n° 38 del 18/09/2021 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 –  SCHIRÒ (PD): L’ISCRIZIONE ALL’AIRE NON ESCLUDE (IN ALCUNI CASI) LA RESIDENZA FISCALE IN ITALIA . L’iscrizione all’Aire non garantisce (come alcuni nostri connazionali hanno imparato a proprie spese) l’esenzione dalle tasse italiane

02 – Alfiero Grandi*: CAMBIARE LE REGOLE DEL PATTO DI STABILITÀ EUROPEO È NECESSARIO AL PNRR IN EVIDENZA.

03 – LA MARCA*, ESORTA IL GOVERNO ITALIANO AD INTENSIFICARE I RAPPORTI CON IL GOVERNO USA PER RIMUOVERE IL “TRAVEL BAN” – SITUAZIONE INSOSTENIBILE PER I CONNAZIONALE.

04 – Natale Cuccurese*:  L’ULTIMA “GENIALE” MOSSA PER SOTTERRARE IL SUD . Oltre a voler abbattere il reddito di cittadinanza e a proseguire sulla via dell’autonomia differenziata, il governo Draghi si appresta a validare l’idea di gabbie salariali. Uno strumento che farebbe esplodere le disuguaglianze. Non desta stupore il taglio dei fondi del Pnrr, dal 65% da destinare al Sud come indicato dall’Europa, al 40%. Uno studio di Bankitalia dimostra che l’Italia, per crescere, deve ridurre il divario tra Nord e Sud.

05 –  El Espectador, Colombia*: Mentre il congresso e la presidenza colombiani  sono impegnati a ratificare il trattato internazionale di Escazú che ha l’obiettivo di proteggere l’ambiente e gli attivisti che lo difendono,  la Colombia ha ricevuto per la seconda volta un  orribile riconoscimento: è il paese dove vengono uccisi più difensori dell’ambiente.

06 – l giro di vite di Xi Jinping*: Cinquantacinque anni fa la Cina era in subbuglio. Mao Zedong aveva lanciato la rivoluzione  culturale per sradicare l’opposizione all’interno del Partito comunista e ripulire lo spirito  politico del paese usando il potere delle masse.

07 – Thomas Pikett*: NON SIAMO ANCORA USCITI DALL’11 SETTEMBRE. Vent’anni fa le torri del World trade center venivano abbattute da due aerei. Il peggior attentato della storia  avrebbe portato gli Stati Uniti e i loro  alleati a lanciarsi in una guerra mondiale contro il terrorismo e “l’asse del  male”. Per i neoconservatori statunitensi l’attentato era una prova delle tesi proposte dal politologo Samuel Huntington nel 1996: lo “scontro di civiltà” era il nuovo prisma per leggere il mondo.

08 – Tali Goldman *: MESSSICO. SPAZIO ALLE DONNE. Come in molti settori della società, in Sudamerica nei sindacati ci sono soprattutto uomini. Ma nel trasporto pubblico la situazione sta cambiando.

09 – Brevi. Cosa succede nel mondo.

 

01 –  SCHIRÒ (PD)*: L’ISCRIZIONE ALL’AIRE NON ESCLUDE (IN ALCUNI CASI) LA RESIDENZA FISCALE IN ITALIA. L’iscrizione all’Aire non garantisce (come alcuni nostri connazionali hanno imparato a proprie spese) l’esenzione dalle tasse italiane. 13 SETTEMBRE 2021

La Corte di Cassazione ha infatti recentemente confermato con l’Ordinanza n. 18702 che ai fini dell’accertamento della residenza fiscale in Italia di una persona fisica occorre procedere, quando è il caso, a una valutazione complessiva degli interessi sia personali che professionali del contribuente.

Per semplificare (l’Ordinanza della Corte è ovviamente molto articolata e con numerosi riferimenti legislativi e giurisprudenziali), la Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito che in tema di imposte sui redditi si richiedono per la configurabilità della residenza fiscale in Italia, tre presupposti, il primo (formale) rappresentato dall’iscrizione nelle anagrafi delle popolazioni residenti, e gli altri due (di fatto) costituiti dalla residenza o dal domicilio in Italia ai sensi del Codice civile.

Ne consegue, secondo la Corte, che l’iscrizione di un cittadino all’Aire non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorché il soggetto (e questa è la parte dirimente secondo la Cassazione) abbia in Italia il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari e interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali. Tale centro principale degli interessi vitali del contribuente va individuato, sempre secondo la Cassazione, dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente è in modo riconoscibile, e quindi in maniera permanente e non legata ad eventi occasionali.

Nel caso specifico esaminato dalla Cassazione, i giudici di primo e secondo grado avevano rigettato il ricorso del contribuente evidenziando che questi aveva mantenuto nel territorio nazionale i propri interessi, in quanto la circostanza che avesse affittato un appartamento nel Principato di Monaco non era sufficiente a vincere la presunzione della residenza fiscale in Italia visto che egli aveva interessi economici e di lavoro in Italia avendo acquistato un immobile in Italia e rivestendo la carica di amministratore in una società, e che la moglie e i figli risiedessero in Italia, dimostrando così che l’Italia fosse il centro dei propri interessi economici ed affettivi e che, allo stesso tempo, fosse poco significativo il contratto di locazione, come pure l’apertura di un conto corrente e l’immatricolazione di autovetture nel  Principato di Monaco.

*( Angela Schirò Deputata PD – Rip. Europa – Camera dei Deputati – Piazza Campo Marzio, 42

00186 ROMA – Tel. 06 6760 3193 . Email: schiro_a@camera.it)

 

02 – Alfiero Grandi*: CAMBIARE LE REGOLE DEL PATTO DI STABILITÀ EUROPEO È NECESSARIO AL PNRR IN EVIDENZA.

ALL’INIZIO IN SORDINA, TRA GLI ADDETTI AI LAVORI, ORA IN MODO SEMPRE PIÙ EVIDENTE SI STA APRENDO LA DISCUSSIONE TRA GLI STATI EUROPEI SUL FUTURO DELLE REGOLE DEL PATTO DI STABILITÀ. Dopo il trattato di Maastricht (1992) si arrivò al patto di stabilità e crescita nel 1997, con un’impostazione segnata da un’egemonia tedesca ispirata da una concezione liberista dell’austerità, ben poco solidale con gli stati in maggiore difficoltà. Il patto di stabilità fu concepito come condizione per arrivare all’Euro. La vittima più illustre del modello di austerità dieci anni dopo fu la Grecia, la cui crisi fu gestita dall’Europa sulla base di scelte che fecero pagare a quel paese prezzi sociali altissimi. La Grecia ebbe la sfortuna di diventare protagonista, suo malgrado, di una cura di austerità senza precedenti, per di più di esempio ad altri, Italia in testa. Solo dopo averne constatato l’esito disastroso la cura di austerità alla Grecia fu oggetto di ripensamenti. Non sempre sinceri.

Il Patto di stabilità conteneva già nel titolo l’obiettivo della crescita, come più volte ricordato da Ciampi con poca fortuna. Crescita che venne di fatto ignorata a favore della stabilità. Il governo Berlusconi, insediato dopo la vittoria elettorale del centrodestra nel 2008 con una maggioranza parlamentare schiacciante, dovette cedere il passo nel 2011 al governo Monti sotto la pressione di uno spread fuori controllo del debito pubblico italiano rispetto alla Germania. Per diverse ragioni altri paesi trovarono conveniente raggiungere intese bilaterali di fatto con la Germania, ad esempio la Francia. Le regole di austerità non bastavano mai e quindi furono approvate ulteriori norme, sotto la fattispecie di modalità attuative del patto di stabilità, attraverso accordi del 2011 che hanno nomi come six Pack e Two Pack. Una ulteriore stretta sulla base di un’interpretazione restrittiva delle regole del patto di stabilità.

