronica di consumo, per il profitto delle colossali multinazionali del settore e a danno di popolazioni e territori. Scavi, trivellazioni, dighe, costruzioni di infrastrutture, ferrovie e ponti sono per lo più attività devastanti, in particolare per culture e popolazioni che vivono di allevamento e agricoltura di sussistenza. In ogni continente, il capitalismo estrattivo ha devastato e degradato vaste aree di territorio, inquinato fonti d’acqua, intensificato il collasso climatico, decimato la fauna selvatica, le specie acquatiche e i sistemi viventi. Si deve ridurre il fabbisogno di nuove risorse attraverso riduzioni della domanda, incentivi alle fonti rinnovabili e il disinvestimento nell’esplorazione e nell’estrazione di combustibili fossili.

2.8 Trasparenza e certificazione obbligatoria per i prodotti estrattivi. In molti paesi bande armate e signori della guerra costringono le popolazioni locali a lavorare nelle miniere in condizioni di schiavitù, insicurezza ed esposizione a sostanze tossiche, spesso utilizzando bambini. Occorre promuovere il boicottaggio dei prodotti di cui è chiara l’origine da processi o contesti devastanti, esigendo che i governi di quei paesi fermino l’attività estrattiva da giacimenti non controllati e mettano in sicurezza o chiudano le infrastrutture esistenti; che le grandi aziende del settore garantiscano ai consumatori trasparenza e responsabilità nell’estrazione e lavorazione delle materie prime introducendo nei commerci internazionali clausole di sostenibilità ambientali e sociali con sistemi di certificazione obbligatoria; che gli Stati di residenza fiscale delle grandi multinazionali varino norme congiunte per obbligare le aziende alla trasparenza. Occorre ridurre la richiesta di molti materiali attraverso campagne globali di sensibilizzazione sul consumo di oggetti prodotti in condizione di schiavitù, violazione dei diritti umani e devastazione dell’ecosistema. Appoggiamo la campagna europea sui minerali del conflitto e i lavori del Forum sociale di Johannesburg sull’estrattivismo.

2.9 Rifondare la cooperazione allo sviluppo. L’Africa è il continente più ricco del mondo, ma anche il più misero; è stata derubata storicamente delle sue risorse umane, con lo schiavismo e il colonialismo, e viene derubata oggi con la cosiddetta cooperazione allo sviluppo. Il ritorno dei fondi investiti in questo campo è di 1 a 10 in media. Le politiche di cooperazione (una volta dette “aiuti”) fanno solo l’interesse del più forte. Raramente c’è trasparenza nei bandi, e l’approccio non premia la difesa della dignità dei lavoratori ma i grandi progetti, le burocrazie e le istituzioni, sia del donatore che del beneficiario. Si gonfiano interventi che non rispondono ai bisogni delle popolazioni locali e non costruiscono convivenza. Popoli indigeni e culture sono stati cancellati da opere finanziate dalla Banca Mondiale. La cooperazione va rifondata con comunità e attori locali, su un piano di parità tra i partner e di trasparenza su obiettivi, metodi e implementazione.

2.10 Difendere i difensori della Terra. Gran parte delle fonti energetiche fossili si trovano in terre delicatissime dal punto di vista ecologico o abitate da comunità indigene o contadine che scontano il costo sociale e ambientale del climate change e le ricadute devastanti della frontiera estrattiva. Tra i difensori e le difensore della terra, dell’acqua e delle foreste uccisi o minacciati, la maggioranza è rappresentata da chi si oppone alle grandi infrastrutture, all’avanzata dell’agribusiness, all’estrazione di petrolio e affini e ai traffici abusivi di rifiuti tossici. Blockadia, nella definizione di Naomi Klein, è l’entità globale – dal Salento all’Amazzonia, dall’Honduras alle foreste canadesi – i cui cittadini sono gli attivisti che mettono il proprio corpo a difesa del clima e della Terra. Il circolo vizioso tra estrattivismo, occultamento di sostanze tossiche e climate change crea nuove geografie di repressione e contrazione degli spazi di agibilità democratica. Per questo è essenziale provvedere strumenti di protezione per chi difende la Casa comune. La Conferenza di Parigi delle Parti ONU ha affermato che i cambiamenti climatici generano effetti devastanti sul godimento dei diritti umani fondamentali e che ogni politica climatica deve essere centrata su un approccio fondato sui diritti umani, sulla valorizzazione dell’esperienza delle donne, sulla lotta alla povertà, i diritti dei popoli indigeni, la partecipazione pubblica, l’eguaglianza di genere, la giustizia climatica e intergenerazionale. La difesa di questi diritti non deve essere intaccata dalla cessione della sovranità popolare a tribunali arbitrali presso i quali Stati e Governi possono venir chiamati in giudizio da imprese o gruppi privati tutte le volte che la legislazione ostacola il perseguimento dei loro interessi, così come previsto dall’accordo Ceta, imposto dalla Commissione europea contro il volere popolare, e dall’accordo Ttip, in gestazione da alcuni anni con clausole segrete che violano i principi più elementari della democrazia.

 

3. MIGRANTI E PROFUGHI

3.1 DIRITTO DI MIGRARE. Migrare è un diritto universale. Spostarsi e incontrare altre comunità e culture è stata la principale molla che ha fatto progredire, insieme alla civiltà, le basi della convivenza. Nel corso degli ultimi decenni, le migrazioni hanno sempre più le caratteristiche di una fuga forzata, provocata da guerre, povertà estrema, carestie, catastrofi climatiche o ambientali. Chi cerca una via di salvezza deve poter godere di accoglienza e possibilità di inserimento attraverso un equo sistema comune di asilo a livello europeo che abbia a cardine il principio di non respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra.

3.2 La migrazione come progetto politico. I migranti, abbandonando i loro paesi, non si limitano a “perdere” qualcosa; praticano, anche, una scelta forte di rottura con il proprio mondo e investono nell’esperienza migratoria per costruire e ricostruire competenze personali e collettive, forza sociale, reti di solidarietà e di condivisione. Migrare è un atto di riappropriazione dell’esistenza che può avere, e spesso ha nei fatti, un significato “politico” ben visibile nei paesi di origine.

3.3 Imparare da migranti e profughi. Le vicende esistenziali di profughi e migranti forzati molto spesso riassumono tutto l’arco delle sofferenze che attanagliano la vita umana sulla Terra: miseria, disastri sociali e ambientali, conflitti, pericoli mortali, violenze patite nei paesi di origine e lungo il cammino – muri, steccati, guardie, prigioni, stupri, torture, abbandono, riduzione in schiavitù – poi il viaggio per mare, spesso il naufragio, la morte dei propri cari o dei compagni, e infine, giunti alla meta, la segregazione che accompagna la cosiddetta accoglienza nei paesi di transito e di arrivo. I migranti sono la parte più misera e derelitta dell’umanità, ma anche quella costretta a conoscerla meglio. Una conoscenza umana e politica che possono trasmetterci dal vivo, insieme alla volontà e a una forte motivazione per cercare di cambiare le cose.

3.4 Contro l’esternalizzazione delle frontiere. Nel tentativo di impedire l’ingresso di migranti e profughi nel territorio dell’UE, la Commissione europea e gli Stati membri hanno stretto accordi con paesi terzi, come la Turchia, il Sudan e il Niger, perché impiantassero campi di prigionia al di là del Mediterraneo dove trattenere con la forza uomini, donne e minori in cambio di vantaggi economici e politici. Questi accordi, a cominciare da quello tra Ue e Turchia, vanno tutti revocati. Così come va revocato ogni accordo con le autorità libiche, di cui l’Unione – con l’Italia in prima fila – addestra ed equipaggia la sedicente guardia costiera, affinché i naufraghi raccolti in mare siano riportati nei campi di prigionia la cui realtà di tortura, schiavismo, stupro e messa a morte è conclamata da numerosi rapporti di autorità internazionali.

3.5 Aprire i porti. Nel tentativo di impedire l’ingresso di migranti e profughi nel territorio dell’UE, la Commissione europea e gli Stati membri hanno predisposto misure di deterrenza che si stanno rivelando omicide. Da un lato il soccorso in mare è stato progressivamente dismesso in nome della lotta al traffico di esseri umani e di una politica dissuasiva delle partenze, che vedeva le operazioni di ricerca e soccorso come un fattore di attrazione (pull factor); dall’altro, si è fatto in modo di impedire il lavoro umanitario delle ong e si sono tollerate le politiche di “chiusura dei porti” da parte degli Stati mediterranei, a cominciare dall’Italia e da Malta. Nessuno Stato membro deve poter derogare dai principi universali del soccorso, e l’Unione deve mettere in pratica la vocazione di solidarietà dalla quale è nata, con un’equa e reale distribuzione dei naufraghi tra Stati membri.

3.6 Istituire una missione europea di ricerca e soccorso nel Mediterraneo in collaborazione con le Ong. Fino a quando i viaggi per mare non saranno resi inutili dall’introduzione di norme che tutelino il diritto di migrare, occorre coordinare una solida missione europea di ricerca e soccorso (SAR) in collaborazione con le Ong umanitarie, che veda una redistribuzione dei migranti secondo la destinazione di elezione per il ricongiungimento con familiari e riferimenti sociali, la competenza linguistica e le possibilità di lavoro e inserimento.

3.7 Predisporre canali di ingresso sicuri e legali in Europa. I cittadini europei non possono essere portati a pensare che sofferenza, abuso e morte siano una possibilità scontata per chi vuole entrare in Europa, né i governi possono essere indifferenti, quando non complici, davanti al ripetersi di stragi in mare ed esecuzioni, tortura e schiavismo nei lager libici. Il solo modo per mettere fine a innumerevoli e inaccettabili morti è rendere superfluo il traffico di esseri umani con politiche che garantiscano una migrazione sicura: canali d’ingresso legali in Europa; meccanismi di redistribuzione dei migranti negli Stati membri; superamento del Regolamento di Dublino, in particolare per quel che riguarda il primo paese di arrivo; possibilità di liberi viaggi di andata e ritorno tra paese di origine e paese di accoglienza.

3.8 Evacuare i campi di detenzione in Libia. Molti centri di detenzione per i migranti in Libia, riconosciuti luoghi di tortura, violenza e messa a morte, si trovano ora in zone teatro di scontri continui tra fazioni in guerra. Si tratta di persone in condizione di grande vulnerabilità e pericolo, fuggite da conflitti o persecuzioni nei propri Paesi solo per ritrovarsi intrappolate in nuovi conflitti e violenze. La comunità internazionale, a cominciare dal governo italiano, deve adoperarsi perché tutte le parti coinvolte nel conflitto accettino di sottostare agli obblighi derivanti dal diritto internazionale, deve mettere in atto ogni misura perché migranti e profughi siano evacuati in luoghi sicuri, e istituire corridoi umanitari per evacuare i più vulnerabili fuori dal Paese. Le condizioni attuali in Libia continuano a evidenziare che il Paese rappresenta un luogo pericoloso per rifugiati e migranti e che quanti fra essi sono soccorsi e intercettati in mare non devono esservi ricondotti. L’UNHCR ha chiesto ripetutamente che si metta fine alla detenzione di rifugiati e migranti.

3.9 Introdurre la figura giuridica del rifugiato ambientale. Il rapporto di causa-effetto tra degrado ambientale e spostamenti di popolazioni è sempre più stretto. Secondo uno studio della Banca Mondiale, entro il 2050 l’esodo di chi sarà costretto ad abbandonare il proprio territorio per motivi ambientali coinvolgerà 143 milioni di persone, assai di più che non per i conflitti. Riscaldamento globale, depauperazione o avvelenamento dei territori e delle riserve idriche, calamità naturali e il venir meno dell’abitabilità di interi territori innescano guerre e conflitti per l’accaparramento delle risorse e producono la fuga di milioni di persone. Questa evidenza rende insostenibile la distinzione tra migranti economici e profughi di guerra, introdotta dall’Unione europea con il cosiddetto “approccio hotspot” allo scopo di limitare il riconoscimento del diritto d’asilo e giustificare il respingimento della maggior parte dei migranti forzati.

3.10 Monitorare la legittimità dei rimpatri. La Commissione europea e le sue agenzie – prima fra tutte Frontex, recentemente denominata Agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera – hanno attuato politiche e operazioni di rimpatrio condotte a livello di Stati membri in violazione dei principi costituzionali di quegli stessi Stati, la cui sovranità è stata violata. In osservanza delle indicazioni dell’Agenda europea sulla migrazione, implementate in Italia dai governi che si sono succeduti dal 2015 a oggi, sono stati stretti memorandum d’intesa tra corpi di Polizia, saltando il dovuto passaggio parlamentare. In nessun caso una persona può essere costretta a tornare in un paese insicuro, come dice il diritto internazionale, e sicuramente non sono sicuri la Libia, l’Egitto e altri paesi dove l’Italia effettua rimpatri. Le operazioni di rimpatrio devono essere condotte in presenza di osservatori indipendenti di ong e società civile.

3.11 Combattere l’uso mediatico e politico della retorica dell’“invasione”. I migranti che giungono in Europa non sono che una minima parte dei tanti uomini e donne costretti ad abbandonare le proprie terre e divenire rifugiati in regioni e paesi limitrofi. A fronte di un numero di arrivi in Europa percentualmente irrilevante, è necessario smontare la costruzione di un’emergenza epocale, la cui minaccia procura da anni un dividendo elettorale a chi la promuove. A tale costruzione, in particolare per quel che riguarda Italia, Grecia e Balcani, ha contribuito la Commissione europea tramite l’Agenzia europea di controllo delle frontiere Frontex, un organo che non è espressione del Parlamento europeo, né è soggetto al suo controllo, e che dunque non può avere un ruolo di indirizzo delle politiche migratorie dell’UE.

3.12 Salvaguardare cittadini solidali, associazioni della società civile ed esperienze di accoglienza diffusa. L’impegno per l’accoglienza coinvolge un vasto schieramento sociale impegnato in iniziative di solidarietà: attivisti e Ong ai confini di mare e di terra, nelle strutture e nei progetti di accoglienza, nelle mobilitazioni contro le politiche securitarie e razziste, nella comunicazione, nell’assistenza legale, in progetti di cooperazione transnazionale. Attivisti e organizzazioni che spesso operano in ordine sparso: occorre invece che si incontrino evolvendo in un movimento unitario, che elaborino programmi comuni a partire dalle proprie specifiche esperienze, che abbiano voce forte e aiutino i migranti a far sentire la loro. Per questo sono importanti politiche europee di sostegno alla libertà e agibilità della società civile. Tra queste, l’abolizione del reato di favoreggiamento dell’ingresso clandestino in assenza di lucro e la tutela del Mediatore europeo. Altrettanto importante è che l’UE valorizzi e sostenga le comunità e i comuni che praticano l’accoglienza e che (come nel caso di Riace) vengono perseguitati, con il risultato di condurre al fallimento politiche improntate all’umanità, alla cooperazione e al benessere di tutti.

 

4. CITTADINANZA, ACCOGLIENZA E POLITICHE PER IL RITORNO

4.1 Tutela delle persone vulnerabili. Gran parte delle persone colpite da politiche e misure di esclusione, condannate alla “clandestinità”, vengono inevitabilmente in contatto con varie forme di illegalità o criminalità (le donne e i minori, in particolare, con il mercato della prostituzione). Per questo le strutture dell’accoglienza – che non può mai essere intesa come segregazione e limitazione della libertà personale – devono consentire reali percorsi di inserimento e vanno intese nell’ambito delle istituzioni preposte alla tutela di tutte le persone vulnerabili. Generalmente le vittime di tratta, avviate alla prostituzione con violenze e stupri ripetuti, non trovano ostacoli all’immigrazione, che viene fatta pagare con l’estorsione e il ricatto alle famiglie di origine. É necessario che l’Unione contrasti questo mercato all’origine eliminando la sovrapposizione politica fra tratta e traffico di esseri umani.

4.2 Inclusione come democrazia e argine alla “guerra tra poveri”. Migranti e rifugiati, fatti oggetto di politiche di segregazione sociale e lavorativa, rischiano di essere percepiti – soprattutto dalle fasce di popolazione meno garantita – come un costo sociale, una potenziale minaccia alla sicurezza, un’indebita concorrenza sul lavoro e nell’accesso a un welfare sempre più ridotto. Se da un lato l’invisibilità giuridica rende disponibile una manodopera illimitata da sfruttare in condizioni estreme, in balia di organizzazioni criminali a cui fano capo intere filiere della trasformazione e della distribuizione, anche le strutture preposte all’accoglienza possono finire con il costituire un fattore di segregazione e di stigmatizzazione. Per questo è necessario predisporre strutture di accoglienza disseminate sul territorio secondo il positivo modello Sprar, e promuovere una piena inclusione sociale, giuridica, lavorativa, educativa e sanitaria di migranti e rifugiati, che dia accesso ai diritti di cittadinanza.

