L’UMANITÀ DISPERSA DEGLI EMIGRATI CALABRESI

di Filippo Veltri ( da zoomsud.it)

Quest’anno la Calabria di questi giorni appare (e forse lo è davvero) diversa. Deserte (o quasi, in verità sempre meno) le città. Nei comuni piccoli e grandi di mare, collina e montagna si susseguono le feste pubbliche, quelle patronali, le sagre, le manifestazioni, i momenti di incontro privati, i matrimoni, i battesimi. Non è tutto indirizzato ai turisti, ai forestieri, agli ‘’stranieri’, ma in gran parte ai calabresi che se ne sono andati negli anni scorsi e che tornano, puntualmente e anche qui sempre di meno però, in questi giorni.

Ferragosto è un po’ il culmine di questa fase ma anche l’inizio di un nuovo abbandono: gli emigrati sono tornati ma si apprestano a lasciarci per un altro anno.

  È bene parlare di loro, dei nostri emigrati, in un momento in cui si parla solo di migranti. Emigrato è non solo l’operaio o il muratore che è dovuto scappare a Roma, Torino o Milano o all’estero per sfuggire alla fame e alla disperazione. È emigrato anche chi ha fatto, in varie dimensioni, fortuna altrove o l’impiegato e il professionista che torna una volta l’anno in paese e che viene festeggiato, trova gli amici di un tempo, i familiari ancora in vita; passa una serata al bar, riassapora vecchi odori, cerca disperatamente di trasmetterli a figli e nipoti. Sente, insomma, la struggente nostalgia di un attaccamento alle radici dalle quali non sa e non vuole privarsi.

  L’emigrazione ha distrutto questa nostra regione; nessuno tra i nuovi pensatori che hanno financo sancito la scomparsa della questione meridionale potrà mai dire che è stata una risorsa. L’emigrazione forzata ha impoverito un già precario tessuto di convivenza e di socialità, ha logorato i rapporti i rapporti sociali ed economici ed ha anche finito con l’indirizzare – a volte persino in maniera inconsapevole – l’industria turistica, nella maniera un po’ balorda ed arruffona che ritroviamo in varie parti della Calabria.

  È bello girare in queste sere agostane nei paesini della Locride, del Tirreno o della Sila: ci sono le bandiere che salutano e ricordano chi se n’è andato e che anche quest’anno nonostante tutto è tornato. Negli orribili saloni di ristoranti improvvisati in spazi enormi in disuso si preparano matrimoni megagallattici con centinaia di invitati; lunghissimi cortei di auto segnalano agli “altri” che il compare o il nipote è tornato e si è sposato ed ha atteso questi giorni d’agosto per farlo, per non fare mancare all’appuntamento l’emigrato. Il quale, ovviamente, così non viene chiamato o non si chiama, ma tale resta.

  Di più la Calabria a questi suoi figli che sono stati costretti ad andare via non riesce a dare e a trasmettere. Anzi: chi se n’è andato è sempre più insofferente, non capisce le file alle Poste per fare pagare la pensione al vecchio padre; l’orribile burocrazia o le strade intasate di auto e i negozi sforniti.

  Parlano (e forse pensano) come i turisti veri venuti dal nord, ne hanno assimilato (o meglio: cercano di farlo) non solo il dialetto ma anche i modi di pensare. Sono disabituati alla confusione della Calabria, ai tratti di disorganizzazione, alle tante cose che non vanno da queste parti. ‘’Possibile – è la frase che più di sente ripetere in questi giorni – che in 30 anni non è cambiato nulla?’’.

  No, carissimi calabresi che qui non vivete se non un paio di settimane l’anno: la Calabria non è la stessa che avete lasciato. Sono gli stessi e forse pure peggiorati i racconti della nostra bella Calabria ma qui si tenta faticosamente di cambiare, di innescare una nuova mentalità, un nuovo modo di pensare, di stare assieme. Ma non è facile. Ci mancano anche le vostre forze, le vostre intelligenze, dei tanti e dei troppi costretti a lasciare casa per andarsene al nord o all’estero.

  Ci mancano le voci di questa umanità dispersa. Oggi dalla Calabria è ripresa la fuga anche se molti non vogliono andare via, a costo di non sapere come sbarcare il lunario. È un bene o un male? Un bene sicuramente, che mostra un atteggiamento mutato, che non basta però a segnare una chiara inversione di tendenza ma che forse può bloccare quella terribile diaspora, quella ferita che rivive in questi giorni nel rito del ritorno e poi della nuova dipartita.

  Il Ferragosto è davvero, dunque, la festa loro, di chi torna e poi riparte. È la festa vera di noi calabresi.

 

 

FONTE: http://www.zoomsud.it/

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