2 Maggio 2020 – NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO ed ALTRE COMUNICAZIONI

01 – Schirò (Pd): accolto dal governo il mio invito ad estendere l’uso delle piattaforme digitali per la didattica a distanza anche alle scuole all’estero e agli enti gestori.

02 – Grandi. Ispirarsi alla liberazione e’ necessario per affrontare la pandemia che sta causando lutti e crisi sociale al nostro paese, buon 25 aprile a tutti noi,

03 –  Il ruolo rimosso delle donne nella resistenza di Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale 25  aprile 2019.

04 – La Marca (Pd). Il 25 aprile per ogni sincero democratico non è mai stata una ricorrenza rituale, ma l’occasione per rinnovare il patto di libertà che lega gli italiani e che nella Costituzione repubblicana ha trovato la sua più alta espressione in termini di democrazia, di uguaglianza tra le persone e di giustizia sociale.

05 – La Marca (Pd) – inserire le camere di commercio all’estero nei piani operativi per l’internazionalizzazione: accolto il mio ordine del giorno.

06 – Alfiero Grandi. Sinistre, coronavirus e sistema sanitario per il futuro

07  – Il primo maggio e le tre pandemie in corso.

08 -Christine Lagarde (Bce): «Siamo determinati ad affrontare la crisi, credetemi.

09 – Che Repubblica in mano alle destre

10 – 1992 LA RAGAZZINA CHE ZITTÌ IL MONDO.

11 – Arundhati Roy. L’altra pandemia . Oggi chi può usare l’espressione “è diventato virale” senza rabbrividire un po’?

12 – Joseph Stiglitz, economista. I paesi poveri hanno troppi debiti

13 – CORONAVIRUS | Sottosegretario Merlo: “Rientrati il 90% degli italiani bloccati all’estero, prezioso lavoro della Farnesina”

14 – Sottosegretario Merlo: “Dal governo 5 milioni di euro per gli italiani all’estero” “E’ un atteggiamento che dimostra quanto abbiamo ben chiaro in testa che, oltre confine, esiste una comunità di italiani che non sono di serie B, e a cui bisogna prestare la giusta attenzione”

 

 

01 – SCHIRÒ (PD): ACCOLTO DAL GOVERNO IL MIO ODG INVITO AD ESTENDERE L’USO DELLE PIATTAFORME DIGITALI PER LA DIDATTICA A DISTANZA ANCHE ALLE SCUOLE ALL’ESTERO E AGLI ENTI GESTORI , ROMA, 24 APRILE 2020 . Il Governo, in occasione dell’approvazione alla Camera del Decreto “Cura Italia”, ha accolto il mio ordine del giorno ad estendere le provvidenze previste per l’uso delle piattaforme per la didattica a distanza anche agli istituti e agli enti che assicurano la promozione linguistica e culturale dell’Italia nel mondo. Con il Decreto, infatti, si è incrementato di 85 milioni il Fondo per l’innovazione digitale e la didattica laboratoriale, destinandoli “a consentire alle istituzioni scolastiche statali di dotarsi – o di potenziare – degli strumenti digitali utili per l’apprendimento a distanza, di mettere a disposizione degli studenti meno abbienti in comodato d’uso dispositivi digitali individuali per la fruizione delle piattaforme, di formare il personale scolastico sulle metodologie e le tecniche per la didattica a distanza”.

Nel mio ordine del giorno ho ricordato che il Decreto legislativo n. 64, che disciplina la scuola italiana all’estero, include nel sistema formativo nazionale anche il sistema della formazione italiana nel mondo. Tale sistema si articola in scuole statali all’estero; scuole paritarie all’estero; altre scuole italiane all’estero; corsi promossi dagli enti gestori e lettorati.

L’espansione globale della pandemia ha determinato anche in altri paesi la chiusura dei corsi in presenza, trasformati in corsi a distanza dove gli istituti e gli enti gestori, con uno sforzo e un impegno di cui va dato atto, hanno avuto la possibilità di farlo. Ma oltre a sostenere un carico organizzativo e finanziario imprevisto, essi si sono trovati di fronte, come in Italia, a utenti e famiglie che non dispongono a casa di apparecchiature elettroniche adatte. Non c’è ragione, dunque, che lo sforzo fatto per istituti e alunni in Italia non sia esteso anche a chi è inserito nello stesso percorso formativo, ma all’estero.

Questo è particolarmente vero e necessario per gli enti gestori di lingua e cultura italiana nel mondo, per i quali la conversione dell’ordinaria didattica in didattica a distanza è considerata un elemento di differenziazione dell’entità delle anticipazioni sul contributo per il 2020 che deve essere loro concesso.

Colgo l’occasione, a questo proposito, per invitare gli uffici del MAECI a superare questa diversità di trattamento, che mette in difficoltà proprio i più deboli, con il rischio del fermo delle loro attività.

Si tratta, ora, di fare in modo che il Ministero dell’istruzione e il MAECI si coordinino al più presto sulle modalità di estensione delle misure e sull’uso delle risorse, evitando atteggiamenti di scaricabarile e, soprattutto, che la formazione in italiano all’estero, come tante volte è accaduto, torni ad essere figlia di un dio minore.

Angela Schirò – Deputata PD – Rip. Europa – Camera dei Deputati

 

02 – ISPIRARSI ALLA LIBERAZIONE E’ NECESSARIO PER AFFRONTARE LA PANDEMIA CHE STA CAUSANDO LUTTI E CRISI SOCIALE AL NOSTRO PAESE, BUON 25 APRILE A TUTTI NOI, di Alfiero Grandi. Il 25 aprile è una data fondamentale dell’Italia democratica e repubblicana. Il 25 aprile è una data fondamentale dell’Italia democratica e repubblicana. La sconfitta del nazifascismo dovuta agli alleati e alla Resistenza italiana, che ha riscattato la vergogna del regime fascista, che aveva portato il nostro paese in guerra a fianco dei nazisti, è una data da ricordare oggi più che mai. L’orgoglio della vittoria del 25 aprile del 1945 deve vivere nella coscienza delle persone tanto più ora che si ripresentano tentativi negazionisti che cercano di mettere sullo stesso piano chi era dalla parte giusta e chi stava dalla parte sbagliata. La pietà per i caduti è una cosa, la negazione della verità è una menzogna, che in realtà punta a tentativi di riabilitazione e rinascita neofascista. Senza dimenticare che dalla Liberazione, il 25 aprile 1945, è nata la fase politica costituente della nostra democrazia, il cui architrave è la Costituzione entrata in vigore il 1 gennaio 1948, che sancisce i principi di fondo della nostra convivenza politica e sociale, la cui importanza dovrebbe essere riconosciuta da tutti con ben altro vigore.  Oggi la festa della Liberazione avverrà, per forza di cose, in modo diverso. Il coronavirus costringe tutti a rispettare regole severe di distanziamento per impedire la diffusione di questa grave pandemia. Anche il 25 aprile dovrà essere ricordato con modalità adatte al periodo, per questo da casa possiamo manifestare la nostra partecipazione ideale al 25 aprile 2020, anche facendo risuonare bella ciao alle 15, come indicato dall’Anpi e che ha segnato l’inizio della manifestazione nazionale del 25 aprile a Milano.

