n°02 – 08 Gennaio  2022 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – ON. FRANCESCA LA MARCA(Pd)*: Felice Anno Nuovo! La mia attività parlamentare e i

02 – Antonio Floridia*: Per rifare la sinistra non servono le agorà, ci vorrebbe un congresso. Sinistra. Che a sinistra del Pd possa nascere un nuovo, consistente e credibile partito sono in pochi a crederlo, specialmente dopo il fallimento dell’esperienza di LeU.

03 – Claudia Fanti*: Il Cile di Boric è pronto per il «primo governo ecologista» della sua storia

Cambio della Moneda. Il programma del nuovo presidente promette di cambiare il volto del paese, ma la destra difenderà con ogni mezzo il modello Pinochet-Chicago boys.

04 – Il GOVERNO DRAGHI dica no all’inserimento di nucleare e gas nell’elenco delle energie da fonti rinnovabili osservatorio sulla transizione ecologica.

05 – Stefano Feltri *: La disuguaglianza corrode la democrazia. Ora sta arrivando un’inflazione che sembra sempre meno provvisoria, e anche questa tassa occulta avrà impatti molto diseguali, nulli o quasi su chi potrà adeguare i propri ricavi a prezzi in crescita, pesanti sui redditi fissi.

06 –  Alfiero Grandi*: Dal rifiuto tedesco dell’opzione nucleare al destino politico-parlamentare dell’Italia.

07 – Arthur C. Brooks*: rimandare a domani è una strategia che può funzionare. Per leggere questo articolo stai rimandando qualcosa? Magari il momento di andare a fare la spesa. O una telefonata impegnativa. O un report di lavoro.

08 – Toby Helm*: Londra, Le nuove regole della Brexit svuotano i negozi britannici. Dopo alcuni minuti in coda trascorsi a cercare le migliori offerte nel negozio di gastronomia, è il momento delle decisioni.

09 – Bhaskar Sunkara, direttore di Jacobin *: La crisi al rallentatore della democrazia statunitense. Washington, Stati Uniti, 6 gennaio 2021.Gli statunitensi non sono esattamente portati alle sfumature.

10 – DAL MONDO.

11 – Andrea Carugati*: Il pressing su Draghi continua: «Deve rimanere a palazzo Chigi» La corsa. Consigli al premier da Macron a Goldman Sachs. Salvini: restiamo al governo se resta lui

 

 

01 – ON. FRANCESCA LA MARCA(Pd)*: Felice Anno Nuovo! La mia attività parlamentare e i risultati

Cari amici,

Tanti auguri per l’anno appena iniziato! Il mio è un augurio di speranza, di coraggio e di forza, a voi e alle vostre famiglie.

Ne abbiamo bisogno. La pandemia ha gravato profondamente sulle nostre vite, in qualsiasi paese del mondo. Posso dirlo con certezza perché in questi due anni ho ricevuto centinaia di email da parte di connazionali che mi hanno raccontato le loro difficoltà e chiesto aiuto e sostegno.

A tutti ho cercato di rispondere concretamente attraverso la mia attività parlamentare. Insieme al gruppo del Partito democratico, mi sono impegnata per risolvere i tanti problemi creati dalla pandemia: dai rientri ai ricongiungimenti familiari, dagli strumenti di sostegno economico fino al rinvio della campagna di esistenza in vita dell’INPS. E poi ancora, dalle vaccinazioni per i cittadini AIRE temporaneamente in Italia al riconoscimento dei vaccini somministrati all’estero fino alla conversione delle certificazioni vaccinali estere nel Green Pass italiano.

* * *

Quest’anno il mio Babbo Natale non è stato avaro. Parlo, naturalmente, del mio impegno istituzionale. Negli ultimi tempi mi sono concentrata su ciò che mi è sembrato più urgente e necessario: l’efficienza dei servizi consolari ai connazionali.

RETE CONSOLARE ONORARIA

Dopo avere presentato e fatto approvare all’unanimità nella Commissione Esteri una risoluzione per rafforzare il sostegno ai consoli onorari, nella legge di bilancio per il 2022, il mio emendamento per aumentare i contributi in loro favore è stato approvato. Di conseguenza, la somma disponibile per questo servizio è stata TRIPLICATA, passando da meno di 200mila euro a 600mila. Un concreto passo in avanti.

Ma i consoli onorari svolgono solo una parte dei servizi offerti ai connazionali. Il vero problema è che mentre in quindici anni la presenza dei cittadini AIRE all’estero si è praticamente raddoppiata, raggiungendo 6 milioni e mezzo di persone, il personale addetto ai servizi è diminuito di oltre un terzo e solo da qualche anno si è ricominciato ad assumere chi va in pensione. Le limitazioni imposte dalla pandemia hanno fatto il resto. Chiunque di voi si è dovuto rivolgere negli ultimi tempi a un ufficio consolare sa di cosa parlo.

SERVIZI CONSOLARI EFFICIENTI

Per questo ho presentato una risoluzione che chiede al governo di migliorare i servizi consolari nel loro insieme, prima con un piano straordinario per contrastare gli effetti della pandemia e poi con un’opera di graduale riequilibrio del personale e delle dotazioni tecnologiche. Questa risoluzione, che ha fatto da traino ad altre praticamente simili, è stata approvata e per la prima volta si è aperto un rapporto specifico tra il Parlamento e il Governo su una precisa questione di interesse dei connazionali, i servizi consolari, cosa mai accaduto in passato.

Nella Legge di Bilancio è stato approvato anche un nostro emendamento per  l’adeguamento retributivo del personale a contratto presso le rappresentanze diplomatiche consolari: 800 mila euro a decorrere dal 2022 per adeguare le retribuzioni di questi importanti lavoratori al servizio della comunità.

Con un altro emendamento del PD, inoltre, abbiamo ottenuto 600 mila euro (aggiuntivi rispetto al finanziamento a regime) per l’anno 2022, destinati in particolare al sostegno degli enti gestori di corsi di lingua e cultura ottenuti con un altro emendamento.

BORSE DI STUDIO E SCAMBI GIOVANILI

Infine, in occasione dell’approvazione della legge di Bilancio alla Camera dei Deputati, il Governo ha accolto il mio ordine del giorno con il quale ho chiesto di rafforzare le risorse per le borse di studio per i giovani e di promuovere una campagna promozionale per incrementare gli scambi di studio tra l’Italia e i diversi paesi. Ci sono tanti giovani italiani che in Nord America sarebbero felici di formarsi in un ambiente moderno e dinamico e tanti giovani statunitensi e canadesi che sarebbero altrettanto felici di nutrirsi della grande cultura italiana antica e moderna. Diamogli l’occasione per costruire nel modo migliore il loro avvenire.

Ecco, spero di avere dato l’idea delle cose fatte nell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle.

Il mio impegno nei prossimi mesi continuerà sul percorso intrapreso e prioritariamente sul potenziamento dei servizi consolari, sulle questioni relative ai rapporti degli italiani all’estero con la Pubblica Amministrazione, come, ad esempio, l’effettivo accesso allo SPID (la mia interrogazione), sulla promozione della nostra lingua e sul turismo di ritorno perché gli italiani all’estero, soprattutto in questa fase di ripresa della mobilità internazionale, meritano attenzione e sostegno, per loro stessi e per il vantaggio che arrecano all’Italia nel suo sforzo di ripresa.

Auguri di nuovo per un sereno e migliore 2022.

 

02 – Antonio Floridia*: PER RIFARE LA SINISTRA NON SERVONO LE AGORÀ, CI VORREBBE UN CONGRESSO. SINISTRA. CHE A SINISTRA DEL PD POSSA NASCERE UN NUOVO, CONSISTENTE E CREDIBILE PARTITO SONO IN POCHI A CREDERLO, SPECIALMENTE DOPO IL FALLIMENTO DELL’ESPERIENZA DI LEU.

 

La battuta di D’Alema sulla “malattia” del renzismo e sulla presunta, avvenuta guarigione del Pd, ha suscitato un gran trambusto; ed è stato fin troppo facile ricordare che quel malanno ha potuto allignare e trovare un terreno molto fertile proprio nella estrema fragilità che ha caratterizzato sin dalle origini la natura stessa di questo partito. Sono molti coloro che dovrebbero esercitare un po’ di autocritica. Se andiamo a rileggere, ad esempio, gli atti del convegno di Orvieto dell’ottobre 2006, il vero atto fondativo del Pd, troviamo l’origine delle “tare”: ad un livello “alto” di elaborazione, che oggi peraltro nemmeno viene sfiorato, lo storico cattolico Pietro Scoppola teorizzò apertamente la natura “post-ideologica” del nuovo partito. Per tenere insieme le diverse tradizioni della cultura politica democratica, nessuna di queste poteva prevalere: il nuovo partito doveva/poteva reggersi solo sulla convergenza programmatica, a partire ciascuno dalla propria storia e identità. Sulla carta, poteva funzionare; ma la storia del Pd ha dimostrato che un partito, privo di un proprio autonomo profilo di cultura politica, alla fine implode, e può sopravvivere solo come un assemblaggio di cordate di potere.

L’altra relazione, a Orvieto, fu tenuta da Roberto Gualtieri, all’epoca vice-direttore dell’Istituto Gramsci: Gualtieri proponeva una generosa sistemazione teorica dell’identità, non fondata su una semplice convivenza, ma su una feconda interazione tra la cultura politica dei cattolici democratici e quella della tradizione socialista e comunista. Peccato che il partito tutto divenne fuorché un luogo di elaborazione politico-culturale (alla cui necessità Alfredo Reichlin, disperatamente, finché ha potuto, ha cercato di richiamare..).

