PARLAMENTO MONDIALE : UN NUOVO INIZIO. SE NON ORA QUANDO ?

Pubblichiamo due interventi, il primo di Luciano Neri e il secondo di  Mario Capanna, a sostegno della campagna per l’ istituzione del Parlamento Mondiale, lanciato dal Laboratorio istituito in collaborazione dalle Università della Calabria (Rende-Cosenza) e dall’Università dell’Insubria (Varese) .

“Il Laboratorio per l’istituzione del Parlamento Mondiale nasce dalla collaborazione tra il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria e il Dipartimento di Scienze Teoriche e Applicate dell’Università dell’Insubria di Varese, e vede impegnati studiosi di diversa formazione (filosofi, storici, scienziati della politica, sociologi, analisti internazionali, economisti, diplomatici, educatori…), non esclusivamente accademici. Inoltre si avvale della collaborazione decisiva di studenti universitari e medi-superiori, attivisti e persone interessate alle possibili risposte politiche, istituzionali e di pensiero che siamo oggi obbligati a ricercare e promuovere di fronte alle criticità che investono l’intero pianeta, alla crisi delle democrazie e al venir meno dell’Onu, dell’impianto istituzionale e di diritto internazionale costruito nella fase immediatamente successiva alla Seconda guerra mondiale.

Il Laboratorio è al tempo stesso il proseguimento del lavoro svolto per un decennio in seno all’Università della Calabria e portato avanti, tra gli altri, con un questionario che è stato inviato a studenti universitari di 41 Paesi di ogni continente.

Il progetto ha come obbiettivo quello di costituire entro il 2021 il Centro Interuniversitario per l’Istituzione del Parlamento Mondiale del quale possono entrare a far parte a pieno titolo altre sedi universitarie, istituzioni internazionali, associazioni e Centri Studi culturali e politici, oltre a singoli soggetti studiosi e/o attivisti interessati alla costituzione di un Consesso planetario e alla elaborazione di un nuovo pensiero che lo sorregga.

La crisi ambientale su scala planetaria, le sperequazioni sociali ed economiche, la finanza transazionale che divora le istituzioni e la politica, l’indigenza, i conflitti bellici, la corsa agli armamenti convenzionali e nucleari, le migrazioni, il rispetto e la tutela dei diritti in conformità alle Dichiarazioni universali, l’istruzione, lo sviluppo tecnologico etc., sono temi che evidenziano la crisi irreversibile dei modelli e delle istituzioni internazionali precedenti, la crisi delle stesse democrazie, il collasso di un mondo che muore mentre quello nuovo stenta a nascere. L’umanità di oggi si trova in questo interregno nel quale possono concretizzarsi pericoli enormi: dalle guerre su larga scala a degenerazioni climatiche e ambientali irreversibili. Non può esistere, né resistere nel tempo, un potere che mantiene e aumenta la forza coercitiva dopo aver perso legittimità e consenso.

È questo orizzonte dei problemi (abbiamo bisogno di “mondiologhi” diceva lo scrittore Ernesto Sabàto), queste criticità e queste urgenze che motivano la costituzione del Laboratorio per il Parlamento Mondiale, che spingono all’analisi, alla riflessione, allo studio, alla ricerca, alla relazione per far emergere su scala globale istituzioni nuove (come il Parlamento Mondiale), sorrette da un nuovo pensiero. Una proposta che parte dal dato di fatto che nessuna potenza oggi è in grado di costruire e rappresentare il nuovo centro dell’ordine mondiale. Una proposta che vuole avere il rigore e il coraggio di cimentarsi con la complessità di un mondo che, se vogliamo affrontare le sfide che abbiamo di fronte, inevitabilmente potrà essere solo multilaterale e policentrico.

Da gennaio a maggio 2021 il Laboratorio realizzerà un nuovo sondaggio in sedi universitarie di almeno 100 Paesi del pianeta, ricorrendo alla disponibilità e alla collaborazione di istituzioni pubbliche e private di varia natura: dai Ministeri degli Esteri alle Ambasciate, dai Consolati agli Istituti di Cultura, dalle Università ad Associazioni educative, culturali, sociali e politiche.”

Prof. Romolo Perrotta


Per partecipare all’iniziativa sono stati predisposti dei questionari on line in diverse lingue che possono essere compilati ai seguenti indirizzi:

ITALIANO:

SPAGNOLO:

Per contatti:

Luciano Neri, presidente@cenri.itRomolo Perrotta, perrottaromolo@gmail.com


PARLAMENTO MONDIALE : UN NUOVO INIZIO. SE NON ORA QUANDO ?