La pandemia ha colpito pesantemente la salute dei cittadini italiani e ha portato ad un numero di morti altissimo e non è finita, a cui si aggiungeranno quelli per ora catalogati diversamente perchè sono morti nelle residenze per anziani. Il commissario Arcuri ha ricordato che nei 5 anni della seconda guerra mondiale a Milano morirono 2000 persone sotto i bombardamenti, mentre finora in Lombardia ne sono morte già 12500. Le conseguenze economiche di questa pandemia sul nostro paese sono enormi: disoccupazione, povertà in rapida espansione, redditi evaporati, imprese chiuse, attività economiche in ginocchio. Per questo l’Europa è di fronte ad una prova decisiva. Diversi paesi hanno avuto conseguenze pesantissime dalla pandemia e quelli che hanno deficit pubblici più alti hanno bisogno di un sostegno forte per affrontare una prova così impegnativa. Ha ragione chi ha sostenuto che se l’Europa non riuscisse a dare un segnale di solidarietà e di sostegno a chi più ha bisogno si aprirebbe una fase difficile, che potrebbe finire con il mettere in causa l’esistenza stessa dell’Unione, perché è di fronte a prove come questa che occorre dare risposte all’altezza. La riunione dei capi dei governi europei di giovedi 23 aprile ha segnato dei passi avanti, rendendo disponibili all’inizio di giugno le risorse di 4 filoni di intervento come la Banca europea degli investimenti, come il Sure, come il Mes, meccanismo che era stato immaginato per salvare gli stati in difficoltà finanziarie, e come la Bce la cui potenza di intervento è attualmente la maggiore, ma ha bisogno per funzionare appieno di intrecciarsi con gli altri strumenti e soprattutto con la formula del recovery fund.

SI TRATTA DI 540 MILIARDI DI EURO DI PRESTITI EUROPEI, DISPONIBILI DAL 1 GIUGNO, PER I PAESI PIÙ IN DIFFICOLTÀ.

Il recovery fund è la mediazione trovata per altri più consistenti interventi a fianco di quelli precedenti, visto che c’è una contrarietà di alcuni paesi agli eurobonds anche nella versione light, tuttavia è un’ipotesi ancora da costruire. Questa volta si è andati oltre la formula pressochè incomprensibile scritta nel documento dell’eurogruppo il 9 aprile scorso. Questa volta si cita esplicitamente il recovery fund, sottolineando che è necessario ed urgente, deve essere forte e rivolto ai settori e alle aree geografiche più colpite dalle conseguenze della pandemia. La proposta è quindi un intervento forte, la cui definizione è affidata alla Commissione europea, visto che il suo finanziamento dovrebbe venire proprio da un uso delle risorse del bilancio dell’Unione. La Commissione europea dovrà definire quindi il volume di intervento ricorrendo direttamente al mercato sulla base del bilancio europeo, che nel frattempo andrà aumentato con il contributo degli stati membri, e quanto verrà dato a fondo perduto e quanto come prestito. La Presidente della Commissione ha parlato di un salomonico 50 e 50. C’è ancora il tempo per comporre tutte le misure in un quadro unitario, almeno di decisioni, tra le disponibilità a breve del Mes, del Sure e della Bei, gli interventi della Bce, che ha reso più forte la rete di protezione con l’accettazione dei titoli a bassa valutazione, e infine il recovery fund. 

Se il quadro dei diversi strumenti verrà composto unitariamente potranno essere date le risposte alle varie preoccupazioni in forza dei legami individuati. Altrimenti tutto sarà più complicato.

Il 6 maggio è abbastanza vicino e il consiglio europeo ha ancora il tempo di chiarire quello che per ora non è chiarito. Tuttavia c’è una preoccupazione in questa attesa delle decisioni conclusive dell’Europa. Si rischia una torsione impropria. E’ ovvia la loro importanza, tuttavia questo ci impone di dare risposte chiare a livello nazionale, che non possono essere solo l’attesa delle decisioni europee. Si è detto che dopo la pandemia non ci sarà un mero ritorno al prima, tuttavia questo impone di delineare il dopo, altrimenti ci si affiderebbe alla capacità automatica del sistema che, soprattutto oggi, non sarebbe sufficiente.

QUALCHE ESEMPIO.

C’è bisogno comunque di risorse che vanno prese da chi ha disponibilità per essere messe a disposizione di chi ne ha bisogno e all’interno c’è bisogno di un intervento importante per contrastare il rischio che si allarghi a dismisura la povertà. Una parte sono risorse da evasione, un’altra parte possono essere prestiti, altre ancora sono risorse da recuperare con una tassazione su redditi alti e ricchezze. Scansare l’argomento è un errore. In altre parole occorre mettere mano al sistema fiscale e costruire una diversa modalità di gestione del debito pubblico sul modello tedesco.

C’è bisogno di una guida pubblica per realizzare le innovazioni come gli investimenti pubblici su ambiente, le strutture scolastiche da preparare e sistemare, il territorio. In passato c’era un ministero per la programmazione, oggi chi si occuperà di indicare il quadro degli obiettivi ? Pensiamo ad un punto contenuto nelle conclusioni europee di ieri: dotarsi delle produzioni necessarie nel territorio europeo, oggi decentrate altrove, a partire dalle attrezzature sanitarie. Riportare attività in Italia è una scelta di fondo. Conviene inoltre pensare ad una struttura dedicata al governo unitario delle partecipazioni pubbliche, uscendo da una fase di detto, non detto, di ambiguità. Bisogna decidere cosa serve e attuarlo.

C’è bisogno di identificare i beni pubblici essenziali: strutture di cura, non solo ospedali, rilanciando un Servizio Sanitario Nazionale pubblico, unico e solidale, garantire l’istruzione fino al massimo livello, operare per una vecchiaia serena, sconvolta drammaticamente dalla pandemia, così ambiente, cura del territorio, ecc.

Ci sono anche altri punti come il riordino del settore pubblico con l’obiettivo di ottenere efficacia adeguata, del resto i sanitari che si sono battuti in prima linea contro la pandemia sono il riferimento di impegno e abnegazione necessari.

Quello che conta è prendere coscienza che non possiamo restare solo in attesa della decisione europea, per quanto decisiva. Occorre preparare la ripresa su basi di qualità nuova, per delineare un’Italia diversa e migliore in un’Europa diversa e migliore, più vicina al sogno europeo di Ventotene. Alfiero Grandi

 

03 –  IL RUOLO RIMOSSO DELLE DONNE NELLA RESISTENZA DI ANNALISA CAMILLI, giornalista di Internazionale, 25 aprile 2019. LA STATUA DELLA PARTIGIANA GIULIA LOMBARDI, UCCISA A 22 ANNI DAI FASCISTI NEL 1944, È STATA INCENDIATA NELLA NOTTE TRA DOMENICA 21 E LUNEDÌ 22 APRILE 2019 A VIGHIGNOLO, UNA FRAZIONE DI SETTIMO MILANESE. Il monumento dedicato alla staffetta partigiana, realizzato in legno di noce, era stato inaugurato pochi giorni prima, il 14 aprile 2019, dalla sezione locale dell’Anpi.

“Questo ennesimo atto provocatorio si inquadra nelle sempre più inquietanti e diffuse manifestazioni e iniziative neofasciste che offendono la memoria di chi ha sacrificato la propria giovane vita per la libertà di tutti noi”, ha commentato in una nota il presidente del comitato provinciale di Milano dell’Anpi, Roberto Cenati. Si trattava di uno dei pochi riconoscimenti del ruolo delle donne nella resistenza italiana, di solito trascurato dalla storiografia e dalle istituzioni.

LA RESISTENZA TACIUTA

Secondo alcune stime le donne che hanno partecipato alla resistenza sono state settantamila, ma probabilmente sono molte di più. Tuttavia il loro ricordo è entrato solo recentemente nella storia ufficiale della resistenza italiana. “Dopo la fine della guerra, direi a partire dal 1948, c’è stato una specie di silenzio generale sulla resistenza femminile”, afferma la storica Simona Lunadei, autrice di molti testi sull’argomento tra cui Storia e memoria. Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni 80. “Questo perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimentato un’emancipazione di fatto dai ruoli tradizionali”, afferma la storica. Uno degli pochi documentari sull’argomento fu quello di Liliana Cavani, Le donne nella resistenza del 1965 e il romanzo L’Agnese va a morire di Renata Viganò pubblicato nel 1949.

