n°09 – 26 Febbraio 2022 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO.

01 – JOSEPH STIGLITZ*:Il modo giusto di affrontare l’inflazione. Sapendo di avere i giorni contati, le compagnie petrolifere  stanno arraffando tutto  quello su cui possono ancora mettere le mani.

02 –  Schirò E Porta (Pd)* – detrazioni e ANF all’estero, come cambieranno dal 1° marzo.

03 – Schirò (Pd) – tempi duri per chi non dichiara attività finanziarie all’estero.

04 – La Marca (Pd) – “agorà” nel palinsesto di rai Italia. Grazie al direttore Ferragni per aver accolto la mia sollecitazione,  Roma, 23 febbraio 2022

05 – Marco Almagisti e Paolo Graziano*: Dopo trent’anni stiamo ancora pagando l’illusione di una democrazia senza partiti. Davvero il 1992 è un anno che non ha cambiato l’Italia, come ha titolato provocatoriamente Domani, giovedì 17 febbraio?

06 – Thomas Piketty*: sanzioni agli oligarchi non ai popoli. Per piegare lo stato russo è urgente concentrare le sanzioni sui multimilionari che sostengono il regime, per esempio chi ha patrimoni superiori a dieci milioni di euro.

 

 

01 – JOSEPH STIGLITZ*: Il modo giusto di affrontare l’inflazione .SAPENDO DI AVERE I GIORNI CONTATI, LE COMPAGNIE PETROLIFERE  STANNO  ARRAFFANDO TUTTO  QUELLO SU CUI POSSONO ANCORA  METTERE LE MANI.

Abbiamo bisogno  di politiche ben calibrate per sbloccare i colli di bottiglia nelle forniture e aiutare le persone ad affrontare la realtà quotidiana

Nonostante gli avvertimenti sulla  possibile mancanza di materie prime, lanciati già alla riapertura dei  mercati internazionali dopo la fine  dei lockdown dovuti al covid-19, i  problemi legati all’offerta non si sono rivelati temporanei come qualcuno sperava. In  un’economia di mercato ci si aspetta che una minore  offerta si rifletta sui prezzi. E quando i singoli aumenti dei prezzi si mettono insieme, abbiamo quella  che si definisce inflazione, arrivata attualmente a livelli mai visti da molti anni a questa parte. La mia  paura più forte è che le banche centrali possano avere delle reazioni scomposte, alzando troppo i tassi  d’interesse e ostacolando la ripresa. Come sempre,  in uno scenario simile a soffrire di più sarà chi sta sul  gradino più basso della scala salariale.

Dagli ultimi dati emergono diverse cose. In primo luogo, il tasso d’inflazione non è stato costante.

A gennaio i mezzi d’informazione hanno parlato  molto del tasso d’inflazione annuale del 7 per cento  negli Stati Uniti, senza però far notare che quello di  dicembre era poco più della metà rispetto a quello di  ottobre. Senza prove di un’inflazione fuori controllo,  le aspettative dei mercati – che si riflettono sulla differenza nei rendimenti sulle obbligazioni indicizzate e su quelle non indicizzate all’inflazione – sono  state smorzate.

Una fonte rilevante dell’aumento dell’inflazione  sono i prezzi dell’energia, che nel 2021 sono cresciuti a un tasso annuale destagionalizzato del 30 per cento. C’è un motivo se questi prezzi sono esclusi  dall’inflazione di base (una misurazione dell’inflazione che esclude i costi alimentari ed energetici).

Mentre il mondo si avvia ad abbandonare i combustibili fossili nel tentativo di attenuare il cambiamento climatico, è probabile che la transizione comporterà dei costi, perché gli investimenti nei combustibili fossili potrebbero crollare più velocemente  dell’aumento delle forniture prodotte con fonti alternative.

Quello a cui stiamo assistendo oggi però è un puro e semplice esercizio di potere sul mercato esercitato dai produttori di petrolio. Sapendo di avere i  giorni contati, le compagnie petrolifere stanno arraffando tutto quello su cui possono ancora mettere le  mani.

I prezzi molto alti della benzina possono essere  un enorme problema politico, perché qualsiasi pendolare deve farci i conti tutti i giorni. Ma è facile prevedere che, quando saranno tornati a cifre simili al iù lo slancio residuo dell’inflazione. I più attenti tra  gli osservatori dei mercati globali lo stanno già ammettendo.