Abbiamo bisogno dei mondiologhi

Ernesto Sabato

Da anni oramai, nei diversi continenti e a tutti i livelli, si è sviluppato un dibattito sul tema dell’evaporazione del diritto internazionale e degli organismi deputati a farlo rispettare. Alcuni hanno avanzato la proposta dii un Parlamento Mondiale come risposta possibile ai pericoli che minacciano la Terra. Le emergenze climatiche e ambientali, le guerre in corso e quelle che rischiano di esplodere, il rischio nucleare, la crisi delle democrazie, il collasso dell’Onu, le violazioni sistematiche delle norme del diritto internazionale, il potere incontrollato delle grandi trasnazionali, rendono oggi quella proposta non solo necessaria ma anche più urgente. Una proposta che, comunque la si pensi, è all’altezza della sfida imposta dalle trasformazioni profonde, regressive, con tratti neofeudali, introdotte in questi decenni nel sistema politico, istituzionale, economico e giuridico internazionale. Decenni nei quali sono deflagrati, o maturati nelle loro forme più tragiche e impunite, conflitti devastanti e guerre in quasi tutti i continenti, dalla Libia all’Iraq, dall’Ucraina alla Siria, dallo Yemen alla Somalia, dalla Nigeria all’intero centro Africa. Non ci sono state transizioni democratiche ma decine di colpi di stato, o di tentati: dall’Egitto alla Bolivia, dall’Honduras alla Thailandia, dal Paraguay alla Turchia, dall’Ucraina alla Birmania. Oltre 20 nel solo continente africano. Tutte le crisi, economica, sociale, climatica, sanitaria, migratoria, alimentare, della democrazia e belliche si stanno sommando rischiando di portare la condizione esistenziali degli umani ad un inedito livello di criticità. Gli Stati Uniti si sono ritirati dal Trattato INF (Intermedie – Range Nuclear Forces) con la Russia firmato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov per mettere al bando i missili a raggio intermedio. Così come si sono ritirati dall’accordo sul nucleare iraniano, firmato nel 2015 dai Paesi del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania. Come risposta Teheran ha aumentato al 20% l’arricchimento dell’uranio dichiarando contestualmente di essere in condizione di raggiungere “facilmente” il 90% di arricchimento, soglia che consente la produzione dell’atomica. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna soprattutto, e per reazione anche le altre potenze, hanno approvato miliardari piani di potenziamento delle armi atomiche. Il Comitato per le minacce ad alto rischio dell’Onu, assieme ai più qualificati studiosi di strategie nucleari, come ad esempio l’ex segretario della Difesa degli Stati Uniti, William Perry, considerano “la probabilità di una catastrofe nucleare più elevata oggi che non negli anni della guerra fredda”, quando la catastrofe fu più volte sfiorata ed evitata per un nulla.

La proposta del Parlamento Mondiale è importante perché impone una riflessione sui cambiamenti strutturali a livello globale intervenuti negli ultimi trenta anni. Viviamo in un tempo nel quale, come diceva Gramsci, il passato non c’è più e il nuovo stenta a nascere. Un limbo nel quale possono prendere corpo gli accadimenti più pericolosi. Il vecchio sistema capitalistico, fondato sulla produzione di beni da parte di lavoratori compensata con un salario da parte dei padroni delle imprese, si è in questi ultimi decenni involuto in un neoliberismo finanziario incontrollato e incontrollabile, fondato sulla speculazione a discapito della produzione, per poi degenerare nel sistema neofeudale – liberista nel quale siamo immersi oggi. Un sistema nel quale, assieme all’uso degli strumenti di controllo e di comando più sofisticati, emergono diffusamente pratiche e figure di feudatari e di servi della gleba, nella società e nella rete, ambito nel quale sono più evidenti i processi di feudalizzazione in corso, con pochi sovrani (ricchissimi) e tanti servi della gleba (sempre più poveri, di pane, di lavoro, di diritti, di conoscenza). Il dominio dei pochi che hanno tutto viene esercitato esclusivamente attraverso la forza, usata o minacciata contro nemici o per riallineare amici dubbiosi. Lo storico equilibrio tra apparato produttivo, apparato finanziario e politica è saltato. L’apparato finanziario è cresciuto a dismisura, si è ipertrofizzato ed ha mangiato sia l’apparato produttivo che la politica. Oggi sono le multinazionali, le grandi trasnazionali bancarie e finanziarie a dettare le priorità alla politica, a nominare i governi, ad eleggere i Parlamenti, i Presidenti dello Stato e dei consigli di amministrazione. Mai come oggi, per usare una frase di John Dewey, la politica è l’ombra proiettata sulla società dai grandi interessi economici. Gli effetti perversi determinati dal neofeudalesimo – liberista sono in tutta evidenza rappresentati dal dato delle borse che, nella prima fase, in piena pandemia, sono cresciute mediamente del 9 – 12%, mentre il Pil europeo precipitava dell’8 – 10%. La traduzione è che con la crisi economica, con la disoccupazione, con la sofferenza sociale e umana, il sistema neofeudale, le multinazionali, i grandi gruppi bancari transazionali e le società del settore finanziario speculativo ci guadagnano. La sofferenza delle persone e il crollo dell’economia reale costituiscono per questi settori un investimento, la principale fonte di arricchimento. Delle migliaia di miliardi di dollari movimentati in tempo reale ogni giorno per via telematica, il 95% – (il 95%) – è finalizzato alla speculazione, nel perverso gioco degli arbitraggi e dei differenti tassi di interesse. Solo il 5% – (il 5%) – è il prodotto di transazioni economiche reali per l’acquisto, ad esempio, di materie prime, derrate alimentari, medicinali, macchinari agricoli ecc. (fonte Onu). Nel loro insieme Amazon, Facebook, Apple, Google, Microsoft, valgono (esclusi Stati Uniti, Cina, Germania e Giappone) più di tutti i Paesi del mondo messi insieme. Una condizione, quella dell’epoca contemporanea, del tutto simile a quella descritta da Marx con la metafora sul ruolo del mulino nel passaggio all’era industriale. I contadini erano costretti a macinare il grano nel mulino del loro signore, servizio per il quale dovevano pagare. Non solo dunque lavoravano terre che non possedevano, ma vivevano in condizioni nelle quali il feudatario era, come afferma Marx, “signore e padrone del processo di produzione e dell’intera vita sociale”. Nel neofeudalesimo contemporaneo le piattaforme digitali sono i nuovi mulini, i loro proprietari miliardari sono i nuovi signori feudali, le migliaia di lavoratori e i miliardi di utenti i nuovi servi della gleba. E’ questa la grande differenza tra il capitalista, il cui profitto è il risultato del valore aggiunto generato dai lavoratori salariati con la produzione di beni, dal signore feudale che trae profitto dal monopolio, dalla coercizione e dalle concessioni. Una nuova articolazione del potere a livello globale caratterizzata dalla sudditanza totale dei governi a queste poche e immense aziende alle quali tutto viene concesso, persino il diritto di non pagare le tasse. Un livello inedito di concentrazione di poteri e di ricchezze tali minare alla radice le regole, i principi ed i valori dei sistemi liberaldemocratici. Il neofeudalesimo liberista è oggi il nemico principale della democrazia liberale.