4.3 Ius soli e ius culturae per le seconde generazioni. In Italia sono oltre un milione i ragazzi e le ragazze al di sotto dei diciotto anni d’età, nati e cresciuti in Italia, formati nelle scuole italiane, parlanti italiano, che continuano a essere considerati “stranieri” dallo Stato italiano. Quasi fossero eternamente migranti, la loro permanenza nel paese è soggetta ai dettami del testo Unico sulle Migrazioni. Le norme vigenti in Italia sono tra le più restrittive in Europa. Deve essere riconosciuta la cittadinanza a chi nasce in Italia, e per cultura a chi, giunto prima dei dodici anni di età, abbia frequentato in Italia uno o più cicli scolastici. L’applicazione dello ius soli e dello ius culturae dovrebbe diventare materia di diritto dell’Unione e oggetto di armonizzazione tra gli Stati membri. Il diritto di cittadinanza per nascita è la base per l’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini: non una concessione o un premio, ma il riconoscimento di un’appartenenza che in nessun caso può essere revocata per legge.

4.4 Diritto di voto e di eleggibilità per gli stranieri residenti. Il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni amministrative per lo straniero regolarmente residente da almeno cinque anni, ratificato nel Capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 1992, non trova diretta applicazione nell’ordinamento italiano a causa della sua mancata ratifica. Il diritto alla partecipazione politica consentirebbe un maggior coinvolgimento nelle dinamiche democratiche del paese e dovrebbe essere garantito in ogni Stato membro, diventando materia di armonizzazione.

4.5 Libera circolazione nell’UE e divieto di restrizione della libertà personale. Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti, così come chiede la Carta di Lampedusa, cui facciamo riferimento. Per questo vanno chiusi tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, nelle loro variabili denominazioni, che configurano una forma di detenzione fuori dal diritto interno e internazionale, e per questo la circolazione entro lo spazio Schengen deve essere libera per tutti.

4.6 Cittadinanza europea di residenza. Occorre promuovere un concetto di cittadinanza non legato alle sole circostanze di nascita o vincolo territoriale, ma all’esercizio di prevalenti interessi esistenziali e familiari, tramite la possibilità di una cittadinanza europea di residenza o di cittadinanze plurime, fondate sia sui legami di origine sia sulla dimensione transnazionale dell’esistenza. L’obiettivo è il riconoscimento della facoltà di ciascuno di esercitare i diritti e i doveri fondamentali della persona in qualunque luogo (ius dignitatis humanae). La subordinazione della cittadinanza europea al possesso della cittadinanza nazionale comporta l’esclusione dei cittadini non comunitari legalmente residenti negli Stati membri e dei loro familiari dal godimento di alcuni diritti.

4.7 Lavoro come fattore di inclusione. Lavoro come fattore di inclusione. Per includere ci vogliono empatia e progettualità, ma anche casa, lavoro, scuola, assistenza sanitaria, tutele giuridiche, diritto di organizzarsi. Il fattore più importante è il lavoro regolare, che dà reddito, indipendenza, possibilità di avere casa, famiglia e rapporti con i compagni di lavoro e i vicini di casa, da cui imparare lingua e abitudini e a cui trasmettere, se lo vogliono, la propria cultura: canto musica, racconti, immagini, miti e poesia. L’immigrazione, se inquadrata in una nuova politica economica, può portare ad aumentare le possibilità produttive, le occasioni culturali, la ricchezza di relazioni e, quindi, le opportunità di occupazione.

4.8 Cooperazione internazionale con le comunità locali e i migranti. Occorre vigilare che i fondi per la cooperazione internazionale e gli aiuti umanitari non vengano usati per scopi non accettabili, come l’esternalizzazione delle frontiere, e che siano invece usati a reale beneficio delle comunità locali, secondo una pianificazione condivisa con le popolazioni stesse. Lo slogan “aiutiamoli a casa loro” o la richiesta di “un piano Marshall per l’Africa” sono enunciati ipocriti, in assenza di indicazioni e controlli su chi dovrebbe avviare la rigenerazione del suolo, dell’ambiente e della convivenza nei paesi di provenienza di migranti e rifugiati. Certamente a garantire il buon uso degli aiuti non possono essere i governi o le imprese che, con le loro speculazioni, hanno costretto migliaia di uomini e donne alla fuga.

4.9 Sostegno delle comunità diasporiche nel paese di arrivo. Migranti e richiedenti asilo devono potersi organizzare anche come comunità nazionali o regionali delle rispettive diaspore: non solo per la difesa delle proprie condizioni di vita e lavoro, ma anche per contrastare le politiche predatorie e guerrafondaie condotte a danno dei rispettivi paesi di origine; e anche di venir dotati dei mezzi necessari a promuovere e contribuire alla rigenerazione del suolo e dell’ambiente nei territori del loro reinsediamento. I migranti organizzati, con forti legami con le comunità di origine, devono essere messi in condizione, se lo desiderano, di progettare percorsi volontari e non forzati di ritorno. Se accolti in spirito di fratellanza e sorellanza, la presenza in Europa di tanti migranti può rafforzare i rapporti diretti, sociali, culturali ed economici tra le comunità ospitanti e quelle di origine.

4.10 Conversione ecologica come terreno di incontro tra migranti e nativi. I posti di lavoro necessari ad accogliere in Europa milioni di migranti sono il complemento indispensabile di politiche di conversione ecologica che vedano occupati allo stesso modo, con pari dignità e diritti, migranti e disoccupati nativi, a tutti i livelli di competenza e specializzazione, dalla manovalanza alla progettazione. I finanziamenti europei dei progetti che rispondono ai programmi e ai requisiti della conversione ecologica dovrebbero essere garantiti in ragione del numero dei migranti assunti. In questo modo si aprirebbe una competizione tra Stati, città e regioni per accogliere i nuovi arrivati, invece che per respingerli.

4.11 Agire con i migranti per la conversione ecologica nei paesi di provenienza. A pagare i costi della devastazione della Terra sono soprattutto i più poveri, che non hanno strumenti per difendersi da siccità, alluvioni, eventi catastrofici. Anziché muovere ai migranti una guerra crudele e insensata, occorre che l’Unione europea si faccia promotrice di politiche di vasto respiro che arrestino e, dove possibile, invertano la deriva causata dai mutamenti climatici, collaborando con i migranti residenti nel proprio territorio che mantengono rapporti stretti con le comunità di origine: gli unici soggetti in grado di imporre una svolta positiva alle condizioni politiche, sociali e ambientali dei rispettivi paesi di origine.

4.12 Un’area mediterranea di cooperazione energetica. I rapporti di sfruttamento dei Paesi europei – Francia e Regno Unito in testa – nei confronti delle popolazioni del Maghreb e dell’Africa subsahariana hanno rotto l’unità della regione mediterranea, la sua identità costruita in millenni di ibridazioni e di meticciato, facendola diventare una periferia dell’Europa, una frontiera, un cimitero di migranti e un luogo di scambi ineguali. La decarbonizzazione potrebbe avere implicazioni di grande valenza sull’area mediterranea. L’approvvigionamento energetico distribuito e la cultura cooperativa possono promuovere la convivenza dei popoli che si affacciano sul Mare Nostrum, favorendo lo sviluppo di legami culturali più aperti e un’autentica integrazione tra l’una e l’altra sponda. Si faciliterebbero in tal modo scambi di esperienze, integrazioni di standard e un trasferimento di tecnologie e ricerca applicata all’industria e all’agricoltura, rendendo più permeabile anche la linea di demarcazione tra Nord e Sud d’Europa. L’Europa per prima ne trarrebbe beneficio, optando per un’autonomia energetica fondata su sole, vento e acqua anziché su petrolio gas e carbone. Una strategia che è esattamente l’opposto di quanto capitali tedeschi e francesi stanno progettando per la costruzione di megacentrali a concentrazione solare sul Sahara la cui energia verrebbe trasportata e consumata attraverso cavi sottomarini in Europa.

 

5. POVERTÀ ED ECONOMIA DELLO SCARTO

5.1 Giustizia sociale e giustizia ambientale: due facce della stessa medaglia. Non ci sono due crisi, una ambientale e una sociale, ma una sola e complessa crisi socio-ambientale interamente legata a un modello di sviluppo connesso a un’economia lineare che sfrutta le risorse in una visione di brevissimo termine, finalizzata alla massimizzazione del profitto; una visione produttivistica e consumistica, che accetta come conseguenza inevitabile la produzione di scarti. Occorre allora guardare «la stretta relazione fra povertà, fragilità sociali e fragilità del pianeta, da cui discende che giustizia sociale e giustizia ambientale sono due facce della stessa medaglia», e fare degli scartati della Terra dei punti di ascolto, di scambio, di cambiamento, di cura, di relazioni, di umanità.

5.2 Lo scarto come paradigma delle diseguaglianze. «La cultura dello scarto colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura», scrive papa Francesco. Non diversamente dal sistema industriale, che alla fine del ciclo di produzione e consumo non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti, residui e scorie, il sistema sociale tende a vedere le persone non (più) produttive – a causa di disagio psichico o fisico, malate, anziane, povere, disoccupate, marginali – come oggetti inutili e ingombranti. Lo scandalo delle discariche fisiche e umane disseminate sul pianeta è la rappresentazione più chiara delle conseguenze dell’attuale sistema economico. Contro di esse deve svilupparsi un’azione politica, ecologica e di solidarietà umana.

5.3 Destinazione universale dei beni della Terra. «Non può un gruppetto di individui controllare le risorse di mezzo mondo. Non possono persone e popoli interi aver diritto a raccogliere solo le briciole». La povertà non è un destino ma il frutto di diseguaglianze crescenti prodotte dal sistema economico e finanziario dominante. La privazione cui sono soggetti poveri ed emarginati – primi tra questi i migranti – riguarda, oltre all’evidente aspetto economico, il rapporto di godimento dell’ambiente come casa comune. «Non sono più sostenibili le inaccettabili disuguaglianze economiche che impediscono di mettere in pratica il principio della destinazione universale dei beni della Terra. Siamo tutti chiamati a intraprendere processi di condivisione rispettosa, responsabile e ispirata ai dettami della giustizia distributiva», scrive papa Francesco.

5.4 Contro la criminalizzazione dei poveri. Chi non ha più nulla, neppure le risorse psicofisiche per tentare qualche forma di resistenza individuale, viene ormai considerato un problema di ordine pubblico e decoro, di cui disporre l’allontanamento dai centri urbani. Assistiamo al radicarsi di un razzismo sociale e istituzionale messo in atto contro una categoria di esseri umani considerati colpevoli – per immoralità e destino – del proprio naufragio, quasi si trattasse di uno stigma genetico. É necessario promuovere politiche di sostegno e rispetto per chi si trova in condizione di sofferenza e di emarginazione, considerando il povero come segnale estremo della crisi complessiva di un sistema sociale che va risanato.

5.5 L’accentramento della ricchezza è un crimine. Dal 2015, l’1% più ricco della popolazione mondiale possiede più del restante 99%. Attualmente vi sono nel mondo più di duemila miliardari. La loro ricchezza ha registrato un incremento pari a 7 volte l’ammontare delle risorse necessarie per far uscire dallo stato di povertà estrema 800 milioni di persone. Un simile accentramento di risorse e ricchezza rappresenta la condanna di intere popolazioni del pianeta e non può che essere considerato un crimine. Si sta distruggendo in questo modo anche la classe media lavoratrice dei paesi cosiddetti sviluppati, che è stata la spina dorsale degli avanzamenti sociali negli ultimi secoli, rigettando nella povertà altri milioni di persone. É necessaria una tassazione dei patrimoni accompagnata a una politica di equa redistribuzione e welfare. L’elusione e l’evasione fiscale sono forme di fuga e deresponsabilizzazione di fronte agli obblighi nei confronti della collettività e devono essere perseguite.

5.6 Ripristinare il welfare. La costruzione di un sistema di sicurezza sociale in Italia è stato il risultato di un percorso politico-sociale che ha consolidato la convergenza tra l’acquisizione di elaborazioni teoriche, azioni politiche e lotte sociali. I risultati straordinari ottenuti con l’attività legislativa orientata all’attuazione del dettato costituzionale sul versante della previdenza, della tutela e integrazione delle persone disabili, del diritto al lavoro e alla maternità, e in generale dei diritti sociali come fondamento della cittadinanza, sono ora messi in discussione. Occorre revocare un percorso regressivo verso forme brutali di diseguaglianza reso possibile non per motivi economici, come asserito, ma per motivi politico-ideologici.

5.7 Contrastare il neoschiavismo. A livello globale, 40,3 milioni di persone sono costrette al lavoro forzato: più che in qualsiasi altro periodo storico. Donne e ragazzi rappresentano il 71% della moderna schiavitù, i bambini il 25%. Un mercato che genera 150 miliardi di dollari all’anno di profitti, più di un terzo dei quali nei paesi sviluppati, compresi quelli dell’Unione europea. Nei ghetti italiani del caporalato, braccianti nativi e migranti condividono esistenze private della dignità, vivono in condizioni di sottomissione alla criminalità, muoiono di fatica nei campi e di abbandono e di stenti nelle baraccopoli (1.500 decessi accertati in 6 anni in Italia). Esseri umani migranti scompaiono nell’edilizia, morti per incidenti nei cantieri e fatti scomparire da datori di lavoro per evitare guai con la legge. Ma fantasmi sono anche i lavoratori a cottimo, i rider, le assistenti familiari (“badanti”) non in regola e tutte quelle persone invisibili al diritto, esposte a incidenti e precarietà, per le quali vanno previste tutele legali, sindacali e assicurative, oltre a un salario degno, come affermato dagli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu.

5.8 Reddito minimo per una vita dignitosa. Occorre introdurre una misura vincolante per tutti gli Stati membri dell’Unione europea che preveda, a livello individuale e come standard minimo, un reddito pari almeno al 60% di quello medio in ciascun paese, come indicato dalla Raccomandazione sul reddito minimo adottata nella Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010.

5.9 Diritto alla casa. Occorre sospendere l’esecutività degli sfratti per “morosità incolpevole” e negoziare soluzioni abitative alternative in modo da evitare la dispersione della famiglia e l’ampliamento delle fasce di popolazione prive di abitazione. Occorre rendere esigibile il diritto a una residenza, quanto meno nominale, per i senza fissa dimora, consentendo loro di fruire delle prestazioni sanitarie e sociali garantite a tutti i cittadini. Occorre mettere a disposizione per finalità sociali il patrimonio immobiliare sfitto, individuando le mediazioni necessarie, senza ledere i diritti dei piccoli proprietari.

5.10 Riutilizzo sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata e ai corrotti. Occorre facilitare e potenziare la destinazione sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata – come previsto dalla Direttiva europea sul congelamento e la confisca dei proventi di reato alla criminalità organizzata approvata dal Parlamento europeo nel 2014 – poiché rappresentano uno strumento di coesione sociale e di welfare. É necessaria la confisca dei beni ai corrotti, sia per un utilizzo che contrasti la povertà e generi risorse da investire nell’innovazione sociale, sia per combattere le mafie e la corruzione, responsabili di aumentare le disuguaglianze e minare la fiducia nelle istituzioni. Va impedito quindi che i beni confiscati vengano rimessi sul mercato sottraendo così una risorsa comune socialmente simbolica e rischiando di riconsegnare i beni alla stessa criminalità.

 

6. CONVERSIONE ECOLOGICA, DEBITO, FINANZA

6.1 Conversione ecologica e produttiva. In mancanza di un radicale cambio di rotta, i cambiamenti climatici diventeranno irreversibili nel giro di uno o due decenni al massimo. La sola risposta a questa minaccia è costituita da una conversione ecologica della produzione, degli stili di vita e del consumo che coinvolga i settori portanti dell’economia: energia, agricoltura, allevamento, alimentazione, edilizia, mobilità, assetto dei territori, gestione delle risorse, ricerca e istruzione. La continuità tra l’essere umano, il vivente e il suolo – fatti tutti della stessa materia – impone di ridurre all’essenziale il consumo di risorse, non per renderci tutti più poveri ma perché la vita di tutti possa essere più ricca di relazioni ed esperienze. Tutto ciò che eccede le necessità di una vita dignitosa è sottratto ad altri esseri, umani e animali, e alle generazioni future: li fa vivere peggio, quando non impedisce o impedirà loro persino di vivere.