Un’altra questione importante riguarda il prezzo  delle auto usate, che ha evidenziato dei problemi  tecnici nel modo in cui si costruisce l’indice dei prezzi al consumo. Con i prezzi alti i venditori se la cavano meglio dei compratori. Tuttavia l’indice dei prezzi al consumo negli Stati Uniti (a differenza che in  altri paesi) coglie solo il lato di chi compra. Questo  mette in luce un altro motivo per cui le aspettative  sull’inflazione sono rimaste relativamente stabili: le  persone sanno che i prezzi più alti delle auto usate  sono un’anomalia temporanea dovuta alla mancanza di semiconduttori che sta limitando la costruzione di auto nuove. Oggi sappiamo come produrre  auto e chip esattamente come lo sapevamo due anni  fa, perciò non abbiamo ragione di dubitare del fatto  che questi prezzi scenderanno, innescando una deflazione moderata.

In più, tenuto conto del fatto che una parte rilevante dell’inflazione attuale è dovuta a questioni  globali – la mancanza di chip e il comportamento dei  cartelli petroliferi – dare la colpa dell’inflazione a un  eccesso di stimolo fiscale da parte del governo statunitense è un’esagerazione bella e buona. Agendo in modo isolato, gli Stati Uniti possono avere solo un  effetto limitato sui prezzi a livello mondiale.

È vero che gli Stati Uniti hanno un’inflazione leggermente superiore rispetto all’Europa, ma è ancheuta. Le politiche statunitensi hanno impedito l’aumento enorme della povertà a cui altrimenti avremmo potuto assistere. Deputati e senatori statunitensi  hanno agito nel modo giusto, sapendo che stare fermi avrebbe avuto un costo enorme. Oltretutto alcuni  aumenti dei salari e dei prezzi riflettono il buon equilibrio tra domanda e offerta. I prezzi più alti in teoria  dovrebbero essere indice di una scarsità delle risorse  e indurre a reindirizzarle altrove per “risolvere” le  mancanze. Non segnalano un cambiamento nella  capacità produttiva complessiva.

La pandemia ha effettivamente messo in luce  una mancanza di capacità di reazione dell’economia. I sistemi di magazzino just-in-time (in cui le  scorte sono ridotte al minimo indispensabile per  soddisfare le vendite immediate) funzionano bene  finché non ci sono problemi di natura strutturale. Ma  se per produrre B occorre A, e per produrre C occorre  B e così via, è facile prevedere come perfino un piccolo problema nelle forniture possa avere conseguenze enormi a livello globale.

Allo stesso modo un’economia di mercato non si  adatta bene a grandi cambiamenti, come il blocco  quasi completo della produzione e la successiva ripartenza.

Questo passaggio difficile è arrivato dopo decenni di imbrogli ai danni dei lavoratori, soprattutto nei confronti di quelli sui gradini più bassi della scala  salariale. Non c’è da stupirsi se negli Stati Uniti sono  sempre più le persone che si licenziano volontariamente per cercare opportunità migliori. Se la conseguente riduzione della manodopera disponibile si  dovesse tradurre in un aumento dei loro salari si comincerebbero a correggere decenni di scarsa o inesistente crescita reale (cioè al netto dell’inflazione).

Al contrario, affrettarsi a frenare la domanda tutte le  volte che i salari aumentano è un modo sicuro per  assicurarsi che la paga dei lavoratori si riduca nel  tempo.

 Mentre la Federal reserve, la banca centrale statunitense, sta valutando un nuovo orientamento, vale la pena osservare che i periodi di rapido cambiamento strutturale possono spesso comportare un tasso d’inflazione ottimale più alto (tradotto, quello  che va su raramente torna giù). Ora ci troviamo in un  periodo di questo tipo e non dovremmo andare nel  panico se l’inflazione superasse l’obiettivo del 2 per  cento stabilito dalla Banca centrale europea, un tasso che non ha alcuna giustificazione economica.

Qualsiasi analisi onesta del livello attuale dell’inflazione dev’essere preceduta da un importante avvertimento: visto che non abbiamo mai vissuto una situazione simile, non possiamo essere sicuri di come si evolveranno le cose. Né possiamo sapere con  certezza come gestire l’ondata di dimissioni, anche  se non c’è alcun dubbio sul fatto che i lavoratori con i  salari più bassi abbiano buone ragioni per essere arrabbiati. Molti potrebbero essere costretti a tornare  a lavorare una volta che avranno esaurito i risparmi.