Per gli annali, va ricordato che, ad Orvieto, l’unico, timido distinguo venne proprio da D’Alema: ma non sulla sostanza del nuovo progetto, bensì sul clima “anti-partito” che in quella stessa sede già si respirava profondamente, segnato da una sorta di ubriacatura ideologica per le “primarie di Prodi”, assunte come mito fondativo. D’Alema avvertiva che, senza i partiti, Ds e Margherita, e senza i loro militanti, le stesse primarie non si sarebbero potute nemmeno organizzare. Ma non era certo questo debole richiamo che poteva fermare il trionfale viaggio che si annunciava. Ed è davvero singolare che Renzi continui ad evocare il mitico 40% delle Europee del 2014 e che nessuno gli ricordi come sia stato lo stesso Renzi a fare poi precipitare il Pd al 18% del 2018.

Letta sta provando a fermare questa caduta? Ci potrà riuscire? Ci vuole molta buona volontà per scorgere qualche segno di ripresa; le cosiddette “agorà”, ben che vadano, saranno un’occasione di dialogo, non certo quel vero e autentico momento congressuale di cui avrebbe vitale bisogno. E qui si innesta il discorso sul possibile rientro non solo di quanti uscirono con la scissione del 2017, ma del ben più ampio numero di militanti ed elettori che hanno abbandonato il Pd anche prima di quella data (come “fatto personale”, preciso che l’autore di questo articolo appartiene a questa schiera di homeless: sono uscito dal Pd nel 2014).

Facciamo allora un discorso schietto: coloro che propugnano questo rientro nel Pd hanno obiettivamente un punto di forza a loro favore, ma devono fare i conti con un altrettanto grave punto di debolezza. A favore, gioca il fatto che sono oramai ben pochi quelli che credono nella possibilità che, a sinistra del Pd, possa nascere un nuovo, consistente e credibile partito. L’ultimo tentativo poteva essere quello di dare un seguito all’esperienza di LeU, ma è stato fatto fallire, per varie ed equamente distribuite responsabilità, non da ultimo quelle dei gruppi dirigenti di Articolo Uno e di Sinistra Italiana. Lasciamo perdere: non serve più a nulla rimestare nel passato.

Non hanno tutti i torti quanti pensano che, a questo punto, un grande partito sia comunque la sede migliore per cercare di ricostruire una forza della sinistra in Italia. E proprio qui, però, cogliamo il punto di massima debolezza: il Pd sta facendo di tutto per rendere davvero poco credibile questa prospettiva, non tanto per le sue scelte programmatiche (che in sé, appunto, potrebbero essere reversibili, oggetto di un dibattito e di uno scontro politico interno), quanto per la sua natura davvero inospitale. Rientrare, sì, ma a fare che? A rimpolpare le fila di questa o quella corrente? Possiamo forse scorgere qualche segno di quella che un tempo si chiamava “agibilità democratica”, ossia l’esistenza di luoghi e spazi effettivi di partecipazione, di un vero circuito procedurale di discussione e decisione democratica?

Un processo di allargamento degli attuali confini del Pd, e un’eventuale trasformazione del suo profilo politico e culturale, saranno forse possibili, ma solo a patto che si metta in cantiere un vero congresso (non l’ennesima elezione diretta del segretario, tramite le cosiddette primarie). Vedremo se e come questo potrà accadere. Intanto, ci saranno presto le nuove elezioni politiche, al più tardi tra poco più di un anno. Se rimarrà una legge elettorale che preveda il vincolo di coalizioni pre-elettorali, dentro il campo democratico, oltre al Pd (e al M5S, ovviamente: altrimenti non c’è nemmeno partita), sarà necessaria una lista di sinistra in grado di raccogliere almeno il 3%. Ma non è certo il caso di caricarla oltre misura di aspettative politiche: presentarla sotto il segno della continuità con le formazioni politiche oggi esistenti sarebbe il modo migliore per affossarla. La cosa più saggia sarà quella di provare a replicare alcune tra le più riuscite esperienze locali di liste di “sinistra, civiche ed ecologiste”, in grado di rappresentare, con alcune candidature innovative, quanto di vivo continua nonostante tutto ad esserci. Sarà difficile, ma forse è l’unica strada da percorrere.

*(Antonio Floridia. Politologo, dirige l’Osservatorio elettorale e il settore “Politiche per la partecipazione” della Regione Toscana …)

 

03 – Claudia Fanti*: IL CILE DI BORIC È PRONTO PER IL «PRIMO GOVERNO ECOLOGISTA» DELLA SUA STORIA. CAMBIO DELLA MONEDA. IL PROGRAMMA DEL NUOVO PRESIDENTE PROMETTE DI CAMBIARE IL VOLTO DEL PAESE, MA LA DESTRA DIFENDERÀ CON OGNI MEZZO IL MODELLO PINOCHET-CHICAGO BOYS.

È in corso un grande dibattito, all’interno della sinistra cilena, sulla natura, sulla composizione, sugli obiettivi e sulle reali prospettive del futuro governo di Gabriel Boric.

E anche sullo stesso profilo del presidente eletto, sul quale i giudizi non potrebbero essere più discordi: per alcuni quasi un novello Allende, o almeno l’espressione dello «spirito di ottobre», cioè della rivolta sociale del 2019; per altri l’opportunista rappresentante di una classe politica disposta ad accorrere in soccorso di Piñera pur di salvare lo status quo neoliberista. E in mezzo, naturalmente, tutte le sfumature possibili.

 

A POCO PIÙ DI DUE MESI dal suo insediamento, che si terrà l’11 marzo, il 63% della popolazione mantiene in ogni caso un’immagine positiva di Boric, il cui programma di governo, se rispettato, potrebbe davvero cambiare il volto del paese. Un programma, almeno nella versione originaria, piuttosto ambizioso, mirando a garantire l’accesso universale alla salute con la creazione di un servizio sanitario nazionale, una riforma tributaria in senso progressivo, l’abbandono del sistema pensionistico privato, educazione pubblica, gratuita e di qualità. Come pure a dar vita, secondo le stesse parole di Boric, al «primo governo ecologista della storia cilena».

Grandi aspettative, in particolare, ha suscitato la promessa di «pensioni dignitose», attraverso il superamento dell’odiatissimo sistema dei fondi pensione (Afp, Administradoras de fondos de pensiones) in direzione di uno pubblico.

 

IDEATO DA JOSÉ PIÑERA, fratello del presidente uscente, e introdotto durante la dittatura di Pinochet, tale sistema aveva sostituito il modello a ripartizione con quello a capitalizzazione, obbligando ogni lavoratore a contribuire con il 10% del suo salario a un fondo privato gestito dalle Afp, con conseguenze disastrose per la grande maggioranza dei lavoratori senza uno stipendio alto e un impiego stabile. Non per niente la rifondazione totale del sistema pensionistico è stata una delle principali rivendicazioni delle proteste del 2019. Si tratta però di un obiettivo assai complesso, come indica anche la progressiva tendenza di Boric a moderare il suo discorso: in assenza di una maggioranza parlamentare, tutto rischia di tradursi in una riforma poco ambiziosa.

 

GRANDI SFIDE attendono il futuro governo anche in campo ambientale, a cominciare da quella delle cosiddette «zone di sacrificio» (territori su cui vengono scaricate le attività più inquinanti della produzione capitalista) come Quintero, Huasco e Mejillones e da quella della protezione delle acque e dei ghiacciai, soprattutto a fronte dalla grave siccità che ha colpito quest’anno il Cile, con il peggiore calo di precipitazioni dal 1915 e oltre 180 municipi costretti a convivere con il razionamento di erogazione dell’acqua. Un tema, quest’ultimo, che investe due aree chiave per l’establishment: il settore agroesportatore, principale consumatore di acqua del paese, e quello minerario.

 

MA IL PROSSIMO GOVERNO dovrà pronunciarsi anche su altre controverse questioni, da quella dell’espansione, anche all’interno di aree protette, della contaminante industria salmoniera a quella dello sfruttamento del litio, a fronte dell’apertura da parte del governo Piñera di un bando di gara per la concessione di licenze relative allo sfruttamento e alla produzione di 400mila tonnellate del prezioso minerale.

Per finire con il contestatissimo progetto minerario Dominga, diventato ancor più emblematico dopo le rivelazioni dei Pandora Papers riguardo alla milionaria compravendita della compagnia mineraria tra Piñera e il suo amico Carlos Délano nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche, oltretutto condizionata all’impegno del governo Piñera a non dichiarare come riserva naturale l’area interessata dal progetto: quella del comune de La Higuera, nella regione di Coquimbo, dove si trova l’arcipelago che deve il suo nome ai rari pinguini di Humboldt.

Ma che si tratti delle pensioni, della sanità, dell’educazione, della questione ambientale o della smilitarizzazione del Wallmapu, la terra mapuche, le intenzioni del presidente, anche nel caso fossero le più avanzate, da sole non basteranno.

 

NON A CASO SONO IN CORSO, da parte dell’équipe del nuovo presidente, frenetiche trattative per assicurare al nuovo governo una minima base di appoggio che gli consenta di portare avanti il suo programma.