Il patto di stabilità prevedeva regole pesanti come il 3% di deficit annuo, il 60% nel rapporto Debito pubblico /Pil, a cui si aggiunsero le ulteriori strette inserite nelle regole attuative, accettate dagli stati. In particolare il Debito pubblico superiore al 60% doveva rientrare di un 5% l’anno in venti anni. In Italia questo portò il governo Monti a scaricare soprattutto sui pensionamenti le misure restrittive di bilancio, per mettere in sicurezza i conti pubblici italiani, dopo il deragliamento prodotto dal centrodestra, con conseguenze sociali che ancora oggi non hanno trovato rimedi adeguati. Nello stesso tempo la larga maggioranza parlamentare che sosteneva il governo Monti approvò la modifica dell’articolo 81 della Costituzione, giornalisticamente definito impegno al pareggio di bilancio. Questa modifica della Costituzione fu un eccesso di zelo, tanto che proprio i partiti protagonisti di questo sbrego costituzionale successivamente non ne hanno mai rispettato le conseguenze.

Il gattopardo riprese quota e sotto le insegne di un riconoscimento formale degli impegni costituzionali vennero approvate anno dopo anno manovre di bilancio gonfiate ad arte che portavano a sforare regolarmente gli obiettivi. In sostanza c’era un non detto. Per sfuggire alla tragica esperienza della Grecia da un lato c’è stato l’omaggio formale alle regole europee e alla nuova versione dell’articolo 81, dall’altro emergeva la consapevolezza che gli obiettivi dichiarati solennemente non sarebbero stati raggiunti.

In anni più recenti qualcosa è cambiato. La Brexit ha reso concreto il fantasma della possibile fine dell’Europa. La crescita insufficiente dell’Europa già prima del Covid ha messo in luce serie difficoltà. La pandemia che ha messo in ginocchio la salute e l’economia, in particolare alcuni paesi più gravati come l’Italia, ha reso evidente che i peggiori fantasmi potevano materializzarsi, spingendo i gruppi dirigenti europei ad avere più coraggio non solo nel difendere l’Euro ad ogni costo ma soprattutto a rendere possibile una solidarietà straordinaria in un momento straordinario di difficoltà per tutti ma in particolare per alcuni paesi come il nostro.

In sostanza il gattopardo non bastava più. Fingere di rispettare i parametri e fingere che non fossero stati raggiunti per cause di forza maggiore era una risposta inadeguata alla profondità della crisi in alcuni paesi, a partire dall’Italia. Da qui le misure di sostegno attraverso il contenimento dei tassi per il debito pubblico con massicci acquisti da parte della Bce. La Bce ha continuato con Lagarde la linea di Draghi, ma sostenere attraverso i tassi non basta e si è arrivati al Next Generation EU e quindi al PNRR, un sostegno consistente dell’Europa alla ripresa dell’Italia. Il PNRR ha una durata di erogazione prevista fino al 2026. 5 anni per fare investimenti consistenti che si aggiungono alle risorse nazionali e agli altri fondi settoriali europei. È la prima volta che si raccolgono risorse europee per dividerle in modo diseguale a favore dei paesi in maggiore difficoltà.

È la prima volta che c’è un intervento europeo solidale. Ma è altrettanto ovvio che ogni paese deve mettersi al lavoro al meglio delle sue energie e ancora siamo lontani da questo risultato. Basta pensare che il Ministro della Transizione ecologica si trastulla con dichiarazioni prive di fondamento sul nucleare ma ancora non ha presentato un piano per le energie rinnovabili, tutte, per mettere in moto investimenti, lavoro, risultati in un settore cruciale, a cui giustamente la Commissione tiene molto.

Anzi l’Italia rischia di essere tra i frenatori sul clima rispetto alle proposte della Commissione europea, per una volta coraggiose, come quelle del progetto FIT for 55 che tracciano un percorso impegnativo per cambiare in profondità il modello di sviluppo, ad esempio proponendo che cessi lo sfruttamento di nuovi giacimenti di fossili e che dal 2035 non vengano più prodotte auto con motore a scoppio. Non sono obiettivi da poco, ma senza coraggio il cambiamento climatico diventerà irreversibile e i costi umani, sociali, ambientali, finanziari saranno enormi, basta guardare a cosa accade ai ghiacciai nella più grande isola del pianeta, la Groenlandia. L’Italia dovrebbe essere in testa nel cambiamento e nell’innovazione, ma per ora non lo è.

In verità Cingolani non è l’unico ministro che appare timido, incerto, non adeguato. Tocca chiedere ancora una volta a Draghi di dedicare più attenzione ad un progetto paese, mettendo al lavoro i suoi ministri per realizzare obiettivi, non per fare confusione. Non si può procedere per bandi senza sapere come si connettono tra loro, a cosa servono. Mentre l’Italia e l’Europa si debbono proiettare nel futuro con tutto il loro impegno sta arrivando la fine della sospensione temporanea delle regole europee. Alla fine del 2022 la sospensione finirà e potrebbero tornare in vigore le vecchie regole di bilancio, un disastro. Anzitutto bisogna iniziare subito a chiedere che le regole entrino in funzione solo quando saranno state cambiate.

Otto governi hanno messo le mani avanti e chiedono di mantenere le regole precedenti. Per di più per cambiare i trattati occorre l’unanimità perché l’Europa si è allargata senza cambiare questa regola assurda. È come se la velocità di un veicolo venisse calcolata sulla ruota di scorta. È in corso un lavorio per cercare soluzioni, il più accreditato sembra essere lasciare le vecchie regole del patto di stabilità e modificare le modalità attuative (Six pack e Two pack). Sembra un passo indietro notevole se confrontato con le speranze suscitate dal Next Generation Eu per il clima e la ripresa. L’Europa ha bisogno di un segnale forte per riconoscersi come identità nel mare procelloso dell’economia mondiale, perfino nei contraccolpi che avrà la crisi afghana.

Comunque la questione di fondo è evitare di arrivare a fine 2022 con il problema non risolto e sarebbe di grande importanza durante la gestione iniziale del Next Generation EU non dovere guardare con angoscia il conto alla rovescia sul ritorno delle regole precedenti. Le regole del patto di stabilità vanno cambiate prima possibile. Va reso chiaro il nuovo quadro di riferimento prima possibile e c’è da sperare che le elezioni tedesche di fine settembre daranno un impulso positivo.

*(Alfiero Grandi, Job News)

 

03 – LA MARCA ESORTA IL GOVERNO ITALIANO AD INTENSIFICARE I RAPPORTI CON IL GOVERNO USA PER RIMUOVERE IL “TRAVEL BAN” – SITUAZIONE INSOSTENIBILE PER I CONNAZIONALE.  settembre 2021 L’on. La Marca è intervenuta ieri in Aula per richiamare nuovamente l’attenzione del Governo sull’ insostenibile situazione che si è determinata da oltre un anno e mezzo a carico di un notevole numero di connazionali che risiedono per lavoro negli Stati Uniti.

 

“Mi riferisco, in concreto, – ha sottolineato l’on. La Marca – alla possibilità di rientrare nei luoghi di vita e di lavoro per coloro che sono temporaneamente tornati in Italia per motivi familiari, professionali o di studio oppure si sono trovati nel nostro Paese all’atto dell’emanazione delle misure restrittive in funzione anti pandemica da parte delle autorità americane. Il travel ban adottato dalle autorità statunitensi fin dal marzo 2020, infatti, concede la possibilità di viaggiare liberamente solo ai residenti permanenti, mentre questa possibilità non è riconosciuta in modo altrettanto aperto a coloro che hanno uno dei visti di ingresso legittimamente concessi”.

“L’Italia – ha ricordato l’on. La Marca – dopo avere sperimentato per alcuni mesi la soluzione dei voli Covid free da e per gli USA, ha esteso ai cittadini statunitensi le condizioni più favorevoli di ingresso nel Paese, abolendo l’obbligo di quarantena e prevedendo l’equiparazione delle certificazioni vaccinali a quelle riconosciute per i cittadini italiani ed europei”.