Ma il loro malcontento potrebbe tranquillamente  emergere nei dati relativi alla produttività.  Siamo però sicuri di una cosa: un forte aumento  dei tassi d’interesse è una cura peggiore della malattia. Non dovremmo affrontare un problema di offerta abbassando la domanda e aumentando la disoccupazione. Se insistiamo abbastanza su questa strada, forse faremo rallentare l’inflazione, ma rovineremo la vita delle persone.

Abbiamo bisogno di politiche strutturali e fiscali  ben calibrate per sbloccare i colli di bottiglia nelle forniture e aiutare le persone ad affrontare la realtà  di tutti i giorni. Ad esempio, i buoni per la spesa dati a chi ne ha più bisogno dovrebbero essere indicizzati in base ai prezzi dei prodotti alimentari e i sussidi energetici (per il carburante) in base a quelli dell’energia. Inoltre una riduzione delle tasse per compensare gli effetti dell’inflazione sulle famiglie con  reddito basso e medio le aiuterebbe ad attraversare la transizione che seguirà la pandemia.

Il taglio potrebbe essere finanziato tassando le  rendite dei monopoli petroliferi, tecnologici, farmaceutici o di altre grandi aziende che hanno guadagnato dalla crisi.

*(Fonte da Internazionale, JOSEPH STIGLITZ insegna economia alla Columbia University. È stato capo economista della Banca mondiale e consulente economico del governo statunitense. Nel 2001 ha vinto il premio Nobel per l’economia)

 

 

02 –  SCHIRÒ E PORTA (PD) – DETRAZIONI E ANF ALL’ESTERO, COME CAMBIERANNO DAL 1° MARZO

Come cambierà a partire dal 1° marzo 2022 la normativa che disciplina la concessione delle detrazioni familiari e degli assegni familiari ai residenti all’estero se saranno respinti i nostri emendamenti (a firma Porta-Giacobbe) presentati al decreto “Sostegni ter” attualmente in discussione al Senato? ROMA, 24 FEBBRAIO 2022

Come abbiamo più volte stigmatizzato, con l’introduzione dell’Assegno unico e universale vengono abrogati a partire dal prossimo 1° marzo l’Assegno al nucleo familiare (ANF) per figli e le detrazioni per figli a carico di età inferiore ai 21 anni.

Si tratta di benefici erogati anche all’estero a migliaia di contribuenti italiani che tuttavia non avranno diritto all’Assegno unico che è stato subordinato dalla legge alla residenza in Italia (la legittimità del requisito della residenza deve essere comunque verificata meglio dalle autorità competenti in relazione al diritto internazionale e alle norme comunitarie sull’esportabilità di certe prestazioni, come lo stesso Inps ha ammesso in una sua recente Circolare).

Con l’entrata in vigore dell’Assegno unico la maggior parte delle detrazioni fiscali e l’Anf per figli scompaiono o, più esattamente, vengono assorbiti dalla nuova misura che, va ribadito, non è esportabile però all’estero.

Dal 1° marzo quindi i residenti all’estero non potranno più beneficiare  delle detrazioni e dell’ANF per figli a carico eventualmente dovuti  ma continueranno (magra consolazione) ad aver diritto ad alcune prestazioni. In particolare coloro i quali producono più del 75% del loro reddito in Italia (come ad esempio gli impiegati dello Stato italiano residenti all’estero, ma non solo) – i cosiddetti “non residenti Schumacker” – continueranno ad avere diritto alle consuete detrazioni previste per il coniuge e per gli altri familiari a carico (purchè questi non abbiano redditi propri superiori a 2.840 euro annui).  In alcuni casi specifici rimarranno le detrazioni anche per i figli a carico ma dai 21 anni in su.

La legge inoltre non ha eliminato la possibilità di detrarre e dedurre fiscalmente le spese sostenute in favore di tutti i familiari a carico (inclusi i figli minori di 21 anni) come quelle mediche e sanitarie, per l’istruzione, etc., e questa possibilità rimarrà anche per i residenti all’estero.

Con l’introduzione dell’Assegno unico scompaiono invece le detrazioni per famiglie numerose (con almeno 4 figli) e le maggiorazioni per i figli di età inferiore ai 3 anni. Le detrazioni che rimangono continueranno ad essere applicate mensilmente dal datore di lavoro, o dall’ente pensionistico, che opera in qualità di sostituto di imposta ed il contribuente le troverà perciò ancora calcolate nella busta paga o nel cedolino della pensione.

