La lezione dimenticata dei migranti italiani in Svizzera

di Arnaldo Benini

 

Il giornalista Concetto Vecchio rievoca in un saggio il dramma dei «Gastarbeiter»

È una storia che a raccontarla ogni volta sembra incredibile. Concetto Vecchio in Cacciateli! (Feltrinelli) rievoca il cinismo e la disumanità sofferti dagli emigrati italiani in Svizzera negli anni Sessanta e Settanta. Certo conoscere la storia aiuta a ripetere gli errori: la Svizzera, oggi modello d’integrazione, ha capito dove sbagliò. L’autore, giornalista del quotidiano La Repubblica, inserisce nella storia peripezie familiari. Il padre, ebanista, emigrò dalla Sicilia in Argovia nel 1962, dove l’autore è nato nel 1970. Nel 1962, durante il mitizzato “miracolo economico”, emigrarono in Svizzera 143.054 italiani. Nel 1967 gli italiani in Svizzera erano 700.000, residenti, stagionali e frontalieri, in un Paese di 6 milioni di abitanti. Nel Sud Italia la gente disperata non vedeva altra soluzione che prendere il treno per il Nord. Il calvario dei poveri cristi (non si sa come altro chiamarli) che venivano dal Sud era causato dalla miseria. Molti erano analfabeti, addirittura senza familiarità con l’acqua corrente o il water. Per lo storico Ernesto De Martino le loro contrade erano fra le più arretrate dei Paesi mediterranei. Le aziende li ammassavano in baracche. Passavano dall’arretratezza estrema ad una condizione che rasentava lo schiavismo. L’Italia, col consueto cinismo, si sbarazzò di un peso enorme. I vincitori della guerra avevano proibito a tedeschi ed austriaci di emigrare, e la Svizzera cercò italiani. Uno svizzero raccontò che il suo mestiere era di assoldare giovani sani e robusti, che cercava in Puglia, per l’industria, l’edilizia, alberghi e ristoranti: la famiglia che consentiva l’ingaggio riceveva 100mila lire. Italiani del Sud ne arrivarono moltissimi in poco tempo, e la Svizzera cadde nella paura della Überfremdung, dei troppi stranieri. “Non ci sentiamo più a casa nostra”, capitava di sentire, quando gli italiani facevano baccano, intasavano i marciapiedi o dicevano “ciao bella” ad ogni ragazza che passava. “Un piccolo popolo sovrano si sente in pericolo: cercavamo braccia, sono arrivati uomini”, testimoniò Max Frisch nel 1965, che aggiunse: “Ci si sente invasi dagli stranieri e allora si comincia lentamente a prendersela con loro… un’invasione di persone straniere quando invece si voleva soltanto della forza lavoro.”

Ne abbiamo discusso con l’autore. I giornali nell’Italia di allora, sottolineavano l’intolleranza degli svizzeri verso gli italiani. Entro certi limiti non era comprensibile il timore di perdere la singolarità della loro vita sociale?”Era un’estraneità che sfociava nell’odio – precisa Vecchio- altrimenti come avrebbe fatto Schwarzenbach nel 1970 con l’iniziativa contro gli stranieri a raccogliere tanto successo? A denunciare quell’intolleranza erano giornalisti italiani di destra, come Mario Cervi o Egidio Sterpa, il che dovrebbe servire come memento ai tanti sovranisti italiani”. Odio forse è troppo, certamente c’era il rifiuto. La maggior sofferenza era, per molti lavoratori italiani, la mancanza della famiglia, che non poteva abitare in Svizzera. Vecchio racconta che in Italia, lungo la frontiera, furono allestiti pensionati per bambini i cui genitori lavoravano in Svizzera. Alla sera e nei giorni festivi andavano a trovarli. C’era di peggio: alcuni genitori portavano i figli oltre frontiera nascosti nel bagagliaio. A casa dovevano vivere in silenzio, senza poter fare la pipì nel water per evitare il rumore dello sciacquone. Quando suonavano alla porta, venivano nascosti negli armadi. Se i vicini se ne accorgevano, arrivava la Fremdenpolizei, la polizia degli stranieri, che imponeva l’espatrio, quale che fosse l’età. Tuttavia il rigore con cui la Fremdenpolizei ha regolato la massiccia emigrazione dal Sud un risultato l’ha avuto: in Svizzera la mafia – piaga che ha accompagnato l’emigrazione italiana nel mondo – non ha messo piede, o comunque non nella misura di altri Stati. “Forse dipende dal fatto che in Svizzera emigrarono da zone allora estranee alla mafia, da paesini rurali del Catanese o dal Messinese. Al contrario dell’Agrigentino, da cui emigrarono in massa in Germania, e più tardi, negli anni Settanta e Ottanta, da molti paesi con forti insediamenti mafiosi”. Odio e paura alimentano i movimenti reazionari. La paura e il rifiuto degli italiani si organizzarono così in un movimento fondato da James Schwarzenbach, figura fra le più squallide della politica europea del tempo. Nel 1970 impose un referendum per cacciare 300.000 stranieri, tanto più sorprendente perché in Svizzera non c’erano disoccupati. Era un’avversione umana. Un giornalista svizzero, racconta Vecchio, descrisse un comizio di Schwarzenbach: i presenti erano “faziosi, carichi di odio, se vedessero un italiano lo sbranerebbero. Per fortuna è gente anziana, nessuno al di sotto dei quarantacinque anni”. Contrari alla cacciata erano tutti i partiti, le chiese, le organizzazioni padronali, i sindacati. Partecipò al referendum il 75 per cento degli elettori. Il No prevalse col 54per cento. Oggi nessuno rimpiange l’esito della votazione. Le regioni a maggioranza cattolica, tranne il Canton Ticino, votarono contro gli stranieri, quelle a maggioranza protestante votarono No. Lei come lo spiega? “Con l‘etica calvinista dei protestanti. Col prevalere delle ragioni del capitalismo: senza gli italiani la Svizzera sarebbe precipitata nella recessione”. Alla fine del libro i suoi genitori l’ammoniscono a non parlar male della Svizzera, cui devono l’uscita dalla miseria. È la riconoscenza degli italiani rimasti qui. In molte regioni più di un terzo della popolazione è straniera, da tutto il mondo. L’impegno per integrarla, a partire dai bambini cui s’insegna la lingua, è straordinario. Le tensioni sono minime e sporadiche, come spiegare un cambiamento del genere? “Capisco i miei genitori. Ma trovo esagerata la riverenza degli italiani verso la Svizzera: non devono dire grazie, come sempre nel capitalismo c’è stato un patto tra capitale e forza lavoro, tutti hanno avuto qualcosa. Il fatto che gli italiani siano integrati significa che la convivenza è possibile se non si erigono muri. Chi l’avrebbe detto ai tempi di Schwarzenbach? È una grande lezione per l’Italia”. Ma l’integrazione non può essere un patto fra capitale e lavoro, è una scelta morale. Oggi la Svizzera dà a Paesi come l’Italia, che sta scivolando nella barbarie, una dimostrazione di civiltà. Gli italiani sono spaventati dalla presenza dei rifugiati, che sono in proporzione dieci volte meno numerosi degli italiani in Svizzera negli anni Sessanta. È un’immigrazione diversa da quella italiana, ma anche oggi è un rifiuto umano, non economico. Che cosa le suggerisce il ripetersi della storia? “Mi colpisce la mancanza di memoria dei miei connazionali. Mi colpisce la mancanza di visione storica. Perciò ho scritto questo libro».

 

 

FONTE: https://www.cdt.ch/

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