Alfiero Grandi. Cambiare le regole del patto di stabilità europeo è necessario al PNRR

di Alfiero Grandi

All’inizio in sordina, tra gli addetti ai lavori, ora in modo sempre più evidente si sta aprendo la discussione tra gli stati europei sul futuro delle regole del patto di stabilità. Dopo il trattato di Maastricht (1992) si arrivò al patto di stabilità e crescita nel 1997, con un’impostazione segnata da un’egemonia tedesca ispirata da una concezione liberista dell’austerità, ben poco solidale con gli stati in maggiore difficoltà. Il patto di stabilità fu concepito come condizione per arrivare all’Euro. La vittima più illustre del modello di austerità dieci anni dopo fu la Grecia, la cui crisi fu gestita dall’Europa sulla base di scelte che fecero pagare a quel paese prezzi sociali altissimi. La Grecia ebbe la sfortuna di diventare protagonista, suo malgrado, di una cura di austerità senza precedenti, per di più di esempio ad altri, Italia in testa. Solo dopo averne constatato l’esito disastroso la cura di austerità alla Grecia fu oggetto di ripensamenti. Non sempre sinceri.

Il Patto di stabilità conteneva già nel titolo l’obiettivo della crescita, come più volte ricordato da Ciampi con poca fortuna. Crescita che venne di fatto ignorata a favore della stabilità. Il governo Berlusconi, insediato dopo la vittoria elettorale del centrodestra nel 2008 con una maggioranza parlamentare schiacciante, dovette cedere il passo nel 2011 al governo Monti sotto la pressione di uno spread fuori controllo del debito pubblico italiano rispetto alla Germania. Per diverse ragioni altri paesi trovarono conveniente raggiungere intese bilaterali di fatto con la Germania, ad esempio la Francia. Le regole di austerità non bastavano mai e quindi furono approvate ulteriori norme, sotto la fattispecie di modalità attuative del patto di stabilità, attraverso accordi del 2011 che hanno nomi come six Pack e Two Pack. Una ulteriore stretta sulla base di un’interpretazione restrittiva delle regole del patto di stabilità.

Il patto di stabilità prevedeva regole pesanti come il 3% di deficit annuo, il 60% nel rapporto Debito pubblico /Pil, a cui si aggiunsero le ulteriori strette inserite nelle regole attuative, accettate dagli stati. In particolare il Debito pubblico superiore al 60% doveva rientrare di un 5% l’anno in venti anni. In Italia questo portò il governo Monti a scaricare soprattutto sui pensionamenti le misure restrittive di bilancio, per mettere in sicurezza i conti pubblici italiani, dopo il deragliamento prodotto dal centrodestra, con conseguenze sociali che ancora oggi non hanno trovato rimedi adeguati. Nello stesso tempo la larga maggioranza parlamentare che sosteneva il governo Monti approvò la modifica dell’articolo 81 della Costituzione, giornalisticamente definito impegno al pareggio di bilancio. Questa modifica della Costituzione fu un eccesso di zelo, tanto che proprio i partiti protagonisti di questo sbrego costituzionale successivamente non ne hanno mai rispettato le conseguenze.

Il gattopardo riprese quota e sotto le insegne di un riconoscimento formale degli impegni costituzionali vennero approvate anno dopo anno manovre di bilancio gonfiate ad arte che portavano a sforare regolarmente gli obiettivi. In sostanza c’era un non detto. Per sfuggire alla tragica esperienza della Grecia da un lato c’è stato l’omaggio formale alle regole europee e alla nuova versione dell’articolo 81, dall’altro emergeva la consapevolezza che gli obiettivi dichiarati solennemente non sarebbero stati raggiunti.

In anni più recenti qualcosa è cambiato. La Brexit ha reso concreto il fantasma della possibile fine dell’Europa. La crescita insufficiente dell’Europa già prima del Covid ha messo in luce serie difficoltà. La pandemia che ha messo in ginocchio la salute e l’economia, in particolare alcuni paesi più gravati come l’Italia, ha reso evidente che i peggiori fantasmi potevano materializzarsi, spingendo i gruppi dirigenti europei ad avere più coraggio non solo nel difendere l’Euro ad ogni costo ma soprattutto a rendere possibile una solidarietà straordinaria in un momento straordinario di difficoltà per tutti ma in particolare per alcuni paesi come il nostro.