“A PARTIRE DAGLI ANNI SESSANTA, CON LE LOTTE PER L’AUTODETERMINAZIONE FEMMINILE E I CAMBIAMENTI PROFONDI IN CORSO NELLA SOCIETÀ, SI COMINCIÒ A RIVENDICARE UN RUOLO PER LE DONNE CHE AFFONDASSE ANCHE NELLA STORIA DELLA REPUBBLICA E NELLA RESISTENZA”.

Molte donne che hanno partecipato alla resistenza non hanno chiesto un riconoscimento perché sentivano di aver fatto solo il loro dovere.

Nella maggior parte dei casi le partigiane hanno fatto le staffette: portavano cibo, armi, riviste, materiali di propaganda. Rischiavano la vita, torture e violenze sessuali. Ma non erano armate, quindi non si potevano difendere. Molte donne inoltre hanno avuto ruoli di protezione dei partigiani: li nascondevano, li curavano, portavano loro i viveri nei nascondigli, si preoccupavano della loro sopravvivenza. Altre, in numero minore, hanno partecipato direttamente alla lotta armata.

“Non sarebbe stata possibile la resistenza senza le staffette, tuttavia dopo la guerra poche donne chiesero di essere riconosciute come partigiane”, racconta la storica. Si poteva essere riconosciute come partigiane solo se si aveva partecipato alla lotta armata per almeno tre mesi all’interno di un gruppo organizzato riconosciuto. “Se una donna faceva la staffetta difficilmente poteva documentare la sua attività partigiana, questo ha significato che pochissime sono state riconosciute come partigiane e sono entrate nel Pantheon della resistenza” . Poi c’è un altro elemento, secondo Lunadei. “Molte delle donne che hanno partecipato alla resistenza non hanno chiesto un riconoscimento perché hanno dichiarato che sentivano di aver fatto solo il loro dovere”.

IL TABÙ DELLE ARMI

Le donne che hanno ricevuto medaglie d’oro al valore per le loro azioni durante la resistenza sono state solo diciannove: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu.

Inoltre le donne che hanno partecipato direttamente alla lotta armata hanno dovuto affrontare grandi ostacoli nelle stesse brigate partigiane a cui appartenevano. Nel libro in cui raccoglie le sue memorie, Con cuore di donna, Carla Capponi, figura centrale della resistenza romana, vicecomandante dei Gap (Gruppi di azione patriottica), racconta per esempio che i suoi compagni non volevano concederle l’uso della pistola e per questo fu costretta a rubarla su un autobus affollato e anche in questo caso i compagni provarono a sottrargliela.

“IL PROBLEMA È IL TABÙ DELLE DONNE CHE ESERCITANO LA VIOLENZA, CHE OVVIAMENTE ERA MOLTO FORTE IN UN CONTESTO CULTURALE TRADIZIONALISTA COME QUELLO ITALIANO. RICONOSCERE ALLE DONNE LA POSSIBILITÀ DI ESERCITARE LA VIOLENZA ARMATA AVREBBE SIGNIFICATO RICONOSCERE UN’UGUAGLIANZA DI GENERE”, AFFERMA LUNADEI. “LE POCHISSIME DONNE A CUI ALLA FINE FU CONSENTITO L’USO DELLE ARMI HANNO SEMPRE RACCONTATO IN SEGUITO I PROBLEMI CHE QUESTO CREAVA LORO, IN TERMINI CULTURALI E PRATICI”. 

Tuttavia a partire degli anni novanta, secondo la storica, le donne che hanno partecipato direttamente alla resistenza italiana, anche con ruoli di responsabilità, hanno cominciato a parlarne pubblicamente e , anche grazie al lavoro di molte storiche, a essere intervistate e a scrivere dei libri e delle memorie. Molte di loro scrissero delle autobiografie tra queste: Libere sempre di Marisa Ombra, Con cuore di donna di Carla Capponi, Portrait di Joyce Lussu, La ragazza di via Orazio di Marisa Musu, Autobiografia di Maria Teresa Regard.

“Anche figure importanti come Marisa Ombra, Marisa Rodano, Lucia Ottobrini, Marisa Musu, Carla Capponi, Maria Teresa Regard hanno aspettato gli anni novanta per cominciare a parlare di quello che avevano vissuto”, racconta Lunadei. “La memoria è strettamente collegata alle categorie concettuali del momento storico in cui è espressa. E non si può non fare una riflessione su questo processo anche collettivo che ha permesso a queste donne straordinarie di raccontare le loro storie solo in un determinato momento storico, cioè molto tardi”, spiega la storica. “Solo alla fine della guerra fredda, per esempio, Lucia Ottobrini ha potuto dire la sua avversione per le truppe alleate che avevano bombardato le popolazioni civili facendo molte vittime. Prima ovviamente questa parte del racconto non poteva essere riportata”.

Una storia emblematica è proprio quella del riconoscimento al valore assegnato a Lucia Ottobrini. Ottobrini è una figura centrale della resistenza romana, entrò l’8 settembre 1943 nella lotta armata e partecipò direttamente a diverse importanti azioni contro i nazifascisti. Nella primavera del 1944 da capitano diresse una divisione di partigiani che avevano la missione di difendere una centrale idroelettrica dagli attacchi tedeschi. Per questo e altri episodi della resistenza romana nel 1956 fu insignita della medaglia d’argento al valor militare. Si racconta che il ministro della difesa dell’epoca, Paolo Emilio Taviani, mentre le consegnava la medaglia le domandò: “Lei è la vedova del decorato?”.

“Fu il presidente vietnamita Ho Chi Minh a riconoscere il valore di Lucia Ottobrini, a lungo impegnata per i movimenti di liberazione anticoloniale. A partire da questo riconoscimento all’estero si cominciò a parlare della sua figura”, spiega Lunadei. La Società italiana delle storiche e gli istituti storici della resistenza hanno fatto un lavoro di ricerca importante a partire dalla fine degli anni ottanta, che ha spinto molte protagoniste della resistenza a condividere le loro memorie e a renderle pubbliche.

“C’è un lavoro che ancora andrebbe fatto: dovremmo ricostruire i fili biografici di queste donne – che in molti casi purtroppo sono già scomparse – per permetterci di raccontare quello che finora è stato taciuto. Carla Capponi per esempio non è soltanto una donna coraggiosa che riesce a diventare vicecomandante di una divisione dei Gap, è anche una leader che ha organizzato le proteste delle donne nelle borgate romane durante l’occupazione nazista, ma anche dopo, nelle lotte degli anni cinquanta. Carla Capponi è anche questo e forse anche questo va studiato e capito”, conclude la storica.

 

 

04 – IL 25 APRILE PER OGNI SINCERO DEMOCRATICO NON È MAI STATA UNA RICORRENZA RITUALE, MA L’OCCASIONE PER RINNOVARE IL PATTO DI LIBERTÀ CHE LEGA GLI ITALIANI E CHE NELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA HA TROVATO LA SUA PIÙ ALTA ESPRESSIONE IN TERMINI DI DEMOCRAZIA, DI UGUAGLIANZA TRA LE PERSONE E DI GIUSTIZIA SOCIALE.

Per le donne e gli uomini che uscivano dalle devastazioni e dai lutti di una guerra sciagurata, è stata un’affermazione di vita e di speranza per il futuro. Un futuro da costruire con il lavoro, in modo solidale, riconoscendo i diritti della persona e non lasciando nessuno per strada.