Di fronte alla prevedibile guerra che la destra scatenerà a difesa del modello imposto da Pinochet e dai suoi Chicago boys e alla prospettiva di estenuanti trattative con forze politiche di centro, ciò che allora definirà, come evidenzia Atilio A. Boron, «il margine di manovra e il destino del governo sarà la presenza cosciente e organizzata delle masse nelle strade e nelle piazze del Cile».

 

04 – Il GOVERNO DRAGHI DICA NO ALL’INSERIMENTO DI NUCLEARE E GAS NELL’ELENCO DELLE ENERGIE DA FONTI RINNOVABILI osservatorio sulla transizione ecologica- PNRR – OSSERVATORIO SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA – PNRR

Promosso da: Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Laudato Sii, Nostra

La decisione della Commissione Europea di forzare la mano inserendo nelle energie rinnovabili anche nucleare e gas fossile va fermata. E’ un grave errore che contraddice le scelte fin qui fatte per dare alla questione ambientale e climatica la centralità che deve avere nelle scelte della transizione ecologica.

Solo alcuni mesi fa le proposte della Commissione erano volte a scelte impegnative  come l’accelerazione per investire sulle energie rinnovabili (sole, acqua, vento, terra) per raggiungere gli obiettivi contenuti nel piano della Commissione “Fit for 55%”.

I poteri economici e la speculazione finanziaria legati alle energie fossili hanno reagito a queste proposte provocando un aumento dei prezzi del gas e dei derivati dal petrolio senza precedenti, che non trovano giustificazioni nella ripresa economica mondiale, per condizionare le scelte europee, per ottenere vantaggi immediati, per rinviare il più possibile la sostituzione dei combustibili fossili nella produzione elettrica. Al punto che le navi dagli Usa vengono a vendere in Europa il loro shale-gas sfruttando l’enorme differenza dei prezzi.

Gli impegni presi dal G20 e dalla Conferenza di Glasgow Cop 26 poche settimane fa, già inadeguati, per contenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi sono ora contraddetti pesantemente, malgrado la gravità delle conseguenze del cambiamento climatico siano sotto gli occhi di tutti.

Non avevano del tutto torto i giovani che hanno commentato gli impegni presi sul clima come un bla bla.

La Commissione Europea, mentre si piega di fronte all’offensiva dei poteri economici e finanziari che vogliono continuare a puntare sui combustibili fossili e provano a rilanciare il nucleare (pericoloso, genera scorie radioattive), non assume una forte iniziativa a sostegno delle energie rinnovabili per arrivare al 40% di realizzazioni entro il 2025 come lei stessa ha raccomandato.

Per quanto riguarda l’Italia non si comprende perché il Ministero della Transizione Ecologica, già disattento ad eolico e fotovoltaico che pure sono il “petrolio nazionale”, non preveda neppure di usare gli oltre 7.000 MegaW disponibili con i pompaggi idroelettrici per garantire il bilanciamento dell’elettricità nella rete nei momenti di insufficienza. Inoltre il Ministro si vanta di avere approvato investimenti nell’eolico per 700 MegaW, quando stando a Terna sono giacenti 40 domande inevase di eolico off shore per 17.000 MegaW che potrebbero portarci rapidamente a raggiungere il risultato previsto per il settore nel 2030 già nei prossimi anni. Occorrono piani, decisioni, investimenti incoraggiati e sostenuti.

Inoltre le parole dell’Amministratore delegato dell’Enel Starace sono state chiare: E’ una follia dipendere dal gas. L’aumento dei prezzi del gas fossile dovrebbe convincere tutti che le 48 centrali a turbogas  (Il Sole 24 24 Ore 7/12/21) in progetto per 20.000 MegaW di potenza sarebbero un disastro economico ed ambientale.

Del resto l’energia da fonti rinnovabili costa già oggi di meno. L’aumento del gas non è frutto del destino ma di errori nei contratti di fornitura e del blocco delle vie di approvvigionamento per ragioni che nulla c’entrano con le convenienze del nostro paese e dell’Europa.

Il Ministro Cingolani e l’insieme del Governo hanno gravi responsabilità per avere lasciato il nostro paese alla mercè della speculazione sui fossili, impiegando molti miliardi pubblici ma del tutto insufficienti a fronteggiare questa speculazione, straparlando di nucleare di quarta generazione, che comunque sia non è disponibile oggi, al solo fine di strizzare l’occhio alla pressione francese sul nucleare, dimenticando che ben 2 referendum hanno bocciato il nucleare in Italia.

La Francia sostiene il nucleare per ragioni di politica di potenza, per il rapporto tra nucleare civile e militare (force de frappe) che è sempre stato un ostacolo alla costituzione di un esercito europeo, per i costi spropositati del nucleare francese a carico dello Stato. Per questo Macron punta ad attingere ai 40 miliardi del NGEU che l’Europa passerà alla Francia senza chiederne la restituzione e spera di ottenere altri finanziamenti a condizioni migliori. Altri paesi sostengono questa scelta nucleare ma l’Italia non può e non deve farlo, al contrario deve schierarsi con Germania, Austria ed altri paesi che si sono espressi contro la proposta della Commissione.

Nucleare e gas non debbono entrare nella tassonomia verde europea perché non sono fonti rinnovabili e quindi va bloccato il loro accesso ai finanziamenti del recovery fund.

Il nuovo governo tedesco, ad esempio, ha indicato una transizione ecologica per la Germania, confermando la chiusura di 3 centrali e l’uscita dal nucleare entro la fine del 2022, con obiettivi al 2030  che possono essere un riferimento anche per l’Italia.

Non è certo la filosofia del “liberi tutti”, che il Governo sembra ora volere perseguire, quella che realizza gli impegni e le promesse del Presidente Draghi nel G20 e nella Cop 26 per fronteggiare l’alterazione del clima e le sue conseguenze.

Per queste ragioni chiediamo al Governo di bocciare la proposta della Commissione di inserire nucleare e gas fossile nella tassonomia europea, ora al vaglio dei 27 Stati e del Parlamento europeo.

*( Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Jacopo Ricci, Massimo Scalia, Promosso da: Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Laudato Sii, Nostra)

 

05 – Stefano Feltri *: LA DISUGUAGLIANZA CORRODE LA DEMOCRAZIA. ORA STA ARRIVANDO UN’INFLAZIONE CHE SEMBRA SEMPRE MENO PROVVISORIA, E ANCHE QUESTA TASSA OCCULTA AVRÀ IMPATTI MOLTO DISEGUALI, NULLI O QUASI SU CHI POTRÀ ADEGUARE I PROPRI RICAVI A PREZZI IN CRESCITA, PESANTI SUI REDDITI FISSI.

Tutti dicono di essere contro la disuguaglianza, ma solo finché non tocca i loro interessi: vogliamo redistribuire la ricchezza, con imposte regolari sul patrimonio, sulla casa o sull’eredità? Oppure vogliamo redistribuire opportunità, tra quote rosa, discriminazione positiva, assunzioni selettive di giovani e persone da zone disagiate? E dobbiamo preoccuparci solo di allineare i punti di partenza o anche quelli di arrivo, in termini di carriera e redditi?

Domani inizia un percorso lungo un anno per affrontare queste questioni decisive

Ci sono civiltà che muoiono per shock esterni, altre che crollano corrose dall’interno. La nostra affronta questa doppia minaccia: lo shock esterno, la pandemia, ha reso evidente una malattia a lungo rimossa, cioè la disuguaglianza. È forse la parola più abusata dopo resilienza, così ripetuta a vuoto da aver perso ogni significato.

In pandemia, però, la disuguaglianza ha tornato ad avere una misurazione percepibile: è la differenza tra chi può pagare un tampone a domicilio molecolare 150 euro ed evitare la quarantena e chi deve inseguire quelli forniti della sanità pubblica; è l’abisso che divide chi approfitta del nuovo tempo domestico per guardare film arretrati o frequentare qualche corso di specializzazione online e chi impazzisce tra spazi angusti, bambini sempre a casa da scuola e opportunità professionali che svaniscono.

La disuguaglianza più netta è quella tra chi negli ultimi due anni ha continuato a lavorare, guadagnando soldi che non sapeva più come spendere, e chi ha perso ogni reddito: il tasso di risparmio degli italiani è passato dal 2,39 per cento del reddito disponibile nel 2019 al 10,81 nel 2020 (dati Ocse). Segno che durante la pandemia si è accumulata ricchezza privata mentre lo stato generava debito pubblico, passato dal 134,4 per cento del Pil nel 2019 al 160 per cento del 2021.

La politica monetaria delle banche centrali ha permesso all’Italia, e a molti altri paesi, di sommare enormi quantità di debito con una spesa per interessi che scendeva invece che aumentare. Ma non durerà per sempre.

 

ORA STA ARRIVANDO UN’INFLAZIONE CHE SEMBRA SEMPRE MENO PROVVISORIA, E ANCHE QUESTA TASSA OCCULTA AVRÀ IMPATTI MOLTO DISEGUALI, NULLI O QUASI SU CHI POTRÀ ADEGUARE I PROPRI RICAVI A PREZZI IN CRESCITA, PESANTI SUI REDDITI FISSI.

Questo contesto costringe ad affrontare domande che abbiamo ignorato nell’ultimo quarto di secolo, mentre l’Italia accettava un livello di disuguaglianze feudale senza neppure ottenere in cambio il dinamismo che certi liberisti considerano un beneficio sufficiente a compensare gli effetti negativi di ogni squilibrio.