6.2 Una nuova cultura ambientale da diffondere. La conversione ecologica è il processo teorico e pratico in cui la Laudato Si’ individua la via obbligata per la salvezza dell’umanità. I suoi contorni sono stati delineati da alcuni teorici dell’ecologia integrale, da molti movimenti popolari con milioni di membri e da diverse culture indigene, oggi rivalutate, cui l’enciclica ha attinto. Le economie possono essere molto diverse da quella neoliberista oggi predominante: economia civile, bioeconomia, economia sociale-solidale, economia di liberazione. Anche l’economia del distretto che è succeduta al fordismo, incapace di far fronte ai grandi flussi planetari di merci, informazioni, finanza, migranti e mutamenti climatici, può trovare nell’ambientalismo una prospettiva percorribile per non soccombere di fronte a una competitività sempre più feroce e senza scopo. Questa pluralità di sguardi e pratiche deve essere considerata una ricchezza da mettere in circolo e potenziare con politiche e finanziamenti.

6.3 Oltre la green economy. Conversione ecologica e green economy non sono la stessa cosa, anche se per alcuni aspetti possono coincidere: quest’ultima risponde a criteri di convenienza economica dentro gli assetti di potere e le diseguaglianze vigenti, mentre la conversione ecologica investe tutti gli ambiti dell’esistenza umana, del vivente e del suolo, riconoscendo a ciascun essere della Terra dei diritti. Il fallimento dei meccanismi di compravendita dei diritti di emissione – contemplati nel Protocollo di Kyoto – sta a testimoniare l’incoerenza e il danno procurato dalla mercificazione delle risorse naturali.

6.4 Necessità del conflitto e della democrazia partecipata. La conversione ecologica si basa sia sul conflitto in difesa dei beni comuni sia sulla partecipazione popolare, senza la quale non è possibile realizzare la svolta radicale necessaria a vincere l’inerzia dei governi del mondo, impermeabili a ogni denuncia dell’imminente catastrofe climatica. Per questo la conversione comporta una democratizzazione profonda della società che, senza delegittimare gli istituti della democrazia rappresentativa, li affianchi con nuove forme di democrazia partecipata, anche e soprattutto nel governo delle imprese – a partire da quelle in crisi – con il coinvolgimento di maestranze, sindacati, management, governi locali, associazioni civiche e ambientali. Al contrario, però, in tutto il mondo lo spazio civico, dove la cittadinanza attiva e la partecipazione possono realizzarsi, si sta restringendo, sotto i colpi di leggi che attaccano il diritto di riunione, manifestazione, organizzazione. Difendere lo spazio civico è una necessità primaria.

6.5 Sostituire l’agricoltura industriale con un’agricoltura di comunità. La conversione ecologica trova un suo modello, seppure per ora in contesti limitati, nel conflitto in corso nel mondo agricolo. Da un lato c’è un’agricoltura industriale fondata su una chimica di origine bellica che distrugge i suoli e avvelena, con fertilizzanti, pesticidi di sintesi e Ogm, acque, ambiente, cibo ed esseri umani che se ne nutrono, e che mette l’alimentazione in mano alla finanza speculativa, generando enormi sprechi in un mondo dove un miliardo di esseri umani soffre la fame. Dall’altro si profila, sempre più solida, un’agricoltura ecologica, multifunzionale, di prossimità, fatta da imprese di piccola taglia che, facendo ampio ricorso ai risultati della ricerca scientifica in campo agronomico, recupera semenze, saperi e culture tradizionali obliterate dall’industrializzazione. Un’attività che spesso si mette in rapporto diretto con l’utenza, che garantisce uno sbocco certo e remunerativo ai suoi prodotti esautorando il mercato, superando la concezione del cibo come merce, innescando un processo di graduale superamento dei ruoli rigidi di produzione e consumo e, talvolta, coinvolgendo i destinatari dei suoi prodotti nel lavoro nei campi. Così una comunità può recuperare un rapporto diretto con la terra, secondo i modelli detti community farming, Community Supported Agricolture (CSA), Distretti di Economia Solidale (DES), Gruppi di acquisto solidale (GAS).

6.6 Espandere l’economia solidale di comunità. Il modello GAS, DES, CSA può essere esteso, con le dovute specificità, in altri ambiti per ora di nicchia: in campo energetico (fonti rinnovabili ed efficienza), nell’ecoedilizia e nel cohousing, nella mobilità condivisa e flessibile, nel recupero delle risorse, nella gestione del territorio in campo educativo e persino – grazie alla tecnologia di fabbricazione personalizzata o di piccola serie introdotta con la stampante in 3D – in alcuni ambiti della produzione manifatturiera: cioè in tutti i settori portanti della conversione ecologica. Certamente questo modello non potrà coprire tutto l’arco dei processi produttivi; le politiche industriali e il commercio a livello nazionale e internazionale continueranno ad avere un ruolo insostituibile, ma dovranno fare perno su comunità che nel rapporto con il territorio, le sue specificità, le sue tradizioni e le sue risorse, possono recuperare una propria ragion d’essere e valorizzare i rapporti diretti, anche faccia a faccia, tra le persone.

6.7 Sostenere la necessaria dialettica tra locale e globale. La conversione ecologica non può che procedere sulle gambe dell’iniziativa e della mobilitazione locale, in un rapporto dialettico – conflittuale e partecipativo – con le istituzioni del governo locale; ma deve essere orientata da visione e prospettiva planetarie, senza le quali rischia di chiudersi in un localismo competitivo che invece di promuovere la solidarietà, mette ogni comunità contro tutte le altre. Ma a motivare iniziativa e mobilitazione non possono essere solo considerazioni di carattere generale; serve l’aderenza a un bisogno di migliorare l’organizzazione della vita quotidiana che sia dettato non solo dagli interessi, ma anche da quel desiderio di libertà, di bellezza, di affetti che la civiltà della competizione universale sta soffocando.

6.8 Sottrarsi al cappio del debito. Progetti e iniziative locali di riconversione possono svilupparsi solo se finanziati con piani di investimento di dimensioni generali che revochino le politiche di austerità che li soffocano, rilancino la spesa pubblica la cui riduzione toglie risorse alla vita associata e allentino i vincoli del debito pubblico, vera arma di distruzione di massa con cui la finanza globale tiene in pugno le politiche pubbliche di tutti gli Stati. Anche la Laudato Si’ afferma l’ineludibilità di questo compito, indicando il potere della finanza mondiale e il suo peso sulla vita di ciascuno come una “religione” che calpesta i diritti del creato, le ragioni del vivente e della natura.

6.9 Avviare un auditing sul debito. In molti paesi sono state avviate indagini per individuare la parte illegittima o odiosa del debito pubblico, premessa ineludibile per ripudiarla e rendere sostenibile la vita economica. Sulla formazione del debito pubblico dell’Italia hanno pesato soprattutto l’evasione fiscale, le controriforme fiscali, gli interessi pagati alla speculazione internazionale e la corruzione, fonte a sua volta di sprechi a spese dell’erario. La lotta per sottrarsi al cappio del debito va sviluppata con la più ampia mobilitazione. Per questo è necessario avviare un auditing a tutti i livelli dell’ordinamento statuale. Sosteniamo in questo senso la proposta di una Conferenza europea sul Debito.

6.10 Contro la predazione della finanza. Occorre contrastare e rimuovere le forme speculative e di rendita che impediscono alla moneta e alla finanza di svolgere il proprio ruolo di mezzo di scambio e di sostegno alle attività economiche e sociali (pubbliche e private) nell’interesse generale. É necessario valorizzare le forme di credito e di risparmio popolare, cooperativo, etico e mutualistico, e restituire alle comunità la titolarità di politiche autonomamente decise, anche con il ricorso a monete locali non convertibili. Occorre inoltre mettere al bando i paradisi fiscali, anche con misure che colpiscano le imprese e i cittadini che vi fanno ricorso; vietare l’intervento delle agenzie di rating sulle scelte politiche e degli Stati e disporre una forte vigilanza sui loro conflitti d’interessi e sulle turbative d’asta (come previsto dalle leggi correnti). Occorre escludere gli operatori borsistici dalle attività che riguardano beni e servizi strategici per la vita delle persone e delle comunità (casa, acqua, energia, alimentazione, salute).

6.11 Fermare le politiche economiche di austerity. Le politiche fiscali restrittive dell’UE, in particolare il Fiscal compact e il Patto di stabilità, devono essere abbandonate perché responsabili dell’aumento della povertà e dell’esclusione sociale in tutta Europa. L’obiettivo del “pareggio strutturale” per i bilanci pubblici deve essere sostituito da una strategia coordinata che permetta agli Stati membri di attuare le politiche fiscali necessarie a garantire i diritti fondamentali.

6.12 Abbandonare il Prodotto interno lordo (PIL) come indicatore dello sviluppo. Il dibattito economico e il confronto politico in Italia e nel mondo continuano a definire e misurare i propri obiettivi in base alla crescita del PIL (Prodotto interno lordo): un indicatore fuorviante, perché misura esclusivamente l’andamento delle vendite e il costo dei servizi pubblici, indipendentemente dai benefici che possono portare alla popolazione, e includendo anche il valore monetario di interventi, produzioni e spese che si traducono spesso in un peggioramento della salute, dell’ambiente e della convivenza. Il PIL è stato fatto oggetto di molte critiche ma non è mai stato abbandonato. E’ necessario introdurre nel dibattito pubblico criteri di valutazione del bene comune che non siano più legati a misurazioni solo monetarie.

 

7. LAVORO

7.1 HOMO FABER DI FRONTE ALLA RESPONSABILITÀ DELLA CASA COMUNE. Dice l’enciclica: «Se cerchiamo di pensare quali siano le relazioni adeguate dell’essere umano con il mondo che lo circonda, emerge la necessità di una corretta concezione del lavoro, perché, se parliamo della relazione dell’essere umano con le cose, si pone l’interrogativo circa il senso e la finalità dell’azione umana sulla realtà. Non parliamo solo del lavoro manuale o del lavoro della terra, bensì di qualsiasi attività che implichi qualche trasformazione dell’esistente (…) Qualsiasi forma di lavoro presuppone un’idea sulla relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sé». Nel corso della realtà storica della modernità è prevalsa una concezione dell’essere umano principalmente come homo faber, come colui che trasforma il mondo con il proprio lavoro per adattarlo e subordinarlo alle proprie esigenze e, per riuscirci, potenzia incessantemente le proprie capacità produttive attraverso strumenti tecnologici e sistemi organizzativi sempre più sofisticati e complessi.

7.2 Il mito del progresso e la rovinosa separazione tra produttività maschile e riproduttività femminile. L’aumento della produttività del lavoro ha indubbiamente consentito di soddisfare molti bisogni materiali e desideri delle popolazioni della Terra, ma ha finito per divenire lo scopo ultimo e totalizzante della cooperazione umana, fino a coincidere con l’idea stessa di Progresso. Allo sviluppo delle forze produttive (nella concezione progressista ottimista, tanto capitalista borghese quanto marxista) è stata affidata l’uscita dell’umanità da una “preistoria” e l’avvento di una società finalmente conforme alla presunta superiore natura umana che si sarebbe al fine liberata dalla dipendenza dal bisogno. Quasi che l’esito finale della storia fosse già iscritto in tale traiettoria e che all’agire politico non restasse che definirne modi e tempi. Con ciò confermando un approccio che assegnava all’uomo, maschio, il dominio della Terra, mentre alla donna è stato via via assegnato un ruolo relegato nella sfera riproduttiva, considerata “improduttiva”, perciò subalterna e servile.

7.3 Riportare il lavoro nell’interdipendenza tra essere umano ed ecosfera. Una simile concezione ha conferito al lavoro produttivo in quanto tale – indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge e dai beni che crea o trasforma – una dignità intrinseca, un ruolo emancipatorio. Questa visione, tanto mitica quanto ingannevole e pericolosa, ha contribuito, assieme alla fede nello sviluppo tecnologico, a spingere l’umanità a concepirsi come separata dalla natura e a scindere i suoi destini da quelli dell’ecosfera terrestre, al punto da mettere in pericolo le basi stesse della propria esistenza. Un radicale cambio di paradigma non può che riportare il lavoro nell’alveo della contiguità e interdipendenza tra l’essere umano e la Terra, la natura, l’insieme del vivente.

7.4 Le tre dimensioni del lavoro degno. Tre sono le dimensioni che deve assumere un lavoro degno: soddisfare chi lo compie, mettere in relazione le persone, creare beni e servizi utili. Attraverso il lavoro, le persone fanno emergere i propri talenti e le proprie capacità creative, cooperano tra loro per realizzare progetti condivisi, producono cose di interesse comune. Al contrario, nel corso della storia dell’industrializzazione forzata dei sistemi produttivi, una esasperata parcellizzazione delle mansioni, una serializzazione e automatizzazione dei processi, una individualizzazione delle relazioni di potere squilibrate tra prestatori d’opera e proprietari dei mezzi di produzione hanno progressivamente comportato lo svilimento e la svalutazione del lavoro. Tanto che oggi la prestazione lavorativa viene per lo più percepita come una maledizione, piuttosto che come la principale via che dà un senso alla vita di ogni persona. Per rimettere al centro il lavoro, per tornare a conferirgli un elevato riconoscimento sociale, bisogna quindi che le attività lavorative tutte – anche le più umili e meno retribuite lungo la filiera della produzione del valore monetario delle merci – tornino ad acquisire una intrinseca dignità.

7.5 Fermare la competizione al ribasso tra lavoratori. Il lavoro non deve essere trattato dalle imprese come un puro costo (meglio se eliminabile con un robot) né come una funzione impersonale, ma come la principale forza civilizzatrice a disposizione dell’umanità. In tal senso la disoccupazione – con gli enormi bisogni insoddisfatti che comporta – appare come il più assurdo e mortificante spreco di risorse umane. Questo percorso di ri-significazione e ri-valorizzazione del lavoro potrà avvenire partendo dal basso attraverso la ricostruzione delle reti di solidarietà orizzontale tra i lavoratori tutti, che è stata il frutto più prezioso delle lotte che il movimento operaio aveva sviluppato nel corso di una storia secolare. Solo se il lavoro riuscirà a riottenere una capacità contrattuale nei riguardi dello strapotere economico e finanziario dei gruppi che controllano l’economia mondiale sarà possibile fermare la competizione universale al ribasso tra lavoratori – che ha anche avuto l’obiettivo e l’effetto di trasferire i rischi di impresa dall’alta finanza alle imprese e da queste ai lavoratori.

7.6 Lavoro e giustizia ambientale tra dimensione locale e globale. Per generare una soggettività collettiva capace di confrontarsi con il limite delle risorse e la minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici, operando per la sopravvivenza e l’integrità dell’intera biosfera, è necessario che i lavoratori promuovano relazioni positive con le popolazioni situate nei vari luoghi del pianeta, nell’attenzione alla tutela dei diritti e agli impatti delle attività produttive negli ecosistemi naturali. Un’iniziativa di trasformazione sociale che veda il coinvolgimento di lavoratori e lavoratrici deve andare dentro e oltre il tradizionale quanto irrinunciabile conflitto con le controparti e con il capitale, per ridefinirsi come soggetto collettivo di fronte alle deformazioni imposte dalla produzione governata dalla logica del massimo profitto, per denunciare e arginare l’evidente limite delle risorse e la minaccia incombente rappresentata dai cambiamenti climatici e dalle loro conseguenze.

7.7 Connessione tra lotte per le condizioni di lavoro, per l’ambiente e per la libertà femminile. Nella fase attuale, la via della cooperazione attraverso il lavoro non produce automaticamente socialità se non quando assume una corresponsabilità nell’operare per la sopravvivenza e l’integrità dell’intera biosfera: è perciò auspicabile che, a fianco delle mobilitazioni globali in atto come la lotta contro i cambiamenti climatici e il moltiplicarsi delle iniziative messe in moto dal femminismo, il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori, oggi frammentato in soggettività individuali, deboli e tecnologicamente subalterne, possa recuperare una dimensione collettiva, socialmente e politicamente forte.

7.8 Riportare la produzione al servizio della vita e dei territori. La riconquista della dignità e della centralità del lavoro passa attraverso la riconversione ecologica delle produzioni industriali. La legittimità dei lavori e il loro valore sociale possono essere riconosciuti solo nella misura in cui il lavoro diviene salvaguardia della convivenza tra umano e naturale. Riportare la produzione al servizio della vita significa rivalutare il lavoro facendo emergere un nuovo protagonismo di tutti gli attori sociali (responsabilità sociale allargata delle imprese all’interno di un quadro di politiche macroeconomiche attente al rispetto di stringenti clausole sociali e ambientali a scala globale e in tutte le fasi delle filiere produttive), creando legami di riconoscimento reciproco, aiuto e solidarietà tra produttori e fruitori. In tal senso vanno il più possibile ri-territorializzate le attività produttive creando legami di prossimità con i territori e promuovendo economie di piccola scala che favoriscano la diversificazione produttiva adattandosi alle esigenze delle comunità insediate, restituendo loro un ruolo determinante le scelte produttive.