È stato anche il passaggio per riconoscere il merito di altri popoli nella riconquista della libertà in Europa e nel mondo. E per noi che da immigrati siamo arrivati in Canada e negli Stati Uniti è anche l’occasione per ringraziare questi Paesi, diventati le nostre seconde patrie, per il contributo che hanno dato alla riaffermazione della libertà e della democrazia e per il sacrificio di vite umane che hanno subito per raggiungere questo scopo.

La vita, la speranza, la solidarietà tra le persone mai come quest’anno sono valori profondamente innestati nei nostri pensieri e nelle nostre attese.  “Siamo in guerra” si sente ripetere in queste settimane, una guerra in cui un nemico sconosciuto e sfuggente insidia la nostra salute e le nostre vite e, nello stesso tempo, intacca il nostro benessere e minaccia il nostro lavoro, la nostra economia, le nostre società.

Vinceremo anche questa volta – ne sono certa – ma non armando i nostri popoli, semmai disarmando la nostra avidità di consumo, la nostra scarsa attenzione per la natura, l’insufficiente cura verso i servizi pubblici, ad iniziare dalla salute, il non adeguato impegno di solidarietà verso i più deboli.

Il messaggio di vita, di speranza e di libertà del 25 aprile sia dunque anche un impegno per una vita nuova, un’affermazione di speranza per un mondo più giusto e rispettoso delle compatibilità, una testimonianza di riacquistata libertà nella sicurezza individuale e collettiva.

Francesca La Marca – On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D. – Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America

 

 

05 – LA MARCA (PD) – INSERIRE LE CAMERE DI COMMERCIO ALL’ESTERO NEI PIANI OPERATIVI PER L’INTERNAZIONALIZZAZIONE: ACCOLTO IL MIO ORDINE DEL GIORNO, 24 APRILE 2020

Il Governo, in occasione del passaggio alla Camera del Decreto “Cura Italia”, ha accolto il mio ordine del giorno nel quale invito a inserire le Camere di Commercio italiane all’estero (CCIE) tra i soggetti attuatori dei piani operativi previsti per il sostegno dell’internazionalizzazione, finanziati dal fondo istituito a tale scopo presso il MAECI.

In questo momento di drammatica emergenza, anche economica, Governo e maggioranza hanno giustamente deciso di dare un impulso più deciso alla presenza delle nostre aziende nel mercato globale e al Made in Italy. A tale scopo, tra l’altro, saranno messe in campo due campagne, rispettivamente di natura informativa e di natura promozionale, che saranno realizzate con il ricorso all’ICE e all’ENIT.

Non c’è ragione per cui le 74 Camere di Commercio italiane all’estero che, lo ricordo, sono presenti in 53 Paesi e associano 20.000 imprese, non debbano concorrere a questo sforzo che il Paese intende compiere, mettendo a disposizione il loro potenziale operativo e di conoscenza delle realtà locali, verso le quali le azioni del nostro Paese si rivolgono.

Sono contenta di questo passo in avanti non per il fatto di vedere riconosciuta una mia iniziativa parlamentare, quanto per la convinzione che mettendo in campo le forze reali che l’Italia ha nel mondo possiamo fare il bene del Paese e contribuire in modo molto significativo a superare le gravi difficoltà che ci troviamo ad affrontare.

Si tratterà ora di verificare che la disponibilità espressa dal Governo trovi effettiva corrispondenza nelle azioni che saranno adottate dalle strutture centrale e periferica del nostro Ministero degli esteri e che tutte le leve di cui l’Italia dispone per rafforzare la sua presenza all’estero siano effettivamente coinvolte e azionate per il bene comune.

On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D.  – Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America

 

 

06 – ALFIERO GRANDI. SINISTRE, CORONAVIRUS E SISTEMA SANITARIO PER IL FUTURO. SEMBRANO ARGOMENTI DISTINTI MA IN REALTÀ HANNO UN RAPPORTO MOLTO STRETTO. LA PANDEMIA HA IMPRESSO UNA VELOCITÀ IMPRESSIONANTE AI CAMBIAMENTI. NON SIAMO FUORI DALLA PANDEMIA.

I dati tuttora dimostrano che il numero dei morti e dei contagiati è ancora impressionante. Pesa un’incertezza di fondo. Non si tratta di una pausa e dopo non si tornerà alla vita precedente.  E’ incerto se verranno trovati sistemi di cura in grado di combattere efficacemente l’infezione e vaccini in grado di prevenirne la diffusione. Sperimentazioni sono in corso, tuttavia per ora sono lodevoli iniziative, che accendono speranze. Nei rivolgimenti di fondo si mettono in moto meccanismi prima inesistenti, cambiano orientamenti, comportamenti, valutazioni. Si delineano pericoli e si aprono opportunità prima impensabili. In altre parole è in corso un cambiamento epocale.

La sinistra alla ricerca di sé stessa finora non ha offerto grandi risultati. Confederare in qualche modo i vertici (l’elenco dei tentativi falliti è senza fine) ? O partire dal basso ? Anche questa via non ha dato grandi risultati, non a caso si accompagna alla convinzione che qualcuno sia l’interprete autentico del percorso. La pandemia, con i suoi problemi irrisolti, lancia una sfida di fondo alla sinistra e pretende risposte radicali, sulla vita, sulla sua salvaguardia.  Da una iattura umana e sociale come la pandemia viene una spinta poderosa e occorre dare risposte, ad esempio quale sistema di cura è indispensabile per garantire a tutti la cura della salute, un diritto costituzionale centrale. Dietro la formula dell’immunità di gregge, di ascendenza malthusiana, si intravvede una differenza di classe e di reddito tra chi verrà curato e chi no, tendenzialmente condannato a soccombere. Al contrario, la risposta alla pandemia, grazie agli operatori sanitari, si è rifatta alle migliori tradizioni di solidarietà e di umanità cristallizzate nella riforma del 1978 che istituì il Sistema sanitario nazionale, dove erano centrali i termini nazionale e sanitario, prevedendo che nel territorio italiano hanno tutti diritto ad essere curati. In parallelo al diritto costituzionale all’istruzione. Il termine sanitario, riferito al SSN, ha il compito di garantire a tutti la salvaguardia della salute, qualcosa di più della cura, aprendo la strada alla prevenzione e alla costruzione di un rapporto equilibrato tra il presidio ospedaliero e il territorio.  Non a caso troppi morti sono dovuti al cedimento, soprattutto in Lombardia, di una sinergia tra ospedale e territorio perché i contagiati confinati in casa erano abbandonati a sé stessi, dopo l’indebolimento della sanità nel territorio, teorizzata da Giorgetti pubblicamente, per di più mandando i medici di famiglia senza protezione a morire infettati.

I punti dolenti della reazione alla pandemia sono quelli di indebolimento del servizio sanitario nazionale e anzitutto la crisi del rapporto tra ospedale e territorio. In Lombardia poi è emerso con chiarezza che la gestione da Formigoni ad oggi ha creato uno squilibrio a scapito del settore pubblico e a favore del privato, che riceve il 40 % delle risorse ma ha brillato per l’assenza nella lotta alla pandemia, da qui ha origine il dramma del ricovero di infettati nelle case di riposo.  Solo dopo un tardivo intervento della regione, qualche terapia intensiva è saltata fuori anche nel privato, in quantità irrilevanti rispetto al carico sul pubblico. E’ la conferma che il ruolo pubblico è fondamentale, per le emergenze e per gli interventi, mentre i privati preferiscono le attività tranquille e lucrative. E’ evidente che siamo arrivati alla graduale formazione di 20 sistemi sanitari regionali diversi tra loro. Addirittura la Lega ha aperto un fronte per l’autonomia regionale differenziata. Proposta partita da Lombardia e Veneto che ha trovato una versione più contenuta ma non più accettabile in Emilia Romagna, a cui sono seguiti altri accodamenti. La Lega sovranista di Salvini paga un tributo pesante alla linea secessionista della Lega delle origini. Le sinistre non sono state capaci di scegliere questo terreno per mettere in evidenza la contraddizione tra il localismo estremista della Lega nord e la vocazione sovranista di Salvini. Anche il governo Conte 2 ha continuato a preparare l’attuazione di questa proposta, in termini diversi ma sempre verso un’autonomia regionale differenziata.