Per anni abbiamo lasciato che l’Italia diventasse un paese di rendite, dove il 10 per cento più ricco della popolazione possiede il 48 per cento della ricchezza delle famiglie e può trasmetterla quasi senza imposte di successione, in modo da perpetrare e aggravare la concentrazione di benessere.

Tutti dicono di essere contro la disuguaglianza, ma solo finché non tocca i loro interessi: vogliamo redistribuire la ricchezza, con imposte regolari sul patrimonio, sulla casa o sull’eredità? Oppure vogliamo redistribuire opportunità, tra quote rosa, discriminazione positiva, assunzioni selettive di giovani e persone da zone disagiate? E dobbiamo preoccuparci solo di allineare i punti di partenza o anche quelli di arrivo, in termini di carriera e redditi?

*(Stefano Feltri, giornalista di Domani)

 

06 – ALFIERO GRANDI*:. DAL RIFIUTO TEDESCO DELL’OPZIONE NUCLEARE AL DESTINO POLITICO-PARLAMENTARE DELL’ITALIA

Dal nuovo governo tedesco vengono alcuni messaggi forti e chiari, e coerenti. Anzitutto gli impegni vengono mantenuti. Il programma concordato tra i partiti che hanno formato il nuovo governo, guidato da Scholz, viene confermato dai fatti. Le prime 3 centrali nucleari vengono spente, come da programma, ed è confermato che la Germania uscirà dal nucleare civile entro la fine dell’anno. In Italia i sostenitori del nucleare, dimentichi che ben due referendum popolari hanno detto no al nucleare civile (1987 e 2011) con maggioranze schiaccianti, tentano in tutti i modi di rilanciare il loro obiettivo cercando di sovvertire il voto degli elettori, approfittando dell’aumento incredibile dei prezzi del petrolio e soprattutto del gas.

Eppure il fatto che la Germania confermi la volontà di uscire dal nucleare civile per produrre energia elettrica dovrebbe convincere anche i riottosi in Italia che la loro è semplicemente una battaglia di retroguardia, conservatrice, perché il belletto che cercano di mettere sul nucleare (nuova generazione, quarta generazione, sicuro) sono solo chiacchiere, la sostanza resta quella. Solo la fusione nucleare meriterebbe una riflessione, ma ne riparleremo quando sarà pronto, comunque non prima di alcuni decenni, con buona pace dell’ENI che ci sta buttando molti soldi.

Altro punto rilevante è il ruolo decisivo del programma per il nuovo governo tedesco. Quando nacque il 2° governo Prodi nel 2006 fu elaborato un programma dettagliato, destando perfino qualche ironia. Purtroppo una parte di quanti lo avevano sottoscritto lo boicottarono e il governo durò meno di due anni. L’errore non stava nel programma, ampio, dettagliato, progressista, ma in una maggioranza politica che non si sentiva obbligata a sostenere con coerenza i punti concordati e quindi alcune sue parti ritenevano di poter sostenere posizioni diverse fino a fare cadere il governo. Aprendo così la strada al sorpasso elettorale delle destre nel 2008, che è andato in crisi per sue incapacità di governo malgrado avesse ottenuto una maggioranza bulgara in parlamento.

Ora il nuovo governo “tricolore” della Germania ripercorre lo stesso cammino del 2° governo Prodi ed ha un programma dettagliato di obiettivi. È vero che questa non è una novità assoluta, perché anche precedenti governi tedeschi sono nati sulla base di un accordo scritto tra forze di diverso orientamento che avevano trovato l’intesa in un programma. La novità sta in un accordo trovato senza fretta, attraverso un serrato confronto sugli obiettivi e con una composizione equilibrata. Il pensiero va alla “nevrosi politica” sostenuta in Italia, secondo la quale la sera stessa delle elezioni si doveva sapere chi aveva vinto. In realtà sapere chi ha vinto le elezioni presuppone un altro sistema elettorale ed istituzionale, che in questo modo si cercava di introdurre senza dirlo e senza trarne le conseguenze e i contrappesi. Tanto è vero che proprio i maggiori sostenitori di questa vera e propria scemenza istituzionale e politica si sono poi inoltrati nell’avventura di una modifica della Costituzione, definita correttamente deformazione, bocciata clamorosamente dal voto degli elettori nel 2016.

Spiace e sorprende che il Pd non abbia mai fatto una seria riflessione sulla gravità di quella “scivolata” politica contro la nostra Costituzione, che solo nel 2013 era ancora definita nel programma elettorale la più bella del mondo. È vero che i responsabili (Renzi e c.) se ne sono andati, formando un altro partito concorrente, ma paradossalmente questo rende ancora più incomprensibile perché non si siano fatti i conti con questa “scivolata”, ricavandone una diversa posizione politica. Chiarito che “appendere” le sorti del nostro sistema istituzionale e della legge elettorale all’obiettivo di conoscere i vincitori la sera delle elezioni è una scemenza politica, resta da trarne le conseguenze.

In Germania hanno votato a settembre dello scorso anno e il nuovo governo è nato circa due mesi e mezzo dopo, senza che questo provocasse una crisi di nervi, anzi abbiamo assistito ad un passaggio delle consegne da Merkel a Scholz del tutto tranquillo. La legge elettorale tedesca è proporzionale e prevede due voti, uno per il collegio uninominale e l’altro per le liste dei partiti. Se l’esito dei collegi non consente un risultato complessivo proporzionale la legge prevede di aumentare i seggi del proporzionale fino a garantirlo. La Costituzione tedesca lo consente e la legge lo prevede, inoltre non è vero che il 5% è la soglia di accesso obbligata, ci sono casi previsti di eccezione, che consentono di fare entrare anche soggetti politici che non raggiungono il 5%. Alle ultime elezioni è toccato alla Linke. Inoltre il Bundestag tedesco non ha avuto tagli del numero dei parlamentari, come è avvenuto improvvidamente in Italia. Per questo la soglia del 5% in Italia sarebbe troppo alta visto che già ora il 3% del “rosatellum” di fatto è aumentato del 33% dal taglio dei parlamentari e sostituire il 3 con il 5 porterebbe ad un livello reale ben più alto.

La conseguenza della legge elettorale tedesca è fondamentale, ogni elettore sceglie il partito che ritiene più vicino e quindi è spinto a partecipare al voto, poi la rappresentanza parlamentare del partito votato costruirà, se necessario, una coalizione politica tra diversi che hanno nel programma di coalizione concordato il loro riferimento politico, che deve durare 5 anni, salvo incidenti gravi. Tutto nella massima trasparenza, ogni elettore sceglie, ogni partito si muove verso una coalizione e se riesce a costruirla governa, portando in dote il più possibile delle sue idee e accettando il compromesso politico con altri per governare. Anche per questo la Germania non ha una disaffezione dal voto degli elettori paragonabile a quella italiana.

È vero che la legge elettorale non risolve da sola tutti i problemi, al contrario, ma può aggravarli fino a renderli irrisolvibili. L’Italia deve assolutamente approvare una nuova legge elettorale prima di tornare al voto, uscendo dal tunnel di un maggioritario che è fallito per tutte le coalizioni che hanno governato. Il maggioritario non ha giovato né alla destra né alla sinistra. Le coalizioni erano posticce e si sono sfaldate. Quelle di centro sinistra avevano anche margini ristretti ma non sono i margini il vero problema, perché la destra, con Berlusconi presidente del Consiglio, nel 2011, malgrado una maggioranza parlamentare incredibile, andò in crisi sotto i colpi dello spread e di una finanza pubblica fuori controllo (frutto di errori) e si arrivò al governo Monti.

Il maggioritario in Italia non ha risolto i problemi, anzi ha creato via via coalizioni politiche sempre meno in grado di governare con il risultato che è oggi sotto i nostri occhi: il governo Draghi, nel quale sono presenti tanti partiti diversi ma che sono incapaci di governare insieme, perché non sono in grado di arrivare ad un programma comune da soli. Arrivare alle prossime elezioni senza una nuova legge elettorale, che potrebbe trovare utili spunti nella legge tedesca, sarebbe un errore clamoroso. Sia perché c’è bisogno di avere un parlamento che rappresenti realmente i cittadini, risalendo la china di una crisi di ruolo senza precedenti. Sia perché è indispensabile che le diverse posizioni politiche si misurino con gli elettori e si sappia con esattezza chi rappresenta chi.

Non possiamo più permetterci che oltre alle migrazioni dei singoli parlamentari ci siano migrazioni di interi partiti, Italia viva è il caso più clamoroso. Dopo si cercheranno i compromessi necessari per formare un governo e ci sarà l’opposizione, come è normale in democrazia. Proporzionale, scelta diretta dei parlamentari da parte degli elettori, collegio unico nazionale per garantire la massima proporzionalità possibile, già compromessa al Senato dalla riduzione su base regionale. Sono i punti cardine di una nuova legge elettorale.

Non avere approvato la nuova legge elettorale prima dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica è stato un errore, una mancanza di prudenza istituzionale, in ogni caso va approvata prima delle prossime elezioni, altrimenti la vittoria, senza merito, potrebbe essere regalata alla destra peggiore perché in grado di ricattare la destra meno estremista. Se ciascuno si presentasse per sé la partita sarebbe del tutto aperta, in grado di dare vita a maggioranze democratiche ed europeiste e perfino socialmente sensibili.