Esclusi i pochi che posseggono visti per così dire “privilegiati”, infatti, i connazionali sono di fatto impediti a tornare nelle realtà di origine, ove hanno affetti e interessi, perché temono di non potere rientrare negli Stati Uniti. La prospettiva, per altro, è particolarmente critica per i tanti ricercatori che sono di solito inseriti in un circuito di forte mobilità e che in caso di ritardo rischiano di perdere importanti opportunità.

“La condizione alla quale sono sottoposti migliaia di connazionali e un numero ancora più grande di cittadini europei, è ormai insostenibile. So che il nostro Governo – ha concluso l’on. La Marca – si è mosso verso le autorità americane per rappresentare questa situazione di grave disagio e di squilibrio. Tuttavia, tramite la Presidenza della Camera, invito il Governo, nel modo più energico, a rinnovare le sollecitazioni finché questa insostenibile situazione sia al più presto superata”.

*(On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D. – Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America

Elettorale College of North and Central America)

 

 04 – L’ULTIMA “GENIALE” MOSSA PER SOTTERRARE IL SUD. Natale Cuccurese*:  OLTRE A VOLER ABBATTERE IL REDDITO DI CITTADINANZA E A PROSEGUIRE SULLA VIA DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA, IL GOVERNO DRAGHI SI APPRESTA A VALIDARE L’IDEA DI GABBIE SALARIALI. UNO STRUMENTO CHE FAREBBE ESPLODERE LE DISUGUAGLIANZE. NON DESTA STUPORE IL TAGLIO DEI FONDI DEL PNRR, DAL 65% DA DESTINARE AL SUD COME INDICATO DALL’EUROPA, AL 40%. UNO STUDIO DI BANKITALIA DIMOSTRA CHE L’ITALIA, PER CRESCERE, DEVE RIDURRE IL DIVARIO TRA NORD E SUD

SI chiedeva il grande meridionalista Gaetano Salvemini: l’Italia prefascista fu una democrazia? La risposta è negativa. “Non esiste una democrazia dove non vi è uguaglianza di diritti”. L’Italia post-unitaria era un’oligarchia ancorata al potere con le classi popolari ridotte a masse di salariati a basso costo e nel caso di proteste erano sempre pronti il manganello o il fucile. Il governo, grazie anche ad una legge elettorale ad hoc, era bloccato nelle mani dei soli “migliori”. Compieta-mente traditi gli ideali del Risorgimento che si era rivelato essere stato, nei fatti, una “Rivoluzione del ricco”, utile solo alle classi sociali “ricche” e a danno delle classi popolari.

Se analizziamo la situazione dell’Italia attuale, con al governo “i migliori” imposti con una congiura di palazzo, con i lavoratori con contratti sempre più precari e quindi a rischio, per sempre pronto ad impedire le proteste di chi ancora si oppone, con poche regole e solo a vantaggio dei più ricchi e delle loro imprese, con le elezioni bloccate da una legge elettorale sicuramente non rappresentativa dell’intero Paese e che vede la prossima riduzione dei parlamentari a danno della rappresentanza democratica dei territori, ci rendiamo facilmente conto di come l’Italia del 2021 sia più simile a quella oligarchica del 1921 che non alla modernità e alla democrazia.

Come se ciò non bastasse e visto che i cittadini devono “soffrire”, come affermato ultimamente da Matteo Renzi, il governo Draghi, in più di una componente, oltre a voler presto abbattere il reddito di cittadinanza, vuole proseguire sulla via dell’autonomia differenziata ed inoltre si appresta a validare l’idea di gabbie salariali, visto anche gli articoli sul tema dei giornali, mai in passato così

frequenti e pressanti. Gli esempi sono molteplici nelle ultime settimane e vanno fra gli altri da «i percettori di reddito di cittadinanza fanno vita grama, non così nelle Regioni del Sud», così Mingardi, dell’Istituto Leoni, sul Corriere, fino a Repubblica che in un articolo del 18 agosto scrive che «se a Milano si guadagnano circa 35mila euro, considerando il costo della vita a Palermo si ottengono le stesse possibilità con20.500 euro».

Utile ricordare che Draghi ha fortemente voluto fra i suoi consiglieri economici proprio quel Francesco Giavazzi che già un decennio fa chiedeva di permettere ai salari di essere diversi da una regione all’altra a seconda del costo della vita (in un articolo sul Corriere del 24 ottobre 2011 firmato assieme ad Alberto Alesina). Al Sud «è in media il 30 per cento inferiore rispetto a quello del Nord, ma i salari monetari dei dipendenti pubblici sono uguali».

In realtà in Italia le gabbie salariali sono in vigore già da tempo. Dal 2003 al 2018, il reddito medio in termini reali ha perso l’8,3% del suo valore. Nello stesso periodo, il divario Nord-Sud è aumentato dell’ 1,6% e rispetto alla media nazionale le famiglie del Mezzogiorno guadagnano 478 euro al mese in meno. Nei nuclei in cui prevale il reddito da lavoro autonomo la crisi ha picchiato ancora più duramente: la perdita in termini reali è stata pari al 28,4%. Nel 2018 il reddito medio nel Mezzogiorno era pari a 2.159 euro contro i 2.930 del Nord-Est e 2.887 euro del Nord-Ovest. Mentre una famiglia lombarda nel 2003 mediamente guadagnava 30.390 euro, nel 2017 è passata a 36.101 euro; stesso discorso in Emilia Romagna, dove i redditi sono saliti da 30.591 euro a 35.431 euro. Al Sud ce stata, sì, una crescita ma più contenuta: in Campania, ad esempio, nel 2003 una famiglia aveva un reddito medio pari 23.124 euro, nel 2017 si è passati a 25.544 euro.

Ma è vero che al Sud “la vita costa meno”? No. Soprattutto se consideriamo la scarsità di servizi: sanitari, scolastici, culturali e ricreativi, impiantistica sportiva, mercato (energetici assicurativi), pubblici essenziali, collegamenti. Di conseguenza per il cittadino si impennano i costi da sopportare, anche perché molto più spesso, rispetto ai cittadini del Nord, per sopperire alla mancanza di servizi si è obbligati a rivolgersi ai privati. A ciò si aggiunga che la tassazione regionale e comunale che grava sui cittadini del Sud è molto più alta a causa degli scarsi trasferimenti dello Stato. Chi lo dice? L’Istat, basta controllare le relative tabelle. Le gabbie salariali accentuerebbero così solo la desertificazione del Mezzogiorno. Invece che pensare a come avere servizi e infrastrutture uguali in tutta l’Italia per far crescere le opportunità per l’intero Paese, si pensa a come ridurre i salari alla macroregione più povera d’Europa, come da classifiche Eurostat. L’impoverimento del Mezzogiorno non è avvenuto per caso visto che, in modo particolare negli ultimi venticinque anni, guarda caso dalle prime affermazioni elettorali della Lega Nord, la forbice degli investimenti pubblici è andata a divaricarsi

Non desta stupore il taglio dei fondi del Pnrr, dal 65% da destinare al Sud come indicato dall’Europa, al 40% sempre più fra Nord e Sud del Paese, con una spesa costantemente maggiore, di almeno cinque volte, a favore del Nord anno su anno. Infatti al Sud mai sono andati finanziamenti statali corrispondenti almeno al 34%, quale è la proporzione della popolazione residente nel Mezzogiorno (come prevede una clausola introdotta dal governo Gentiloni e poi attivata dal governo Conte 2, ndr), con tutta evidenza considerata di serie B.