Per quanto riguarda invece l’Assegno al nucleo familiare, che attualmente viene erogato anche all’estero, ribadiamo che a partire dal 1° marzo cessa, sia in Italia che all’estero, limitatamente ai nuclei familiari con figli. Resta invece ferma la disciplina, e quindi il beneficio, per gli altri familiari a carico diversi dai figli, anche per chi risiede all’estero.

Riteniamo che l’abrogazione di detrazioni e Anf per gli italiani all’estero sia una incomprensibile e ingiustificabile soppressione di importanti diritti fiscali e previdenziali garantiti da anni ai nostri connazionali. Come riteniamo incomprensibile anche il fatto che le autorità competenti non abbiamo ancora chiarito con una specifica circolare i dubbi che i nostri connazionali hanno sollevato e non abbiano risposto in maniera esauriente alle numerose sollecitazioni ed istanze che abbiamo presentato nel corso degli ultimi mesi.

Dobbiamo sperare ora che i nostri emendamenti al “Sostegni ter” siano approvati in modo tale che tali prestazioni familiari continuino ad essere fruibili all’estero anche per i figli di età inferiore ai 21 anni. Non mancherà (come non è mancato finora) il nostri impegno per sensibilizzare Governo e Parlamento al fine di tutelare al meglio i diritti degli italiani nel mondo.

*(Deputata PD, Angela Schirò – Senatore PD, Fabio Porta)

 

 

03 – SCHIRÒ (PD) – TEMPI DURI PER CHI NON DICHIARA ATTIVITÀ FINANZIARIE ALL’ESTERO.

Febbraio 2022. Un recente provvedimento dell’Agenzia delle Entrate (N° 40601 08-02-2022) e una recente sentenza della Corte di Cassazione contribuiranno, probabilmente, a far emergere i conti all’estero dei residenti fiscali in Italia.

La Cassazione ha stabilito (ribadito) che “l’omessa dichiarazione delle attività finanziarie e degli investimenti detenuti all’estero è una violazione che non può essere qualificata come “meramente formale”, in quanto l’obbligo dichiarativo risponde alla finalità di assicurare il monitoraggio dei beni detenuti all’estero, quali manifestazioni del principio costituzionale di capacità contributiva” (anche se il contribuente omette o si dimentica in buona fede, ha precisato la Corte Suprema).

In altre parole sono obbligati al monitoraggio fiscale i soggetti, residenti in Italia, che detengono investimenti all’estero o attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia (incluse le persone fisiche). Devono essere insomma dichiarati nel quadro RW della dichiarazione dei redditi tutti gli investimenti di natura patrimoniale detenuti all’estero, produttivi di redditi imponibili in Italia, nonché le attività di natura finanziaria da cui derivano redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria di fonte estera.

L’Agenzia delle Entrate invece ha cominciato ad inviare le comunicazioni di “compliance” volte al corretto adempimento degli obblighi di monitoraggio fiscale da parte dei contribuenti italiani per le attività finanziarie detenute all’estero nel periodo d’imposta  2018 e anni successivi.

Nel Provvedimento, è spiegato che, al fine di incentivare il corretto adempimento degli obblighi di monitoraggio fiscale relativi alle attività detenute all’estero e di favorire l’emersione spontanea delle basi imponibili derivanti dagli eventuali redditi percepiti in relazione a tali attività, l’Agenzia delle Entrate individuerà i contribuenti che presentano delle possibili anomalie nelle dichiarazioni.

Ma come farà l’Agenzia a verificare le anomalie? La platea dei contribuenti interessati è stata individuata incrociando i dati ricevuti dall’Agenzia delle entrate da parte delle Amministrazioni fiscali estere aderenti allo scambio automatico di informazioni sui conti finanziari, secondo il Common Reporting Standard (CRS), la cui base giuridica a livello europeo è costituita dalla Direttiva 2014/107/UE, ed è lo strumento in base al quale dal 2016 gli Stati aderenti si scambiano in modalità automatica le informazioni sui conti finanziari detenuti da soggetti residenti negli altri Stati al fine di contrastare fenomeni di evasione fiscale internazionale.