La proposta del Parlamento Mondiale trova naturale legittimazione anche nella crisi strutturale dell’Onu e del sistema di norme internazionali costruito nel periodo post bellico dalle potenze vincitrici. Crisi che è conseguenza di un processo di cannibalizzazione, di delegittimazione e di smantellamento del “sistema Onu” da parte dei propri creatori. Una costante degli ultimi decenni, una pratica indispensabile per un sistema di potere che si nutre di forza, non di diritto. Ormai è un coro quasi unanime a ripetere che l’Onu non è più lo strumento adeguato per garantire la sua stessa mission fondativa: mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Se mai lo è stato. Le finalità che ispirarono la fondazione dell’Onu non erano quelle di costruire pace e sicurezza attraverso un sistema di norme e di leggi giuste e organismi preposti a farle rispettare. La vera e comprensibile finalità, esplicitata nel preambolo della Carta stessa, era quella di tenere il mondo lontano dalla guerra che i firmatari avevano conosciuto con i due conflitti precedenti. Ma lo fecero con un impianto organizzativo esclusivamente funzionale al potere delle Nazioni vincitrici, e con un impianto normativo finalizzato ad impedire qualsiasi ruolo decisionale a tutte le altre Nazioni aderenti. L’Assemblea Generale dell’Onu come organismo autorevole e decisionale non è mai esistito. I suoi poteri sono nulli. Le uniche funzioni attribuite si limitano allo studio, alla raccomandazione e al suggerimento (Cap. IV, art.li 9/22 della Carta). Tutti i poteri sono attribuiti ai cinque membri del Consiglio di Sicurezza (art. 24 della Carta) che tutto possono decidere e su tutto possono mettere il veto. E d’altra parte, come potrebbero i cinque Paesi membri del Consiglio di Sicurezza essere i soggetti che salvaguardano la pace e la sicurezza di un mondo nel quale non c’è guerra della quale essi stessi non siano responsabili o nella quale non siano coinvolti ? Come può il Consiglio di Sicurezza dell’Onu tutelare la pace e la sicurezza se i suoi stessi componenti sono i principali fabbricanti e venditori di armi del mondo? A certificare l’inconsistenza dell’Onu, ormai, sono gli stessi protagonisti, senza neppure nasconderlo. “ Le Nazioni Unite non esistono – afferma l’ex ambasciatore all’Onu di Bush ed ex Consigliere per la Sicurezza di Trump, John Bolton – gli Stati Uniti decidono e le Nazioni Unite devono seguire; se agire secondo gli indirizzi dell’Onu risponde ai nostri interessi, lo faremo, altrimenti no”.