Non è vero che l’attuale maggioranza deve perpetuarsi anche in futuro, perché si intravvedono già i suoi difetti e le sue divaricazioni che senza Draghi diventerebbero rapidamente dominanti. Il tempo della grande coalizione tra linee politiche e sensibilità opposte si sta esaurendo, proseguendo si rischia la paralisi o peggio, e quindi occorre che i partiti presentino limpide posizioni diverse, su cui gli elettori potranno scegliere. Per questo è indispensabile una nuova legge elettorale proporzionale e l’esperienza tedesca potrebbe aiutarci perché è quella di una repubblica parlamentare come l’Italia. La Francia è un altro sistema, personalizzato, presidenzialista, senza adeguati contrappesi tra i poteri e non è in grado di aiutarci ad uscire dalle nostre difficoltà politiche ed istituzionali.

*(Alfiero Grandi)

 

07 – Arthur C. Brooks*: RIMANDARE A DOMANI È UNA STRATEGIA CHE PUÒ FUNZIONARE. PER LEGGERE QUESTO ARTICOLO STAI RIMANDANDO QUALCOSA? MAGARI IL MOMENTO DI ANDARE A FARE LA SPESA. O UNA TELEFONATA IMPEGNATIVA. O UN REPORT DI LAVORO.

I sociologi definiscono la procrastinazione (crastinum, il domani, in latino) come l’atto di “ritardare un compito per lungo tempo in modo disadattivo” (termine che indica l’incapacità di reagire a uno stimolo esterno in maniera appropriata), ed è un comportamento che affligge quasi tutti. Secondo una ricerca più del 70 per cento degli studenti universitari rimanda i propri compiti. E un sondaggio del 2005 aveva rivelato che tra gli adulti più del 20 per cento era “procrastinatore cronico”.

La procrastinazione ha cattiva fama. In effetti, se rimandi le incombenze necessarie, legate alla routine, le cose da fare si accumulano e questo ha quasi sempre un effetto negativo sul benessere. Al contrario, se associata a dei compiti creativi, un po’ di procrastinazione può effettivamente essere utile. Quindi meglio pagare adesso la bolletta della luce e lavare subito i piatti. Però forse puoi anche aspettare un giorno o due per scrivere quel saggio.

SCEGLIERE CON CALMA

Di solito si pensa che procrastinare sia un problema di gestione del tempo. Ma secondo Timothy Pychyl, uno psicologo della Carleton University, in Canada, è più un problema di gestione delle emozioni. Molte persone affrontano i sentimenti negativi legati a un compito semplicemente evitandolo, almeno per un periodo di tempo. È probabile che l’abbia sperimentato anche tu quando hai rimandato una conversazione difficile dicendoti: “Non posso occuparmene ora”.

Che si tratti dell’incapacità di gestire il tempo o le emozioni, questo approccio presenta ancora una volta la procrastinazione come negativa. E in molti casi lo è: per esempio ogni anno circa sette milioni di americani non riescono a presentare la dichiarazione dei redditi, e questo può avere delle conseguenze disastrose dal punto di vista finanziario e legale. Oppure, considerando che molti datori di lavoro non apprezzano affatto la tendenza a temporeggiare, è improbabile che in un colloquio di assunzione ci sfugga una battuta sulla nostra propensione a non rispettare le scadenze.

Tuttavia, una ricerca dimostra che in determinate circostanze la procrastinazione può migliorare la qualità delle nostre decisioni e del nostro lavoro. Nel suo libro Essere originali. Come gli anticonformisti cambiano il mondo, Adam Grant racconta che nell’antico Egitto la procrastinazione era descritta con due parole diverse: “Una denotava pigrizia; l’altra significava aspettare il momento giusto”. In quest’ottica, la procrastinazione poteva indicare il vizio dell’accidia o la virtù della prudenza.

RIMANDARE I COMPITI CHE RICHIEDONO INNOVAZIONE E RICERCA PER PENSARCI SOPRA PUÒ CONDURRE A RISULTATI MIGLIORI

In effetti, in diverse situazioni capita di diventare precipitosi, e fare le cose troppo in fretta può indicare un’altra forma disadattiva di gestione del proprio carico emotivo. A volte le persone “precrastinano”, buttandosi nelle attività da portare a termine perché sono impazienti di abbassare il loro carico cognitivo. In altre parole, vogliono togliersi il pensiero, anche a rischio di commettere degli errori e di impiegare in seguito più energie per correggerli.

Procrastinazione e procrastinazione non si escludono a vicenda. In un esperimento del 2015, gli studenti del master in gestione d’impresa dell’università di Chicago hanno dovuto scegliere se accettare immediatamente un assegno per una certa somma di denaro o aspettare due settimane per un assegno di importo superiore. La maggior parte di quelli che hanno scelto la somma più bassa ha poi rimandato per più di due settimane prima di incassare l’assegno, annullando così il beneficio guadagnato.

Probabilmente lo scotto maggiore della precrastinazione – e, al contrario, il più grande beneficio di una procrastinazione moderata – è legato all’ambito creativo. Secondo un altro studio, rimandare i compiti che richiedono innovazione e ricerca per rimuginarci sopra può condurre a risultati migliori. All’inizio del 2021, due psicologi hanno chiesto ai partecipanti di un esperimento di risolvere vari problemi aziendali, mentre li spingevano a procrastinare. Gli autori dello studio hanno notato che chi ha procrastinato moderatamente (per una media di quasi otto minuti) aveva idee più creative di chi ha portato a termine il compito dopo aver aspettato per poco più di un minuto o per dodici minuti.

La procrastinazione può essere legata alla pigrizia o alla prudenza, può essere considerata un vizio o una virtù, a seconda delle abitudini e dei compiti da svolgere. Ecco cinque consigli per rimandare le cose giuste nel modo giusto.

 

FA’ UN’AUTODIAGNOSI

Mentre la procrastinazione strategica e occasionale può portare dei benefici, la procrastinazione cronica è un problema. Per scoprire se ne soffri, chiediti se il modo in cui rimandi le cose ti fa sentire fuori controllo o infelice. Sacrifichi il tempo che potresti passare con gli amici e con la famiglia nei weekend per portare a termine un lavoro a cui potevi dedicarti durante la settimana? Resti alzato tutta la notte quando avresti un sacco di tempo durante il giorno per finire il tuo lavoro?

 

AUMENTA LA TUA CONSAPEVOLEZZA

Se hai risposto sì alle domande precedenti, prova a lavorare sulla tua consapevolezza. I ricercatori hanno scoperto che essere mentalmente presenti, invece di pensare al futuro, è associato a una migliore attenzione ai compiti a portata di mano e a una minore tendenza a rimandarli. Per focalizzare il pensiero sul qui e ora non è necessario un mese di ritiro in un monastero, ma alcune tecniche pratiche, come allontanarsi dalle distrazioni (te ne parlo più avanti) e sforzarsi di prestare attenzione a quello che si sta facendo.

 

USA LA PROCRASTINAZIONE IN MODO STRATEGICO

“Non rimandare mai a domani quello che puoi fare altrettanto bene dopodomani”, ha scritto Mark Twain in un saggio satirico del 1870. Forse Twain scherzava, ma tocca un tasto molto importante, ovvero: la creatività richiede un po’ di tempo. Non troppo, è necessaria solo un po’ di procrastinazione per far fermentare le idee. Dopo aver avuto l’idea iniziale per un progetto, ho preso l’abitudine di aspettare un giorno per mettermi a scrivere. Mi annoto l’idea, ci penso, ci dormo sopra, vado a fare una passeggiata e poi comincio. Se faccio fatica a buttare giù il testo, riprendo tutto l’iter da capo. Non rimando per una settimana, solo un giorno o due. Di solito a quel punto procedo spedito; se non è così, allora devo metterci un po’ più di impegno limitandomi a scrivere.

 

NON SPRECARE LA PROCRASTINAZIONE

Ricorda che rimandare i compiti creativi è utile perché ti permette di ragionare sulle tue idee. Ma non funzionerà se passerai il tempo a fare doomscrolling, ovvero a cercare (brutte) notizie in rete. Usare in modo insensato i social network e internet non solo è uno spreco di procrastinazione, ma alimenta anche un’abitudine. Secondo una ricerca del 2018, la procrastinazione e l’uso di internet possono dar vita a un circolo vizioso: quando rimandiamo qualcosa, ci rifugiamo davanti a uno schermo, ma più guardiamo lo schermo, più rimandiamo. Se decidi di posticipare un compito, va’ a fare una passeggiata, un’occupazione che, come è stato dimostrato, stimola la creatività.

Chi usa internet per motivi professionali, troverà molto difficile evitare la procrastinazione inutile, un po’ come provare a smettere di fumare lavorando in una fabbrica di sigarette. Una soluzione che alcuni hanno adottato è quella di pianificare lunghe sessioni di lavoro che implicano l’uso di uno schermo ma non quello di internet, come scrivere. Durante questi periodi, lascia il telefono in un’altra stanza e, se puoi, spegni la connessione, così quando la tua mente prende a vagare non rischi di finire a guardare video di gatti per quarantacinque minuti.

 

LASCIA I PROGETTI A METÀ, MA NON IMPANTANARTI

Il pericolo più grande della procrastinazione è lasciare bloccata una cosa a tempo indeterminato. Ho il manoscritto di un libro rimasto a metà dal 2008. Ho restituito l’anticipo molto tempo fa, quando ho capito che la data di pubblicazione non sarebbe mai arrivata.