I contribuenti che hanno ricevuto o riceveranno le comunicazioni in questione potranno regolarizzare la loro posizione presentando una dichiarazione dei redditi integrativa e versando le maggiori imposte dovute, unitamente agli interessi ed alle sanzioni (queste ultime possono essere determinate in misura ridotta a seguito dell’applicazione del ravvedimento operoso).

Ovviamente nell’ipotesi in cui il contribuente ritenga di essere in regola con gli adempimenti dichiarativi o ravvisi inesattezze nella comunicazione potrà fornire chiarimenti e idonea documentazione alle autorità competenti.

*(Angela Schirò – Deputata PD – Rip. Europa – Camera dei Deputati -Piazza Campo Marzio, 42 – 00186 ROMA

Email: schiro_a@camera.it)

 

 

04 – La Marca (Pd) – “AGORÀ” NEL PALINSESTO DI RAI ITALIA. GRAZIE AL DIRETTORE FERRAGNI PER AVER ACCOLTO LA MIA SOLLECITAZIONE,  Roma, 23 febbraio 2022

L’introduzione di “Agorà” nel palinsesto dei programmi per gli italiani all’estero è un’ottima notizia. Poter seguire questo programma anche dall’estero, infatti, è stata una delle richieste che mi è pervenuta con maggiore insistenza dai connazionali del Nord America e che ho puntualmente rappresentato al Direttore Ferragni nel corso del nostro recente incontro.

Grazie, dunque, al Direttore di RAI Italia per aver preso in considerazione le sollecitazioni degli italiani che, seppure lontani, seguono con interesse i temi della politica e del dibattito sociale del nostro Paese e chiedono una programmazione sempre più improntata all’approfondimento giornalistico e culturale.

“Agorà”, a metà fra il rotocalco e il talk show, affronta argomenti di strettissima attualità politica e sociale con ospiti, inviati, servizi filmati, contributi video e aggiornamenti in diretta e, sono certa, contribuirà ad avvicinare ancora di più l’Italia ai nostri connazionali nel mondo.

*(On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D. – Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America)

 

 

05 – Marco Almagisti e Paolo Graziano*: DOPO TRENT’ANNI STIAMO ANCORA PAGANDO L’ILLUSIONE DI UNA DEMOCRAZIA SENZA PARTITI. DAVVERO IL 1992 È UN ANNO CHE NON HA CAMBIATO L’ITALIA, COME HA TITOLATO PROVOCATORIAMENTE DOMANI, giovedì 17 febbraio?

In realtà, l’Italia attuale assomiglia a quella del 1992, ma in peggio. L’ampia e dettagliata ricostruzione pubblicata da Giorgio Meletti su questo giornale sempre giovedì 17 riassume bene la tendenza del dibattito pubblico a rimanere prigioniero di coazioni a ripetere che paiono eterne e a evitare il confronto con le sfide proprie della contemporaneità.

Noi ci limitiamo ad aggiungere a quelle elencate da Meletti alcune considerazioni riferite in modo più specifico al sistema politico, poiché “Mani Pulite” è stata la miccia che ha innescato l’implosione di un sistema già da tempo in difficoltà. E perché riteniamo che quanto accaduto trent’anni fa, all’inizio di quella che è stata definita una “lunga transizione”, condizioni ancora pesantemente la politica italiana, intrappolandoci in uno stallo che ci impedisce di pensare in modo più nitido al nostro futuro.

La “lunga transizione politica italiana” prende formalmente avvio il 5 aprile 1992, quando, alle elezioni politiche, i partiti di governo (un “pentapartito” trasformato in “quadripartito” Dc – Psi – Psdi – Pli dalla defezione del Pri) subiscono un brusco arretramento: essi non raccolgono più la maggioranza assoluta del voto popolare, “fermandosi” al 48,8 per cento. La Dc tocca il suo minimo storico, 29,7 per cento, perdendo 4,6 punti percentuali (nel 1987 era al 34,3) e gli eredi del Pci (Pds e Rifondazione comunista) ottengono solo il 21,7 per cento, mentre il Pci nel 1987 aveva ottenuto il 26,6 per cento (la perdita complessiva è di 4,9 punti).