La proposta del Parlamento Mondiale ci costringe ad abbandonare il pensiero menomato e antropocentrico occidentale, il mito della conquista della natura e quello dello sviluppo umano da realizzare attraverso lo sfruttamento del pianeta e delle persone. Il progetto del Parlamento Mondiale non è solo una necessaria proposta di istituzione globale, è anche una rivoluzione del pensiero. Ci costringe a fare i conti con le illusioni, con la nostra idea sottosviluppata di sviluppo, con quel falso infinito nel quale ci siamo buttati chiamandolo progresso, ignorando che è il sottosviluppo etico e intellettuale degli sviluppati, il nostro, a produrre lo sviluppo dei sottosviluppati. Cosa c’è di progressista, di logico, di intelligente nel pensare e praticare un progetto infinito in un pianeta finito? E’ il nostro pensiero menomato, la nostra razionalità illusoria che ci porta all’arroganza di non considerare i mondi “altri”, ad ignorare le virtù, i saperi e le ricchezze di popoli e culture millenarie che hanno inscritto nel loro sviluppo antropologico e nelle loro filosofie naturalistiche e panteiste i codici più civilizzati, fondati sulla considerazione della Madre Terra come comunità indivisibile e vitale di esseri interdipendenti e uniti in un destino comune. Un pensiero menomato e delirante che pensa possibile la continuità di un mondo nel quale l’1% possiede il 99% della ricchezza. A tal punto menomato da arrivare a riconoscere scientificamente solo qualche anno fa ciò che nel pensiero e nelle pratiche di tanti popoli è codificato e applicato da migliaia di anni. Come noto, in occidente il termine “antropocene”, come definizione dell’era geologica caratterizzata dal riconoscimento che le criticità del pianeta sono determinate dal comportamento umano, è entrato ufficialmente nel dibattito scientifico solo nel 2000, grazie al chimico premio nobel Paul Crutzen. Una teoria che per le indagini dalle quali parte e per le conclusioni alle quali arriva mette in discussione il nostro modo di pensare, di produrre e di consumare. Il nostro modo di vivere con e nella Madre Terra. Ma la riflessione sui movimenti tellurici che venivano prodotti dal comportamento umano sull’ambiente in realtà si era sviluppato molto prima, per tutta la seconda metà dell’800, ma quel termine, “antropocene”, non era mai stato riconosciuto e utilizzato, era stato cancellato per lasciare il posto al termine anestetizzato, del tutto inefficace, di Olocene. Ultima era del quaternario. Perché avvenne questa menomazione concettuale e scientifica? Perche l’Ordine Internazionale dei Geologi e i tecnici del tempo erano già al servizio della nascente industria estrattiva del petrolio e del carbone. L’asservimento ai poteri, lo stravolgimento dei saperi e il mercenariato delle cosiddette èlite tecnoscientifiche non è una caratteristica esclusiva dell’oggi. I processi di analfabetizzazione pianificata in questi trenta anni dal neoliberismo feudale stanno costringendo le popolazioni zombie dei Paesi occidentali a guardare la realtà dal buco della serratura, con un riduzionismo cognitivo e analitico fondato sulla cancellazione del resto del mondo. Del quale nulla sappiamo. E del quale non ci occupiamo né ci preoccupiamo. Non vediamo che una rivoluzione antropologica del pensiero su questi temi, un cambio di paradigma e un impegno conseguente lo stanno portando avanti in molti, risultato di consapevolezza e responsabilità. I popoli indigeni originari innanzitutto. E’ la Pachamama dei popoli indigeni dell’America Latina, è lo Shan dei nativi europei, è lo spiritualismo panteista dei nativi americani. Cambiano i nomi ma il significato resta lo stesso: la Madre Terra come essere vivente, che ha generato tutto ciò che esiste nel pianeta, che se ne prende cura e del quale noi umani a nostra volta dovremmo prenderci cura. So bene che questo concetto, apparentemente così semplice, è impossibile da comprendere se si concepisce il mondo sulla base del patologismo antropocentrico che pone l’uomo al centro del’universo, in un rapporto conflittuale con il pianeta e con il diritto di sfruttare tutto ciò che ha intorno, dalle risorse naturali agli animali. Ma il concetto di pianeta vivente, di Terra Madre della cosmologia indigena, di corpo vivo e complementare a tutti gli esseri, non è forse lo stesso che, magari partendo da punti di osservazione diversi e con articolazioni analitiche complementari, è stato sviluppato oggi da alcuni degli scienziati, degli economisti e degli intellettuali contemporanei più prestigiosi dell’occidente? Da Fritjof Capra a Ilya Prigogine, da Edgar Morin a Stéphane Hessel, da Zygmunt Bauman a Noam Chomsky, da Thomas Piketty a Joseph Stiglitz. Fino a leader religiosi come Papa Francesco e il Dalay Lama. Non è forse la filosofia indigena della Madre Terra quella che ritroviamo nell’eretica e meravigliosa enciclica “laudato si” di papa Francesco? Una riflessione talmente radicale e necessaria che interroga tutti, laici e religiosi, chiamandoli alla riflessione e, soprattutto, alla lotta. Partendo dal Cantico delle Creature, Bergoglio arriva alla Madre Terra, entità viva, titolare di diritti, riconoscendola come “…sorella con la quale condividiamo l’esistenza, madre bella che ci accoglie tra le sue braccia” (n. 1 – Laudato si). Partendo dal principio che tutto è connesso (n.138), Francesco condanna “l’antropocentrismo dispotico che non si interessa delle altre creature” (n.68). Un documento positivamente contaminato dalle culture indigeniste latinoamericane, rappresentate da leader nativi che Bergoglio, nell’indignazione dei settori confessionalmente arcaici e dogmaticamente clericali, ha voluto con sé in Vaticano in occasione del sinodo sull’Amazzonia. “Querida Amazzonia” rappresenta l’attualizzazione di un pensiero e il superamento, attraverso il rapporto con la laicità e con il naturalismo indigenista, dell’arcaicità antistorica della Genesi (“Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili” – Genesi 26). E ancora, quale è la differenza tra la millenaria filosofia indigena della Madre Terra viva, indivisibile e autoregolata con la analoga teoria di Gaia, che lo scienziato britannico James Lovelock elaborò e diffuse nel 1979 ? La teoria di Gaia, così la battezzò Lovelock, dandole lo stesso nome che i Greci avevano dato alla “Madre Terra”. Una teoria che considera il pianeta Terra un organismo biologico, un essere vivente capace di autoregolarsi e di mantenere le condizioni materiali necessarie per la vita sua e degli esseri che la abitano.

