La Cgil e la sfida delle riforme di centro-destra

di Claudio Treves

Venerdì 20 gennaio si è tenuta un Cgil nazionale un’importante occasione di confronto e riflessione sulle riforme istituzionali che il governo si appresta a proporre.

L’introduzione di Christian Ferrari, segretario confederale, ha subito chiarito la posizione della Cgil: non solo il dissenso sulle due proposte già presenti nel discorso con cui la presidente del Consiglio ha chiesto la fiducia – autonomia differenziata e presidenzialismo – quanto una visione alternativa sul grande tema dell’applicazione della Costituzione, base per un’alternativa al progetto delle destre da far vivere nel Paese, su cui ricostruire una mobilitazione a partire dal nostro corpo organizzato.

Il perché è presto detto: la destra – e non è la sola a pensarlo – fa risalire ad una carenza di potere decidente le innegabili difficoltà della democrazia parlamentare. Di qui un progetto istituzionale di radicale semplificazione – il presidenzialismo, ossia l’attribuzione a un singolo eletto (sia esso il Presidente della Repubblica o il più ambiguo presidente del Consiglio “sindaco d’Italia “) la decisione di ultima istanza “perché eletto dagli italiani” – e di potenziale disarticolazione dell’unità nazionale con l’idea leghista, assunta dall’intera maggioranza, di attribuire alle Regioni quanti più poteri sui 23 titoli già oggi disponibili ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, come modificata dalla riforma del Titolo V.

Ferrari ha sottolineato che, mentre verso i progetti di autonomia differenziata sono molte e trasversali le manifestazioni di contrarietà, le cose potrebbero stare in modo più articolato riguardo al presidenzialismo. Per paradosso, proprio perché anni di supposte “riforme” e di predicazione populista (non solo di provenienza 5Stelle ma ben dentro la politica istituzionale di centro-sinistra, basta ricordare la campagna referendaria renziana del 2016) hanno indicato nel Parlamento il luogo dell’inconcludenza della politica, del trasformismo, insomma il peso del passato rispetto allo “spirito dei tempi” fatto di decisioni da prendere con velocità.

Si tratta di un racconto falso e ideologico, che scambia le cause con gli effetti: basti ricordare la costante soggezione del Parlamento ai governi di ogni colore tramite l’usuale ricorso a decretazione d’urgenza, con annesso voto di fiducia. Se ci si aggiunge il taglio del numero dei parlamentari e la conseguente onerosità del lavoro in (più) commissioni sulle spalle dei singoli eletti, l’esito di sottomissione del Parlamento al governo è evidente e palese.

Consentite qui un ricordo personale: la legge di bilancio è di solito l’ultimo atto parlamentare dell’anno e il suo numero è in qualche modo indice della “produttività” del Parlamento. Bene, la finanziaria del governo Ciampi del 1996 reca il numero 662, l’ultima legge di bilancio “ad anno non elettorale” (2021) ha il numero 234: difficile non vedere come l’esplosione della decretazione d’urgenza abbia compresso l’efficacia del Parlamento.

Ma non c’è solo un malfunzionamento indotto dal rapporto sbagliato tra governo e Parlamento: c’è anche un difetto sempre più grave nella composizione stessa dell’Assemblea, per gli effetti sempre meno inclusivi della legge elettorale maggioritaria, e del progressivo trasformarsi delle forze politiche in contenitori di comitati elettorali. Di qui – in parallelo – il crescente astensionismo e la progressiva perdita nel corpo dei parlamentari di quanti provengano da ceti popolari disagiati.

Insomma un mix al fondo del quale c’è un problema serissimo di come il Parlamento rappresenti effettivamente il Paese e di come possa riprendere questa sua funzione ontologica. Qui la soluzione presidenzialista mostra tutta la sua intrinseca vena autoritaria ed anche la sua inefficacia, visto che la delega ad uno – sia esso o meno “uomo della Provvidenza” – nulla potrà rispetto alle difficoltà che travagliano tutte le democrazie, comprese quelle dei sistemi presidenziali, come i fatti di Capitol Hill (2021) o Brasilia (2023) si sono tragicamente incaricati di dimostrare, per non parlare dell’assalto dell’ottobre 2021 alla sede nazionale della Cgil.

Quando il tema è la divaricazione della dialettica politica, fino al mancato riconoscimento dell’avversario e alla delegittimazione dell’esito elettorale, non c’è misura taumaturgica che tenga, quanto invece un lungo lavoro di ricucitura sociale, da compiersi innanzitutto proprio spingendo al massimo la capacità delle istituzioni di rappresentare le tensioni che emergono nella società. Quindi una risposta di alto profilo, che faccia leva sul carattere inclusivo della Costituzione per battere presidenzialismo ed autonomia differenziata, riproponendo un disegno di Paese che riconosce le sue divisioni ma al contempo le immette in istituzioni dove sia possibile costruire i necessari compromessi.