Nel frattempo le tasse statali che gravano sui cittadini meridionali, quelli che ancora non sono emigrati, sono ovviamente le stesse di quelle dei cittadini delle regioni più ricche e tali resteranno anche nella disgraziata ipotesi di introduzione delle gabbie salariali. Non si capisce già oggi perché al Sud si devono pagare le tasse nella stessa percentuale dei cittadini del Nord data la disparità di investimenti statali ed il continuo trasferimento monoculare di risorse che al Sud si ripercuote appunto in meno servizi, figuriamoci se ora venissero introdotte le gabbie salariali. Tutto ciò che fa correre Milano rallenta Napoli (Teoria della locomotiva), come dichiarò tempo fa Guido Tabellini, ex rettore della Bocconi al Foglio. Dichiarazioni subito dopo riprese ed elogiate, sullo stesso quotidiano, da Pier Carlo Padoan ex ministro dell’Economia dei governi Renzi e Gentiloni. Ovviamente per questa teoria, recentemente considerata priva di fondamento dagli economisti americani, vale anche il contrario: ciò che fa correre Napoli rallenta Milano. Con tutta evidenza il differenziale Nord/Sud è quindi voluto e ricercato da chi da sempre guida la politica del Paese, in barba alla Costituzione, in particolare dell’articolo 3.

Pertanto non desta stupore il taglio dei fondi del Pnrr, dal 65% da destinare al Sud come indicato dall’Europa, al 40%, senza che il governo abbia fornito alcuna giustificazione, visto anche

che questa percentuale già ridotta rischia di rimanere solo sulla carta, senza definizione di target territoriali, riducendosi ulteriormente al 16% visto quanto scritto sul Pnrr consegnato in Europa dall’esecutivo stesso. La Commissione europea, al corrente della situazione, tace rendendosi complice della sottrazione. Utile ricordare che anche in questo caso i cittadini del Sud, anche se riceveranno molto meno, saranno comunque chiamati a ripagare il prestito dei fondi del Recovery all’Europa nella stessa percentuale dei cittadini del resto del Paese.

Pochi giorni fa Bankitalia ha proposto un approccio totalmente diverso, basato su studi e tabelle inoppugnabili che dimostrano quello che appare sempre più evidente a tutti, tranne che ai liberisti al governo, e cioè che per crescere l’Italia deve ridurre il divario tra Nord e Sud e rilanciare gli investimenti pubblici al Sud: «La competitività delle imprese – si legge in un recente paper di Bankitalia – è stretta- mente legata alla disponibilità di una rete adeguata di trasporti e di telecomunicazioni», rete trasporti in particolare che, come risaputo, al Sud non è adeguata. Purtroppo l’appello di Via Nazionale non pare aver suscitato particolare attenzione nel governo.

Privatizzare tutto e anche di più, prossimo aumento età pensionabile, gabbie salariali, Servizio sanitario nazionale sempre più svuotato, autonomia differenziata in dirittura d’arrivo, taglio dei finanziamenti alle Università del Centro-Sud. Questo e anche di peggio prevede il progetto ultra liberista del governo grazie anche alle idee di alcuni dei consiglieri scelti da Draghi, fra cui da poche settimane si è aggiunta l’ex ministro Elsa Fornero. Un Paese che va a marcia indietro, dove non si intravede un futuro ma solo un passato che non passa, in attesa di un autunno che si preannuncia caldo come non mai.

*(di Natale Cuccurese presidente del Partito del Sud10 settembre 2021 LEFT 39)

 

05 –  El Espectador, Colombia. MENTRE IL CONGRESSO E LA PRESIDENZA COLOMBIANI SONO IMPEGNATI A RATIFICARE IL TRATTATO INTERNAZIONALE DI ESCAZÚ CHE HA L’OBIETTIVO DI PROTEGGERE L’AMBIENTE E GLI ATTIVISTI CHE LO DIFENDONO, LA COLOMBIA HA RICEVUTO PER LA SECONDA VOLTA UN ORRIBILE RICONOSCIMENTO: È IL PAESE DOVE VENGONO UCCISI PIÙ DIFENSORI DELL’AMBIENTE. Dall’ultimo rapporto dell’Ong Global witness emerge che quasi il 30 per cento di tutti gli attivisti vittime di violenza nel 2020 – 65 su un totale di 227 – è formato da colombiani.

Passare in rassegna gli ultimi omicidi di ambientalisti significa fare i conti con una serie di insuccessi e con un amaro avvertimento per il futuro. Global witness sottolinea un fatto evi[1]dente: in Colombia l’accordo di pace non è stato adeguatamente applicato, e per questo gli attivisti, compresi quelli per l’ambiente, continuano a essere nel mirino dei gruppi armati. E il futuro appare ancora più preoccupante: davanti all’emergenza climatica, il patrimonio forestale è fondamentale per la Colombia e per il mondo. La maggior parte degli attivisti uccisi stava per l’appunto proteggendo le foreste. Come spiega Laura Furones di Global witness, in Colombia “c’è un’enorme pressione a disboscare per creare nuovi spazi da destinare all’agricoltura e all’allevamento. La competizione per la terra è fortissima. I difensori delle foreste fanno un lavoro utile a tutti, anche ai governi, perché cercano di salvaguardare quella parte di territorio che ci proteggerà dalla crisi climatica”.  In Colombia c’è ancora chi si oppone all’accordo di Escazú in nome dello sviluppo economico. Ma quello tra protezione dell’ambiente e sviluppo è un falso dilemma, che non corrisponde alla realtà né alle tendenze globali. Se non vogliamo firmare accordi come quello di Escazú, significa che stiamo difendendo lo status quo, con i risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti.

*(El Espectador, Colombia)

 

06 – l giro di vite di Xi Jinping*: CINQUANTACINQUE ANNI FA LA CINA ERA IN SUBBUGLIO. MAO ZEDONG AVEVA LANCIATO LA RIVOLUZIONE CULTURALE PER SRADICARE L’OPPOSIZIONE ALL’INTERNO DEL PARTITO COMUNISTA E RIPULIRE LO SPIRITO POLITICO DEL PAESE USANDO IL POTERE DELLE MASSE.

In dieci anni ci sarebbero stati più di un milione di morti; 36 milioni di persone furono perseguitate. Tra queste, il padre del presidente Xi Jinping. Non sorprende quindi che in passato Xi abbia parlato con toni sprezzanti della rivoluzione culturale. Eppure molti nella Cina di oggi vedono reminiscenze sempre più forti di quell’epoca. L’annullamento dei limiti del mandato presidenziale è stato uno dei primi segni della volontà di Xi di aggrapparsi al potere. L’ostilità nei confronti delle influenze straniere aumenta. Sta nascendo un culto della personalità del presidente. Nei nuovi libri di testo dedicati al pensiero di Xi i giovani studenti imparano che “nonno Xi Jinping si è sempre preoccupato per noi”. Nella Cina di Xi la repressione si è accentuata. Non solo in ambiti noti, come la società civile, la religione, il mondo accademico, Hong Kong e le minoranze, in particolare quella uigura, ma anche in settori da cui il partito sembrava essersi ritirato.

Nelle ultime settimane ci sono stati attacchi contro grandi aziende tecnologiche, attori, pop star e perfino gli insegnanti che danno ripetizioni.  I bambini potranno giocare online solo tre ore alla settimana. I servizi di trasporto privato sono sotto pressione. Alle reti televisive è stato ordinato di evitare i talent show e le immagini di “uomini effeminati”. Un importante comitato politico ha annunciato che la Cina ha bisogno di regolamentare “i redditi eccessivamente alti” per “la prosperità comune”. Molte misure affrontano problemi urgenti e, prese da sole, possono anche apparire giustificate agli occhi dei cinesi. Ma nell’insieme riflettono la volontà di affermare l’autorità del partito nella società, nella cultura e nell’economia. Sembra comunque che i leader cinesi stiano cercando di attenuare quest’impressione, temendo le ricadute economiche. La portata della svolta statalista non è chiara e probabilmente non è ancora stata determinata. Questo non significa che l’approccio di Xi sia privo di rischi.