Il trucco per evitare questa trappola è lasciare i progetti in uno stato di incompiutezza tale da poterli riprendere facilmente. “La cosa migliore è fermarsi sempre quando stai procedendo bene e quando sai cosa succederà dopo”, spiegò Ernest Hemingway in un’intervista sul suo processo di scrittura. “Se lo fai ogni giorno mentre scrivi un romanzo, non ti bloccherai mai”. Anche le ricerche confermano che si tratta di un ottimo consiglio. Secondo un’indagine condotta in Giappone nel 2018, gli studenti che vedevano chiaramente la fine di un compito erano più motivati a portarlo a termine rispetto agli altri.

Per metterlo in pratica, prova a fare così: invece di puntare a finire un progetto ogni giorno, arriva a circa il 90 per cento. Il giorno dopo completalo e passa al progetto successivo, ripetendo lo schema.

C’è un altro aspetto da considerare: forse rimandi più e più volte un particolare compito – per esempio falciare il prato o scrivere i biglietti d’auguri – e nessuno di questi consigli ti sembra utile.

In tal caso è probabile che tu non soffra di procrastinazione: semplicemente detesti quella cosa perché ti rende infelice.

L’opzione migliore per te potrebbe essere quella di evitare di procrastinare evitando completamente il compito. Potresti pagare qualcuno che tagli l’erba al posto tuo. Perderai un po’ di soldi, ma il tempo che risparmierai ti renderà molto più felice, se lo usi saggiamente. Se ti accorgi che odi davvero tanto scrivere biglietti d’auguri, forse dovresti solo decidere di non farlo più, e di connetterti con i tuoi cari in un modo che ti faccia sentire maggiormente gratificato. La tua procrastinazione, per quanto disadattiva possa essere, in realtà ti sta dando dei suggerimenti su come potresti essere più felice. Sta a te ascoltarla.

*( Arthur C. Brooks, The Atlantic, Stati Uniti, Traduzione di Davide Musso. Questo articolo è uscito sul sito del mensile statunitense The Atlantic.)

 

08 – TOBY HELM*: LONDRA, LE NUOVE REGOLE DELLA BREXIT SVUOTANO I NEGOZI BRITANNICI.

DOPO ALCUNI MINUTI IN CODA TRASCORSI A CERCARE LE MIGLIORI OFFERTE NEL NEGOZIO DI GASTRONOMIA, È IL MOMENTO DELLE DECISIONI. FORSE UN PO’ DI FANTASTICO PROSCIUTTO DI PARMA ITALIANO? E ALCUNE FETTE DI CHORIZO SPAGNOLO? UN PEZZO DI BRIE PRODOTTO IN UNA FATTORIA DELLA NORMANDIA… OH, E SICURAMENTE ALCUNE OLIVE NERE GRECHE.

Può darsi che il governo prenda alla leggera le nuove e rigide regole della Brexit che colpiscono le importazioni nel Regno Unito dall’Unione europea, entrate in vigore il 1 gennaio. Ma lo stesso non fanno le organizzazioni che rappresentano le piccole aziende britanniche. Queste sono preoccupate per l’impatto sui loro affari e sulla scelta di prodotti che saranno disponibili per i clienti nei loro negozi preferiti.

La Federazione dei piccoli imprenditori cita le gastronomie locali, molte delle quali importano da piccoli fornitori europei specializzati, come il tipo di attività che potrebbe essere maggiormente danneggiata.

“Il classico esempio sono le gastronomie di quartiere che importano prelibatezze come chorizo spagnolo o parmigiano italiano”, dice James Sibley, responsabile delle questioni internazionali della federazione. “Per loro il pensiero di doversi registrare nel nuovo sistema è scoraggiante e il processo è costoso. Per questo siamo molto in allarme”.

Nel 2021 gli esportatori britannici hanno dovuto fare i conti con un aumento di burocrazia e costi, e i loro clienti sono stati scoraggiati dal conseguente aumento dei prezzi

Il colpo per i piccoli esportatori dell’Unione verso il Regno Unito potrebbe essere analogo a quello vissuto nel 2021 dagli esportatori britannici verso l’Ue, molti dei quali hanno semplicemente smesso di vendere i loro prodotti in Europa continentale perché le regole post-Brexit la rendevano un’attività troppo faticosa e costosa. Dal 1 gennaio 2021 (quando il Regno Unito è ufficialmente uscito dal mercato unico europeo) gli esportatori britannici hanno dovuto fare i conti con un aumento di burocrazia e costi, e i loro clienti sono stati scoraggiati dal conseguente aumento dei prezzi. Questo nonostante le affermazioni di Boris Johnson, Michael Gove e di altri sostenitori della Brexit secondo i quali uscire dall’Ue avrebbe semplificato le regole e fatto scendere i prezzi.

Le regole sulle importazioni agroalimentari entrate in vigore il 1 gennaio 2022 (dopo uno slittamento deciso nel settembre del 2021) impongono alle aziende di comunicare con precisione alle autorità doganali cosa viene spedito nel Regno Unito dall’Ue, e da dove. Il processo impone all’esportatore di dotarsi di un codice Eori (numero di registrazione e identificazione degli operatori economici) e d’inviarlo ai propri clienti britannici affinché gli importatori possano inserire una grande mole di dati e poi inviarla alle autorità britanniche. I beni che arriveranno con una documentazione insufficiente potranno essere bloccati, confiscati o rispediti al mittente.

Sibley sostiene che ci siano prove del fatto che molti esportatori dell’Ue non siano preparati a tutto questo: “Sappiamo di commercianti dell’Ue che non hanno nemmeno quel numero, e la cosa ci preoccupa”.

Il prossimo 1 luglio verranno introdotti ulteriori regole e controlli. “Da quella data gli esportatori dovranno fornire anche certificati sanitari o veterinari, se esportano prodotti d’origine animale o alimentari. È un punto oltre il quale alcuni esportatori dell’Ue potrebbero dire semplicemente, ‘sapete cosa? Lasciamo perdere, non ne vale la pena’”. E aggiunge che “a luglio ci saranno inoltre ispezioni fisiche dei beni ai punti di frontiera nel Regno Unito, il che potrebbe provocare ulteriori ritardi perché ci sarà di fatto un veterinario con un taccuino che passerà in rassegna il camion dicendo ‘questo va bene, questo anche (o no)’”.

Le associazioni di categoria sostengono che i problemi riguarderanno soprattutto gli operatori più piccoli, poiché i più grandi possono permettersi di pagare gli agenti doganali o gli spedizionieri affinché svolgano le formalità burocratiche per conto loro.

 

ALLA DOGANA

Nelle principali strade commerciali britanniche, alcuni negozianti si preoccupano già dei vuoti che appariranno sui loro scaffali nel 2022 e dell’aumento dei prezzi.

El Colmado, l’unica gastronomia spagnola di Bristol, importa praticamente di tutto: salsicce di chorizo, grandi prosciutti jamon serrano e scintillanti olive verdi. Il suo proprietario, David Pavon, 41 anni, prevede nuovi problemi e un aumento dei prezzi quando agli importatori sarà richiesto di effettuare dichiarazioni doganali in tempo reale, inserire i dettagli delle importazioni alimentari in vari sistemi doganali, e ottenere codici speciali che permettano ai camion di essere imbarcati sui traghetti.

“I problemi logistici sono aumentati già l’anno scorso”, dice. “Immagino quindi che a gennaio vedremo ancora più ritardi, perché se un camionista deve stare seduto alla frontiera per sei ore o più, dovremo pagargli lo stipendio. Stiamo pagando gli agenti doganali in Spagna e qui affinché inseriscano le informazioni necessarie all’importazione, un altro fattore che fa salire i prezzi”. Pavon li ha già aumentati, e prevede di doverlo fare di nuovo nel 2022.

 

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I grossisti che riforniscono le gastronomie e gli alimentari specializzati hanno preoccupazioni simili. Cotswold Fayre è una ditta di Reading che fornisce centinaia di prodotti alimentari di alta qualità, tra cui prodotti europei molto amati come stollen e panettone, a negozianti in tutto il Regno Unito. Adesso è stata costretta a mettere a bilancio ritardi e aumenti di costo per le merci importate, invece di investire nella creazione di nuovi posti di lavoro.

“Preferirei spendere per aprire un altro negozio, ma se dobbiamo farlo, assorbiremo i costi extra”, dice Paul Hargreaves, il fondatore dell’azienda. Hargreaves, che si è recentemente incontrato con il suo deputato locale, ritiene che il governo non comprenda l’impatto della Brexit sulle imprese britanniche. “I ministri non vivono nel mondo reale. Pensano che le cose siano molto più facili di quanto non siano in realtà. È molto frustrante”, dice.

“Se avessero dovuto viverlo in prima persona, forse avrebbero fatto più sforzi per ottenere un accordo migliore sulla Brexit. La sensazione è che l’ideologia conti più degli aspetti pratici con cui fanno i conti le aziende britanniche”.

*(Toby Helm, Tom Wall, The Guardian, Regno UnitoTraduzione di Federico Ferrone. Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian. )

 

09 – BHASKAR SUNKARA, DIRETTORE DI JACOBIN *: LA CRISI AL RALLENTATORE DELLA DEMOCRAZIA STATUNITENSE. WASHINGTON, STATI UNITI, 6 GENNAIO 2021.GLI STATUNITENSI NON SONO ESATTAMENTE PORTATI ALLE SFUMATURE. NON DOVREBBE SORPRENDERCI, QUINDI, CHE LE PROTESTE DI DESTRA CULMINATE NELL’ASSALTO ALL’EDIFICIO DEL CAMPIDOGLIO DI WASHINGTON, IL 6 GENNAIO 2021, SIANO STATE IMMEDIATAMENTE RACCONTATE COME UN COLPO DI STATO.