Sull’autonomia differenziata, la critica della Cgil risale – unica e solitaria voce dissenziente – alla riforma del Titolo V. Nella versione oggi riproposta, si tratta di un altro esempio di risposta autoritaria a un problema di profondo spessore: come far convivere l’immodificabile unità del Paese con la vicinanza alle popolazioni dei livelli di governo locali. Al contrario, l’autonomia differenziata propone livelli crescenti di accentramento regionale su materie il cui esercizio collide fatalmente con l’unitarietà del Paese, specie riguardo a salute, istruzione, livelli contrattuali.

Il dibattito ha potuto approfondire – condividendola – questa impostazione, e la ricchezza dei contributi meriterebbe un resoconto più esteso. Mi limito qui a brevi cenni (l’ascolto dell’iniziativa è disponibile su facebook). Gaetano Azzariti ha scelto un approccio empirico, fondato sui fatti e non sulle sue convinzioni. Sul presidenzialismo ha rimarcato la totale assenza nella proposta (firmata nella passata legislatura da Meloni) dei necessari contrappesi costituzionali, tipici di ogni costituzione presidenzialistica: l’assenza dimostra che non si tratta di una correzione del vigente ordinamento costituzionale ma di un suo stravolgimento. Così come l’autonomia trascura completamente il tema della necessaria – pregiudiziale – risoluzione della perequazione fiscale (articolo 119 Cost.), la cui assenza mostra il vero volto della proposta: la manomissione degli articoli 2 e 3 della Costituzione, oltreché l’esplicito richiamo dell’articolo 5 all’indivisibilità della Repubblica, perché l’attribuzione di poteri esclusivi ad alcune Regioni in materia di sanità e istruzione comporta il venir meno della lotta alle diseguaglianze e agli inderogabili principi di solidarietà. Che razza di Paese potrà mai essere quello in cui convivono Regioni a statuto speciale, Regioni con autonomia differenziata ma tra loro diverse negli elementi di autonomia acquisita, Regioni “normali”? È evidente l’impossibilità di una tenuta del Paese, e per tutti questi motivi la lotta deve essere esplicita e chiara.

Dopo Azzariti, Mario Pianta ha introdotto nella discussione l’analisi economica, segnalando i profondi e accresciuti livelli di diseguaglianza sia prima che dopo la pandemia, con un’accentuazione anche nel recupero raggiunto rispetto ai livelli pre-pandemia. Infatti questo ha riguardato essenzialmente le Regioni del centro-nord, con livelli anche tra loro differenziati. Ha rimarcato come sarebbe stata necessaria e sia tuttora indispensabile un’azione nazionale di politica industriale, invece delle numerose erogazioni di risorse tramite Industria 4.0 prive di alcuna condizionalità: una slide ha mostrato come le tre Regioni “campioni” dell’autonomia differenziata abbiano ricevuto risorse molto maggiori del loro peso in termini economici, a danno delle Regioni in maggiore affanno (il Mezzogiorno, ma anche il Piemonte o le Marche).

Da parte sua Giovanni Maria Flick ha ripercorso – da presidente emerito della Corte Costituzionale – i difficili rapporti tra una lettura adeguata dei principi costituzionali e la persistente sordità della politica: ergastolo ostativo, fine vita, immigrazione e salvaguardia della vita umana sono tutti campi in cui la Costituzione può dare risposte all’altezza di problemi che all’epoca della sua scrittura non erano presenti, e che invece la chiusura della politica lascia incancrenire, fino a lasciar cadere gli spazi d’azione che pure la Corte aveva lasciato al legislatore, nella speranza di un intervento che non è venuto.

Infine Rosy Bindi, condividendo molte delle affermazioni degli interlocutori, ne ha radicalizzato le conclusioni: la rigidità della Costituzione impedirebbe un passaggio a un regime presidenziale data la centralità assegnata al Parlamento, così come le devoluzioni delle materie alle Regioni contrasterebbero con i principi fondamentali (come tali indiscutibili) sanciti negli articoli 2, 3 e 5 della Costituzione.

Maurizio Landini ha concluso i lavori con un elemento fin lì non troppo presente: gli effetti della crisi economica nel pensiero e nelle preoccupazioni delle persone da noi organizzate. Ci può essere il rischio di una sorta di indifferenza per le problematiche istituzionali da parte di lavoratori e pensionati, oltreché in generale dei cittadini, vista la preponderanza delle preoccupazioni immediate sulla perdita di potere d’acquisto dei salari, la crisi economica, ecc. così da formare una specie di “delega passiva”, di sfiducia nella politica e nell’impegno, di cui l’astensionismo alle ultime elezioni è stato un sintomo eloquente. A fronte di ciò la Cgil deve cogliere e far cogliere gli intrecci tra l’incapacità del governo ad intervenire sui terreni di immediata preoccupazione delle persone, e il vero volto autoritario delle proposte istituzionali in campo. Solo smascherando questo nesso, e rilanciando una politica di valorizzazione della Costituzione e della partecipazione come leva per la risoluzione dei problemi, è possibile sconfiggere le scelte governative e impedire l’affermarsi delle modifiche costituzionali. Di questo dovrà discutere la fase conclusiva dell’iter congressuale, affinché la Cgil possa consolidare una linea e un’iniziativa comprensibili e condivise, in grado di rovesciare una narrazione che altrimenti può portare il paese ad esiti davvero infausti.

 

 

 

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