Certo, la riforma del titolo V del 2001 è stata un errore, ma gli errori vanno corretti non attuati. Se fosse già stata attuata l’autonomia regionale differenziata avremmo avuto difficoltà insormontabili nel fronteggiare la pandemia. A questo punto c’è un prima pandemia e un dopo. L’autonomia regionale differenziata va semplicemente archiviata e si deve aprire una discussione in parlamento per rivedere il titolo V, con la netta priorità di ricostruire un sistema sanitario nazionale, con regole da rispettare, iniziative di solidarietà dalle zone più forti verso le zone più deboli. Occorre scrivere con chiarezza che c’è una supremazia nazionale, a partire dagli obiettivi da raggiungere, e il ruolo delle regioni deve restare in questo ambito.  Un ritorno al SSN del 1978 forse non è percorribile, ma neppure è tollerabile la confusione, la sovrapposizione, la polemica continua come è avvenuto in modo stucchevole durante questa emergenza. E’ ridicolo che il commissariamento della sanità avvenga per fare tornare i conti ma non per fare rispettare il cuore del problema. Purtroppo la sanità è stata uno dei bancomat usati per l’austerità, 37 miliardi in meno in 10 anni. I posti letto in Italia sono al livello più basso in Europa, le terapie intensive erano meno di 5000 all’inizio della pandemia, mentre la Germania ne aveva 28000.  Occorre ribaltare la situazione. Prima viene la salute, diritto di rango costituzionale. Ne deve conseguire una legislazione che preveda quanto è necessario per i sistemi di cura, partendo dal territorio e dalla prevenzione, riconnettendo il territorio con l’ospedale e questo con la riabilitazione.  Per troppo tempo è stato accettato un ridimensionamento che ha creato deficit di personale insopportabili. Troppi sono stati condannati a cercare cure altrove, lontano.

Sono stati errori di fondo, da correggere con determinazione.

Errori per subalternità all’austerità e perché lo slittamento verso il privato è diventato sempre più forte, con un peso crescente delle varie forme assicurative che hanno fatto da traino alla crescita del privato. Una forza di pressione enorme. Nella sanità è in corso la penetrazione di gruppi finanziari e di università americane che acquistano cliniche. Non è un processo evidente perché sono strutture già esistenti che mantengono il nome, spesso religioso, ma costituiscono un altro potente motore verso la privatizzazione. I capitali del settore avvertono che l’Italia ha una crisi di identità e puntano a spostare la sanità italiana verso gli Usa. Le deficienze del pubblico favoriscono la spesa dei privati che è ormai 1/3 di tutta la spesa sanitaria.  La pandemia obbliga tutti a un ripensamento strategico, in grado di garantire un’assistenza sanitaria adeguata per tutti e non costruita per classi e ricchezza, altrimenti, come negli Usa, il futuro vedrà una parte rilevante delle persone condannate alla marginalità. È urgente un progetto fondato sul ruolo del sistema pubblico, che ha bisogno di ritrovare il senso della suo ruolo, possibile proprio grazie ai medici, agli infermieri, al resto del personale sanitario che ha garantito una risposta di alto livello, pagando un prezzo inaccettabile perché non messo in condizioni di sicurezza.

Occorre un finanziamento adeguato a garantire un diritto fondamentale, come deve avvenire anche per l’istruzione.

La pandemia può essere la premessa per una selezione classista, per emarginare una parte della società, come avviene negli Usa, oppure per un rilancio consapevole di una società solidale. Anche in altri settori torna con forza la richiesta di un ruolo pubblico. Le sinistre possono ritrovarsi nella battaglia per dare un futuro al sistema sanitario nazionale pubblico, premessa per ritrovare in questa grande sfida le ragioni della propria esistenza, indicando con chiarezza un disegno di futuro. Senza sottovalutare il peso di un rientro nel nostro paese, o la costruzione ex novo, delle produzioni strategiche per affrontare crisi acute. In altre parole il sistema sanitario pubblico può trainare la riconversione indispensabile per garantire l’autonomia del nostro paese. Partire dalla sanità, continuare con la scuola, con la guida della riconversione dell’economia, proponendo un ruolo pubblico quale asse centrale dello sviluppo. Basta pensare al ruolo della Cdp o della Sace o all’attribuzione al Tesoro di quote crescenti di partecipazioni azionarie e perfino all’uso della golden share nelle aziende di interesse nazionale. Tutto questo ha bisogno di una sede unitaria di governo. La pandemia e la crisi in cui siamo immersi possono essere una grande occasione per chiudere una fase fin troppo lunga di subalternità al pensiero unico oppure può spingere ad una ulteriore divisione sociale. Quante stupidaggini sono sembrate vere e accettate come verità. È l’occasione per una ribellione di pensiero, intesa come progetto per un cambiamento di fondo della situazione esistente. Non un ritorno all’antico ma un movimento forte verso la costruzione del futuro. In questo le sinistre possono trovare una ragione per esistere o perdersi, partendo dal diritto alla salute. Dal settimanale Left, di Alfiero Grandi

 

 

07  – IL PRIMO MAGGIO E LE TRE PANDEMIE IN CORSO. IL MESSAGGIO. L’ATTIVISTA AMBIENTALISTA VANDANA SHIVA EVIDENZIA IL SOVRAPPORSI DI TRE CRISI: ECONOMICA, ALIMENTARE E SANITARIA. IN OCCASIONE DEL PRIMO MAGGIO ARRIVA LA SUA ESORTAZIONE A GETTARE LE BASI PER UNA CONVIVENZA SOLIDALE E DEMOCRATICA OVUNQUE NEL MONDO.

Siamo testimoni di tre pandemie che stanno accadendo simultaneamente. La prima è la pandemia del coronavirus. La seconda è quella della fame. La terza è la pandemia della perdita dei mezzi di sostentamento. Il coronavirus ha infettato finora 3,19 milioni di persone e ne ha uccise 228.000.

Il Programma Mondiale per l’Alimentazione ha avvertito la comunità internazionale dell’incombente “pandemia della fame”, che ha il potenziale per interessare un quarto di miliardo di persone la cui vita e i cui mezzi di sussistenza saranno a rischio immediato.

Secondo il programma alimentare mondiale più di un milione di persone sono a rischio di malnutrizione e 300.000 di esse potrebbero morire di fame ogni giorno per i prossimi tre mesi.

C’è anche una “pandemia” relativa alla perdita di mezzi di sussistenza. Secondo l’OIL, “a causa della crisi economica creata dalla pandemia, quasi 1,6 miliardi di lavoratori dell’economia informale (che rappresentano i più vulnerabili sul mercato del lavoro), su un totale mondiale di due miliardi e una forza lavoro globale di 3,3 miliardi, hanno subito danni massicci alla loro capacità di guadagnarsi da vivere. Ciò è dovuto alle varie misure di lockdown che hanno coinvolto le loro attività e/o al fatto che lavorano nei settori più colpiti”.

Come sottolineato da Guy Ryder, direttore generale dell’OIL, “per milioni di lavoratori, non avere un reddito significa non avere cibo, non avere sicurezza e non avere un futuro. […] Con l’evolversi della pandemia e della crisi occupazionale, la necessità di proteggere i più vulnerabili diventa ancora più urgente”.