7.9 Il lavoro di riparazione. L’“uomo artigiano”, paradigma di una figura alternativa – soprattutto grazie a una ritrovata soddisfazione nel proprio lavoro – a quella che ha dominato la trasformazione del mestiere in attività seriali e parcellizzate in epoca fordista e la flessibilità – cioè la disponibilità incondizionata – imposta al lavoratore in epoca postfordista, trova un’esemplificazione nel lavoro di riparazione, che – nella prospettiva di una messa al bando dell’”obsolescenza programmata” – richiede competenze, manualità e attenzione, se non anche creatività e passione per l’oggetto riparato; ma anche, e sempre di più, nell’attività individuale o di piccolo gruppo del fabbricante indipendente che lavora con stampanti in 3D. Ma le condizioni dell’affermazione di questo paradigma, cioè la trasformazione del lavoro in una libera attività, risiedono in grande misura al di fuori dell’ambito del suo operato, nel contesto di una comunità che condivide con ciascun lavoratore scopi e condizioni delle attività dei suoi membri.

7.10 Ecodesign in funzione di riuso, riparazione e riduzione dello scarto. Le iniziative per estendere la vita utile dei prodotti del lavoro umano, garantirne la manutenzione, la riparazione o il riutilizzo – sia nella continuità del possesso che nel passaggio da una mano all’altra, da un utilizzatore all’altro – non sono solo il modo migliore per prendersi cura delle cose ma anche una forma di rispetto per il lavoro, la fatica e l’intelligenza di chi ha concorso alla loro concezione, realizzazione e distribuzione. Quando ci sbarazziamo di un prodotto usa-e-getta, pensato e fabbricato per essere scartato quanto prima, a essere degradato è anche il lavoro di chi ha contribuito a fabbricarlo. Diffondere una progettazione in funzione del recupero integrale di parti, componenti o materiali di ogni prodotto (ecodesign) comporta attività ad alta intensità di lavoro a tutti i livelli di qualificazione, con un possibile saldo positivo dell’occupazione e crescita della consapevolezza ecologica e della soddisfazione personale sia in chi produce sia in chi compra un prodotto.

7.11 Sostenere le esperienze mutualistiche nel recupero di aziende. Di fronte alla chiusura e delocalizzazione di un numero sempre più alto di aziende, si apre la prospettiva di forme di autogestione che oltre ai lavoratori coinvolgano intere comunità, sull’esempio di quanto è avvenuto in Argentina con le fábricas recuperadas. In Italia questa strada è stata imboccata in diverse aziende dismesse, come la Maflow, che sei anni fa chiuse licenziando 330 lavoratori, portando via i macchinari e abbandonando lo stabilimento. Gli operai decisero di formare una regolare cooperativa e negli spazi vuoti hanno aperto botteghe artigiane creando un centinaio di posti di lavoro, mentre veniva preparato un business plan con il concorso di varie Università. La capacità di coinvolgere nel processo una parte della comunità locale e un vasto movimento di sostegno a livello nazionale ha fatto della Ri-Maflow un caso esemplare che ha meritato l’attenzione di papa Francesco.

7.12 Trasferimento del lavoro nocivo ad attività di conversione ecologica. Soprattutto là dove lavori pesanti, nocivi, malpagati e declassati si presentano come unica alternativa alla disoccupazione, alla mancanza totale di reddito, alla miseria e all’esclusione, il trasferimento di una consistente quota dell’occupazione attuale ad attività funzionali alla conversione ecologica dell’apparato produttivo deve essere prospettato, progettato e poi attuato con modalità che coinvolgano direttamente i lavoratori oggi collocati al fondo della scala sociale e che, restituendo un ruolo positivo alla loro nuova collocazione, ne facciano la principale base di consenso a una transizione ormai necessaria.

7.13 Contrastare la smaterializzazione del lavoro. La ricchezza posseduta dalle persone più facoltose nel mondo è per due terzi frutto di eredità, rendita monopolistica o rapporti clientelari, mentre il lavoro, manuale o intellettuale, è sempre più smaterializzato e separato dal lavoratore. Il conflitto è stato progressivamente spostato contro un nemico simbolico – lo straniero, il migrante, il profugo – visto come colui che insidia le residue certezze di un’esistenza sempre più precaria e alienata. La moltiplicazione delle solitudini sul lavoro – che sia interinale, a progetto, in “prova”, a “scadenza”, “in nero”, “subappaltato” o in capo a cooperative satellite impiegate dalle aziende – ha offuscato la coscienza di un interesse comune, dentro e fuori i luoghi della produzione. Tuttavia il lavoro – che ha un ruolo determinante nel costruire relazioni e concretezza – deve misurare la propria utilità in base ai bisogni che riesce a soddisfare, e per questo dovrebbe poter contribuire allo sviluppo della persona e all’espressione di capacità, creatività, competenze sociali e ambientali.

7.14 Impedire l’uberizzazione del lavoro manuale e intellettuale. Autisti a chiamata su piattaforme digitali, rider che effettuano consegne in bicicletta, persone “affittate” a ore per i servizi più vari, lavoratori reclutati al bisogno su internet, operai cottimizzati a domicilio per svolgere microcompiti remunerati pochi centesimi, lavoratori dell’intelletto che svolgono compiti specializzati in concorrenza al ribasso sulle tariffe: non appena si alzi il tappeto della retorica dell’impresa individuale, appare uno scenario di solitudini e di dissoluzione di ogni dignità nel lavoro. Tutti gli Stati accettano la logica delle imprese, permettendo di considerare come lavoratori autonomi persone totalmente prive di diritti, di assistenza sanitaria e pensionistica, di ferie pagate, che devono adattarsi a remunerazioni molto basse quando non offensive, e che possono essere licenziate all’istante. É necessario rivendicare un regime europeo universale di protezione sociale e promuovere forme di cooperazione economica e sociale, così da accrescere la solidarietà in un’economia non predatoria, rispettosa delle capacità e delle competenze.

7.15 Estendere su scala globale la solidarietà e i diritti del lavoro. Con il decentramento produttivo e le delocalizzazioni, le filiere della produzione si articolano nello spazio dell’intero pianeta. L’economia di mercato, nelle sue varianti, impiega contemporaneamente persone con diversi salari, diverse normative, diverse nazionalità e diverse tutele sindacali, messe in relazione tra loro esclusivamente attraverso i processi produttivi, senza la mediazione di istituzioni nazionali e locali, statuali o categoriali. Ciò che oggi è nelle mani della gestione aziendale, locale o multinazionale, deve essere oggetto di negoziazione internazionale, a difesa dei diritti dei lavoratori e della loro estensione su scala globale. Per questo vanno promossi meccanismi di cooperazione dei lavoratori delle multinazionali impiegati nelle sedi dei paesi più ricchi con quelli delle realtà lavorative che operano nei paesi a maggiore rischio di sfruttamento.

7.16 Una strategia ecologica per la piena occupazione. L’Unione europea si è data una strategia per il 2020 che punta all’aumento del 75% del tasso di occupazione degli uomini e delle donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni, con creazione di maggiori opportunità di formazione permanente, possibilità di conciliare lavoro e vita privata, creazione di strutture per l’infanzia, potenziamento della sicurezza del lavoro e della protezione sociale. La relativa e incerta espansione occupazionale in corso interessa quasi solo lavoratori maschi e a termine, mentre un lavoro permanente e decoroso è una speranza sempre più flebile, tanto che nel 2017 più di 60mila italiani in età compresa tra i 18 e i 39 anni si sono trasferiti all’estero. Questo deficit occupazionale può venir superato solo promuovendo una politica economica e industriale fondata sulla riconversione ecologica. Nel campo delle energie rinnovabili, l’innovazione, al contrario dell’automazione nel manifatturiero tradizionale, è ad alta intensità di lavoro. Occorre anche portare a piena dignità le occupazioni basate su rapporti personali diretti: cura, assistenza sanitaria e sociale, training, insegnamento, gestione del bene comune, sostenendole con processi di riconoscimento, di formazione e di adeguato inquadramento.

7.17 Ridurre l’orario di lavoro a parità di retribuzione. Mentre l’irrazionale eccesso di capacità trasformativa della produzione accelera il degrado del mondo naturale, sperimentiamo scissioni ingovernabili tra mondo artificiale e naturale, tra tempo fisico e tempo biologico, tra tempo produttivo e tempo proprio, che contrastano ogni possibile conciliazione tra tempo del mondo, tempo di vita e tempo di lavoro. L’enorme “dividendo” ottenuto dal sistema produttivo a spese della natura e del lavoro nell’organizzazione su nuove scale temporali e spaziale della produzione su nuove scale temporali e spaziali può e deve essere restituito alla natura salvaguardando la qualità dell’ambiente, e deve essere distribuito tra i lavoratori con la riduzione generalizzata, politicamente sostenuta, dell’orario di lavoro a parità di retribuzione.

7.18 Prevenire delle morti sul lavoro. La lotta per il miglioramento delle condizioni nei luoghi di lavoro (tanto più se “liquidi”) deve comprendere la tutela della salute, la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, la protezione ecologica dei territori interessati dalla produzione, nella consapevolezza che i primi ad essere esposti alle conseguenze del capitalismo di rapina sono i lavoratori nelle fabbriche, i loro familiari e i residenti, come dimostrano il caso ILVA. Strumenti di tutela e prevenzione devono essere introdotti per salvaguardare i lavoratori “in nero”, che spesso sono migranti privi di permesso di soggiorno, divenuti veri e propri fantasmi i cui corpi, in caso di incidenti mortali nei cantieri o nei lavori agricoli e boschivi, vengono sempre più spesso gettati in discariche o bruciati, resi veri e propri “scarti”, per evitare le conseguenze della denuncia di un infortunio dovuto ad assenza di dispositivi di sicurezza.

7.19 Riconoscere il lavoro di cura. Come ci sono le discariche dove gli oggetti di cui ci sbarazziamo e a cui l’organizzazione produttiva non è in grado di offrire una seconda chance, così ci sono le discariche delle persone che non servono, o non servono più, alla produzione o al consumo: bambini, anziani, malati, disabili. Se queste “esistenze residuali” rispetto alla produzione sono sotto tutela, parliamo di lavoro di cura: un’attività che ha come oggetto non la produzione di beni, bensì la gestione di una molteplicità di esseri umani esterni al circuito economico-produttivo, che viene svolta in misura assolutamente prevalente da donne. Per la maggior parte, il lavoro di cura viene affidato ad attività domestiche non retribuite. A volte le persone che lo svolgono non sono nemmeno membri della famiglia per cui lavorano: hanno lasciato la propria famiglia altrove e spesso sono in condizione di irregolarità, e dunque di precarietà e ricattabilità. Sia che avvenga in forma remunerata, come impiego, sia che avvenga in forma gratuita, come gestione familiare, il lavoro di cura deve uscire dall’ambito di disconoscimento, quando non di servaggio, in cui è stato relegato, ed entrare appieno nella pienezza dei diritti che devono essere riconosciuti a tutti i lavoratori e lavoratrici.

7.20 Badare a se stessi e pretendere servizi sociali per chi non può farlo. Storicamente, la liberazione dal lavoro ha significato, per chi era in grado di farlo, scaricare le incombenze pesanti o sgradevoli su figure sottomesse – donne, schiavi, servi, coloni – o, con lo sviluppo di scienza e tecnica, sulle macchine. Il patriarcato ha costretto le donne a svolgere gratuitamente e “naturalmente” il lavoro di soddisfare i bisogni primari nelle famiglie: sesso, procreazione e cura degli uomini tutti, non solo bambini, vecchi e malati. Per una piena ecologia integrale, occorre educare tutti a badare a sé, a rispettare la libertà degli altri e ad aiutarsi a vicenda nei rapporti familiari e di vicinato, e pretendere servizi pubblici gratuiti per chi ne ha necessità.

 

8. VIVENTE

8.1 «Prendersi cura di tutto ciò che esiste». «L’ecologia integrale», si legge nell’enciclica, «richiede apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’umano. San Francesco entrava in comunicazione con tutto il creato, e predicava persino ai fiori e li invitava a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione. La sua reazione era molto più che un apprezzamento intellettuale o un calcolo economico, perché per lui qualsiasi creatura era una sorella, unita a lui con vincoli di affetto. Per questo si sentiva chiamato a prendersi cura di tutto ciò che esiste». Riconoscere la sorellanza della natura e accogliere gli animali come creature capaci di sensibilità e intelligenza ha innumerevoli conseguenze sul nostro modo di percepire il mondo e sulle nostre scelte. Portandoci a superare il primato del logos, dell’apprezzamento intellettuale e del calcolo economico, l’ecologia integrale ci collega al cosmo, dove l’umano è parte di «tutto ciò che esiste».

8.2 Superare l’antropocentrismo. Pur istituendo una continuità con l’animale nella sfera evolutiva, biologica e genetica, il pensiero occidentale moderno ha tracciato un confine che separa culturalmente e moralmente gli umani dai non umani. Siamo educati a pensare in termini dicotomici il rapporto tra natura e cultura e tra animalità e umanità, interiorizzando una dissociazione fra soggetti umani e oggetti animali, con questo dimenticando che noi stessi siamo Natura. «L’antropocentrismo moderno», scrive papa Francesco, «paradossalmente ha finito per collocare la ragione tecnica al di sopra della realtà, perché questo essere umano non sente più la natura né come norma valida, né come vivente rifugio». Sono parole essenziali e rivoluzionarie: ponendo la ragione tecnica al di sopra della realtà, un antropocentrismo proiettato verso la logica del profitto e il dominio e la derealizzazione della natura ha condotto alle attuali devastazioni ambientali, allo sterminio di molte specie, al più brutale sfruttamento-annientamento del mondo animale, fino all’invenzione degli allevamenti industriali, vere e proprie fabbriche di sterminio riservate ai non umani.

8.3 Riconoscere il dolore del vivente. Attraverso l’uso di categorie che educano a considerare l’animale privo di pensiero e sensibilità, la modernità ci ha resi ciechi al dolore, alla soppressione, al consumo e allo smaltimento di esseri viventi prodotti e processati industrialmente come cose. Ma se non siamo capaci di riconoscere e di lasciarci coinvolgere dal dolore del vivente, come possiamo rispettare gli altri esseri umani? L’asservimento-bestializzazione degli animali ha prodotto i modelli dell’asservimento-bestializzazione di tutti gli “inferiori” (donne, stranieri, “selvaggi”: altri, nella gerarchizzazione istituita dal dominio patriarcale), alimentando e giustificando il razzismo, il sessismo e lo schiavismo che nascono dalla predazione del lavoro, del sesso, del piacere, della cura. A questa consapevolezza devono corrispondere azioni sul piano educativo, legislativo, dei consumi e degli stili di vita.

8.4 Le conseguenze dell’allevamento intensivo per il clima. L’allevamento di animali destinati alla macellazione è responsabile almeno del 15% di tutte le emissioni di gas a effetto serra di origine antropica: le cinque maggiori compagnie globali che producono carne e latticini rilasciano nell’atmosfera, ogni anno, più CO2 di quella diffusa da tre colossi petroliferi come Eni, Shell e BP. Poiché il consumo medio di carne a persona è quasi raddoppiato negli ultimi 50 anni, gli animali da allevamento rappresentano ormai il 60% dei mammiferi terrestri. Le ingenti quantità di risorse vegetali necessarie per i mangimi sono prodotte in monoculture che comportano l’erosione di terreni agricoli e l’abbattimento di grandi aree di foresta, risultando tra le prime cause di perdita di biodiversità. La mega-industria della macellazione è pesantemente coinvolta nel land grabbing e nell’inquinamento legato ai trasporti: per esempio, società cinesi rilevano vaste estensioni di terreni in Africa per coltivare il foraggio che poi trasportano negli allevamenti in Cina. Per produrre un chilo di carne servono dai 15 ai 20.000 litri di acqua, 20 volte più che per un chilo di cereali o verdure. Quasi un terzo del consumo d’acqua globale è dovuto all’allevamento di animali da macello. Un’inversione drastica dei regimi alimentari, con la riduzione o l’azzeramento del consumo di carne, è una delle condizioni essenziali per realizzare un contenimento dei cambiamenti climatici.