Se quello occidentale resta un modello di pensiero e di potere ristretto, nazionalistico, patriarcale e “patriottico”, quello indigenista ha un carattere universale (in quanto rivolto a tutto il pianeta e a tutti gli esseri) è “matriottico”, al femminile, consapevole della propria origine e rispettoso della Madre Terra genitrice, generosa e saggia. Un pensiero che non è rimasto confinato al filosofico o, come erroneamente pensano molti occidentali, al livello testimoniale di popoli marginali e in via di estinzione. Quel pensiero è stato ed è protagonista dei cambiamenti politici, culturali, istituzionali e costituzionali più innovativi degli ultimi decenni. Specialmente in America Latina. Le comunità indigene, che sono maggioranza o rappresentano larghe minoranze in molti Paesi, hanno recuperato la loro storia millenaria e sono diventati protagonisti di lotte, di governi e di un altro mondo possibile dopo il fallimento dei partiti progressisti e sviluppisti, a partire dal Pt di Lula in Brasile e dal Partito Socialista in Cile. Particolarmente significativa in questo senso è l’esperienza indigenista in Bolivia, un Paese storicamente segnato dai colpi di stato della minoranza (15%) bianca, ricca ed europea contro la maggioranza indigena (60%) rappresentata dalle 32 nazionalità originarie, tra le quali le due maggioritarie, Aymara e Quechua. Milioni di persone per 500 anni sono state tenute in condizioni di schiavitù e private dei diritti basici, dello stesso diritto di esistere come esseri umani. Fino a quando, nel 2006, dopo mesi di lotte i movimenti sociali e indigeni non hanno sconfitto i militari, imposto libere elezioni e conquistato il Parlamento e il governo. Evo Morales, Aymara della provincia del Chaparè, è stato il primo presidente indigeno boliviano ad essere eletto capo di stato in quell’area geografica a oltre 500 anni dalla conquista. E’ da quel momento che inizia l’altra storia, la primavera dei diritti e dell’emancipazione degli umili nel paese più militarizzato e povero dell’America latina. I saperi ancestrali non recuperano solo una storia identitaria che si riconosce con le lotte per l’indipendenza del XVIII° secolo e con icone rivoluzionarie anticoloniali come Tupak Katari e Tupak Amaru. Quei saperi, la filosofia della Pachamama, del “vivir bien” diventano la base politica e culturale delle conquiste civili, sociali, economiche e costituzionali che seguiranno. Negli anni successivi la Bolivia nazionalizza le risorse naturali ed energetiche, promuove programmi di sviluppo per i settori più umili fino ad allora esclusi, sconfigge la povertà estrema e l’analfabetismo, diventando il Paese dell’America Latina con la crescita annuale più alta e con il più alto indice di redistribuzione della ricchezza prodotta. Distribuisce le terre, bandisce gli organismi geneticamente modificati in agricoltura e avvia la realizzazione di banche del germoplasma per salvaguardare i semi originari. Ma il riconoscimento più forte dei diritti delle nazioni indigene arriva nel 2009 con l’approvazione della nuova Costituzione che consacra e istituisce lo “Stato Plurinazionale di Bolivia”, ampliando la nozione del diritto di cittadinanza con il riconoscimento delle “nazioni e popoli indigeni originari e contadini”. Viene ufficializzata la doppia bandiera, quella storica e la Whipala, la bandiera multicolore delle nazionalità indigene. Un processo che chiede allo Stato di adattarsi alla pluralità dei soggetti e delle esperienze storiche della sua gente. E’ stato un processo originale certamente difficile, non privo di difficoltà e contraddizioni, come comprensibile in un Paese nel quale non era mai esistita alcuna forma di organizzazione o rappresentanza politica effettiva, nessuna istituzione democratica, storicamente segnato da una oppressione brutale e da una povertà estrema. Ma la piccola Bolivia è diventata un esempio per tutta l’America Latina, e non solo. Nel 2010 Evo Morales ha presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra. Una sfida culturale coraggiosa che partendo dal riconoscimento della Terra come comunità indivisibile e vitale di esseri interdipendenti e correlati, ne riconosce i diritti e ne raccomanda il rispetto e la tutela. E se la Dichiarazione è ancora in discussione all’Onu, qualche effetto è riuscita a produrlo. E’ stata approvata da diverse città in America Latina e nel mondo, sta suscitando riflessioni, stimolando dibattito e creando coscienza. L’esempio della piccola Bolivia ci dice che immaginare e costruire realtà nuove è possibile anche nei contesti più difficili, e che pensare diversamente è una condizione vitale che accompagna i cambiamenti irrimandabili. Una rivoluzione paradigmatica e mentale più importante della rivoluzione copernicana. Se vogliamo uscire dall’età del ferro planetario nel quale siamo ancora immersi. Se vogliamo costruire una nuova umanità solidale che condivide un destino comune con la Terra e con tutti gli esseri che la abitano.

Luciano Neri


L’ASSISE DEI POPOLI

I problemi non possono essere risolti allo stesso

livello di pensiero che li ha generati.

(A. Einstein)

“Da millenni l’umanità non è esistita in quanto tale”, rifletteva tristemente l’uomo, e domandò: “Che pensi, potrà sopravvivere?”

La donna rispose: “Sì, se acquisirà quella coscienza di specie, per cui si riconosce come famiglia umana”…

“Altrimenti?”, chiese l’uomo.

“In caso contrario si estinguerà, e la natura ne sarà felice, risorgendo dopo le interminabili ferite subite”.

Attesa invano una replica, la donna proseguì: “Che iattura sarebbe, dato che noi siamo, fino a prova contraria, l’unica coscienza dell’universo!”

E aggiunse, prendendo per mano l’uomo: “Mettiamoci al lavoro!… Adesso, perché il tempo stringe”…

Un’Assise mondiale rappresentativa di tutti i popoli della Terra: è ciò che l’umanità non si è mai data nella sua travagliata storia millenaria. E i risultati sono di un’evidenza dirompente.

Il mondo sta bruciando.

Per i mutamenti climatici, per la ripresa compulsiva della corsa agli armamenti sia convenzionali che nucleari, per le guerre in atto – “la terza guerra mondiale a pezzi”, che è in corso, secondo le pertinenti parole di Papa Francesco – per le guerre commerciali quasi devastanti come quelle degli eserciti, per il predominio del profitto capitalistico che ci ha portato alla società dell’1 per cento: l’1 per cento dell’umanità possiede ricchezze e beni che superano quello del 99 per cento! Mai si era visto un accaparramento di risorse così concentrato.

Per l’insieme di questi fattori gli scienziati e i premi Nobel, che sovrintendono al Doomsday Clock – “l’Orologio dell’Apocalisse” – all’inizio del 2020, prima della pandemia del Coronavirus, hanno spostato le lancette a 100 secondi dalla mezzanotte, che simboleggia la fine del mondo.

Si tratta dell’orario più vicino al “giorno del giudizio” dal 1953 (anno dello sviluppo della bomba all’idrogeno da parte di Usa e Urss).

L’uomo contemporaneo è portato a non pensare a questo preoccupante orizzonte, imprigionato com’è in quel materialismo quotidiano da cui si lascia pervadere, alimentato da una sapiente (insipiente?) propaganda parcellizzata, che spezza, e frantuma di continuo, il quadro d’insieme del mondo.

Così i 7 miliardi e mezzo di donne e uomini, che compongono oggi l’umanità, sono indotti a non rendersi conto che, per continuare a vivere ai ritmi attuali, avrebbero bisogno di due pianeti, anziché dell’unico che abbiamo.