*(The Guardian, Regno Unito)

 

07 – Thomas Pikett*: NON SIAMO ANCORA USCITI DALL’11 SETTEMBRE. VENT’ANNI FA LE TORRI DEL WORLD TRADE CENTER VENIVANO ABBATTUTE DA DUE AEREI. IL PEGGIOR ATTENTATO DELLA STORIA AVREBBE PORTATO GLI STATI UNITI E I LORO ALLEATI A LANCIARSI IN UNA GUERRA MONDIALE CONTRO IL TERRORISMO ÈL’ASSE DEL MALE”. PER I NEOCONSERVATORI STATUNITENSI L’ATTENTATO ERA UNA PROVA DELLE TESI PROPOSTE DAL POLITOLOGO SAMUEL HUNTINGTON NEL 1996: LO “SCONTRO DI CIVILTÀ” ERA IL NUOVO PRISMA PER LEGGERE IL MONDO.

Sfortunatamente oggi sappiamo che il desiderio di vendetta di Washington e la brutalizzazione d’intere regioni che ne è seguita non hanno fatto altro che inasprire i conflitti identitari. L’invasione dell’Iraq nel 2003, fatta a colpi di bugie sulle armi di distruzione di massa,  ha indebolito la credibilità delle demo[1]crazie occidentali. Grazie alle immagini dei soldati statunitensi che tenevano al guinzaglio i detenuti della prigione di Abu Ghraib, non c’è stato bisogno di agenti che reclutassero i jihadisti. L’arroganza dell’esercito statunitense e le enormi perdite civili all’interno della popolazione irachena (almeno centomila morti confermati) hanno fatto il resto, contribuendo alla frammentazione del territorio siriano e iracheno e all’ascesa del gruppo Stato islamico. Il fallimento in Afghanistan, con il ritorno al potere dei taliban dopo vent’anni di occupazione occidentale, ha concluso simbolicamente questa triste sequenza.

Per uscire davvero dall’11 settembre serve una nuova lettura del mondo: è il momento di abbandonare il concetto di “scontro di civiltà” e di sostituirlo con quelli di sviluppo comune e giustizia globale.

Questo richiede obiettivi di prosperità condivisa e la definizione di un nuovo modello economico, sostenibile ed equo. Siamo tutti d’accordo ormai: l’occupa[1]zione militare di un paese rafforza i segmenti più radicali e reazionari della società e non porta niente di  buono. Il rischio è che la visione militare e autoritaria sia sostituita da una chiusura isolazionista e dall’illusione che la libera circolazione di beni e capitali basti a diffondere ricchezza. Vorrebbe dire dimenticare il carattere gerarchico del sistema economico mondiale e il fatto che non tutti i paesi lottano ad armi pari.

Da questo punto di vista, nel 2021 si è persa una prima occasione: le discussioni su come riformare la tassazione delle multinazionali si sono ridotte, in sostanza, a una spartizione delle entrate fiscali tra i paesi ricchi. È invece urgente che tutti, dal nord al sud del mondo, ricevano una parte delle entrate provenienti dai ricchi del pianeta (multinazionali e miliardari) in proporzione alla loro popolazione. Innanzitutto perché ogni essere umano dovrebbe avere diritto allo sviluppo, alla salute e all’istruzione, e poi perché la prosperità dei paesi ricchi non esisterebbe senza quelli poveri. La crescita dell’occidente ieri o quella della Cina oggi si fonda da sempre sulla divisione internazionale del lavoro e sullo sfruttamento delle risorse umane e naturali del mondo. Quando dei profughi compaiono dalla parte opposta del pianeta, gli occidentali dicono che tocca ai paesi vicini occuparsene. Al contrario, quando c’è dell’uranio o del rame da sfruttare, sono i primi a farsi avanti, qualunque sia la distanza.

Se si accetta il principio della spartizione delle entrate fiscali tra tutti i paesi, bisogna parlare delle regole da rispettare. Sarebbe l’occasione di dettare condizioni precise in materia di diritti umani, in particolare delle donne e delle minoranze, da applicarsi ai taliban come ai paesi che vogliono beneficiare di questo gettito. Per evitare che i soldi siano usati male, bisognerebbe anche coinvolgere tutti nella caccia alle grandi ricchezze ottenute in maniera opaca e fare chiarezza sull’accumulazione eccessiva di denaro, che si tratti del settore pubblico come di quello privato. Il punto fondamentale è che i criteri devono essere definiti in maniera neutra e applicati ovunque allo stesso modo, in Afghanistan come in Arabia Saudita, a Parigi come a Londra. I paesi occidentali devono smetterla di usare l’argomento della corruzione per negare al sud del mondo ogni diritto a svilupparsi, mentre al tempo stesso scendono a patti con oligarchi e despoti che servono i loro interessi. L’epoca del libero scambio illimitato è finita: il commercio deve dipendere da indicatori sociali e ambientali.

È comprensibile che il presidente statunitense Joe Biden voglia superare lo scontro di civiltà. Per gli Stati Uniti la minaccia non è più islamista: è cinese e soprattutto interna, a causa delle fratture sociali e razziali. Ma il fatto è che la sfida cinese, come del resto la sfida sociale interna, troverà una soluzione solo con la trasformazione del modello economico. Se non viene proposto niente in tal senso, allora i paesi poveri e le regioni periferiche degli Stati Uniti si rivolgeranno sempre più spesso a Pechino e a Mosca per finanziare il loro sviluppo e mantenere l’ordine. L’uscita dall’11 settembre non deve concludersi con un nuovo isolazionismo, ma con un nuovo vento d’internazionalismo e di universalismo.

*(THOMAS PIKETTY è un economista francese. È professore all’École des hautes études en sciences sociales e all’École d’économie di Parigi. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Capitale e ideologia (La nave di Teseo 2020).

(Questo articolo è uscito su Le Monde)

 

  1. Tali Goldman *: MESSSICO.SPAZIO ALLE DONNE NEI SINDACATI. Come in molti settori della società, in Sudamerica nei sindacati ci sono soprattutto uomini. Ma nel trasporto pubblico la situazione sta cambiando. Decisero di vedersi in un bar di Medellín, dove non avrebbero attirato l’attenzione. Doveva comportarsi come loro: alzare la voce, essere decisa e inflessibile.

Era il 2015, Paula Rivas, 42 anni, era dirigente sindacale da un anno e quel giorno era di buon umore. Era la prima volta che partecipava a una riunione con i dirigenti sindacali delle aziende di mezzi di trasporto diversi dalla metropolitana. Entrando si guardò intorno e vide solo due donne in mezzo a cinquanta uomini. Dopo i saluti iniziali, i presenti furono divisi in piccoli gruppi. Rivas capitò con altri sei uomini. Uno prese la parola per esporre la  situazione del suo settore e automatica[1]mente posò gli occhi su di lei. “Potresti prendere appunti?”, chiese. Rivas rimase di sasso. Doveva assumere il ruolo di segretaria solo perché era una donna?

“Non spetta a me. Può farlo qualsiasi altro collega”, disse. Le sembrò una piccola vittoria. Tre anni dopo Rivas sarebbe diventata la prima presidente della Federazione dei sindacati della metropolitana di Santiago del Cile (Fesimetro). Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, la libertà sindacale e di associazione è un diritto umano fondamentale. I primi sindacati risalgono all’ottocento, ma il sindacalismo come lo cono[1]sciamo oggi nacque nel secolo successivo.

Ci sono molti studi sulle origini, le cause, le conseguenze e l’evoluzione delle organizzazioni dei lavoratori. Ma poco o nulla è stato scritto sul ruolo delle donne. “Il maschilismo all’interno dei sindacati non è più forte che altrove”, afferma Ana Natalucci, esperta di sindacalismo argentino.

Da ragazza Paula Rivas era sicura che non sarebbe mai entrata in politica e non si sarebbe mai sposata con un militante. È nata in Cile nel 1973, l’anno in cui il generale Augusto Pinochet rovesciò con un golpe militare il governo del presidente democraticamente eletto, Salvador Allende.

Rivas non voleva saperne della politica: le erano bastate la militanza comunista della famiglia e le interminabili discussioni quotidiane in casa. Aveva studiato biologia marina all’università di Valparaíso;  aveva conosciuto l’uomo che poi sarebbe  diventato il padre di suo figlio; aveva lavorato in un’azienda paramedica e nel 2009,  a 36 anni, si era separata. A quel punto cercava un lavoro più stabile e lo trovò nella metropolitana di Santiago.