8.5 Le conseguenze dell’allevamento intensivo per gli esseri umani. Gli allevamenti su vasta scala sottraggono cibo di origine vegetale agli esseri umani più esposti alla fame, allo scopo di alimentare – e spesso sovralimentare – di carne la popolazione più ricca. Questa fascia di consumatori, prevalentemente occidentali, sviluppa antibiotico-resistenza e una maggiore incidenza di malattie metaboliche e degenerative a causa dell’utilizzo intensivo di farmaci somministrati agli animali per attenuare le infezioni causate dall’immobilità forzata e dal sovraffollamento nelle gabbie, e di ormoni per aumentare il peso della carne da macellare. Il crudele e dannoso sistema degli allevamenti intensivi, anche ittici, paradigma della devastazione inflitta al pianeta da un modello di sfruttamento antropocentrico e predatorio, deve essere normato in funzione del rispetto degli animali, dei consumatori e dell’ecosistema, e non può ricevere finanziamenti comunitari.

8.6 Tagliare i sussidi all’agricoltura e agli allevamenti intensivi e vietare i trasporti extra UE di animali vivi per la macellazione. Negli ultimi decenni, i fondi pubblici assegnati in modo distorto e dannoso hanno fatto crescere le grandi aziende agricole di stampo intensivo e industriale, contribuendo di fatto alla scomparsa delle realtà più piccole e più sostenibili. Nel 2021 l’Unione europea applicherà la nuova “Politica Agricola Comune” (PAC). Chiediamo all’Unione europea e al governo italiano di tagliare i sussidi alle aziende e agli allevamenti intensivi e sostenere aziende agricole che producono con metodi ecologici. Chiediamo di vietare l’esportazione degli animali vivi verso i Paesi extra UE, che alle sofferenze del trasporto a lunga distanza aggiunge la brutalità di una morte inflitta con metodi considerati illegali nell’Unione europea.

8.7 Promuovere il rispetto giuridico del vivente e i diritti della natura. Molte società estendono la nozione di “persona” al di là degli esseri umani: animali, alberi, piante, colline, laghi e fiumi sono persone, e come tali hanno diritti. Paesi come la Bolivia e l’Ecuador hanno inserito i diritti della Terra (Pachamama) nelle proprie costituzioni. Anche in Europa è necessario pensare la tutela giuridica delle innumerevoli e multiformi espressioni della natura, a cominciare dagli animali non umani, in base al loro valore intrinseco (bellezza, rarità, ricchezza infinita di forme) e alla loro soggettività (senzienza, intelligenza, emozioni/affetti). Occorrono norme vincolanti sulla protezione delle specie, che garantiscano non solo la conservazione fisica ma anche la trasmissione culturale e sociale tra individui, messa a rischio dove l’habitat è costantemente disturbato ed eroso. Occorrono norme rigide sulle condizioni di allevamento, trasporto e vendita degli animali di qualsiasi specie, accompagnate da un’attività educativa che ne restringa progressivamente l’ambito. Esiste una rigorosa ricerca scientifica senza utilizzo di animali che va incoraggiata e finanziata.

8.8 Tutelare la libertà e la sapienza dei popoli indigeni. Il paradigma del “buen vivir” dei popoli nativi, detentori di un rapporto con il pianeta e i suoi abitanti oggi pressoché estirpato dalla vocazione predatoria della cultura occidentale, è stato rivalutato da decenni di lotte e da da nuove esperienze politiche, sociali, culturali. É necessario ascoltare e difendere chi, nel mondo, segue un percorso di vita capace di abbracciare il vivente e la casa comune, articolando relazioni non basate sullo sfruttamento e spesso pagando con la propria vita l’opposizione al potere economico globale. Occorre riconoscere il ruolo dei popoli indigeni nel proteggere ambiente e biodiversità, nella lotta al cambiamento climatico, nell’assunzione dei diritti della natura. Occorre sostenere le lotte dei popoli indigeni contro le istituzioni finanziarie e i progetti di sviluppo che non rispettano l’ambiente in cui essi vivono, né il loro diritto all’autodeterminazione, che si esercita con il consenso libero, previo e informato su qualsiasi progetto possa avere un impatto su loro diritti umani e territoriali, sulle loro terre o le loro risorse.

8.9 Istituire un tribunale internazionale per i Diritti della Natura. É necessario introdurre un’articolazione di diritto pubblico internazionale che, sulla base di una Dichiarazione universale dei Diritti della Natura, preveda il diritto degli ecosistemi di esistere e il dovere dell’umanità di rispettarne i cicli vitali. Sosteniamo l’istituzione di un Tribunale per i Diritti della Natura al fine di introdurre e far rispettare nuovi concetti giuridici inerenti il riconoscimento dei diritti di animali, foreste, specie, distretti ambientali. Il Tribunale potrà condannare Stati e imprese per crimini ambientali, in particolare quelli connessi ai cambiamenti climatici.

8.10 Istituire un’Agorà degli abitanti della Terra. Gli abitanti della Terra sono più di sette miliardi e mezzo, e ad essi appartiene di vivere insieme e salvaguardare la vita della casa comune, il primato dell’uguaglianza e il rispetto dei diritti e delle responsabilità verso il mondo umano e non umano. Poiché sta agli esseri umani l’assunzione di responsabilità verso la Terra, che un’espansione e uno sfruttamento continui minacciano di devastare senza possibilità di ritorno, appoggiamo la proposta di costruire una sfera pubblica sovrastatale intesa come sistema di limiti e vincoli ai poteri altrimenti incontrollati della politica e dei mercati. Un demanio planetario di garanzie sovranazionali in materia di ambiente, salute, lavoro, per la tutela dell’abitabilità del pianeta.

8.11 Fermare il consumo di suolo. L’estrattivismo, la coltivazione intensiva, la cementificazione e il cambiamento climatico alterano ecosistemi e paesaggi, territori e comunità, ridisegnano le geografie del potere e dell’esclusione, ridefiniscono le relazioni tra i popoli e tra l’umano e la natura. Per questo è importante fermare il consumo di suolo e confinare le nuove costruzioni e infrastrutture allo spazio già edificato.

8.12 Preservare il paesaggio. La bellezza del paesaggio agrario storico italiano, risultato di un secolare processo produttivo virtuoso, è il contrario dello scenario determinato dall’agricoltura industrializzata, monoculturale e intensiva, che rende monotono il territorio e impoverisce il suolo. La devastazione dello scenario rurale deve essere fermata e risanata con percorsi di rigenerazione architettonica rispettosa dell’armonia, consapevole della necessità di luoghi d’incontro con la natura.

8.13 Il diritto alla città. La crescita edilizia metropolitana disordinata e invasiva, costituita da zone per lo più monofunzionali, è incapace di generare ricchezza di vita e di immagine urbana. I recenti movimenti per il diritto alla città, nati in Brasile e diffusi in tutto il mondo, chiedono il riconoscimento giuridico delle funzioni e degli spazi urbani, allo scopo di ordinare il pieno sviluppo delle funzioni sociali della città e garantire il benessere dei suoi abitanti. Allo stesso modo, papa Francesco ricorda «come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro». La città ha un corpo architettonico e al tempo stesso può rivelare un’anima civica orientata da valori collettivi: capitale civico, bene pubblico, funzioni sociali della proprietà urbana. La proprietà privata, in quest’ottica, deve essere ripensata in chiave di compatibilità con l’interesse generale.

 

9. STILI DI VITA E BENI COMUNI

9.1 Cultura del limite. «É giunto il momento di prestare nuovamente attenzione alla realtà con i limiti che essa impone, i quali a loro volta costituiscono la possibilità di uno sviluppo umano e sociale più sano e fecondo», scrive papa Francesco. Occorre fermare e sanare i crimini prodotti dal «sogno prometeico di dominio sul mondo» per mezzo di un’ecologia integrale fondata su una cultura del limite, che riduca il potere umano sugli altri uomini, sulla Terra e sul vivente, cercando di coinvolgere su questi obiettivi anche le comunità, i governi locali e le altre forme di democrazia e partecipazione dal basso. Occorre fermare i grandi accordi di commercio globale che depredano la Terra e la privano della biodiversità necessaria alla vita, privatizzano le risorse, si accaparrano i servizi. Parimenti, va contrastata l’eco-criminalità organizzata globale. L’esportazione illegale di rifiuti tossici, le “terre dei fuochi” globali, dalla Campania alla Somalia, il traffico illegale di animali rari e di loro parti, il trafugamento di specie vegetali protette sono crimini che mostrano come l’ecocidio proceda di pari passo con le mafie internazionali.

9.2 Azioni quotidiane per il pianeta. «È molto nobile assumere il compito di avere cura del creato con piccole azioni quotidiane, ed è meraviglioso che l’educazione sia capace di motivarle fino a dar forma ad uno stile di vita», scrive papa Francesco nell’enciclica. «L’educazione alla responsabilità ambientale può incoraggiare vari comportamenti che hanno un’incidenza diretta e importante nella cura per l’ambiente, come evitare l’uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare, trattare con cura gli altri esseri viventi, utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone, piantare alberi, spegnere le luci inutili, e così via […]. Riutilizzare qualcosa invece di disfarsene rapidamente, partendo da motivazioni profonde, può essere un atto di amore che esprime la nostra dignità». Questi comportamenti quotidiani devono avere un supporto organizzativo che li faciliti, in termini di distribuzione, educazione e strutture di raccolta, trattamento e riciclo di scarti e prodotti dismessi, baratto, scambio del tempo.

9.3 Diritto alla salute. Attuare il diritto alla salute sancito dalla Costituzione significa, in primis, il diritto ad un ambiente di vita e di lavoro salubre. Eppure la salute è stata ridotta a merce estremamente redditizia, mentre il diritto di ciascuno alla prevenzione e alla cura è sempre più labile. La privatizzazione della sanità, veicolata dal ritorno a sistemi mutualistici e di assicurazioni individuali sul modello statunitense, mette in discussione l’universalità del servizio sanitario, fondato sul pubblico, e l’uguaglianza nell’accesso alle cure, garantiti dalla tassazione generale. A fronte di ingenti investimenti nella ricerca sul genoma per la medicina privata individualizzata, milioni di persone non possono accedere alle terapie di base e rinunciano a curarsi o si indebitano per far fronte alle spese. É necessario confermare e rafforzare un’assistenza sanitaria universale, che non veda la sempre più ridotta percentuale di ricchi del pianeta accedere a cure da cui gli altri sono progressivamente esclusi in base al reddito.

9.4 Dalla terapia alla prevenzione, nel continuum umanità-ambiente. La salute umana e animale è sotto attacco soprattutto a causa del deterioramento e dell’inquinamento dell’ambiente, in un rapporto che conferma la continuità tra natura ed essere umano. Le discipline e le tecnologie mediche hanno compiuto grandi progressi in campo terapeutico e diagnostico nel combattere i danni subiti dal corpo umano, ma hanno trascurato, spesso rendendosene complici, il deterioramento dell’ambiente – che comprende aria, acqua e alimenti – che li provoca. Spostare l’asse della difesa della salute dalla terapia alla prevenzione, dalla cura degli organi a quella del continuum umanità-ambiente è uno dei risvolti più rilevanti della conversione ecologica.

9.5 L’amianto come paradigma della devastazione ambientale. L’amianto (o asbesto) è un esempio della devastazione portata da uno sviluppo cinico e incapace di riparare ai danni commessi, e un indicatore di quanto debole sia la priorità della salute umana, pur sancita da tutte le Costituzioni del mondo, rispetto agli interessi economici. Benché l’inalazione di fibre di amianto possa causare malattie polmonari mortali, la sua presenza continua a essere pervasiva in fabbriche, edifici, scuole, ospedali, teatri, caserme. L’abolizione globale dell’amianto in ogni sua forma (estrazione diretta o indiretta, lavorazione, impiego produttivo, commercializzazione, esportazione, importazione) così come quella degli altri agenti tossici nocivi cancerogeni cui non può essere attribuito alcun valore limite (pesticidi, diossine, glifosato, pfas, fumi dei termovalorizzatori, ecc.) deve essere un impegno europeo. Devono essere realizzati censimenti, mappature e bonifiche dei siti contaminati, e deve essere garantita assistenza, anche giuridica, ai cittadini colpiti da esposizione all’amianto e ad altre sostanze tossiche – cancerogene. Le sostanze ad elevata tossicità (cancerogeni, mutageni, teratogeni, interferenti endocrini, sostanze altamente cumulabili nell’ambiente) devono essere espulse dai cicli produttivi e dalle merci ed essere sostituite con sostanze non pericolose, secondo il principio di “rischio zero”.

9.6 Affrontare le cause alimentari della cronicità. Nelle società di libero mercato, la nutrizione è oggetto di condizionamenti finalizzati ad assicurare la persistenza dei modelli intensivi di produzione e distribuzione, con la conseguenza di un massiccio consumo di prodotti alimentari dannosi per la salute che causa il dilagare di obesità, diabete e disturbi cardiovascolari. L’epidemia di malattie croniche in atto a livello globale costituisce un indicatore dello stato del “metabolismo contemporaneo” cui è urgente porre rimedio.

9.7 Diritto a un consumo consapevole e rispettoso. Occorre contrastare la trasformazione dei cittadini in consumatori, riportando democrazia e diritti nel modo di alimentarsi, vestirsi, utilizzare i prodotti che accompagnano le nostre esistenze. Occorre sostenere e promuovere l’autodeterminazione alimentare, con filiere di consumo etico, sostenibile, rispettoso dei diritti dei lavoratori e senza crudeltà sugli animali, possibilmente in forme condivise, come avviene nei gruppi di acquisto solidale. Le etichette e le confezioni dei prodotti devono fornire a livello europeo le indicazioni su provenienza, metodi di coltura e/o lavorazione, lavoro degnamente retribuito, benessere animale.

9.8 Diritto al tempo proprio e al riposo. Negli ultimi quarant’anni, le telecomunicazioni, la digitalizzazione, l’accesso alle banche dati, la rapidità di interconnessione e di elaborazione hanno accentuato la possibilità di espropriazione del tempo per alcuni e del possesso del tempo altrui per altri. Il tempo di vita, di ozio, di apprendimento è soggetto a esproprio; per questo il riscatto del “tempo proprio” rappresenta un’esigenza primaria dell’esistenza. Si produce e si compra 7 giorni su 7 e 24 ore su 24, totalmente e virtualmente saturati. Occorre conquistare tempo liberato per gli umani e per il vivente, reintroducendo il precetto della cessazione di qualsiasi attività lavorativa (Shabbat) come giusto e necessario riposo della Terra, degli animali e degli uomini.

9.9 Diritto alla bellezza. «Se ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati», scrive papa Francesco. La fruizione della bellezza è una forma essenziale di appartenenza al mondo, di resistenza culturale e di legame sociale; ma sempre più persone sono confinate nelle periferie delle città, in agglomerati invivibili, private del contatto con la natura e dell’esperienza e dell’educazione al bello, compreso l’accesso all’arte. L’incontro emozionato ed esperto con la bellezza promuove «il pieno sviluppo della persona umana e la sua piena salute fisica e psichica», così che il diritto alla bellezza può ritenersi «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».

9.10 Diritto di convivenza e unione con la natura. Condizione imprescindibile e preliminare per rendere possibile la convivenza tra gli esseri umani è che si realizzino forme di convivenza e unione con la natura. L’inquinamento dell’aria, del suolo, dei mari è un attentato all’habitat non solo degli umani ma di ogni specie vivente, che ferisce tanto il corpo dei singoli quanto le comunità, mutilate nella loro coesione vitale. Studiare e praticare forme di coabitazione con la natura, senza pretese di centralità, contribuisce a creare negli esseri umani la capacità di contenere la propria violenza.

9.11 Riappropriarsi dei beni comuni attraverso le reti solidali. I beni comuni naturali, come l’acqua, le risorse e le energie naturali, e immateriali, come i saperi, i linguaggi e le istituzioni che regolano la convivenza, se privatizzati e trasformati in merce subiscono un degrado e una svalorizzazione legati al progressivo assorbimento e consumo nel ciclo economico. Poiché in realtà sono beni di tutti e di nessuno, non hanno prezzo per il loro uso e ci si deve attenere ai principi della preservazione anche a favore delle future generazioni. “Comune” non significa negare la proprietà individuale di beni condivisibili, e nemmeno la proprietà pubblica di beni demaniali che servono al buon funzionamento dello Stato e dei servizi generali, ma indica la necessità di definire nuove modalità di autogoverno di cittadine e cittadini e conseguenti forme giuridiche che consentano la gestione condivisa di beni e servizi collettivi. Un’economia policentrica fondata principalmente sull’autogestione dei beni comuni dà origine a forme democratiche praticate dalle comunità locali.

