Il declino e l’invecchiamento della popolazione in Europa, in Italia, in Umbria (l’ordine è inversamente elencato rispetto alla gravità del fenomeno) è ormai un fatto conclamato, una sorta di malattia che si è cronicizzata e, come tale, difficile da curare. Almeno nel breve periodo. Sulle cause e le implicazioni di ordine economico, sociale, culturale, si è molto argomentato (anche sulle pagine del sito Aur dedicate, “Emergenza demografica”) e su come intervenire per invertire la tendenza del declino del tasso di natalità, si sta ancora molto dibattendo. Partiamo però da una considerazione: agire per invertire la tendenza di un tasso di fecondità e, più in generale, di una propensione alla genitorialità che è ai minimi storici, è un’operazione complessa, tra l’altro dagli esiti non scontati, perché implica contrastare un fenomeno che è il portato di lente trasformazioni stratificatesi lungo decenni. Senza contare che, ammesso che interventi per favorire una ripresa della natalità possano sortire gli effetti sperati, le ricadute sugli equilibri demografici si concretizzerebbero soltanto nel lungo periodo. Nel frattempo, però, una piccola regione come l’Umbria, dove il fenomeno è enfatizzato rispetto alla media nazionale, non fosse altro per le sue dimensioni, potrebbe rischiare di entrare in una crisi crescente: le coorti dei più giovani si stanno visibilmente assottigliando, come pure la fascia di popolazione in età lavorativa e, stanti le previsioni Istat, tra una ventina di anni la maggior parte della popolazione si troverebbe addensata tra gli over 60. Con evidenti problemi di sostenibilità economica e sociale. L’Umbria rischia di trasformarsi, essa stessa, in una grande area interna. |
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