Tutte e tre le pandemie affondano le loro radici in un modello economico basato sul profitto, sull’avidità e sull’estrattivismo, che ha accelerato la distruzione ecologica, aggravato la perdita dei mezzi di sussistenza, aumentato le disuguaglianze economiche e polarizzato e diviso la società tra l’1% e il 99%. 

In questo 1° maggio, nei tempi della crisi del coronavirus, immaginiamo e creiamo nuove economie basate sulla Democrazia della Terra e sulla democrazia economica, che proteggano la terra e l’umanità. Affrontiamo tutte e tre le crisi attraverso la partecipazione democratica e la solidarietà. Attraverso la compassione assicuriamoci che nessuno soffra la fame, attraverso la solidarietà e la democrazia partecipiamo a plasmare le economie future per garantire che nessuno sia senza lavoro, che nessuna persona sia senza voce.

Le molteplici crisi che stiamo affrontando sono un campanello d’allarme: l’economia gestita dall’1% non lavora per le persone e la natura. L’1% definisce il 99% della popolazione mondiale come “persone inutili”. La loro idea di futuro è basata sull’agricoltura digitale e senza agricoltori, su fabbriche automatizzate e sulla produzione senza lavoratori.

Abbiamo l’obbligo di creare economie che non distruggano la natura, non distruggano i mezzi di sussistenza e i diritti dei lavoratori; economie che non distruggano la nostra salute diffondendo malattie e pandemie, che non provochino la perdita di mezzi di sussistenza, di libertà, di dignità e del diritto al lavoro, che non inaspriscano il problema della fame nel mondo.

Creiamo economie a “fame zero” proteggendo i mezzi di sussistenza dei piccoli agricoltori che ci forniscono l’80% del cibo che consumiamo. Creiamo economie di solidarietà circolari e locali, che sostengano i venditori ambulanti e i piccoli dettaglianti, i quali danno forma alle comunità riducendo al contempo l’impronta ecologica.

Nella prossima fase post Covid 19, rigeneriamo l’economia con la consapevolezza che tutte le vite sono uguali, che siamo parte della Terra, che siamo esseri ecologici, biologici, che il lavoro è un nostro diritto ed è al centro della vita dell’essere umano. Ricordiamo ci anche che la cura per la Terra e degli uni per gli altri è il lavoro più importante. Non ci sono persone usa e getta o inutili. Siamo un’unica umanità su un unico pianeta. L’autonomia, la coerenza, la dignità, il lavoro, la libertà, la democrazia sono il nostro diritto di nascita.

 

 

08 -CHRISTINE LAGARDE (BCE): «SIAMO DETERMINATI AD AFFRONTARE LA CRISI, CREDETEMI. NELLA RIUNIONE DI APRILE IERI LA BANCA CENTRALE EUROPEA (BCE) HA INTRODOTTO UN NUOVO STRUMENTO FINANZIARIO: «PELTRO», PANDEMIC EMERGENCY LONG TERM REFINANCING OPERATIONS, A UN TASSO DI,25 PUNTI IN MENO RISPETTO A QUELLO MEDIO DI RIFERIMENTO. Da maggio saranno realizzate sette aste per garantire il funzionamento del mercato monetario. «Non tollereremo alcun rischio di frammentazione dell’Eurozona – ha detto la presidente Christine Lagarde – Siamo più determinati che mai a fronteggiare la crisi innescata dalla pandemia e dai lockdown. Abbiamo usato tutta la flessibilità necessaria e continueremo a farlo, credetemi». La Bce ha abbassato ancora i tassi sulle aste di liquidità di lunga durata, e finalizzate ai prestiti alle imprese, le Tltro, pari a 50 punti base in meno del tasso di riferimento medio. Lagarde ha fatto considerazioni interessanti anche sull’Omt, lo scudo di Draghi che sarebbe attivato ricorrendo al Mes-Fondo Salva Stati. L’Omt, ha detto, è stato disegnato nel 2012, non è più adatto per sostenere i paesi in difficoltà sul piano fiscale. Il che renderebbe inutile anche il ricorso al Mes.

 

 

09 – CHE REPUBBLICA IN MANO ALLE DESTRE, di  Norma Rangeri. IL DIBATTITO PARLAMENTARE, SIA ALLA CAMERA CHE AL SENATO, ERA MOLTO ATTESO, DOPO LE CRITICHE PIOVUTE DALLE OPPOSIZIONI, MA ANCHE DAI SOLITI RENZIANI E DA QUALCHE PIDDINO, SULL’USO SPROPORZIONATO DEL DPCM, DECRETI DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO, EMANATI A RAFFICA PER AFFRONTARE LE SITUAZIONI DI EMERGENZA, IMPOSTE DAL CORONAVIRUS.

Ma sia il livello della discussione che i comportamenti in aula, in particolare della destra, non solo sono stati deludenti e perfino ridicoli: sono diventati un assist al governo e a Conte. Il quale di fronte alle critiche si è dimostrato più capace e più abile dei leader che lo attaccano.

Prendiamo Renzi, oggi capo di Italia Viva. Come fa a invocare la difesa della Costituzione quando lui per primo ha cercato di stravolgerla – e per sempre – con un referendum? E cosa c’entra il populismo – accusa a Conte – quando semmai siamo di fronte ad un eccesso di dirigismo governativo? 

L’unica cosa da prendere sul serio è la sua minaccia di uscire dal governo. Ma che sia proprio lui a indicare il pericolo dell’uomo solo al comando, uno “stile politico” da lui inaugurato – e subito segnalato dal nostro giornale – appare quantomeno paradossale. Soprattutto se accompagnato dal miserevole tramestio parlamentare dell’ex Pd con il manovriere per antonomasia, Gianni Letta, per trovare i numeri necessari a un governo di “emergenza nazionale”. 

E la Lega? La gazzarra sulle mascherine (che Conte a debita distanza da tutti ovviamente non indossava mentre faceva il suo discorso), è sembrato un tentativo penoso di attirare l’attenzione da parte di chi non ha più in mano l’arma della paura, oggi saldamente contagiata dal virus.

Forse per questo, insieme a Fratelli d’Italia, ha brandito un’altra arma, quella mediatica, sventolando Repubblica come alfiere delle critiche cavalcate dalle destre, magnificandone la linea politica: “Questa è Repubblica non è Libero”. (Un segno dei tempi immaginiamo imbarazzante per chi legge e scrive quel giornale, e per Scalfari che domenica lo ancorava al pensiero liberal-socalista).

In Parlamento ha risuonato il grido sfiatato di queste opposizioni che chiedono condoni, insultano Conte sul piano personale, parlano di dittatura, agitando l’armamentario spuntato di chi vuole rappresentare un elettorato che, dando retta ai sondaggi, nemmeno gli va più tanto dietro.

Tutte le destre di ogni ordine e grado nei due rami del Parlamento hanno difeso la democrazia, la Costituzione, dimenticando che alcune date che puntellano la nostra storia, il nostro vivere civile, la nostra memoria, gli provocano una insopportabile orticaria: nei giorni scorsi il 25 Aprile, giorno della liberazione dal nazifascismo, e oggi il Primo Maggio, con lo sventolio tradizionale delle bandiere rosse che inneggiano al lavoro. (E non a caso Salvini ha penosamente puntato il dito contro “un paese ostaggio della Cgil”). Abbiamo avuto un ulteriore rappresentazione di che Repubblica ci ritroveremmo con queste destre al potere.

Chi critica il governo aveva a disposizione proprio l’occasione del Primo Maggio, che per la prima volta passerà alla storia come festa senza lavoro. Perché chi ha delle riserve sull’uso dei Dpcm, e invoca maggiore libertà, anche di movimento, forse sottovaluta la situazione sociale nel Paese. Le emergenze vere – e più sentite dagli italiani che sembrano appoggiare in maggioranza il governo – sono la difesa della salute e l’economia. E quindi i redditi che entrano nelle case degli italiani, la ripresa del lavoro, le sicurezze anti-virus.