9.12 Giustizia tra le generazioni. «La protezione dell’ambiente o, detta altrimenti, la salvaguardia del creato, deve diventare sempre di più un compito prioritario, vitale, perché non ci impegna soltanto a difendere i beni ricevuti gratuitamente, quanto a consegnarli alle generazioni future», scrive papa Francesco. Gli studenti del mondo che scendono in piazza per i Fridays for the future sono i soggetti incarnati di quella che, nei negoziati internazionali, è stata accettata – finora solo sulla carta – come giustizia intergenerazionale.

 

10. ECOFEMMINISMO

10.1 Liberazione delle donne, della natura, del vivente. Il pensiero ecofemminista ha mostrato le intersezioni tra sessismo, razzismo, specismo, colonialismo, diseguaglianze sociali e razziali, aprendo la strada alla possibilità e alla necessità di battaglie comuni che collochino in uno stesso orizzonte la tutela della natura, del vivente, delle donne e di tutti gli esseri che la cultura occidentale patriarcale ha segnato come inferiori e passibili di sfruttamento in una gerarchia che vede il mondo come un possesso e un bottino.

10.2 Rispettare il corpo e la differenza sessuata. «Il nostro corpo ci pone in una relazione diretta con l’ambiente e con gli altri esseri viventi», dice l’enciclica. «Una logica di dominio sul proprio corpo si trasforma in una logica a volte sottile di dominio sul creato. Imparare ad accogliere il proprio corpo, ad averne cura e a rispettare i suoi significati è essenziale per una vera ecologia umana. Anche apprezzare il proprio corpo nella sua femminilità o mascolinità è necessario per poter riconoscere sé stessi nell’incontro con l’altro diverso da sé. […] Pertanto, non è sano un atteggiamento che pretenda di cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa».

10.3 Valorizzare la differenza femminile. Occorre difendere e rivalutare tutto ciò che il patriarcato ha soffocato, sottomesso o tolto dalla scena pubblica e politica: corporeità, emozioni, sapienza intuitiva, cooperazione, cura, nonviolenza, potere di generare e creare contro potere di possedere, pensiero circolare come registro differente da quello del pensiero lineare.

10.4 Sradicare la violenza contro le donne. Ogni anno nel mondo vengono uccise 87mila donne per motivi di genere. Dal 2000 a oggi, in Italia sono state uccise più di tre donne ogni settimana. Più del 50% dei femminicidi avviene per mano del partner o di membri maschili della famiglia. Non è che la punta dell’iceberg, perché un terzo delle donne nel mondo sperimenta forme di violenza durante la propria vita. Nove donne su cento, nel corso della propria esistenza lavorativa, sono state oggetto di molestie o di ricatti a sfondo sessuale sul luogo di lavoro. La violenza maschile è espressione diretta di un sistema di potere patriarcale che ha permeato cultura, politica, relazioni pubbliche e private. Occorre agire per porre fine alle discriminazioni che sono alla radice della violenza contro le donne promuovendo l’uguaglianza di genere nel rispetto delle diversità, e finanziare luoghi di libertà e autodeterminazione per le donne. Le case rifugio e i centri antiviolenza, sempre più spesso chiusi per revoca dei finanziamenti, devono essere sostenuti come luoghi di civiltà e inclusione.

10.5 Eliminare la pratica delle mutilazioni genitali femminili. Sono oltre cento milioni nel mondo le donne che hanno subito la pratica della mutilazione dei genitali e circa tre milioni, ogni anno, le donne a rischio di mutilazione. Il Parlamento europeo stima che siano circa 500 mila le donne e le bambine che in Europa devono subire questa menomazione. Occorrono strumenti adeguati e un’azione combinata tra istituzioni e società civile che permettano di superare i riti d’iniziazione e sottomissione femminile.

10.6 Contrastare la prostituzione legalizzata. L’attività estrattiva predatoria agita sulla Terra è simile a quella che il patriarcato agisce sul corpo delle donne: la prostituzione, che implica la riduzione della donna a merce, è tra i primi segni di una cultura di sopraffazione e abuso che si vuole raccontare come espressione di libertà e scelta. É impensabile che la prostituzione – ovvero lo stupro a pagamento, spesso governato da sfruttatori di donne (e talvolta di uomini, persino bambini) in condizione di schiavitù o sotto il ricatto della povertà e precarietà –possa diventare un lavoro legalizzato e accettato dallo Stato, sul quale pagare le tasse. Lo sfruttamento che nasce dalla predazione del sesso e del piacere non può essere ammantato di valore di scambio, né spacciato per autodeterminazione e libertà di scelta.

10.7 Contrastare la tratta di donne, bambini e minori. La tratta di donne e minori migranti è tra le forme di commercio dei corpi più redditizie e ignobili. Oltre a perseguire i trafficanti, occorre individuare e sanzionare il mercato finale, in particolare per quel che riguarda il traffico di organi. I percorsi di fuoriuscita di donne e minori dalla violenza e dallo sfruttamento non possono essere affrontati con politiche repressive, ma garantendo reddito di autodeterminazione, diritti e servizi.

10.8 Pari opportunità, diritto d’asilo e contrasto della violenza di prossimità per donne migranti e rifugiate. Per promuovere l’accoglienza e una piena integrazione femminile è necessario assicurare servizi di cura dei bambini per le donne rifugiate e richiedenti asilo, che – a differenza dei maschi della stessa famiglia – non possono accedere all’istruzione, a corsi di integrazione e meno che mai a un lavoro, a causa dell’impossibilità di sospendere l’attività materna e familiare di cura. Nei centri di accoglienza, occorre contrastare la violenza di prossimità verso donne, uomini, minori, persone con orientamenti sessuali diversi e anziani, e riconoscere le loro lotte quotidiane dentro e fuori i confini, con la garanzia di un effettivo accesso alle procedure e all’ottenimento della protezione internazionale. Occorre risignificare il diritto d’asilo per le donne che si sottraggono a ogni forma di violenza economica, fisica, psicologica e patriarcale sia nei paesi di origine che di transito.

10.9 Difendere la libertà delle persone con orientamenti sessuali diversi (LGBTI). Discriminazione, violenza e abuso fanno parte della vita quotidiana di molte persone LGBTI, in Europa e nei paesi di migrazione, dove spesso sono accettate pratiche persecutorie nei loro confronti. Il contrasto alla violenza di genere e dei generi deve valorizzare le molteplici e ineliminabili differenze che caratterizzano gli individui e le comunità, per un’ecologia che abbia come fulcro il rispetto della pluralità, la capacità di ascolto e di scambio e il rifiuto della prevaricazione.

10.10 Autodeterminazione e libertà delle donne. In opposizione ai poteri istituzionali, statuali ed economici che vogliono decidere al loro posto, le donne nel mondo devono avere spazi di sorellanza e agibilità autonoma, che devono essere agevolati da politiche comunitarie. Sono necessarie azioni positive di rafforzamento delle capacità di iniziativa femminile, sia per native, sia per migranti e rifugiate. Le politiche di cooperazione internazionale devono essere finalizzate, in accordo con le organizzazioni locali, al contrasto di matrimoni precoci e forzati, al diritto di decidere della propria maternità e al pari accesso all’istruzione e al lavoro.

10.11 Combattere la povertà femminile. In tutto il mondo, la cosiddetta “economia dell’1%” si fonda su lavoratori mal pagati, spesso donne, che ricevono salari di sussistenza e sono privati dei diritti fondamentali. Garantire alle donne pieni diritti ed eguali possibilità economiche, culturali e sociali è indispensabile per affrontare la povertà estrema e instaurare un principio di giustizia sociale. Le donne sono le principali vittime della povertà. Se avessero uguale accesso all’istruzione e alle risorse rispetto agli uomini, la povertà mondiale si ridurrebbe del 17%, e 150 milioni di persone in meno nel mondo soffrirebbero la fame.

10.12 Incentivare attività di empowering delle donne. Le donne sono le principali vittime della povertà, e a livello globale hanno minori risorse, diritti, opportunità rispetto agli uomini. Vincoli culturali patriarcali spesso impediscono loro l’accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e alla vita politica e sociale. La conseguenza è, in un circolo vizioso, la continua esposizione a violenza e soprusi, pur avendo spesso la responsabilità della produzione del cibo e della cura della famiglia. Le donne sono vittime, ma non sono deboli: nelle situazioni più esposte, nei conflitti, nei campi profughi, nelle famiglie povere o disagiate, le donne sono coloro che riescono a garantire la sopravvivenza e la cura degli altri. Questa straordinaria capacità di resilienza deve essere riconosciuta e valorizzata. Occorre garantire alle donne diritti, formazione, accesso alle risorse e alla terra, accesso al lavoro a pari retribuzione. Occorre modificare le relazioni di potere nei diversi ambiti del vivere sociale e personale, per fare in modo che conoscenze, esperienze, aspirazioni, bisogni, opinioni e obiettivi delle donne siano presi in considerazione e che sia data loro pari possibilità di partecipare ai processi decisionali in ambito politico, economico e sociale.

10.13 La resistenza alimentare come pilastro dell’ecologia integrale. L’accaparramento del sistema alimentare, dei semi e della terra da parte delle multinazionali ha prodotto la marginalizzazione delle donne e delle loro conoscenze, soprattutto nel Sud del mondo. Il sapere e la creatività di contadine e contadini si traducono in economia della natura, essenziale per rispondere alla crisi ambientale, climatica e democratica che sta impoverendo e minacciando il pianeta. Lo stesso vale per la sapienza sul cibo, oggi snaturato, impoverito, avvelenato, strappato dalle radici che ne legano la preparazione alla vita e alla terra.

10.14 Inserire il rispetto di genere negli accordi commerciali e nei servizi pubblici. Le politiche commerciali hanno un enorme impatto sulla vita delle donne. Occorre inserire clausole sul rispetto dei diritti delle donne e le questioni di genere in ogni fase negoziale e in ogni trattato commerciale stipulato tra Unione europea e Stati terzi, e sottrarre alla logica della privatizzazione i servizi pubblici che garantiscono i diritti fondamentali, a cominciare dal diritto ai servizi sociali, all’educazione, alla formazione, alla salute, inclusa quella sessuale e riproduttiva.

10.15 Promuovere un linguaggio sessuato e non violento. Nella scrittura dell’enciclica, papa Francesco ha scelto i termini “esseri umani” o “donne e uomini” e mai (se non nelle citazioni da altri testi) il termine “uomo” per indicare l’intera umanità. Poiché una delle radici della sopraffazione si cela nel linguaggio, che è un elemento centrale nella costruzione delle identità individuali e collettive, è necessario promuovere nelle scuole, nella società e nella vita quotidiana un uso della lingua attraversato dalla cultura della differenza sessuata e della non violenza. Già dalla sua grammatica, la lingua italiana istituisce una rigida distinzione che implica la scomparsa del femminile, nell’imposizione di un neutro declinato al maschile. Per questo va incoraggiato un uso del linguaggio che restituisca la storia delle donne.

 

11. DIRITTO DI PACE E MINACCIA NUCLEARE

11.1 Arrestare l’orologio dell’Apocalisse. Il simbolo che rappresenta meglio il pericolo che gli esseri umani costituiscono per il pianeta è “l’orologio dell’Apocalisse” (Doomsday Clock), le cui lancette segnano il tempo che manca alla probabilità di una catastrofe globale causata dall’uomo. Questo dispositivo simbolico, introdotto da un consesso internazionale di scienziati atomici, nel gennaio 2019 segnava appena due minuti alla mezzanotte, tenendo conto delle più grandi minacce del nostro secolo: clima e nucleare. Cosa fare per arrestare le lancette attraverso la cura della Terra e la pace?

11.2 Sfatare l’immaginario di potenza legato al possesso dell’atomica e al proliferare delle armi nucleari. Una narrazione ipocrita che, negli anni Cinquanta, ha slegato l’aggettivo “atomico” dagli eventi terribili di Hiroshima e Nagasaki per associarlo all’eccezionalità e persino alla bellezza, ha contribuito a far accettare la divisione del pianeta basata sul terrore reciproco imposto da chi può dotarsi di testate sempre più potenti, rivolte verso il fronte nemico. Il movimento pacifista globale ha contribuito alla fine di questa impostura, alla fine della guerra fredda e al disarmo nucleare. Purtroppo stiamo tornando indietro e, dopo la denuncia da parte di Trump dell’accordo sugli euromissili, assistiamo a un proliferare di armi nucleari in numerosi paesi, alcuni retti da regimi e dittature militari, e a un rilevante commercio illegale di materiale utile alle bombe nucleari.

11.3 Mettere al bando l’arsenale nucleare mondiale. C’è un’evoluzione nella coscienza globale, ancora inavvertita nei paesi legati ad alleanze militari, che riguarda la denuncia dell’illegalità del possesso di armamenti atomici. Occorre istituire una norma universale che neghi al possesso di armi nucleari il rango di fattore strategico irrinunciabile, in quanto non esiste un diritto all’autodifesa degli Stati “sovrani” che preceda il diritto alla sopravvivenza dell’umanità. Ne segue che non bisogna modernizzare le armi nucleari; che la deterrenza non deve prevedere lo stato di allerta per quelle che lo sono; che le dottrine militari non ne devono prevedere l’impiego in nessuna circostanza. La guerra nucleare non è una guerra ma un cataclisma che porta alla scomparsa della specie umana; il diritto alla sopravvivenza dell’umanità non può essere messo in gioco da pretese “difensive” dei singoli Stati.

11.4 Mobilitarsi per un futuro senza bomba. Il 7 luglio 2017, a New York, i governi di 122 Stati si sono impegnati sulla base del Trattato di Interdizione delle Armi Nucleari (TPNW) a non produrre né possedere questo genere di armi, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente. Nessuno degli Stati in possesso di armi nucleari e nessuno dei membri della NATO, come l’Italia, aderisce al trattato. Se aderisse, l’Italia dovrebbe disfarsi delle bombe nucleari USA schierate sul proprio territorio in violazione del Trattato di Non Proliferazione; nel caso di una decisione comune europea, ben sei paesi dovrebbero rinunciare al possesso di tali ordigni, come dei missili a raggio intermedio promessi dagli USA dopo l’uscita dal Trattato INF. Diversi parlamentari, sindaci e organizzazioni della società civile italiana hanno rivendicato l’adozione di quel trattato, giuridicamente vincolante. Dobbiamo esigere un’Unione europea “nuclear free”, liberandoci non solo degli ordigni, ma anche dei reattori civili che ad essi sono connaturati. Occorre dare impulso nei territori a una visione tuttora ristretta agli “addetti ai lavori”, creando comitati e lanciando petizioni da presentare alle assemblee comunali e da trasferire poi a livello più alto, accompagnate da una adeguata pressione popolare sui siti nucleari.

11.5 Mettere al bando il nucleare civile. Le tragedie di Cernobyl e Fukushima, le cui conseguenze sugli addetti agli impianti, sulla popolazione e sul territorio, e la loro prevedibile durata che compromette decine di generazioni a venire, vengono tenute rigorosamente segrete devono indurre tutti a considerare il nucleare civile non meno pericoloso di quello sviluppato a fini bellici.

11.6 Spostare investimenti dalla macchina militare alla prevenzione della catastrofe climatica. Dopo il Vertice per la Terra di Rio de Janeiro del 1992, è cresciuta la percezione che l’umanità possa perire non solo per la forza distruttiva della bomba ma anche per la progressione brusca del cambiamento climatico. Dirottare risorse dal mondo fossile a quello “pulito” è la reiterazione complementare a quella di “svuotare gli arsenali e riempire i granai”. Lo spostamento di investimenti dalla macchina militare alla prevenzione della catastrofe climatica è un’urgenza assoluta che dobbiamo reclamare in ogni istanza responsabile.

11.7 Creare occupazione riconvertendo l’industria di guerra e dei fossili La conversione ecologica è una svolta necessaria per la sopravvivenza dell’intera umanità. La comunità internazionale la postula attraverso tutti gli accordi giuridici nei quattro campi in cui si articola il diritto alla pace: disarmo, ecologia, diritti umani, giustizia sociale. Occorre garantire reddito e occupazione ai lavoratori dei settori da riconvertire. Il bando ai combustibili fossili adottato a Parigi con l’accordo sul clima va accompagnato al bando del nucleare sia militare sia civile, e i primi fondi per affrontare questa transizione potranno essere ricavati dalla sospensione dei lavori per le grandi opere nocive, dal risparmio sulle spese militari destinate ad armi o missioni incostituzionali e dall’abolizione degli incentivi alle fonti fossili.