Per la maggior parte dei democratici, i partecipanti erano quantomeno degli insorti colpevoli di eversione, se non addirittura dei terroristi interni. Una copertura onnipresente, per giorni, in televisione, ed editoriali che parlavano apertamente di attacco alla “casa del popolo”, hanno confermato questa valutazione.

I repubblicani dell’establishment hanno riservato ai manifestanti il peggior insulto per loro immaginabile: “stranieri”. L’ex presidente George W. Bush li ha paragonati a cittadini di una “repubblica delle banane”, e il deputato repubblicano Mike Gallagher è stato d’accordo nel dire che “stiamo oggi assistendo a vere e proprie porcherie da repubblica delle banane nel Campidoglio degli Stati Uniti”. Marco Rubio, senatore della Florida, ha descritto gli eventi in un tweet come “anarchia antistatunitense da terzo mondo”.

Ma nonostante tutte le paure, i rivoltosi pro Trump del 6 gennaio non apparivano esattamente come dei fascisti duri e puri. Molti hanno vagato senza meta nel Campidoglio guardando le cose da lontano, facendosi dei selfie e tornando poi lentamente alle loro camere d’albergo quando hanno cominciato ad annoiarsi. Non abbiamo visto i combattimenti di strada che solitamente associamo all’ascesa dell’estrema destra in altri paesi del mondo.

Forse il segnale più chiaro del fatto che gli Stati Uniti non rischiavano di sprofondare nel fascismo è stata la risposta agli eventi del 6 gennaio da parte delle élite statunitensi. È un fatto acclarato che storicamente gli interessi economici si sono allineati sia con il fascismo – come accaduto negli anni trenta del novecento – sia con l’autoritarismo di destra, e l’autoritarismo più in generale nei momenti di crisi. Come ha scritto nel suo recente libro sui monopoli Tim Wu, professore di diritto alla Columbia University: “Il monopolista e il dittatore tendono ad avere interessi convergenti”.

Donald Trump, naturalmente, ha qualcosa in comune coi fascisti. Ha usato i mezzi di comunicazione di massa per attizzare risentimenti già diffusi, dirigendo la rabbia non contro i detentori del potere economico ma contro le minoranze e quanti vengono percepiti come un’élite culturale. Ha inoltre incoraggiato la violenza e le minacce contro i suoi nemici, culminate nella mobilitazione di un anno fa.

La lenta corrosione della democrazia dall’interno sta proteggendo i profitti delle élite meglio di quanto farebbero delle truppe d’assalto

Ma quel che non ha avuto è stato il sostegno dell’élite. Trump ha dato alle aziende quello che volevano quando era al potere: tagli alle tasse, deregolamentazione e controllo del potere dei lavoratori. Ma a differenza dell’Italia degli anni venti o della Germania degli anni trenta, i grandi interessi commerciali non si sono sentiti a tal punto minacciati dalle organizzazioni dei lavoratori e dalla sinistra da permettere al presidente di rovesciare le norme democratiche. È sembrato anzi che, il 6 gennaio, le élite abbiano visto nell’instabilità della Casa Bianca una minaccia più grave.

All’indomani dei disordini del Campidoglio, l’Associazione nazionale dei produttori, sostenitrice di Trump, ha chiesto che il presidente fosse messo in stato d’accusa. L’influentissima Business Roundtable, che rappresenta le più grandi aziende del paese, ha diffuso una condanna dell’azione quasi altrettanto potente. E gli ambienti del capitalismo finanziario, il principale alleato del fascismo nella sua versione iniziale, si sono espressi in termini simili.

Jamie Dimon, presidente e amministratore delegato di JPMorgan Chase, aveva dichiarato, lo stesso 6 gennaio 2021, che “i nostri dirigenti eletti hanno la responsabilità di esigere la fine delle violenze, accettare i risultati e, come ha fatto la nostra democrazia per secoli, sostenere un pacifico passaggio dei poteri”.

Niente di tutto questo dimostra che le élite statunitensi abbiano motivazioni intrinsecamente democratiche. Queste stanno, dopo tutto, contribuendo a finanziare gli sforzi di manipolazione dei distretti elettorali in tutto il paese, che annacquano la democrazia e piegano i risultati a loro favore. Stanno riversando milioni di dollari per sostenere le campagne elettorali di politici che indebolirebbero il diritto di voto. E stanno convogliando le loro risorse per opporsi a progetti di legge che darebbero alla classe operaia un maggiore potere economico.

Ma, nonostante tutti i loro sforzi antidemocratici, sono lungi dall’essere pronti ad abbandonare apertamente le norme democratiche e liberali. Perché arrischiarsi in una rivolta quando la loro lenta corrosione della democrazia dall’interno sta proteggendo i loro profitti meglio di quanto farebbero delle truppe d’assalto?

In altri termini la politica statunitense è effettivamente in crisi. Ma una crisi al rallentatore. Non è eclatante come l’assalto al Campidoglio o una presa del potere militare. Ma a lungo termine infligge alla democrazia lo stesso danno.

QUESTO CI PORTA ALLA QUESTIONE DELLA RIFORMA ISTITUZIONALE.

UN SISTEMA DIFETTOSO

Negli Stati Uniti un partito non si limita a vincere un’elezione e poi a governare (da solo o in coalizione). Al contrario, dopo una vittoria elettorale deve spesso fare i conti con una serie di veti. A causa dell’ostruzionismo del senato, sono necessari sessanta voti (ottenuti in maniera non democratica tramite due senatori per ogni stato, compresi i meno popolati) per approvare la maggior parte delle leggi. Per la camera dei rappresentanti, la più democratica della legislatura, le elezioni hanno luogo ogni due anni. Un fatto che la rende spesso fuori sincrono rispetto alle elezioni per il senato, che si svolgono ogni sei anni, e quelle presidenziali, che si tengono ogni quattro.

Un sistema bipartitico con questo tipo di struttura non fa che garantire che un governo diviso sia la norma più che l’eccezione, per non parlare del ruolo del potente apparato giudiziario. Si tratta di un accordo politico creato dai fondatori del paese per placare le passioni della popolazione, e per far sì che fosse l’élite a governare e che i cambiamenti alla costituzione tramite emendamenti siano quasi impossibili da realizzare.

Contrariamente ai miti sulla stabilità degli Stati Uniti, la cosa non ha funzionato tanto bene. Nell’ottocento la struttura del governo statunitense, in particolare il suo trasferimento di potere agli stati federali, ha protetto la schiavitù e il potere dei proprietari delle piantagioni, il che ha portato direttamente a una sanguinosa guerra civile. Nel novecento le cose sono state più stabili, ma per questo è servita una quantità insolita di consenso tra le élite e di cooperazione tra partiti.

Ma quel consenso è diventato più difficile da mantenere dopo che l’esodo dei liberali del nord dal Partito repubblicano e l’uscita dei dixiecrat dal Partito democratico hanno creato un sistema più ideologicamente coerente. Abbiamo avuto, da una parte, un partito di centro- centrosinistra che incorporava alcuni interessi aziendali, oltre che il movimento operaio e una base sproporzionatamente minoritaria di lavoratori e, dall’altra, un partito di destra favorevole alle aziende con una solida base popolare tra i bianchi conservatori del sud. Il livello di polarizzazione che ne è derivato non era insolito per gli standard mondiali, ma il sistema politico statunitense era straordinariamente male equipaggiato per gestire tale polarizzazione.

In un sistema razionale le elezioni avrebbero delle conseguenze, il partito vincente sarebbe in grado di governare e, se la gente disapprovasse le sue azioni, altre elezioni lo escluderebbero dal potere e permetterebbero all’opposizione di governare. Nel sistema statunitense attuale le elezioni producono quasi sempre un governo diviso e l’opposizione può usare i molti poteri di veto del sistema per ostacolare i tentativi di governo del partito al potere.

Non c’è da meravigliarsi che così tanti statunitensi abbiano scarsa fiducia nella capacità della politica di cambiare le loro vite in meglio.

 

LA MINACCIA REPUBBLICANA

La polarizzazione è avvenuta in entrambe le direzioni e, come sostiene Ezra Klein nel suo libro del 2020 Why we’re polarized (Perché siamo polarizzati), non dovremmo seguire gli argomenti di discussione standard, denunciandola come intrinsecamente cattiva. Il sistema politico antidemocratico degli Stati Uniti ha funzionato solo con i lavoratori e le minoranze imbavagliate del secolo scorso, e parte della tensione politica denunciata dagli osservatori proviene da persone oppresse che affermano i loro diritti e interessi in modo più rumoroso.

Tuttavia è chiaro che il partito repubblicano si è spostato verso destra a una velocità molto più veloce di quanto i democratici si siano spostati a sinistra. La sfiducia repubblicana nelle istituzioni statali – che si riflette nel loro scetticismo sia verso i risultati elettorali sia verso la sicurezza dei vaccini – si è fatta più intensa. Decine di milioni di elettori di Trump hanno giustificato l’assalto del 6 gennaio al Campidoglio, pensano che le elezioni del 2020 siano state rubate e temono che lo stesso accadrà nelle elezioni di metà mandato del 2022, nelle quali i repubblicani dovrebbero registrare grandi passi avanti.