Ecco perché Conte ha buon gioco. Ieri ha spiegato i prossimi passi del governo e le ragioni dello scostamento di Bilancio di 55 miliardi di euro assegnati a famiglie, disabili, spettacolo, lavoro di cura, debiti della pubblica amministrazione, imprese. Spiegando che “non è un programma elettorale”. (Per chi lo accusa di populismo, anche perché sulla Fase2 le misure di cautela potranno anzi rivelarsi impopolari).

Il presidente del Consiglio ha parlato delle riaperture, delle Regioni, dello strumento dei decreti, confortato anche dal Pd, con il vicesegretario Orlando che ha difeso l’azione di palazzo Chigi (“Il problema non sono i Dpcm, ma le banche che non stanno facendo il loro lavoro”). Ha poi ricordato il principio semplice ma generale che “non esiste ripresa economica senza sicurezza sanitaria” e che “non esiste ripresa senza un ripensamento del modello di sviluppo”. A fare da sponda, la sinistra di Liberi e Uguali nel dare voce alle cifre dei milioni di lavoratori che ricevono la cassa integrazione, i 600 euro, 800 dal prossimo provvedimento, insistendo sul reddito di emergenza.

Ricorderemo questo come un Primo Maggio davvero unico, particolare e speriamo irripetibile. Siamo in una fase di grandi difficoltà, con l’economia a picco, milioni di famiglie che combattono ogni giorno per la sopravvivenza e ancora non vedono una luce in fondo al tunnel, con una paura di vivere che si percepisce soprattutto tra la popolazione di una certa età, e quindi quasi metà del Paese.

Per tutto questo la festa del lavoro oggi coincide con la prova della ricostruzione, forte, sentita, partecipata, condivisa, del nostro Paese. Ma l’Italia ha un forte bisogno di un’altra Europa. Altrimenti rischieremo di vivere il futuro in mezzo a troppe macerie.

 

 

10 – 1992 LA RAGAZZINA CHE ZITTÌ IL MONDO. Mi trovavo per lavoro a Rio de Janeiro ed impropriamente  facevo anche il corrispondente per il quotidiano “ Paese Sera” ed inviato al Summit sulla Terra.   Nel giugno del 1992, al Summit, SEVERN SUZUKI (*), una bambina canadese di dodici anni, zittì 108 capi di Stato con un discorso di sei minuti sui problemi del mondo.

SONO PASSATI QUASI TRENT’ANNI, GIUDICATE VOI.

“ Buonasera, sono SEVERN SUZUKI e parlo a nome di Eco (Environmental Children Organization). Siamo un gruppo di ragazzini di 12 e 13 anni e cerchiamo di fare la nostra parte, VANESSA SUTTIE, MORGAN GEISLER, MICHELLE QUAIGG e me. Abbiamo raccolto da noi tutti i soldi per venire in questo posto lontano 6000 miglia, per dire alle Nazioni Unite che devono cambiare il loro modo di agire.

Venendo a parlare qui non ho un’agenda nascosta, sto solo lottando per il mio futuro. Perdere il mio futuro non è come perdere un’elezione o alcuni punti sul mercato azionario. Sono qui a parlare a nome delle generazioni future. Sono qui a parlare a nome dei bambini che stanno morendo di fame in tutto il pianeta e le cui grida rimangono inascoltate. Sono qui a parlare per conto del numero infinito di animali che stanno morendo nel pianeta, perché non hanno più alcun posto dove andare.

Ho paura di andare fuori al sole perché ci sono buchi nell’ozono, ho paura di respirare l’aria perché non so quali sostanze chimiche contiene. Ero solita andare a pescare a Vancouver, la mia città, con mio padre, ma solo alcuni anni fa abbiamo trovato un pesce pieno di tumori. E ora sentiamo parlare di animali e piante che si estinguono, che ogni giorno svaniscono per sempre. Nella mia vita ho sognato di vedere grandi mandrie di animali selvatici e giungle e foreste pluviali piene di uccelli e farfalle, ma ora mi chiedo se i miei figli potranno mai vedere tutto questo. Quando avevate la mia età, vi preoccupavate forse di queste cose?

Tutto ciò sta accadendo sotto i nostri occhi e ciononostante continuiamo ad agire come se avessimo a disposizione tutto il tempo che vogliamo e tutte le soluzioni. Io sono solo una bambina e non ho tutte le soluzioni, ma mi chiedo se siete coscienti del fatto che non le avete neppure voi. Non sapete come si fa a riparare i buchi nello strato di ozono, non sapete come riportare indietro i salmoni in un fiume inquinato, non sapete come si fa a far ritornare in vita una specie animale estinta, non potete far tornare le foreste che un tempo crescevano dove ora c’è un deserto. Se non sapete come fare a riparare tutto questo, per favore smettete di distruggerlo.

Qui potete esser presenti in veste di delegati del vostro governo, uomini d’affari, amministratori di organizzazioni, giornalisti o politici, ma in verità siete madri e padri, fratelli e sorelle, zie e zii, e tutti voi siete anche figli. Sono solo una bambina, ma so che siamo tutti parte di una famiglia che conta 5 miliardi di persone [oggi 7, ndr], per la verità, una famiglia di 30 milioni di specie. E nessun governo, nessuna frontiera, potrà cambiare questa realtà.

Sono solo una bambina ma so che dovremmo tenerci per mano e agire insieme come un solo mondo che ha un solo scopo. La mia rabbia non mi acceca e la mia paura non mi impedisce di dire al mondo ciò che sento. Nel mio paese produciamo così tanti rifiuti, compriamo e buttiamo via, compriamo e buttiamo via, e tuttavia i paesi del Nord non condividono con i bisognosi. Anche se abbiamo più del necessario, abbiamo paura di condividere, abbiamo paura di dare via un po’ della nostra ricchezza. In Canada viviamo una vita privilegiata, siamo ricchi d’acqua, cibo, case, abbiamo orologi, biciclette, computer e televisioni. La lista potrebbe andare avanti per due giorni.

Due giorni fa, qui in Brasile siamo rimasti scioccati, mentre trascorrevamo un po’ di tempo con i bambini di strada. Questo è ciò che ci ha detto un bambino di strada: «Vorrei essere ricco, e se lo fossi vorrei dare ai bambini di strada cibo, vestiti, medicine, una casa, amore ed affetto». Se un bimbo di strada che non ha nulla è disponibile a condividere, perché noi che abbiamo tutto siamo ancora così avidi? Non posso smettere di pensare che quelli sono bambini che hanno la mia stessa età e che nascere in un paese o in un altro fa ancora una così grande differenza; che potrei essere un bambino in una favela di Rio, o un bambino che muore di fame in Somalia, una vittima di guerra in Medio Oriente o un mendicante in India. Sono solo una bambina ma so che se tutto il denaro speso in guerre fosse destinato a cercare risposte ambientali, terminare la povertà e per siglare degli accordi, che mondo meraviglioso sarebbe questa terra!