11.8 Portare alla luce le cause ecologiche delle guerre. Guerre per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre per la terra, guerre per l’atmosfera: la scarsità di risorse e il loro rapido deterioramento sono all’origine di conflitti di devastante impatto sulle condizioni di vita provocando ondate di emigrazioni. Il degrado di materia vitale alla massima velocità (i processi naturali non ricorrono alla combustione) e l’impiego inusitato di energia (le esplosioni richiedono che le trasformazioni energetiche si consumino nel più breve tempo possibile) trascendono le potenzialità di metabolizzazione della natura e impediscono una rigenerazione della vita. Si stima che il solo Pentagono produca il 5% della CO2 globale. La produzione di CO2 dell’insieme dei sistemi militari mondiali potrebbe ammontare al 15% della CO2 totale (per oltre la metà imputabile ai paesi della NATO). Eppure, il settore militare è esente (non viene contabilizzato) da obblighi stabiliti nelle convenzioni internazionali (COP) per il clima. Ne dobbiamo esigere l’osservazione e l’incorporamento nelle quote da azzerare entro il 2050.

11.9 Il diritto di pace, sostegno di un’ecologia integrale. Il diritto “di” pace è l’opposto del diritto che vige in guerra e riguarda l’uguaglianza e la giustizia sociale non meno che le modalità di relazione con la natura, senza le quali non c’è pace possibile, né in ambito nazionale né in quello internazionale. Il diritto di pace attribuisce al popolo il potere di autodeterminazione e conferma il ruolo antagonistico della sovranità popolare rispetto a quello delle élites economico-politiche dominanti, in piena antitesi con l’approccio sovranista che fa discendere la protezione dei “sudditi” dal governo, senza mediazione di rappresentanza democratica. La pace è indissolubilmente connessa all’ecologia integrale, che combatte la rapina degli elementi naturali – l’aria, l’acqua, la terra, la flora e la fauna – da cui dipende la vita tutta e quella delle generazioni a venire. Un punto di riferimento iniziale è rappresentato dalla Dichiarazione ONU sul Diritto alla Pace, adottata il 19.12.2016: Ognuno ha il diritto di godere la pace in modo che tutti i diritti umani sono promossi e protetti e lo sviluppo pienamente realizzato (art.1).

11.10 Attuare l’articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra. Il Nuovo Modello di Difesa italiano presentato nel 1991 prevede la difesa armata degli interessi italiani ovunque nel mondo, in piena violazione dell’art.11 della Costituzione, promuove l’acquisizione di sistemi d’attacco e di proiezione a lungo raggio e mortifica la corretta applicazione della Legge sulla esportazione di armi (L.185/1990). La presenza dell’Italia nella NATO – la cui spesa militare vale il 52% di quella mondiale – va riconsiderata: dal 1999 con l’adozione del “Nuovo Concetto Strategico”, la NATO non è più, nemmeno formalmente, un’alleanza difensiva. L’Unione europea e l’Italia devono rinunciare alla capacità di proiezione militare all’estero, adottando un modello strettamente difensivo, non nucleare, nel rispetto integrale dello Statuto ONU che solo può, come ultima ratio, usare la forza militare per riportare la pace.

 

12. UMANO, VIRTUALE E ARTIFICIALE: CONIUGARE SOLIDARIETÀ E INNOVAZIONE

12.1 ARMONIZZARE UMANO E ARTIFICIALE. L’uso quotidiano di apparecchiature elettroniche – schermi, TV, smartphone, GPS, computer, connessioni internet, lettori di DVD o di codici a barre – ha sconvolto ritmi, percezione delle distanze e modalità di relazioni. L’evoluzione della scienza moderna è così estranea alla cultura comune da essere considerata faccenda per addetti ai lavori, sicché si continua a fare riferimento a spiegazioni scientifiche che hanno sostenuto la precedente era industriale – fondate sul determinismo newtoniano, secondo cui tutto ciò che avveniva aveva una causa definita e dava luogo a un effetto definito – ma che non possono dar conto dell’odierna complessità, che, come avverte la fisica quantistica, ci mette di fronte a un mondo non scomponibile in unità dotate di esistenza indipendente e che ci appare piuttosto come una rete di relazioni tra le varie parti del tutto, che includono sempre l’osservatore come elemento essenziale. Il patrimonio di conoscenza che viene impiegato per accelerare e intensificare produzione e consumo nell’economia capitalista non è più in grado di prevedere il limite di compatibilità tra la vita umana e il sistema artificiale che ne deriva, se appena si mettono nel conto le risorse rigenerabili che consentirebbero riproducibilità e sopravvivenza. L’umanità, con il suo corredo insostenibile di protesi elettroniche, si è circondata di un mondo artificiale parallelo, virtuale, caratterizzato da istantaneità e ubiquità, in cui operano leggi che non sono le stesse che la nostra mente percepisce attraverso i nostri sensi. Un mondo artificiale in accelerata espansione a cui si accede solo attraverso tecnologie proprietarie e i cui principi di funzionamento sono sconosciuti alla maggioranza degli utilizzatori. Ne nasce una dissonanza e una dissintonia tra spazio-tempo biologico e spazio-tempo artificiale, che sono sottratti al controllo sociale e al campo della discussione politica. La conoscenza, l’istruzione e una corretta divulgazione scientifica vanno considerati diritti da generalizzare per democratizzare la tecnica e armonizzare umano e artificiale.

12.2 Regole e trasparenza nella trasformazione del mondo in dati. La digitalizzazione di ogni sorgente di informazione e conoscenza, con la trasformazione di testi, suoni e immagini in cifre/bit immagazzinate ed elaborate da algoritmi proprietari, determina una realtà virtuale parallela al mondo reale, che si sottrae al controllo sociale nel presente, condiziona la trasmissione della memoria del passato, influenza le previsioni del futuro. La raccolta di dati, la loro messa in rete, la disponibilità e gli strumenti per farne uso sono terreno di una battaglia da non sottovalutare, nonostante evidenti ritardi politico-culturali. Gli algoritmi che presiedono alle operazioni in Internet, influenzano i modi di vivere: mobilità, salute, memoria, relazioni, economia, informazione, innovazione e, soprattutto, linguaggio. Con l’attivazione di sensori biologici si mira addirittura a privatizzare e rendere commerciabile il patrimonio genetico di tutto il mondo vivente. Oggi possedere algoritmi imposti agli utenti con il monopolio dei motori di ricerca e delle piattaforme significa poter estendere a miliardi di persone pregiudizi e discriminazioni in aree come la selezione delle news, la pubblicità, la ricerca di lavoro, l’assistenza e la salute. Il mondo virtuale va assoggettato a regole trasparenti per impedire l’espropriazione della sfera personale e l’accanimento nel controllo del comportamento sociale.

12.3 Discernere tra intelligenza artificiale e pensiero, tra calcolabilità e verità. La cultura del network non potrebbe essere accettata per assoggettamento volontario al potere costituito, se non consentisse una libertà radicale dell’espressione: le informazioni, il chiacchiericcio, i post, i like, le immagini condivise sono “postati” e resi pubblici attraverso la mediazione delle piattaforme, che li rendono materia prima da elaborare per essere venduta e massimizzare i profitti facendo leva su un gigantesco deposito virtuale governato dall’intelligenza artificiale. L’IA opera sulla base di una matematizzazione della realtà – compresa la vita stessa – e pretende di simulare la razionalità umana. Una meccanizzazione del genere è certamente essenziale nella logica d’impresa e della sua espansione, ma se investe i processi intellettuali e affettivi si trasforma in un’entità magica attraverso la quale la calcolabilità prende il posto della verità. Dopo l’automazione del lavoro, arriva quella del pensiero: una forma di alienazione nei cui confronti occorre esercitarsi al conflitto.

12.4 Tassare tutte le operazioni finanziarie. In un settore immateriale come quello finanziario, il grosso delle transazioni mondiali avviene attraverso programmi automatici gestiti dai computer. L’introduzione di strumenti informatici sofisticati ha reso di fatto inaccessibile il controllo dei mercati finanziari da parte della maggioranza degli investitori. Lo strumento informatico che governa i mercati si basa su modelli matematici che nascondono l’ideologia sottostante al capitalismo finanziario e la finalità di produrre danaro con un’iniqua distribuzione dei rischi. Con l’imposizione della Tobin Tax, un prelievo minimo su ogni transazione finanziaria, le operazioni di speculazione sarebbero registrate, diventerebbero analizzabili e automaticamente rallentate. É un obbiettivo redistributivo, oltre che di trasparenza e democrazia, che può essere destinato al sostegno della riconversione ecologica.

12.5 Un green new deal per l’occupazione e contro l’alienazione della tecnica. Tecnica e capitalismo producono alienazione e ostacolano la comprensione d’insieme del mondo in cui ciascuno si ritrova inserito. Si rende necessario un progetto che impedisca a un’élite tecnocratica di progettare e automatizzare a senso unico le filiere di produzione, che finiscono con il creare persone escluse, non più reinseribili nel mondo del lavoro. L’autonomia personale e collettiva nei confronti della tecnica e dell’organizzazione del lavoro è premessa e tratto fondante di qualsiasi progetto di riconversione. Gran parte del lavoro manifatturiero di domani verrà automatizzato, sostituendo umani con robot, intelligenza artificiale e stampanti 3D azionate in remoto. Un green new deal richiede un grande piano di investimenti per attuare la conversione ecologica dell’economia e della società. Uno dei pilastri portanti del green new deal è la “rivoluzione energetica”, proposta e sostenuta per decenni dal movimento ambientalista contro l’energia nucleare e le fonti fossili e per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili (FER), che ha portato a far crescere di otto volte gli investimenti sulle FER, fino ai 330 miliardi $ del 2016, nello stesso periodo nel quale i beni capital intensive di riferimento del mainstream economico – edilizia e automobile – subivano crolli a due cifre. Altre due imprescindibili opzioni per il green new deal sono i beni durevoli sostenibili, quali sono la quasi totalità dei beni della green economy, e il “terzo mercato”, quello dei beni e servizi il cui valore d’uso vale più del valore di scambio, che è già popolato da una miriade di operatori e associazioni senza fini di lucro. Una politica economica basata su queste leve configura innovazione e spostamenti nei settori produttivi, con un complessivo incremento dell’occupazione. Una politica “bottom up” nella prospettiva della sostenibilità ambientale e della coesione sociale.

12.6 Ridurre consumo e impatto ambientale degli strumenti elettronici e digitali. La diffusione di tecnologie elettroniche e digitali produce consumi di energia e impatti ambientali resi pressoché invisibili dal carattere “immateriale” che sembra contraddistinguere i nuovi processi. Ma anche se consumo e impatto non sono tangibili come nella fabbrica tradizionale, massicce sono comunque le risorse fisiche impiegate nell’alimentazione delle reti, degli innumerevoli server, dei grandi elaboratori, dei “cloud” in cui si immettono e conservano enormi quantità di dati e programmi, sia quelli capillarmente e densamente distribuiti, sia quelli concentrati in impianti privati di difficile accesso, in molti casi sottoposti a vigilanza militare e, comunque, al di fuori del controllo pubblico. Una sola e-mail da 1 megabyte arriva a emettere fino a 19 grammi di CO2 e le e-mail inviate ogni giorno sono 190 miliardi. Anche nell’era digitale vale il principio di sufficienza: oltre a non eccedere nelle comunicazioni, è buona pratica eliminare le mail che non servono più svuotando il cestino, allegare foto in bassa risoluzione, impostare un filtro antispam.

12.7 Democratizzare il sistema tecnico e indirizzarlo alla riconversione. Il sistema tecnico tende a smaterializzare anche l’esperienza collettiva e la progettualità umana generando una società che delega sempre più ogni capacità e possibilità di decisione allo stesso sistema tecnico (machine learning, algoritmi che imparano da soli, ecc.), riducendo la politica a una dimensione meramente funzionale/amministrativa. É un processo che sancisce la fine della memoria e nega uno sguardo su un mondo altro e possibile. Nel prevalere del tecnocapitalismo come potere sull’umano, la democrazia deve mantenere e praticare il bilanciamento dei poteri al proprio interno, rispettare il principio del limite, perseguire il controllo di ogni eccedenza di un potere sugli altri, compreso quello della specie umana sulla natura. Un’evoluzione della partecipazione si può configurare in istituzioni locali – come i comitati di cittadini e lavoratori – per progettare e gestire gli interventi, i piani energetici e di mobilità, le iniziative della conversione ecologica.

12.8 Umanizzare la tecnica valorizzando il dualismo tra maschile e femminile. Il riduzionismo tecnologico dimentica che la differenza è un valore ed è la forza di una società costituita da una molteplicità di differenze: linguistiche, religiose, culturali, ma soprattutto sessuali. Contro le culture del possesso esclusivo ed escludente e contro l’indifferenziazione sessuale del modo di (ri)produzione, occorre custodire e valorizzare l’unità antropologica tra il mondo maschile e il mondo femminile. Il modello scientista e tecnocratico mutua dallo schema maschilistico di potere un prototipo dell’umano che non riconosce la ricchezza creativa della generatività e la riduce a duplicazione, gemmazione, clonazione. In questo modello, l’uomo che si vorrebbe produrre (non riprodurre) non c’è perché non c’è la parte femminile, non c’è la differenza sessuale.

12.9 L’ecologia integrale come antidoto alla tecnocrazia. Tecnica ed economia predatoria condividono il superamento di ogni limite/ostacolo come espressione di una volontà di potenza impersonale; vivono di velocizzazione infinita in uno stato di eccezione permanente. Illudersi di avere a disposizione un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta significa isolare fattori che sono tra loro connessi inseparabilmente nel funzionamento della biosfera. La cultura ecologica non si limita ad adottare tecnologie riparatrici per tentare di contenere a valle processi che, per la loro elevata entropia, non sono in grado di rigenerare la natura; è uno sguardo diverso, un atteggiamento olistico e precauzionale, una pratica politica associata a un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che danno forma non solo a una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico, ma a un suo autentico capovolgimento.

12.10 Valorizzare il “luogo”, ponte tra locale e globale, tra campagna, città e periferia. Il luogo è lo spazio dove convivono nel tempo umani e non, dove si costruiscono affetti e progetti, e si costituisce la consapevolezza delle potenzialità che il territorio e la comunità in cui siamo inseriti offrono a tutti e tutte. “Luogo” è ovunque culture e biografie si mescolano e si riconoscono reciprocamente. A differenza di realtà più ampie, quello che accade in un luogo è totalmente verificabile dalle persone che lo abitano, in un rapporto fecondo tra responsabilità, rappresentanza diretta, delega e controllo dal basso. Il “luogo” non ammette esclusioni, trasforma il multiculturalismo in meticciato, antidoto a una globalizzazione univoca segnata dal primato dell’artificiale sull’umano. Luoghi devono diventare anche le aree metropolitane e le periferie, territori a metà tra città e campagna, annientati dalla perdita di memoria, dai veleni industriali e dalla cementificazione del suolo. Bisogna liberarli dal vincolo della città come conservazione: il futuro delle periferie si scontra infatti con i “guardiani del centro”. Dobbiamo invece diventare “guardiani delle periferie” da far vivere e non più da abitare da rifugiati atomizzati.

 

13. EDUCAZIONE, COMUNICAZIONE, RESISTENZA, ANTIFASCISMO

13.1 INCONTRO E DIALOGO COME STILE DI VITA. Nonostante l’iper-connessione nel mondo virtuale, le nostre esistenze sono sempre più connotate dall’individualismo, fatte di muri e diseguaglianze, condizionate dagli interessi di una minoranza attenta a difendere ed espandere i propri privilegi. «Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti», scrive papa Francesco. «Emerge così una grande sfida culturale, spirituale ed educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione». Questa sfida ha come elemento portante l’incontro e il dialogo, e vede come centrale il ruolo dell’educazione: scuola e università, ma anche processi di autoformazione capaci di coinvolgere il mondo del lavoro e delle professioni e la cittadinanza nel suo insieme.

13.2 Inclusione scolastica. La scuola è il luogo fondamentale di apprendimento non solo di nozioni ma di relazione sociale e cittadinanza. La dispersione scolastica è una ferita che radica fin nell’infanzia il seme della diseguaglianza. Per questo occorrono politiche che affrontino il disagio sociale, dato in particolare da povertà e migrazione, e prevedano incentivi e sostegno per gli studenti e le famiglie. Vanno sanzionati e prevenuti atti di discriminazione (come nei casi di Adro, Monfalcone, Lodi e Pisa) che utilizzino circolari ministeriali, ordinanze comunali e interpretazioni distorte delle leggi per escludere bambini e bambine dai servizi scolastici essenziali.