L’azienda era in buona salute e Rivas aveva ottime prospettive di carriera. Infatti nel 2014 era a capo di una delle stazioni più complesse della città: plaza de Armas, da cui ogni giorno passano migliaia di persone. Faceva una vita normale, senza imprevisti, minacce o paure. Aveva un buon lavoro e riusciva a occuparsi del figlio.

Si era subito iscritta al sindacato perché questo le permetteva di ottenere un’assistenza sanitaria e aiuti economici per l’istruzione del figlio. La costituzione scritta durante il regime di Pinochet – che oggi un’assemblea costituente sta riscrivendo – ha alterato profondamente la vita democratica dei sindacati. Prima della dittatura, i dipendenti di due aziende diverse potevano appartenere a uno stesso sindacato. Ma la nuova carta costituzionale stabilì che ogni azienda dovesse avere un suo sindacato, indebolendo e frammentando il movimento sindacale cileno.

Quando Rivas cominciò a lavorare c’erano quattro sindacati. Lei faceva parte di quello dei professionisti e dei tecnici. Non era una militante attiva, ma conosceva bene Antonia, l’unica dirigente sindacale donna. Nel 2014 Antonia la convocò nel suo ufficio. “Non mi presenterò alle prossime elezioni. Perché non lo fai tu? Vorrei che al mio posto ci fosse una donna”, le chiese. Rivas rifiutò, ma Antonia non si arrese. “Pensaci”, le disse qualche giorno dopo. “Oggi scade il termine per presentare la candidatura. È importante che ci sia una donna”. Lì per lì Rivas disse di no, ma quando tornò in ufficio cambiò idea.

Alcuni mesi dopo, durante la prima riunione del nuovo direttivo sindacale, si rese conto che gli altri componenti erano tutti uomini molto più grandi di lei. Lei aveva tre svantaggi: era giovane, era una donna e non aveva nessuna esperienza.

Per guadagnare legittimità agli occhi dei colleghi doveva capire e parlare la loro stessa lingua, comportarsi come loro: alzare la voce, essere decisa, perentoria e inflessibile.

“Alla base della cultura sindacalista maschile c’è una logica di assimilazione”, afferma la politologa argentina Tania Rodríguez. “Molte donne che occupano posti importanti nella gerarchia sindacale imitano la fisicità maschile. Spesso è l’unico modo per rendersi visibili e guadagnarsi uno spazio”. Nel 2017 Rivas è diventata la prima donna a dirigere la Fesimetro. Per lei i problemi sono cominciati nell’ottobre del 2019, quando la decisione del governo del presidente Sebastián Piñera (centrodestra) di aumentare il costo del biglietto della metropolitana ha innescato le proteste più intense dalla fine della dittatura nel 1990. Il primo giorno di proteste alcuni colleghi l’hanno avvisata che un gruppo di studenti aveva saltato i tornelli di diverse stazioni della capitale. Rivas era sicura che il malcontento sarebbe durato poco. Si sbagliava: nei giorni successivi gli studenti hanno incendiato alcune stazioni della metropolitana e la protesta si è allargata a tutta la società. Il debutto di Rivas come presidente del sindacato è stato più difficile di quanto immaginasse. È andata   più volte in tv per chiedere la fine delle violenze contro i lavoratori della metropolitana, anche loro contrari all’aumento del costo del biglietto. Il 18 ottobre, in accordo con l’azienda, ha chiuso l’intera rete   metropolitana. Anche se aveva poca esperienza, Rivas si stava dimostrando all’altezza delle circostanze. Nel novembre 2020, dopo aver gestito anche la crisi sanitaria causata dalla pandemia di covid­19, è stata rieletta.

“Abbiamo affrontato le proteste socia[1]li, gli incendi, le aggressioni contro i lavoratori della metropolitana. È stato un periodo molto duro e credo che i lavoratori si  siano sentiti rappresentati. Poi sono arri[1]vate la pandemia e la crisi economica. Abbiamo trattato sulle condizioni economiche, e abbiamo ottenuto il blocco dei licenziamenti per tutto il 2020”, dice con orgoglio. Poi aggiunge: “Penso ad Antonia, che mi ha aperto le porte del sindacalismo. Forse io, a mia volta, ho indicato la strada ad altre colleghe. Dobbiamo farci spazio da sole, perché nessun uomo lo farà per noi”.

PRECEDENTE IMPORTANTE

“La segregazione sul lavoro è l’ostacolo principale per la partecipazione femminile alla vita sindacale”, dice Tania Rodríguez. Si riferisce alla difficoltà storica delle donne nell’accedere ai posti di lavoro ricoperti quasi sempre da uomini.

Nadia Tapia, 22 anni, lo sa per esperienza personale. Nel 1982, quando entrò nell’enorme sala di Città del Messico dove si teneva il corso per conducenti, cercò con lo sguardo le sue compagne. Solita[1]mente l’esame teorico per poter guidare la  metropolitana si svolgeva in una piccola  sala dell’Istituto di formazione e  sviluppo (Incade) della capitale.

Ma era la prima volta nella storia del paese che un gruppo di donne (tredici) aspirava al posto di conducente. Dal 1969, quando era stata inaugurata la metropolitana, le donne avevano lavorato solo in biglietteria. Tapia aveva un impiego stabile nell’azienda ed era felice. Veniva da una famiglia umile e numerosa. Per studiare comunicazione all’Università nazionale autonoma del Messico doveva lavorare, e quello era un posto perfetto: stabile, con un buon salario e orari compatibili con i  corsi. Si era iscritta presto al sindacato e si  era candidata come delegata del suo settore. Nel 1982, fuori dalla sua biglietteria  fu affisso un bando. C’era scritto: “Si indice un concorso per conducenti. Requisito:  sei mesi di anzianità in azienda”. Avrebbe  guadagnato quasi il doppio. Quando si  iscrisse scoprì che più di trecento donne  avevano avuto la sua stessa idea. Vedendo quella folla fuori dall’ufficio i  dirigenti si misero le mani nei capelli.  Cos’era quella storia? Le donne alla guida  della metropolitana? Non se ne parlava.

ni, anche se il bando non lo specificava. Le  donne si appigliarono a quel vuoto normativo, bussarono a molte porte e presentarono diverse lamentele. Alla fine scovarono una clausola in uno statuto del sindaca[1]to nazionale dei lavoratori della metropolitana: il genere non pregiudicava né il tipo  di mansione che una persona poteva svolgere né il livello di retribuzione. L’enorme sala in cui Tapia entrò quel giorno del 1982  aveva l’obiettivo di intimidire le candidate. Un mese prima, insieme ad altre colleghe si era sottoposta a varie prove fisiche e  psicologiche, anche se nessun uomo ave[1]va mai dovuto farlo prima. All’esame scritto le donne ottennero i  punteggi più alti.

Gli anni successivi per Tapia furono  difficili. Alcuni passeggeri, quando si accorgevano che il convoglio era guidato da  una donna, non salivano. I colleghi la  prendevano in giro. La invitavano ai pranzi aziendali solo per farla cucinare. Per  dieci anni Tapia rimase lontana dal sindacato. Rientrò nel 1990, più matura e con  una laurea, convocata dall’allora presidente che le offrì la segreteria per le questioni femminili. Preparava progetti per le  dipendenti, senza rendersi conto che c’era  molto maschilismo nel fatto che l’unico  compito che le era concesso in quanto  donna era quello di segretaria addetta a  questioni esclusivamente femminili.

Nel suo libro Economía femminista, pubblicato nel 2016, l’economista argentina  Mercedes D’Alessandro illustra con parole semplici il problema della divisione sessuale del lavoro : “Le statistiche mondiali  indicano che le donne guadagnano ovunque meno degli uomini e svolgono più lavori domestici e non retribuiti. Inoltre il  tasso di disoccupazione femminile è più  alto di quello maschile e le donne sono più  povere quando vanno in pensione”.