Se il trumpismo è stato la controrivoluzione scatenata dagli otto anni di tiepido liberalismo del presidente Obama, che tipo di risposta genererebbe un governo di sinistra più sicuro di sé? Questa è una domanda che ogni progressista dovrebbe porsi, specialmente nel tentativo di spingere Joe Biden a diventare “il nuovo Franklin Delano Roosevelt”. Dopo tutto, possiamo aspettarci che le forze reazionarie diventino ancora più aggressive, se messe di fronte a un nemico di sinistra più assertivo.

Come è possibile ridurre le tensioni? Tanto per cominciare, i democratici devono concentrarsi meno sull’evocare incubi sul futuro (anche se alcune di queste paure sono giustificate) e più sull’offrire sogni in cui la gente possa credere.

Questo significa una comunicazione più chiara sui vantaggi materiali che la politica può offrire alla gente. Dovrebbero insistere soprattutto su questo programma, ed essere pronti a prendere provvedimenti per perseguire la riforma istituzionale – necessaria a portare avanti questo programma una volta al potere – con mosse come l’eliminazione del potere di ostruzionismo del senato e la riduzione del potere dei tribunali.

Il futuro della politica statunitense è fosco: è difficile non immaginare, come fa Zack Beauchamp di Vox, una continua instabilità, una mancanza di fiducia nelle elezioni, un congresso bloccato e la crescita di gruppi estremisti. Può darsi che quelli del 6 gennaio 2021 siano stati dei disordini e non un colpo di stato. Ma ci saranno molti altri disordini in futuro, se la sinistra non troverà un modo per risolvere le contraddizioni che affliggono la società statunitense. E se questo non accadrà, lo spettro della destra che rompe l’impasse attraverso misure autoritarie diventerà molto più presente.

Per ora, comunque, il problema non è che la democrazia statunitense stia per essere rovesciata. Bensì che gli Stati Uniti non sono, tanto per cominciare, una grande democrazia. Abbiamo bisogno di crearne una in cui la gente possa credere.

*(Bhaskar Sunkara, direttore di Jacobin. Traduzione di Federico Ferrone)

 

10 – DAL MONDO.

 

KAZAKISTAN

Il 6 gennaio, su richiesta del presidente Qasym-Jomart Toqaev, circa 2.500 soldati russi e di paesi alleati di Mosca sono arrivati nel paese per contenere le proteste scoppiate in varie regioni contro l’aumento del prezzo del gas. Decine di persone sono morte e centinaia sono rimaste ferite negli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza. Più di tremila persone sono state arrestate.

FILIPPINE

Il 6 gennaio è entrata in vigore nel paese una legge che vieta i matrimoni minorili. In base alla nuova normativa, chi sposa o convive con una persona minorenne rischia una condanna fino a dodici anni di prigione, come anche chi celebra o contribuisce a formare un’unione di questo tipo. Secondo le stime, una donna filippina su sei si sposa prima di aver compiuto diciotto anni.

STATI UNITI

In un discorso tenuto nella sala delle statue del Campidoglio di Washington nel primo anniversario dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, il presidente statunitense Joe Biden ha attribuito la responsabilità delle violenze al suo predecessore Donald Trump. Biden ha accusato l’ex presidente di “aver cercato d’impedire un trasferimento pacifico del potere” alimentando “un’insurrezione armata”.

HAITI

Il 6 gennaio due giornalisti haitiani, Wilguens Louissaint e Amady John Wesley, sono stati uccisi in un quartiere di periferia della capitale Port-au-Prince. Da mesi alcuni gruppi armati si contendono il controllo del quartiere Laboule 12. La crisi politica in corso nel paese è stata aggravata dall’omicidio del presidente Jovenel Moïse, avvenuto sei mesi fa.

MESSICO

I corpi di dieci persone sono stati trovati il 6 gennaio in un’automobile parcheggiata davanti alla sede del governo regionale nello stato di Zacatecas, nel centronord del paese. Il governatore David Monreal Ávila ha affermato che due persone sono state arrestate. Nello stato è in corso un conflitto tra i cartelli della droga Sinaloa e Jalisco nuova generazione.

SUDAN

Il 6 gennaio tre persone sono state uccise dalle forze di sicurezza durante una serie di manifestazioni a Khartoum contro la giunta militare al potere dal colpo di stato del 25 ottobre. Poche ore prima il governo statunitense aveva chiesto al capo della giunta Abdel Fattah al Burhan di “mettere fine all’uso della forza contro i manifestanti”. Almeno sessanta persone sono morte finora nella repressione.

 

11 – Andrea Carugati*: IL PRESSING SU DRAGHI CONTINUA: «DEVE RIMANERE A PALAZZO CHIGI» LA CORSA. CONSIGLI AL PREMIER DA MACRON A GOLDMAN SACHS. SALVINI: RESTIAMO AL GOVERNO SE RESTA LUI.

Il bombardamento di Matteo Salvini sul governo, dopo le misure anti Covid ora il nucleare – alimenta nei palazzi i sospetti di uno sganciamento leghista dalla maggioranza. Ieri il segretario della Lega è tornato alla carica ribadendo che «l’Italia ha bisogno di gas e nucleare pulito per aiutare famiglie e imprese a pagare bollette meno care, non ci servono dei No ideologici». Quelli di Pd e M5S, s’intende. Quanto a Draghi, Salvini si è detto sicuro che il premier e il ministro Cingolani Siamo sicuri che il premier «sosterranno l’impostazione della Commissione europea e di altri governi, da quello francese a quello finlandese» a favore dell’atomo.

QUESTO BOMBARDAMENTO, unito alle recenti frasi di Giorgetti sulla «fine di questa esperienza di governo» ha creato un clima così surriscaldato da far ricordare la vigilia del Papeete 2019, quando la Lega mise fine al governo Conte 1. Tanto che, a un certo punto, Salvini è stato costretto a far una uscire una velina secondo cui «non sta progettando alcuna uscita dal governo: la Lega intende rimanerci, con Mario Draghi a Palazzo Chigi, per completare il lavoro».

Le stesse fonti leghiste spiegano però che è necessario un cambio di marcia su alcuni temi a partire dall’immigrazione». Parole che non nascondono il profondo malessere di queste ore attorno al dilemma sul trasloco di Draghi al Quirinale e al nuovo governo che dovrebbe sostituire l’attuale.

Se da molte fonti trapela l’idea di un gentlemen agreement che prevederebbe la nascita di un governo politico a guida Pd con il passaggio della Lega all’opposizione (ipotesi caldeggiata da Giorgetti), da via Bellerio ricordano che «il nostro partito ha una radicata tradizione di governo» e «quando Salvini è stato vicepremier e ministro la Lega ha saputo raddoppiare i consensi nel giro di un anno». Un’altra era geologica. Il dato di fatto è che Salvini sta cercando di frenare l’ascesa del premier al Quirinale, preparandosi a lasciare la maggioranza nel caso in cui invece Draghi venga eletto capo dello Stato.

 

COMPLICE L’ACUIRSI della pandemia, il trasloco del premier continua a trovare ostacoli. Ieri persino il presidente francese Macron, durante una conferenza stampa con la numero uno dell’Ue Ursula Von der Leyen, è intervenuto nel dibattito italiano spiegando che «oggi abbiamo molta fortuna ad avere un presidente della Repubblica e un presidente del consiglio italiani cosi coraggiosi, europeisti ed amici della Francia. È una opportunità per la Francia e per tutti noi».

 

SULLA STESSA LINEA GOLDMAN Sachs in un report dedicato all’Italia dal titolo molto esplicito: «Draghi: should I stay or should I go». Il report della banca d’affari, di cui il premier è stato vicepresidente, contiene un consiglio per Draghi: rimanga dove sta. La sua uscita da palazzo Chigi infatti «scatenerebbe incertezza circa il nuovo governo e l’efficacia della sua politica», con il rischio di impatti negativi sull’utilizzo delle risorse e l’implementazione delle riforme legate al Recovery Fund.

 

LA PROSSIMA SETTIMANA porterà la discussione sul Quirinale nel vivo: lunedì Conte riunirà i parlamentari 5 stelle, martedì la segreteria del Pd (due giorni dopo ci sarà la direzione allargata ai gruppi di camera e senato), venerdì 14 il vertice del centrodestra con Berlusconi. Sul Cavaliere resta forte il pressing di Gianni Letta per un passo indietro a favore di Draghi, magati dopo aver verificato nelle prime tre votazione di non avere i 504 voti necessari per salire al Colle. Ma su Berlusconi, desideroso di una pubblica riabilitazione dopo la decadenza da senatore del novembre 2013, è difficile fare previsioni: di sicuro terrà su di sé i riflettori fino all’ultimo minuto utile.

SUL TEMA DEL CONGELAMENTO dello status quo (che prevede la rielezione di Mattarella), continua a pesare la volontà del capo dello Stato di non replicare il precedente di Napolitano. L’ipotesi potrebbe riprendere quota solo nel caso in cui l’emergenza Covid dovesse precipitare. Ma anche nel caso di enormi difficoltà nelle votazioni (per la presenza di molti grandi elettori malati o in quarantena9 , è più probabile che si vada verso la prorogatio di Mattarella per alcune settimane che verso la rielezione.

*( Andrea Carugati. Giornalista, laureato in Comunicazione politica, dopo alcuni anni all’Unità dal al 2014 scrive di politica per Huffingtonpost Italia)

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