13.3 La scuola come occasione di integrazione delle famiglie. Attraverso la scuola, con iniziative aperte al territorio, si possono creare occasioni di incontro capaci di coinvolgere le famiglie nella vita della comunità. Le scuole e le università devono fare fisiologicamente parte del tessuto urbano e sociale in cui operano e restare aperte al territorio anche al di fuori dell’orario delle attività scolastiche. Per superare i “muri” fisici e mentali che chiudono le nostre esistenze – in misura maggiore quanto più limitate sono le possibilità economiche e culturali di esperire realtà diverse – occorrono politiche di socializzazione capaci di ricucire l’estraneità dai luoghi di residenza e dalle biografie di chi vi abita, aprendo forme di dialogo e cooperazione. La scuola può diventare il principale elemento connettivo di una comunità, in particolare nei confronti di quelle famiglie o gruppi verso cui esiste uno stigma sociale, o dove le donne sono sottoposte a forti meccanismi di reclusione. Occorre promuovere la presenza di scuole popolari nei territori – in particolare quelli più disagiati e periferici – rivolte non solo ai giovani in età scolare ma al loro tessuto familiare e sociale, dove promuovere cultura dei diritti, della legalità, della convivenza nella differenza.

13.4 Insegnanti di sostegno e valorizzazione di ogni studente. Classi affollate, con una presenza eccessiva di bambini e ragazzi migranti, specie se appena arrivati e non in possesso della lingua del paese d’arrivo o di cognizioni di base, possono costituire un fattore di degrado dell’insegnamento e del ruolo includente della scuola. Questa situazione contribuisce ad alimentare reazioni di diffidenza e rifiuto nella popolazione e va affrontata con supporti adeguati: insegnanti di sostegno, mediatori culturali e interpreti, riduzione del numero degli alunni e alunne per classe, attività parascolastiche. Al tempo stesso, è importante dare supporto alle scuole perché sappiano valorizzare, nelle classi e nelle attività rivolte alle famiglie e al territorio, la presenza di studenti migranti o appartenenti a famiglie immigrate, rom e sinte, o di diverso orientamento sessuale, o che siano portatori di qualsiasi altra forma di differenza socialmente soggetta a potenziale pregiudizio, per la ricchezza di esperienze, di conoscenze, e anche di sofferenze, di cui sono portatori.

13.5 Liberare la scuola dall’ideologia del merito. La cultura manageriale, introducendo nel processo educativo sistemi indifferenziati di valutazione e finalizzando l’insegnamento al risultato conseguito nei test, spinge a snaturare la funzione della scuola, svuotandola del profondo e indispensabile valore dei rapporti personali e della cooperazione tra docente e allievo e degli allievi tra di loro. Inculcare fin dall’infanzia l’ideologia del merito, secondo cui ciascuno è responsabile della propria condizione, dei propri successi e fallimenti, produce una coazione a competere che elude la domanda fondamentale su “chi” decide del merito: un’astrazione che non si presenta mai come il risultato di una valutazione tra pari, finalizzata a individuare e valorizzare i talenti di ciascuno perché vengano messi a disposizione di tutti. La meritocrazia diviene così una legittimazione etica della condanna morale di chi ha meno – socialmente, economicamente, fisicamente – che viene lasciato ai margini e scartato.

13.6 Per una scuola indipendente dal mercato. Le tasse dei cittadini devono essere destinate al sostegno di una scuola pubblica inclusiva e formativa, e di università libere e sganciate da modelli aziendalisti. L’istruzione privata deve rispettare gli standard definiti in sede statuale in tutto il territorio nazionale ed essere sostenuta esclusivamente dalle comunità che se ne fanno carico. L’accesso a un’istruzione pubblica garantita a tutti non può essere compromesso da una diversa destinazione, anche parziale, delle necessarie risorse.

13.7 Contrasto di linguaggi d’odio e bullismo. Nelle scuole si registra una preoccupante crescita di atti di bullismo e violenza verso chi è ritenuto più debole o diverso, linguaggi volgari e dileggio nei confronti di altri studenti e persino di insegnanti, sia da parte di studenti sia dei loro genitori. L’educazione al rispetto, alla non violenza e alla gestione dei conflitti, alla responsabilità sociale, all’affettività, all’amore e alla sessualità che riconosca il limite della libertà degli altri, che inviti alla curiosità e all’incontro, alla ricerca di soluzioni ai problemi personali, famigliari e sociali, non può essere ridotta all’ora di educazione civica, sessuale o ambientale. Il linguaggio in uso, sempre più povero anche a causa dell’uso pervasivo del web – con emoticons, aggressioni anonime, fake news e pornografia accessibile ai bambini – non permette di cogliere la fisicità, l’emotività e la scoperta degli incontri, riduce sempre più spesso lo stare insieme a modalità da branco o da clan, dove il collante diventano le manifestazioni di avversità e odio nei confronti di donne, anziani, malati, disabili, persone con diverso orientamento sessuale, poveri, immigrati, rom e sinti. Oggetto del linguaggio d’odio sono divenute, in Italia e in diverse parti d’Europa, anche le persone che praticano la solidarietà nei confronti delle categorie “odiate”, e le stesse leggi e convenzioni che sanciscono i principi di eguaglianza, solidarietà, soccorso e asilo. Vittime del linguaggio d’odio sono divenute, in Italia e in diverse parti d’Europa, non solo le persone che praticano la solidarietà nei confronti delle categorie “odiate”, ma le stesse leggi e convenzioni che sanciscono i principi di eguaglianza, solidarietà, soccorso e asilo. L’esempio diseducativo dato da politici, rappresentanti delle istituzioni e testate giornalistiche deve essere sanzionato da un vasto movimento di opinione, attuando capillari misure di contrasto e controinformazione, in particolare nelle scuole e sui social media.

13.8 Educazione all’ecologia integrale. É importante promuovere percorsi educativi e conoscitivi di alfabetizzazione ecologica fin dalle scuole primarie, insegnando il rispetto per la casa comune, la responsabilità e la cura verso il vivente, le implicazioni positive di un consumo equo e sobrio, di una cultura avversa alla crudeltà, attenta ai diritti umani e naturali, alla dignità del lavoro, alla pace, al godimento della bellezza e del tempo.

13.9 La comunicazione, tra informazione e fake news. I social media consentono una diffusione veloce e capillare di informazioni ma anche di narrazioni distorte e notizie false, spesso create ad arte e veicolate al fine di ottenere consenso culturale, politico ed elettorale. Il risultato più eclatante – oltre alla vittoria referendaria del “Leave” per la Brexit – riguarda la migrazione, avendo indotto gli italiani, contro ogni dato statistico, a percepirsi come “assediati”, sottoposti a “invasione” o addirittura a rischio di “sostituzione etnica”. Contro la macchina mediatica di menzogne e propaganda e l’avanzare della realtà virtuale e aumentata (deepfake), che permette alla falsificazione di diventare irriconoscibile, occorrono strumenti di informazione, conoscenza, approfondimento e decostruzione da portare nelle scuole, nei posti di lavoro e nei luoghi di aggregazione, sia reali sia virtuali. Ma sono il rapporto diretto, il racconto testimoniale, lo scambio vivo di esperienze a ripristinare un approccio affidabile alla realtà.

13.10 Contro la propaganda della paura. Vedere l’altro come minaccia alimenta paura e risentimento, fa crescere rabbia e impotenza, apre la strada a una cultura che ha bisogno del nemico per affermarsi. Innescando lotte tra deboli e contro gli ultimi, la paura si ripercuote sulla dimensione democratica della vita pubblica, produce guasti nel tessuto umano e sociale. Per questo, oltre a dare risposte politiche –giustizia distributiva, accesso al welfare, pari possibilità di godimento e responsabilità della casa comune – al sentimento di insicurezza e precarietà delle persone, è necessario arginare culturalmente e mediaticamente i danni prodotti da chi strumentalizza l’insicurezza e la usa come capitale politico.

13.11 Campagne di educazione contro xenofobia e razzismo. Poiché l’aspirazione a migrare è non solo insopprimibile ma legittima – come riconosciuto anche dal Global Compact per la migrazione sancito dall’ONU nel 2018 – è necessario promuovere un diverso sguardo su chi sceglie di lasciare il proprio paese per ricominciare una vita altrove. Al tempo stesso, è necessario valorizzare la piena cittadinanza – sociale, politica e culturale – di chi ha eletto l’Italia come proprio paese di residenza, o addirittura vi è nato. Sono necessarie capillari attività di educazione a partire dalle scuole, dai media e dai luoghi di lavoro per contrastare la semina di xenofobia e razzismo, spesso anche istituzionale, degli ultimi anni.

13.12 Antirazzismo. É sempre più pervasivo l’utilizzo di un’ideologia razzista consapevolmente tratta dalle politiche coloniali e fasciste da gruppi di estrema destra che si radicano nei territori e portano discorsi d’odio e segregazione nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri più degradati. Assieme a un capillare lavoro di resistenza culturale sui territori, vanno monitorate le forme di razzismo istituzionale attuate dalle amministrazioni locali che adottano provvedimenti di discriminazione nei confronti dei migranti e di repressione nei confronti dei cittadini solidali. Le istituzioni hanno il compito di mantenere la convivenza democratica e il dettato costituzionale, in Italia e in Europa; per questo occorre vigilare sui governi, i parlamenti e le istituzioni nazionali ed europee, quando, con legislazioni speciali, strategie mediatiche, prassi amministrative, selezione tra nazionalità “accettabili” e “pericolose”, operazioni di polizia segnate dal racial profiling, moltiplicazione dei campi di detenzione, inoculano di fatto il razzismo nel corpo sociale europeo.

13.13 Antifascismo. In alcuni stati europei, gruppi di estrema destra hanno trovato appoggi governativi e possibilità di disseminazione. L’avanzata di formazioni neofasciste e razziste che minacciano di formare blocchi di influenza nell’Unione ci impegna a promuovere collaborazione e scambio tra governi, studiosi, associazioni e gruppi antifascisti. La memoria storica è un valore fondativo che va preservato e risignificato, per questo non devono avere spazio insegnamenti e pratiche che neghino o riducano l’enormità della Shoah e del genocidio di rom e sinti, dello sterminio di omosessuali, malati di mente, oppositori politici ed emarginati – prostitute, poveri – che vennero considerati “asociali” dalla politica eliminazionista nazifascista. La chiara consapevolezza della matrice colonialista, razzista e genocida del fascismo e del nazifascismo deve improntare le scelte delle istituzioni, che non devono offrire alcuno spazio a chi ne promuove l’ideologia.

13.14 Linguaggi di fraternità e sorellanza. Si sta sgretolando una cultura originata e alimentata da concezioni e pratiche di fratellanza, amicizia, giustizia, lotta alla povertà, condivisione con le persone più fragili. Al suo posto si fa strada una cultura impregnata di identità chiuse, di individualismo anche feroce, di un io possessivo che invoca sicurezza e rifiuto di apertura all’altro. A tutto ciò occorre contrapporre un linguaggio della fraternità, della sorellanza e della bellezza. «Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati».

13.15 Cittadinanza attiva e politica come patrimonio comune. É cruciale sviluppare una resistenza culturale capace di coinvolgere una pluralità di punti di vista, di riflessioni, di esperienze e di competenze; restituire centralità a una visione politica dei problemi, ricostruendo convergenza tra iniziative politiche e forze sociali e intellettuali, ricreando il nesso necessario tra Costituzione, Carta europea dei diritti, diritto internazionale e società. Solo rinvigorendo nella pratica quotidiana i valori della solidarietà e della politica intesa come patrimonio comune è possibile rinnovare la democrazia, nella condivisione di saperi e di forme di partecipazione e cittadinanza attiva.

 

HANNO CONTRIBUITO ALLA STESURA E ALLA REVISIONE DEL DOCUMENTO:

Mario Agostinelli (presidente Energia Felice) Luigi Agostini (presidente Federconsumatori) Pino Albini (direttore Ticonzero) Aurelio Angelini (ordinario di sociologia dell’ambiente all’Università di Palermo) Annecie Audate (direttrice VIDES Internazionale – Centro Italiano Opere Femminili Salesiane) Gianna Luigia Badoni (consigliera nazionale Pax Christi) Guido Barbera (presidente CIPSI) Raffaella Bolini (ARCI) Aldo Bonomi (presidente ASTEER) Sergio Bontempelli (Associazione Diritti e Frontiere – ADIF) Maurizio Bove (responsabile Dipartimento Immigrazione CISL Milano) Antonio Bruno (insegnante) Maria Agostina Cabiddu (ordinario di diritto pubblico al Politecnico di Milano, direttivo Coordinamento democrazia costituzionale) Paolo Cacciari (giornalista) Marco Caldiroli (presidente Medicina Democratica) Eugenio Cantore (No-TAV, Gruppo cattolici per la vita nella valle) Erika Capasso (presidente Hayat onlus) Vittorio Capecchi (direttore “Inchiesta”) Laura Cima (Prima le persone, già presidente Gruppo parlamentare Verde) Lisa Clark (Rete Italiana per il Disarmo) Virginio Colmegna (presidente Casa della carità) Angelo Consoli (Ufficio europeo Jeremy Rifkin) Antonio De Lellis (Comitato per l’Annullamento del Debito Illegittimo, Attac Italia) Giorgio De Michelis (professore di informatica teorica e sistemi informativi all’Università Insubria di Varese) Thierry Dieng (Movimento Ubuntu) Angela Dogliotti (presidente Centro Studi Sereno Regis) Gianluca Felicetti (presidente Lega Anti Vivisezione – LAV) Enzo Ferrara (Associazione Italiana Esposti Amianto – AIEA) Grazia Francescato (già presidente di WWF Italia e Verdi) Antonio Frascone (tecnico ENEA ISPRA) Giovanni Fusar Poli (coordinatore Punti Pace Nord Pax Christi) Mario Galasso (direttore Caritas Diocesana di Rimini) Stefano Galieni (Associazione Diritti e Frontiere – ADIF) Raniero La Valle (giornalista) Massimo Lettieri (presidente Ri-Maflow) Oreste Magni (presidente Ecoistituto Valle del Ticino) Gigi Malabarba (Ri-Maflow) Emilio Molinari (Costituzione Beni Comuni) Daniela Padoan (presidente Associazione Laudato Si’) Elio Pagani (Pax Christi) Alessandro Pagano (segretario FIOM Lombardia) Riccardo Petrella (presidente IERPE – gruppo promotore Banning Poverty) Pier Paolo Poggio (presidente Fondazione Micheletti) Giovanna Procacci (sociologa, Libera) Roberta Radich (Coordinamento nazionale No-Triv) Eliana Rasera (If Italia) Paola Regina (avvocata internazionalista) Francesco Remotti (professore emerito di antropologia culturale all’Università di Torino) Simona Sambati (Casa della carità) Roberto Savio (direttore “Other News”, Forum Sociale Mondiale) Massimo Scalia (docente di fisica matematica all’Università La Sapienza) Karl-Ludwig Schibel (Comitati per il clima) Mario Sommella (Prima le persone) Giuseppe Vanacore (presidente Associazione Nazionale Emodializzati – ANED) Vincenzo Vasciaveo (responsabile delle relazioni esterne Distretto di Economia Solidale Rurale – Parco Agricolo Sud Milano) Fulvio Vassallo Paleologo (presidente Associazione Diritti e Frontiere) Guido Viale (presidente Osservatorio Solidarietà) Luca Zevi (architetto)

 

ALTRI CONTRIBUTI E ADESIONI SONO TUTTORA IN ARRIVO DOCUMENTI DI RIFERIMENTO:

– Enciclica Laudato si’ – Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti al 3° incontro mondiale dei movimenti popolari, 5 novembre 2016

– Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti al Forum internazionale “Migrazioni e pace”, 21 febbraio 2017

– Documento Associazione Laudato Si’ 10 punti – Lettera-appello Associazione Laudato Si’

– Carta degli abitanti della Terra, Sezzano, gennaio 2019

– Luigi Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza

– Abbiamo un piano

– Non una di meno

 

RIFERIMENTI GIURIDICI E DI INDIRIZZO

– I principi internazionali a garanzia della pacifica convivenza tra popoli stabiliti dall’intero impianto di norme e convenzioni internazionali nel “sistema delle Nazioni Unite”

– i principi e valori fondanti dell’Unione europea, sanciti nei Trattati istitutivi dell’Unione europea

– i diritti naturali dell’uomo, sanciti dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 e tutelati (a seguito dell’istituzione del Consiglio d’Europa) dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ambito dei Paesi aderenti alla Convenzioni (oltre che da altre Convenzioni nell’ambito del sistema inter-americano e africano)

– Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Carta di Nizza)

– Agenda 2030 ONU: 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) – Global Compact for Migration ONU

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