In sostanza il gattopardo non bastava più. Fingere di rispettare i parametri e fingere che non fossero stati raggiunti per cause di forza maggiore era una risposta inadeguata alla profondità della crisi in alcuni paesi, a partire dall’Italia. Da qui le misure di sostegno attraverso il contenimento dei tassi per il debito pubblico con massicci acquisti da parte della Bce. La Bce ha continuato con Lagarde la linea di Draghi, ma sostenere attraverso i tassi non basta e si è arrivati al Next Generation EU e quindi al PNRR, un sostegno consistente dell’Europa alla ripresa dell’Italia. Il PNRR ha una durata di erogazione prevista fino al 2026. 5 anni per fare investimenti consistenti che si aggiungono alle risorse nazionali e agli altri fondi settoriali europei. È la prima volta che si raccolgono risorse europee per dividerle in modo diseguale a favore dei paesi in maggiore difficoltà.

È la prima volta che c’è un intervento europeo solidale. Ma è altrettanto ovvio che ogni paese deve mettersi al lavoro al meglio delle sue energie e ancora siamo lontani da questo risultato. Basta pensare che il Ministro della Transizione ecologica si trastulla con dichiarazioni prive di fondamento sul nucleare ma ancora non ha presentato un piano per le energie rinnovabili, tutte, per mettere in moto investimenti, lavoro, risultati in un settore cruciale, a cui giustamente la Commissione tiene molto.

Anzi l’Italia rischia di essere tra i frenatori sul clima rispetto alle proposte della Commissione europea, per una volta coraggiose, come quelle del progetto FIT for 55 che tracciano un percorso impegnativo per cambiare in profondità il modello di sviluppo, ad esempio proponendo che cessi lo sfruttamento di nuovi giacimenti di fossili e che dal 2035 non vengano più prodotte auto con motore a scoppio. Non sono obiettivi da poco, ma senza coraggio il cambiamento climatico diventerà irreversibile e i costi umani, sociali, ambientali, finanziari saranno enormi, basta guardare a cosa accade ai ghiacciai nella più grande isola del pianeta, la Groenlandia. L’Italia dovrebbe essere in testa nel cambiamento e nell’innovazione, ma per ora non lo è.

In verità Cingolani non è l’unico ministro che appare timido, incerto, non adeguato. Tocca chiedere ancora una volta a Draghi di dedicare più attenzione ad un progetto paese, mettendo al lavoro i suoi ministri per realizzare obiettivi, non per fare confusione. Non si può procedere per bandi senza sapere come si connettono tra loro, a cosa servono. Mentre l’Italia e l’Europa si debbono proiettare nel futuro con tutto il loro impegno sta arrivando la fine della sospensione temporanea delle regole europee. Alla fine del 2022 la sospensione finirà e potrebbero tornare in vigore le vecchie regole di bilancio, un disastro. Anzitutto bisogna iniziare subito a chiedere che le regole entrino in funzione solo quando saranno state cambiate.

Otto governi hanno messo le mani avanti e chiedono di mantenere le regole precedenti. Per di più per cambiare i trattati occorre l’unanimità perché l’Europa si è allargata senza cambiare questa regola assurda. È come se la velocità di un veicolo venisse calcolata sulla ruota di scorta. È in corso un lavorio per cercare soluzioni, il più accreditato sembra essere lasciare le vecchie regole del patto di stabilità e modificare le modalità attuative (Six pack e Two pack). Sembra un passo indietro notevole se confrontato con le speranze suscitate dal Next Generation Eu per il clima e la ripresa. L’Europa ha bisogno di un segnale forte per riconoscersi come identità nel mare procelloso dell’economia mondiale, perfino nei contraccolpi che avrà la crisi afghana.

Comunque la questione di fondo è evitare di arrivare a fine 2022 con il problema non risolto e sarebbe di grande importanza durante la gestione iniziale del Next Generation EU non dovere guardare con angoscia il conto alla rovescia sul ritorno delle regole precedenti. Le regole del patto di stabilità vanno cambiate prima possibile. Va reso chiaro il nuovo quadro di riferimento prima possibile e c’è da sperare che le elezioni tedesche di fine settembre daranno un impulso positivo.

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