Si è giunti a questo punto – vicini al non ritorno – per lontane ragioni storiche e culturali.

Dalla fondazione delle prime città, all’incirca 5 mila anni fa, dapprima con le città-stato, poi con le nazioni e quindi con gli imperi, l’umanità si è concepita basata principalmente sulla divisione: divisione-separazione per etnie, per localismi, per interessi economici, per visioni religiose.

Una continua lotta per l’egemonia sfociata quasi sempre nella guerra, fino a quelle mondiali.

Non si pone sufficiente attenzione sul fatto che è con le prime città che nascono gli eserciti, le burocrazie, la guerra. Ma 5 mila anni sono un battito di ciglia nella storia.

E’ consolante rilevare che, per più del 90 per cento del tempo in cui l’uomo ha camminato eretto, il concetto di guerra era sconosciuto, come mostrano gli studi di etnologia comparata.

Dunque le attuali condizioni del mondo non sono il risultato di una presunta natura umana votata irreversibilmente all’autodistruzione.

Quella che definiamo “natura umana” è il risultato di una costruzione storica, che dunque può essere superata da un’altra costruzione storica, basata su una diversa visione del mondo.

Perciò Einstein ha scritto a buon diritto: “L’umanità avrà la sorte che saprà meritarsi”.

Il punto è proprio questo: saremo in grado di costruire una “sorte” diversa da quella che ci si sta profilando?

I mutamenti climatici sono il nuovo paradigma che sta mettendo a repentaglio il mondo.

L’avvelenamento dell’atmosfera, prodotto dalle attività umane subordinate al profitto capitalistico, ha raggiunto traguardi crescenti di allarme.

Nell’ultimo secolo abbiamo bruciato immense quantità di carbone e petrolio, al ritmo di 70 milioni di tonnellate di CO2 immesse nell’atmosfera ogni 24 ore.

La conseguenza è stata che le concentrazioni di anidride carbonica – che in più di un milione di anni non erano mai giunte a 300 parti per milione – all’inizio del terzo millennio sono salite a 338 ppm.

La Conferenza di Parigi sul clima (dicembre 2015), presentata come un accordo storico fra i 195 paesi firmatari, prevedeva di contenere al di sotto dei 2 gradi il riscaldamento globale entro il 2020: proposito che si è rivelato di gran lunga insufficiente.

Infatti: alla fine del 2016 l’agenzia meteorologica dell’Onu informava il mondo che, nel 2015, la concentrazione di anidride carbonica aveva superato le 400 ppm, infrangendo quella che era considerata la soglia-simbolo.

Non solo: l’osservatorio di Mauna Loa, nelle Hawaii, la più antica stazione di rilevamento di CO2 al mondo, registrava, il 18 aprile 2017, il superamento della soglia di 410 ppm.

Lo stesso osservatorio ha registrato, il 2 giugno 2020, ben 417,9 ppm.

Continuando così, avvertono i climatologi, rischiamo di avere causato, in meno di 50 anni, un cambiamento climatico mai verificatosi in 50 milioni di anni.

Con il termine “antropocene” – coniato dal chimico olandese premio Nobel Paul Crutzen – viene indicata l’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, è fortemente condizionato su scala locale e globale dagli effetti dell’azione umana.

Per avere un’idea concreta dell’impatto delle attività umane sul – nel – mondo basti considerare che abbiamo reso artificiale la Terra, nel senso preciso per cui ci sono ormai più oggetti che esseri viventi.

Secondo lo studio dell’istituto israeliano Weizman, pubblicato su Nature, solo la plastica, con i suoi 8 miliardi di tonnellate, sovrasta del doppio il peso degli animali, fermi a 4 miliardi di tonnellate.

Se a ciò aggiungiamo il peso delle metropoli, delle città, delle strade , delle automobili ecc., raggiungiamo cifre stratosferiche.

Lo studio afferma che l’umanità, che in termini di peso rappresenta lo 0,01 per cento degli esseri viventi, grava il pianeta, ogni settimana, del peso di se stessa.

Il risultato è che le nostre fabbriche riversano sulla Terra 30 miliardi di tonnellate ogni anno.

A questo ritmo la nostra bulimia tecnologica potrebbe portarci, nel 2040, a produrre 30 mila miliardi di tonnellate di massa artificiale.

Non è folle pensare di andare avanti così? Fino a quando il mondo potrà reggere gli effetti di questa crescente invasione antropica?

L’impetuoso sviluppo delle conoscenze scientifico-tecnologiche, usate così come oggi avviene – per aumentare il potere di quell’1 per cento che domina la società umana- dà all’uomo contemporaneo un potere mai conosciuto prima.

La questione, per più di un aspetto drammatica, che si pone è: o l’apparato scientifico-tecnologico viene ricondotto sotto il controllo umano e finalizzato a soddisfare i bisogni reali – non quelli indotti – dell’umanità, in equilibrio con l’ecosistema, oppure diventerà il nodo scorsoio destinato a stringersi sempre più intorno al collo degli esseri umani, come già sta avvenendo (i mutamenti climatici ne sono l’avvisaglia più evidente e minacciosa).

Non bisogna essere tecnofobici. Ma si tratta di capire che niente al mondo è neutro, nemmeno il concetto che afferma che niente è neutro, e tantomeno lo sono le scienze e le tecniche.

Se non le indirizziamo a costruire il bene comune – degli uomini e della Terra – esse finiranno con l’assoggettare a se stesse sia gli uomini sia la Terra, in un crescendo destinato a divenire incontrollabile.

In presenza di uno stato di cose così preoccupante, il mondo è “governato” dall’unica entità sovranazionale esistente: l’Onu.