La Lega Nord risulta il principale beneficiario della crisi dei partiti tradizionali. Grazie alla leadership di Umberto Bossi, la Lega unifica diverse formazioni locali di matrice autonomista e con il 23 per cento dei voti diviene secondo partito in Lombardia, a ridosso della Dc (24 per cento). Persino laddove tutto era cominciato, nella (ormai ex) roccaforte “bianca” del Veneto, la Dc scende al 31,5 per cento, mentre la Lega arriva al 17,8, rafforzandosi soprattutto nelle ex aree di forza della Dc, i distretti industriali del Veneto pedemontano, rivoluzionati dalla grande trasformazione socioeconomica degli anni precedenti.

È l’approdo di un processo iniziato silenziosamente nei primi anni Ottanta, quando la comparsa sulla ribalta politica della Liga Veneta (“la madre di tutte le Leghe”, secondo uno dei suoi fondatori, Franco Rocchetta) annunciava la riemersione della linea di frattura centro/periferia e, con essa, una sfida radicale agli equilibri politici dell’Italia così come s’era venuta formando nel secondo dopoguerra.

Il mutamento degli equilibri nel sistema politico italiano è favorito dal contesto complessivo in cui si svolgono le elezioni: oltre alle inchieste della Magistratura, sono le prime consultazioni “post-1989” e il crollo del Muro di Berlino ha scosso nel profondo le identità delle forze politiche italiane così fortemente condizionate dalla “Guerra fredda”.

Inoltre, il sistema politico è messo sotto pressione dal processo di europeizzazione (il trattato di Maastricht è stato firmato il 7 febbraio 1992). Infine, il 25 aprile 1992 il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, rassegna le dimissioni, anticipando di poco la scadenza del mandato, in polemica con quella che, a suo dire, è una mancanza di volontà di riforma del sistema dei partiti. È in questo clima che si diffonde la convinzione che la crisi della “Repubblica dei partiti” possa essere risolta soltanto cambiando “tipo” di democrazia.

 

IL TENTATIVO MAGGIORITARIO

Quanto viene proposto, dal movimento referendario di Mario Segni, dai radicali di Marco Pannella e dai più influenti giornali italiani, con in testa “il Corriere della Sera” e “la Repubblica”, è una transizione da un modello “consensuale” di democrazia, come quello edificato dalla Costituzione entrata in vigore nel 1948, a un modello “maggioritario”.

Questa distinzione fra tipi differenti di democrazie è stata articolata dal politologo Arendt Lijphart (“Le democrazie contemporanee”, il Mulino, 1988) e si fonda – semplificando all’ estremo – su elementi quali la legge elettorale proporzionale, il multipartitismo e il decentramento, da un lato, contrapposti ad elementi quali legge elettorale maggioritaria, tendenziale bipartitismo e centralizzazione, dall’altro.

Storicamente, il cambiamento del tipo di democrazia è fenomeno assai raro. Da un punto di vista empirico, l’unico precedente di passaggio da un tipo democratico non maggioritario ad uno maggioritario è quello francese fra la Quarta e la Quinta Repubblica, nel 1958, in un contesto internazionale critico che seguiva la crisi algerina e con un leader, quale Charles de Gaulle, che poteva scavalcare partiti deboli e in crisi, appoggiandosi non solo ad un’ampia porzione della società, bensì anche ad istituzioni statali robuste.

Come ha ben spiegato Leonardo Morlino, dobbiamo sempre ricordare che ciascun tipo di democrazia si adatta ad aspetti di fondo di un paese che non possono essere cambiati con una semplice dichiarazione di principio. Inoltre, il paradosso della democrazia consiste nel fatto che un modello maggioritario è ammissibile solo se vi è un ampio consenso di fondo tra le diverse forze politiche presenti al momento dell’instaurazione della democrazia e durante il suo consolidamento.

Nel caso italiano, i Padri e le Madri costituenti hanno scelto un tipo di democrazia “consensuale”, poiché, considerate le linee di conflitto presenti nella società, quel modello è stato considerato il più idoneo ad assicurare il consolidamento della democrazia. Naturalmente, l’evoluzione successiva può schiudere opportunità di mutamento in direzione maggioritaria.

Tuttavia, spingono in direzione contraria gli attori rilevanti, già presenti nell’ arena politica, che rischiano di essere penalizzati dal cambiamento. Ed è quanto puntualmente è accaduto nel nostro paese.

Inoltre, l’Italia degli anni Novanta è caratterizzata da processi di decentramento, tipici delle democrazie “consensuali”, per effetto di forti culture politiche locali, continuamente mobilitate e ulteriormente stimolate dai processi di europeizzazione e globalizzazione, di cui l’emersione e l’affermazione della Lega Nord costituiscono solo un aspetto.