A Tapia piaceva il suo lavoro nel sindacato. Si occupava della formazione delle  donne. Molte di loro erano madri single o  con una famiglia a carico, ed erano vittime  di maltrattamenti sul lavoro. Nel 1993 le  fu offerto un posto al centro per lo sviluppo del bambino, una sorta di asilo per i figli dei lavoratori creato dal sindacato e  amministrato dall’azienda. Accettò. Sul lavoro conobbe Lino, con cui si  sposò tre anni dopo. Lino era architetto e  aveva ristrutturato uno dei centri per  bambini. Sembrava che tutto andasse per  il meglio: Lino la sosteneva nel suo lavoro  e appoggiava il suo impegno con il sindacato. Nel 1997 ebbero una figlia. Alla fine  del congedo di maternità Tapia tornò al  lavoro e a quel punto cominciarono le recriminazioni del marito. Quando la bambina compì sei anni, decise di separarsi.

“Le donne con un ruolo nel sindacato  hanno più ‘tatto’ nei rapporti con i lavoratori. Gli uomini ci guardano con sospetto.

Anche se ho avuto un padre, dei colleghi e  un ex marito maschilisti, ho superato tutto. Noi donne siamo forti, produttive, non  ci fermiamo mai”, dice Tapia, che oggi ha  sessant’anni, nella sua casa di Città del  Messico. “Se otteniamo dei risultati nonostante gli ostacoli che troviamo sul nostro  cammino, immagina cosa potremmo fare  se quegli ostacoli non ci fossero”.

ESTETICA MASCHILE

C’erano più di cento persone nella sala del  traffico, lo spazio dedicato al riposo dei  lavoratori e delle lavoratrici della  metropolitana di Buenos Aires durante la  giornata di lavoro. La sala era in una delle  stazioni più affollate della linea A, che va  da plaza de Mayo, dove sorge il palazzo  presidenziale, a Caballito, un quartiere  molto popoloso della classe media. Era il  2006 e i lavoratori attraversavano uno dei  conflitti più aspri dal 1913, l’anno di inaugurazione della linea. Erano riuniti in assemblea perché volevano costituire un

nuovo sindacato. Fino a quel momento  c’era stata solo la Unión tranviarios automotor (Uta), che molti consideravano  complice dei tagli imposti dall’azienda a  partire dagli anni novanta. L’atmosfera  era infuocata,  tutti volevano parlare. Karina Nicoletti, 33 anni, cercava di prendere la parola. Alzò la mano. Niente. Alzò la  voce. Niente. Allora salì su un tavolo. “Ecco, colleghi. Così mi sentite!”.

Alcune settimane dopo l’Uta decise di  usare la forza. Inviò delle unità di scontro  nelle stazioni per affrontare a colpi di bastoni e coltelli i lavoratori della fazione  opposta. Nicoletti era responsabile della  sicurezza di una stazione. Doveva aspettare istruzioni dai colleghi per decidere  come intervenire se la situazione fosse  andata fuori controllo. Visto che i telegiornali trasmettevano le immagini di una  battaglia campale che si stava svolgendo  in un’altra stazione, Nicoletti chiamò alcuni colleghi per sapere se avessero bisogno di rinforzi. Gli risposero di no e le dissero di rimanere dov’era. Quando riattaccò, un collega cominciò ad aggredirla  verbalmente. Le disse che bisognava an[1]dare sul luogo degli scontri. Lei gli rispose  di no, ma visto che insisteva alzò la voce.  L’uomo la insultò e lei gli rispose per le rime: “Come hai detto, pezzo di merda?”.

Allora il collega le diede un calcio.

“Il sindacato ha anche un’estetica maschile”, spiega Tania Rodríguez. “Chi è al  comando, di solito un uomo, sceglie un  suo pari, qualcuno che gli somigli, con valori e un aspetto simili. E questo a priori  esclude le donne”.

STRATEGIA UNANIME

Nicoletti era entrata nel sindacato dodici  anni prima, nel 1994. L’azienda privata  Metrovías aveva preso in gestione la  metropolitana di Buenos Aires da pochi  mesi. Era in corso la prima “ondata di privatizzazioni” del governo del presidente  Carlos Saúl Menem. Nicoletti veniva da  una famiglia di lavoratori che viveva in  periferia. Quell’impiego per lei era un’opportunità, anche se le condizioni di lavoro erano difficili. La nuova azienda aveva  aumentato l’orario lavorativo portandolo  a otto ore al giorno, anche se la legge ne  prevedeva sei. Insieme a lei l’azienda  aveva assunto centinaia di giovani come  manodopera a basso costo, che cominciarono a riunirsi e a creare organizzazioni clandestine. In una di queste riunioni

Nicoletti conobbe Manuel. Diventarono  una coppia molto amata dai colleghi. Nicoletti e altre colleghe s’impegnavano per  aprire nuovi spazi per le donne. Per decenni solo gli uomini avevano lavorato nell’azienda: nel 1981 erano entrate le prime  cento donne in biglietteria. Nel 1997 le  donne furono ammesse al settore del  “traffico”, diventando controllore e conducenti. Come in Messico, anche in Argentina nessuna legge stabiliva che il genere fosse una condizione per partecipare  ai concorsi. La strategia fu unanime: più di  cento donne impiegate in biglietteria presentarono la loro richiesta e lanciarono  una petizione. Dopo il lavoro, Nicoletti  faceva il giro delle stazioni per raccogliere  le firme tra i colleghi. Firmarono più di  1.500 lavoratori e l’azienda cedette. Per la  prima volta, ottantaquattro anni dopo l’inaugurazione della metropolitana, anche  le donne furono incaricate di aprire e chiudere le porte dei vagoni.

Intanto i gruppi clandestini di cui Nicoletti faceva parte uscirono alla luce. Si  chiamavano cuerpo de delegados, corpo di  delegati, un gruppo all’interno del sindacato dell’Uta apertamente all’opposizione. Si impegnarono in una campagna a  favore di un disegno di legge che ristabilisse la giornata lavorativa di sei ore. L’azienda s’irrigidì: se era insalubre lavorare otto  ore al giorno, disse, quella norma “avrebbe richiesto la soppressione di tutti i rapporti di lavoro vigenti del personale femminile”. L’azienda si aggrappava a un’altra  legge che vieta alle donne di svolgere  compiti in luoghi insalubri. Le trecento lavoratrici della metropolitana sapevano  che era una scusa: le donne lavoravano già  in condizioni insalubri.

Nicoletti e altre colleghe organizzarono una riunione per informare tutte le di pendenti che l’azienda non poteva passare dalle parole ai fatti. Nessuno poteva  cacciarle perché erano donne. Alla riunione parteciparono più di sessanta lavoratrici. Fu istituita una commissione delle  donne della metropolitana e ancora una  volta ebbero successo: nel 2003, quando  furono approvate le sei ore lavorative, non  solo le donne non furono licenziate, ma  furono anche creati nuovi posti di lavoro  per loro. Quell’anno Nicoletti mise fine  alla sua relazione con Manuel. Pensava  che la rottura sarebbe rimasta privata, ma  quando cominciò a frequentare un altro  collega di lavoro si creò un clima spiacevole, quasi da telenovela. I colleghi volevano  sapere perché aveva lasciato Manuel, perché si era messa con un altro.

“Ma nessuno faceva domande al mio  ex fidanzato o al mio nuovo compagno,  nessuno li guardava storto”, dice Nicoletti  nella sua casa di Buenos Aires.