Le Nazioni Unite, come il nome stesso indica, rappresenta l’insieme delle entità nazionali e degli stati cui esse hanno dato vita.

Sotto questo profilo esse sono l’evoluzione e la proiezione moderna delle… città-stato: l’umanità non viene rappresentata in quanto tale, come specie e dunque come entità globale, bensì nel suo essere frazionata nelle diverse particolarità nazionali e statuali, che hanno interessi differenti e, spesso, contrastanti, quando non antagonistici.

Di conseguenza i rapporti in seno all’Onu non sono bilanciati in vista dell’interesse umano comune, ma fondati sugli stati di serie A, di serie B e C…

La governance dell’Onu risiede nel Consiglio di Sicurezza, dominato dagli stati di serie A, ovvero i suoi cinque membri permanenti: Usa, Cina, Russi, Francia, Inghilterra (non a caso tutte potenze nucleari).

Ognuno dei cinque, come è noto, si è arrogato il diritto di veto: sicché qualsiasi decisione, che non vada a genio ai cinque stati – o anche a uno solo di loro – è bloccata e resa vana dal veto.

L’Assemblea generale può prendere sì decisioni, ma le sue deliberazioni non hanno valore vincolante per le nazioni del mondo.

Ecco le ragioni di fondo per cui l’Onu, nata in un preciso momento storico dopo la seconda guerra mondiale, si rivela sempre più obsoleta e del tutto incapace di regolare i destini della Terra: ad attestarlo è il marasma attuale del mondo.

E’ evidente che il Consiglio di Sicurezza è il ferro vecchio più arrugginito. Più che decidere, per i meccanismi che lo regolano, il suo scopo è permettere di non decidere.

I cinque membri permanenti rappresentano, insieme, poco più di 2 miliardi di persone: una netta minoranza della popolazione mondiale. Perché gli altri quasi 6 miliardi di cittadini dovrebbero sottostare alle loro decisioni (e non-decisioni)? Tanto più che non li ha eletti nessuno, si sono… autoeletti…

Da che l’Onu esiste, si è sviluppato, soprattutto negli ultimi tempi, un dibattito a intermittenza circa la necessità-possibilità della sua riforma.

Inutile dire che il dibattito non ha mai portato a nulla, sia perché manca la sede decisionale su cui il dibattito stesso possa poggiarsi sia perché i cinque membri permanenti non vogliono saperne di allargare il cerchio e, poi, perché i candidati (autocandidati?) a entrare nel giro sarebbero molti, per di più in lizza fra di loro

Sicché la situazione risulta bloccata ed è destinata a restare tale. Controprova: chi dovrebbe diventare paese di serie A? L’India, con la sua popolazione di 1 miliardo e 370 milioni di abitanti? L’Indonesia (269 milioni)? Il Pakistan (220 milioni)? Il Brasile (212 milioni)? Il Giappone (125 milioni)? La Germania (82 milioni)? E devono essere potenze nucleari, come l’India e il Pakistan, oppure no? Chi lo decide?

In questo aggrovigliato contesto è Papa Francesco a mettere in rilievo (v. Enciclica Fratelli tutti) la necessità di “prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali”. Senza tuttavia spingersi a indicare quali dovrebbero essere quelle organizzazioni.

Una organizzazione mondiale più efficace, “dotata di autorità per assicurare il bene comune mondiale”, può sorgere solo se l’umanità nel suo insieme, comprendendosi come specie – ovvero come grande famiglia di persone coinvolta(e) in un unico destino su un pianeta ridotto allo stremo – deciderà di costruirla.

Costituire l’Assise dei popoli del mondo, per l’autogestione dell’umanità: ecco ciò che è necessario e urgente.

IL Parlamento Mondiale (d’ora in poi PM), eletto da tutti i popoli secondo il criterio della democrazia rappresentativa – una testa, un voto – può e deve diventare la sede tramite la quale l’umanità, per la prima volta nella sua storia, si autodetermina, uscendo finalmente da quello stato di minorità su cui si è finora schiacciata, frazionandosi per particolarismi nazionali.

Significa che l’umanità matura e assume la coscienza di sé come specie, nessuna frazione esclusa, e decide lo sviluppo (la sopravvivenza?) del suo presente e del suo futuro, in rapporto a tutti gli altri esseri, con cui è in relazione ineliminabile.

Significa elevare al massimo grado la propria intelligenza collettiva, divenendo capace di inter-legere e intus-legere (“leggere fra” e “leggere dentro”) nella complessa realtà dell’esistenza comune del mondo.

Il PM può essere composto da mille membri – un eletto ogni 7 milioni e mezzo di abitanti della Terra (poco più dei deputati attuali del Parlamento europeo).

Un’assemblea perfettamente gestibile e operativa, dove tutti i popoli vengono rappresentati con pari dignità, senza che ci siano quelli di serie A, B, C…

Oltre le riunioni plenarie, dove si prendono le decisioni fondamentali riguardanti tutto il mondo, si struttura per commissioni di lavoro sui temi di maggiore importanza.

Il PM dura in carica 5 anni ed elegge il suo presidente, che diviene il Presidente del Mondo. Si può immaginare la sua autorevolezza se paragonata a quella del segretario dell’Onu…

Lasciando agli stati la gestione dei problemi interni di ogni singola nazione, il PM delibera sulle questioni basilari dell’umanità: la pace – la guerra deve diventare un tabù – il disarmo a partire da quello nucleare, la salvaguardia dell’ecosistema terrestre, i diritti e i doveri fondamentali, lo sradicamento della fame, le produzioni eque e solidali e l’introduzione dell’onesto guadagno – al posto del profitto onnivoro – la giusta distribuzione delle risorse, le migrazioni, la difesa e l’incremento di tutti i beni comuni.