LE RETROMARCE

Per tutti questi motivi, se analizziamo la “lunga transizione italiana” attraverso lo schema di Lijphart lungo l’asse consensuale/maggioritario riscontriamo un percorso incoerente, in cui prima, nel 1993, ci si orienta in direzione maggioritaria, per mezzo di una legge elettorale “mista”, con prevalenza di seggi assegnati tramite collegi uninominali (il “Mattarellum”, nella celebre definizione di Giovanni Sartori), poi, dopo poco più di un decennio, si reintroducono elementi consensuali, con una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza (il “Porcellum”, ancora secondo Sartori) e tramite processi di decentramento.

Pertanto, la prospettiva di Lijphart si rivela solo parzialmente utile per comprendere le trasformazioni del sistema politico italiano, che sono fortemente condizionate dalle peculiarità degli attori del sistema partitico.

A nostro avviso, è proprio su questo livello che dev’essere concentrata l’attenzione per verificare se il nostro sistema politico potrà pervenire ad un assetto più stabile. Non vi può essere stabilità politica in presenza di un sistema partitico destrutturato.

E la strutturazione del sistema partitico dipende dalla capacità dei partiti di intercettare e rappresentare le linee di conflitto che – nonostante l’elevata volatilità elettorale dei nostri anni – attraversano la società. Ricordiamo, infatti, che questa lunga transizione ormai trentennale si apre quando una neo-formazione (la Lega) riesce a rappresentare nell’arena politica una linea di frattura riemergente (centro-periferia).

Dopo di allora altre forze politiche (in particolare Forza Italia e il Movimento Cinque stelle) si affermano tematizzando, ognuno in maniera peculiare, una linea di frattura anti-establishment, ossia di critica riguardo all’ operato delle classi dirigenti, nazionali ed europee. Tutto questo è avvenuto indipendentemente dai cambiamenti del sistema elettorale, che non incidono in tempi rapidi sulla cultura politica dell’elettorato.

Uno degli effetti più duraturi della stagione post “Mani Pulite” è convinzione diffusa che la crisi dei partiti si possa risolvere facendo a meno di essi. Soprattutto negli anni ’90 si è parlato a lungo di un’obsolescenza, una necessità di superamento dei partiti: nessuno però ha ancora trovato dei sostituti funzionali.

Tutti i regimi democratici contemporanei si basano su un sistema di partiti, piaccia o meno. Pertanto, dalla ricostruzione di partiti in grado di svolgere la propria funzione rappresentativa si deve cominciare, tenendo conto di un contesto ulteriormente trasformato da irreversibili processi di personalizzazione e digitalizzazione della politica. Vasto programma, potremmo dire, ancora con De Gaulle.

*( Fonte: “Domani” di Marco Almagisti e Paolo Graziano,

– Marco Almagisti è docente di Scienza Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova. – Paolo Graziano, Professore presso Università of Padova – Osservatorio Democrazia a Nordest (DANE) – Coordinatore Osservatorio per la Coesione e l’Inclusione Sociale (OCIS))

 

 

06 – Thomas Piketty*: SANZIONI AGLI OLIGARCHI NON AI POPOLI. PER PIEGARE LO STATO RUSSO È URGENTE CONCENTRARE LE SANZIONI SUI MULTIMILIONARI CHE SOSTENGONO IL REGIME, PER ESEMPIO CHI HA PATRIMONI SUPERIORI A DIECI MILIONI DI EURO.