In quel periodo Nicoletti non solo passò dal lavoro in biglietteria a quello di conducente (lavoro che mantiene ancora oggi), ma si occupò con più impegno di questioni di genere. Dal 2010 è a capo dell’ufficio per le questioni di genere nel nuovo  sindacato della metropolitana. La sua  esperienza le ha fatto capire una realtà importante: se le donne, che rappresentano  poco più del 20 per cento di tutti i lavoratori, non prendono parte alle discussioni più  importanti nei sindacati, rimangono  escluse da molte questioni centrali dell’organizzazione del lavoro. Un’attività pericolosa “Devo parlare con il presidente del suo  sindacato”. Può dirlo un avvocato, uno  studente o un giornalista: non cambia  niente. Claudia Montoya, operatrice della  metropolitana di Medellín, risponde che  non ci sono problemi e fissa un appuntamento. Quando l’avvocato, lo studente o il  giornalista arrivano nel luogo stabilito le  chiedono: “Il presidente non è potuto venire?”. “La presidente sono io”, risponde  Montoya. Si diverte guardando la faccia  delle persone quando capiscono che è lei  l’autorità massima del Sintrametro, il sindacato della metropolitana di Medellín,  l’unica città della Colombia ad avere questo mezzo di trasporto.

A differenza di altri paesi latinoamericani, e nonostante la metropolitana di  Medellín sia stata inaugurata nel 1994, il  sindacato è nato solo nel 2013. C’è una ragione: il tasso di sindacalizzazione medio  della Colombia è del 4 per cento, uno dei  più bassi dell’America Latina. E secondo  la Confederazione sindacale internazionale, la Colombia è anche uno dei paesi  più pericolosi per chi svolge attività sindacale. Montoya era a conoscenza delle violenze contro i sindacalisti anche prima di  iscriversi al sindacato. Nel 1994, mentre  studiava all’università di Antioquia, l’azienda della metropolitana, che stava per  essere inaugurata, aprì un bando per i giovani studenti. Montoya si presentò. La  disoccupazione in Colombia, come in  tanti altri paesi dell’America Latina, era  ed è altissima, e per una ragazza  di 22 anni lavorare in un’azienda  appena nata, con un buono stipendio, era come toccare il cielo  con un dito.

La selezione del personale si  distinse per la sua equità: furono assunti  circa ottocento dipendenti, metà uomini  e metà donne. Le donne ricoprivano posizioni amministrative o, come nel caso  di Montoya, lavoravano in biglietteria.

Quattro anni dopo, nel 1998, l’azienda  promosse una nuova cultura del lavoro  che è diventata un marchio di fabbrica  della città. Secondo il sito dell’azienda,  “la Cultura Metro è il risultato del modello di gestione sociale, educativa e culturale che la metropolitana ha creato, consolidato e consegnato alla città. Questo  modello può essere adottato da altre città  e istituzioni che vogliono dare vita a una  nuova cultura civile, a una convivenza  armonica basata sulla correttezza, la solidarietà, il rispetto dei beni pubblici, di se  stessi e degli altri”. In quel periodo, però,  cominciò anche una fase di esternalizzazione del lavoro, di contratti flessibili e  tagli di stipendi. Per cinque anni Montoya non prese ferie e non si lamentò. Poi,  nel 2013, un collega le fece un proposta:  “Ci riuniamo per formare un sindacato.  Vuoi venire?”. Lei non sapeva nulla di sindacalismo, ma non sopportava più di lavorare senza diritti.

Decisero di vedersi in un bar nel centro di Medellín, dove non avrebbero attirato l’attenzione. Le riunioni si fecero più  frequenti, il gruppo diventò più numero[1]so e il sindacato si formò. Montoya avrebbe fatto la segretaria. Poi l’azienda cominciò a mettergli i bastoni tra le ruote, a  minacciarli. Ma la necessità di un sindacato era così forte che in poche settimane  s’iscrissero più di quattrocento persone.

Montoya andava ai corsi, alle riunioni e  alle assemblee di tutti i sindacati. Prendeva nota di ogni cosa, studiava.

Il primo presidente del sindacato è  stato un uomo che aveva un dialogo abbastanza fluido con il manager della  metropolitana di Medellín. Nell’azienda  avevano stabilito che per questioni di  “praticità” e per “accelerare i tempi”, la  dirigenza avrebbe dialogato solo con lui.

Andò avanti così per qualche anno.

Nel 2018 Montoya è stata eletta presidente. Il manager della metropolitana,  sempre molto cordiale, ha fissato un appuntamento per incontrarla. Lei è arrivata puntuale, accompagnata da undici  colleghi del sindacato.

Secondo Tania Rodríguez,  storicamente per essere un   leader sindacale bisognava essere uomo, ma anche avere delle risorse, un programma, i contatti giusti e le spalle abbastanza larghe per poter rappresentare i lavoratori. Sulla base di questo discorso si è  imposta una figura fisica e sociale che ha  le caratteristiche di un uomo robusto. La   presenza di corpi diversi dal soggetto do[1]minante nel sindacato manda in crisi certe strutture, perché le donne fanno politica sindacale a modo loro”.

“Ricordo bene quella riunione: quel  signore era rosso per la rabbia”, dice  Montoya ridendo. “Mi ha spiegato che  avrebbe incontrato me e al massimo  un’altra persona. Gli ho risposto che se  non potevamo partecipare tutti, non  avrebbe partecipato nessuno. Non ha  avuto scelta. Il mio mandato è cominciato così”

 

*(Tali Goldman, Gattopardo, Messico – è una giornalista argentina  nata nel 1987. Ha scritto La marea sindacal (Editorial Octubre 2018), un’indagine sulle donne nei sindacati in America Latina.)

 

09 – COSA SUCCEDE NEL MONDO.

RUSSIA

Il 17 settembre gli elettori hanno cominciato a votare per delle elezioni legislative che si svolgono in tre giorni a causa della pandemia di covid-19. I primi seggi ad aprire sono stati quelli della Kamčatka e della Čukotka, nell’estremo oriente russo. In assenza di una reale opposizione, il partito Russia unita del presidente Vladimir Putin è il grande favorito del voto, anche se è in calo nei sondaggi. Intanto, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha rivelato che Apple e Google si sono conformati alla legislazione russa sopprimendo un’app dell’opposizione che incoraggiava a votare contro i candidati legati al potere.

 

ARMENIA-AZERBAIGIAN

Il 16 settembre l’Armenia ha presentato un ricorso alla Corte internazionale di giustizia (Cig) contro l’Azerbaigian, accusato di discriminazioni razziali nei confronti dei cittadini armeni. Secondo Erevan, Baku promuove politiche discriminatorie da decenni, che si sono inasprite dopo il recente conflitto nel Nagorno Karabakh.

 

GERMANIA

Herbert Reul, ministro dell’interno del land del Nordreno-Westfalia, ha annunciato il 16 settembre l’arresto di un siriano di sedici anni e di altre tre persone coinvolte nella pianificazione di un attentato contro una sinagoga ad Hagen, in occasione della celebrazione ebraica dello Yom Kippur. La celebrazione, che si sarebbe dovuta svolgere la sera del 15 settembre, è stata annullata dopo la segnalazione di un attacco imminente da parte di un servizio segreto estero.

 

GUINEA

Il 16 settembre i capi di stato della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, riuniti ad Accra, in Ghana, hanno annunciato delle sanzioni mirate contro gli autori del recente colpo di stato in Guinea. I quindici leader presenti hanno anche chiesto alla giunta militare guidata da Mamady Doumbouya di accelerare la fase di transizione e di organizzare le elezioni entro sei mesi.

 

SOMALIA

Il 16 settembre il presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, conosciuto come “Farmajo”, ha ritirato alcuni poteri esecutivi al primo ministro Mohamed Hussein Roble. I due leader sono ai ferri corti dal 5 settembre, quando Roble ha licenziato il capo dei servizi segreti Fahad Yasin per la gestione di un’inchiesta sulla scomparsa a fine giugno di un’agente segreta di 25 anni, Ikran Tahlil.

 

AMBIENTE

Secondo il rapporto annuale “United in science 2021”, messo a punto da varie agenzie delle Nazioni Unite in collaborazione con alcuni scienziati e presentato il 16 settembre, limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius rispetto all’era preindustriale è impossibile in assenza di una riduzione immediata e molto significativa delle emissioni di gas a effetto serra. Gli autori del rapporto prevedono conseguenze catastrofiche per il pianeta e per i suoi abitanti

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