Dal punto di vista tecnico, l’elezione del PM non presenta affatto ostacoli insormontabili: seguendo i fusi orari, in un giorno di vota dappertutto e l’indomani si conoscono i risultati.

E’ evidente che il problema è prettamente culturale e politico: lasciare la vecchia strada per la nuova.

E però ormai vediamo che proseguire sulla vecchia e non imboccare la nuova può comportare conseguenze irreparabili.

Ho avuto la fortuna di sperimentare, insieme a milioni di altri, la democrazia diretta e, poi, quella rappresentativa, sia nel Parlamento europeo sia in quello italiano, e dunque ho avuto modo di conoscere direttamente i limiti della democrazia delegata.

Se dico che la democrazia rappresentativa, pur con tutti i suoi difetti, è tuttavia migliore dell’attuale oligarchia che pesa sul mondo, credo di indicare una conclusione accettabile.

Oggi gli stati sono troppo grandi per i problemi piccoli (e infatti decentrano taluni poteri agli enti locali) e troppo piccoli per affrontare le questioni grandi.

In più prevale generalmente, al loro interno, un processo di verticalizzazione delle decisioni, con governi che tendono in misura crescente all’autocrazia, esautorando spesso, progressivamente, i rispettivi parlamenti.

Così la stessa democrazia rappresentativa va restringendosi, fino a rattrappirsi in mera “democrazia formale”.

L’eclissi della democrazia, provocata e insieme utilizzata dal capitalismo finanziario globale, riduce sempre più la politica al predominio dei rapporti di forza e la prepotenza diviene la sua stella polare.

L’assalto al Campidoglio di Washington, il 6 gennaio 2021, da parte di manipoli del presidente Trump sconfitto alle elezioni, da lui apertamente e direttamente istigati, codifica, sebbene debellato, l’alto grado di disfacimento della democrazia istituzionale in quanto piegata a privatizzazione di scopi e interessi.

La politica, di fatto, non c’è più: è sostituita dalla propaganda – di chi ha il potere di farla – e viene a coincidere con la finzione e la simulazione. La propaganda è a sua volta una merce: viene fabbricata – venduta e… comprata – alla stessa stregua delle armi, dei telefoni cellulari, delle auto e dei computer.

Ecco perché la “politica”, oggi prevalente, è ridotta ad un ruolo ancillare: segue ed e-segue i diktat dei poteri dominanti.

In questo contesto l’elezione del PM ridà linfa alla democrazia, inverando il principio “ciò che riguarda tutti deve essere deciso da tutti”.

Le persone e i popoli vengono a parlare in prima persona e l’umanità si erge a determinare il proprio destino e quello della Terra. Una netta, e salutare, inversione di tendenza, rispetto ai silenzi e alla passività delle moltitudini.

I 2500 scienziati, che hanno elaborato nel 2007, per conto dell’Onu, il rapporto sui mutamenti climatici, in modo unanime consegnavano all’umanità un messaggio inequivocabile: rilevato che “il 90 per cento dei mutamenti atmosferici è causato dall’uomo”, essi ammonivano: “Si avvicina il giorno in cui il riscaldamento del clima sfuggirà a ogni controllo. Siamo alle soglie dell’irreversibile”.

Per scongiurare il superamento del punto di non ritorno, gli scienziati ci raccomandavano di tenere presente che “non è più il tempo delle mezze misure” (come quelle adottate nella Conferenza di Parigi) e ci affidavano tre indicazioni imperative: “E’ il tempo della rivoluzione delle coscienze, della rivoluzione dell’economia, della rivoluzione dell’azione politica” (corsivi miei).

Il PM è sia la conseguenza – il risultato – di quelle tre rivoluzioni sia il mezzo per realizzarle compiutamente.

E’ la sede attraverso cui possiamo e dobbiamo gestire in comune il bene comune più prezioso che abbiamo: la nostra vita – e quella di tutti gli altri esseri.

L’umanità e il mondo sono inscindibilmente interdipendenti: a dircelo è la stessa fisica quantistica, secondo cui ogni cosa non è realmente comprensibile se non vista in relazione con tutte le altre. Separata da quei nessi, non esiste se non come astrazione.

Comprendere appieno questo è l’obiettivo più alto che l’umanità può e deve raggiungere.

La coscienza di specie si dilata fino a divenire coscienza globale: la comprensione che la parte è collegata al tutto e il tutto è più delle singole parti che lo compongono.

La pandemia di Covid 19, che dal 2020 ha colpito l’umanità ovunque, ci ha fatto toccare con mano, in modo bruciante, questa interconnessione fra le persone – e fra loro e la natura. Ci ha mostrato come nessuno può salvarsi da solo, e che la salvezza richiede necessariamente una solidarietà, individuale e collettiva, di autoprotezione, per ridurre la contagiosità del virus, anche a costo di rinunciare ad alcune libertà fondamentali. Una lezione drammatica alla hybris antropocentrica.

Va da sé che non si arriverà al PM senza quella rivoluzione delle coscienze che gli scienziati, non a caso, hanno indicato per prima – e come condizione necessaria per realizzare la rivoluzione dell’economia e quella dell’azione politica.

E’ necessario costruire – entro ciascuno di noi e in noi tutti – quella che i greci chiamavano metànoia: “correzione di pensiero”, “mutamento di parere”.

(In altre parti del libro viene indicato il lavoro incominciato verso questo percorso).

Il PM sarà il risultato del mutamento di pensiero necessario e, insieme, il volano di sviluppo per realizzarlo compiutamente.

Costituisce il passaggio dell’umanità dal confine all’orizzonte.

Per salvarsi. E per salvare il mondo.

Mario Capanna

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