Con la crisi ucraina è tornato d’attualità un vecchio dibattito: come applicare delle sanzioni efficaci a uno stato come la Russia? Diciamolo subito: è arrivato il momento di pensare a un nuovo tipo di misure contro gli oligarchi che si sono arricchiti grazie al regime. Per farlo bisogna istituire un catasto finanziario internazionale, uno strumento che non piacerà agli occidentali che possiedono grandi patrimoni e che hanno interessi in comune con gli oligarchi russi e cinesi. Ma è proprio questo il prezzo che i paesi occidentali dovranno pagare per vincere la battaglia politica contro i regimi autoritari e dimostrare all’opinione pubblica mondiale che i grandi discorsi sulla democrazia non sono solo parole vuote. Ricordiamo innanzitutto che il congelamento dei beni di proprietà del presidente Vladimir Putin e di chi gli è vicino fa già parte delle sanzioni sperimentate da anni. Il problema è che le azioni messe in campo finora sono state sostanzialmente simboliche. Coinvolgono poche decine di persone e possono essere aggirate ricorrendo a dei prestanome. Ora gli Stati Uniti e i loro alleati puntano a scollegare la Russia dalla rete swift, privando così le banche russe dell’accesso al sistema internazionale delle transazioni finanziarie e dei trasferimenti di denaro. Il problema è che questa misura non colpisce il bersaglio. Com’è successo con le sanzioni commerciali, che dopo la crisi della Crimea del 2014 sono state strumentalizzate dal Cremlino per rafforzare la sua posizione, si correrebbe il rischio d’imporre dei costi pesanti alle aziende russe e occidentali, con conseguenze terribili per i lavoratori. Il provvedimento colpirebbe anche molte persone con doppia cittadinanza e coppie in cui uno dei due partner è straniero, risparmiando però i più ricchi (che potranno ricorrere a intermediari finanziari alternativi). Per piegare lo stato russo è urgente concentrare le sanzioni sui multimilionari che sostengono il regime. Si potrebbero prendere di mira quelli con patrimoni immobiliari e finanziari che superano dieci milioni di euro, ossia circa ventimila persone, lo 0,02 per cento della popolazione russa adulta. Sono loro che più di altri hanno tratto benefici dal regime di Putin da quando è salito al potere nel 1999 e sembra che gran parte dei loro beni immobiliari e finanziari si trovi in occidente. Sarebbe quindi relativamente facile per i governi occidentali colpire questi patrimoni, partendo con un’imposizione fiscale del 10 o anche del 20 per cento e congelando il resto come misura cautelare. Di fronte alla minaccia della rovina economica e del divieto di soggiorno in occidente, probabilmente questo gruppo si farebbe sentire con il Cremlino. Lo stesso meccanismo si sarebbe potuto usare in seguito alla repressione politica cinese a Hong Kong e potrebbe applicarsi in futuro ai circa duecentomila cinesi con patrimoni superiori ai dieci milioni di euro. Anche se le loro proprietà hanno una natura meno internazionale rispetto a quelle russe, sarebbero comunque colpiti duramente e questo potrebbe far vacillare il regime di Pechino. Per applicare questo tipo di misure basterebbe che i paesi occidentali istituissero finalmente un catasto finanziario internazionale in grado di tenere traccia delle ricchezze nei diversi paesi. Come già dimostrato dal rapporto sulle disuguaglianze mondiali del 2018, un progetto di questo tipo è tecnicamente possibile e prevede il passaggio a un controllo pubblico dei depositari centrali privati (come Clearstream, Eurostream, Depository trust corporation, eccetera), istituzioni che garantiscono operazioni internazionali tra chi possiede dei titoli. Questo registro pubblico sarebbe inoltre una tappa indispensabile nella lotta contro i flussi illegali, il riciclaggio di denaro proveniente dal narcotraffico, la corruzione internazionale. Perché non si è mai andati in questa direzione? Per un motivo semplice: gli occidentali che possiedono grandi patrimoni hanno paura che una simile trasparenza li possa danneggiare. È una delle contraddizioni del nostro tempo. Si pone un’enfasi eccessiva sullo scontro tra le democrazie e i regimi autoritari, dimenticando che i paesi occidentali condividono con Russia e Cina un’ideologia iper-capitalista priva di vincoli e un sistema legale, fiscale e politico sempre più favorevole ai grandi patrimoni. In Europa e negli Stati Uniti si fa di tutto per distinguere gli imprenditori occidentali meritevoli dagli oligarchi russi o cinesi, indiani o africani, considerati parassiti. La verità però è che gli uni e gli altri hanno molto in comune. A partire dagli anni ottanta l’arricchimento dei multimilionari in tutti i continenti ha sfruttato gli stessi fattori, e in particolare i privilegi che hanno avuto. La libera circolazione dei capitali senza una compensazione fiscale e collettiva è insostenibile sul lungo periodo.  Mettendola in discussione si potranno sanzionare le dittature, ma si potrà anche promuovere un altro modello di sviluppo.

*(Fonte da Internazionale. TOMAS PIKETTY è un economista francese. È professore all’École des hautes études en sciences sociales e all’École d’économie de Paris. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Capitale e ideologia (La nave di Teseo 2020). Questo   articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.)

 

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