A scuola, persino all’asilo, ci insegnate come ci si comporta al mondo. Ci insegnate a non litigare con gli altri, a risolvere i problemi, a rispettare gli altri, a rimettere a posto tutto il disordine che facciamo, a non ferire altre creature, a condividere le cose, a non essere avari. Allora perché voi fate proprio quelle cose che ci dite di non fare? Non dimenticate il motivo di queste conferenze, perché le state facendo? Noi siamo i vostri figli, voi state decidendo in quale mondo noi dovremo crescere. I genitori dovrebbero poter consolare i loro figli dicendo: «Tutto andrà a posto. Non è la fine del mondo, stiamo facendo del nostro meglio». Ma non credo che voi possiate dirci più queste cose. Siamo davvero nella lista delle vostre priorità? Mio padre dice sempre: «Siamo ciò che facciamo, non ciò che diciamo». Ciò che voi state facendo mi fa piangere la notte. Voi continuate a dire che ci amate, ma io vi lancio una sfida: per favore, fate che le vostre azioni riflettano le vostre parole.”

(*) – Severn Suzuki, oggi scrittrice e biologa, è stata intervistata da Cristina Gabetti su «Sette» del 21 aprile 2011

 

 

11 – ARUNDHATI ROY L’ALTRA PANDEMIA. OGGI CHI PUÒ USARE L’ESPRESSIONE “È DIVENTATO VIRALE” SENZA RABBRIVIDIRE UN PO’?

Chi può guardare qualsiasi cosa – la maniglia di una porta, una scatola di cartone, un sacchetto di verdura – senza immaginare che brulichi di quegli invisibili granuli né vivi né morti pronti ad attaccarsi ai nostri polmoni?

Chi può immaginare di baciare un estraneo, saltare su un autobus o mandare un figlio a scuola senza essere realmente spaventato?

Chi riesce a pensare ai normali piaceri senza valutarne i rischi?

Chi tra noi non si atteggia a epidemiologo, virologo, statistico o profeta?

Quale scienziato o medico non sta pregando in segreto perché avvenga un miracolo? Quale prete – almeno in segreto – non si sta affidando alla scienza?

E anche se il virus sta proliferando, chi potrebbe non essere emozionato dall’aumento degli uccelli che cantano nelle città, dai pavoni che danzano agli incroci e dal silenzio dei cieli?

La scorsa settimana il numero dei contagiati in tutto il mondo ha superato il milione. Sono già morte più di settantamila persone. Le proiezioni fanno pensare che questa cifra salirà a centinaia di migliaia, se non di più. Il virus si è spostato liberamente lungo le vie del commercio e del capitale internazionale, e la terribile malattia che ha portato con sé ha imprigionato le persone nei loro paesi, nelle loro città e nelle loro case. Ma a differenza del flusso di capitali, questo virus cerca la diffusione, non il profitto, e quindi involontariamente, e in una certa misura, ha invertito la direzione di quel flusso. Si è fatto beffe dei controlli sull’immigrazione, della biometrica, della sorveglianza digitale e di ogni altro tipo di analisi dei dati e, finora, ha colpito in misura maggiore i paesi più ricchi e più potenti del mondo, fermando con un improvviso sussulto il motore del capitalismo. Forse provvisoriamente, ma almeno per il tempo che basta a permetterci di studiarlo, di fare una valutazione e di decidere se vogliamo aggiustarlo o cercare un motore migliore.

Un treno che sbanda

I mandarini che gestiscono questa pandemia amano definirla una guerra. Non usano questa parola come una metafora, ma alla lettera. Se fosse davvero una guerra, però, quale paese dovrebbe essere più preparato ad affrontarla degli Stati Uniti? Se i suoi soldati in prima linea invece che di mascherine e guanti avessero bisogno di fucili, armi intelligenti in grado di demolire bunker e neutralizzare sottomarini, caccia a reazione e bombe atomiche, pensate che non ne avrebbero a sufficienza?

Sera dopo sera, da mezzo mondo, alcuni di noi guardano le conferenze stampa del governatore di New York con una fascinazione che è difficile da spiegare. Seguiamo le statistiche e ascoltiamo le storie di ospedali al collasso negli Stati Uniti, di infermieri sottopagati e sovraccarichi di lavoro che devono fabbricarsi le mascherine da soli con sacchetti della spazzatura e vecchi impermeabili, e che rischiano la vita per soccorrere i malati. Storie di stati costretti a farsi concorrenza per procurarsi i ventilatori polmonari, di dilemmi dei medici su quale paziente salvare e quale lasciar morire. E pensiamo: “Dio mio! Questa è l’America!”.

La tragedia è immediata, reale, epica e si svolge sotto i nostri occhi. Ma non è una novità. È il catastrofico risultato di un treno che procede sbandando sui binari da anni. Chi non ricorda i video dei “pazienti scaricati”, persone ammalate, con ancora indosso i camici dell’ospedale e il sedere di fuori, scaricate di nascosto agli angoli delle strade? Troppo spesso le porte degli ospedali sono state chiuse ai cittadini statunitensi meno fortunati, e non importava quanto fossero malati o quanto soffrissero. Almeno non è importato fino a oggi, perché oggi, nell’era del virus, la malattia di una persona povera può essere un pericolo per la salute di un’intera società ricca. Eppure, ancora oggi, Bernie Sanders, il senatore che ha sempre fatto della sanità pubblica per tutti uno dei temi centrali delle sue campagne elettorali, è ritenuto fuori dalla corsa alla Casa Bianca, perfino dal suo stesso partito.

E che dire del mio paese, l’India, povera e ricca, sospesa tra il feudalesimo e il fondamentalismo religioso, tra il sistema delle caste e il capitalismo, governata da nazionalisti indù di estrema destra?

Mesi impegnati

A dicembre, mentre la Cina combatteva contro l’epidemia a Wuhan, il governo indiano affrontava le proteste di centinaia di migliaia di cittadini contro la legge sulla cittadinanza appena approvata dal parlamento, che discrimina sfacciatamente i musulmani. In India il primo caso di covid-19 è stato registrato il 30 gennaio, solo qualche giorno dopo che l’ospite d’onore alla parata per la festa della repubblica, il presidente brasiliano divoratore di foresta amazzonica e negazionista dell’epidemia Jair Bolsonaro, aveva lasciato New Delhi. Ma a febbraio il governo indiano aveva troppo da fare per inserire l’epidemia nel suo calendario. C’era la visita ufficiale, prevista per l’ultima settimana del mese, del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, attirato con la promessa che in uno stadio nello stato del Gujarat ci sarebbe stato un milione di persone ad acclamarlo. Per organizzare tutto questo ci volevano soldi, e tanto tempo.

Poi c’erano le elezioni dell’assemblea di New Delhi, che il Bharatiya janata party (Bjp) del primo ministro Narendra Modi era destinato a perdere se non alzava la posta in gioco, cosa che ha fatto scatenando una campagna nazionalista indù senza esclusione di colpi, con l’aggiunta di minacce di violenza fisica e di fucilazione dei “traditori”. Ha perso comunque. Quindi a quel punto bisognava punire i musulmani di New Delhi, ritenuti colpevoli di quell’umiliazione. Folle armate di vigilantes indù, appoggiati dalla polizia, hanno attaccato i musulmani nei quartieri operai della zona nordest della città. Hanno dato fuoco a case, negozi, moschee e scuole. I residenti, che si aspettavano quell’attacco, hanno reagito. Sono morte più di cinquanta persone, soprattutto musulmani e qualche indù. Migliaia si sono rifugiati nei cimiteri. Quando il governo si è riunito per discutere del covid-19 per la prima volta, e la maggior parte degli indiani ha sentito parlare per la prima volta dell’esistenza dei disinfettanti per le mani, si stavano ancora estraendo corpi mutilati dalla rete di luridi, puzzolenti canali di scolo.

L’India si è mostrata in tutta la sua vergogna, le sue brutali disuguaglianze, la sua insensibilità e indifferenza

Anche a marzo c’è stato molto da fare. Le prime due settimane sono state dedicate a far cadere il governo dello stato del Madhya Pradesh, guidato dal partito del Congress, e a mettere al suo posto un governo del Bjp. L’11 marzo l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che si trattava di una pandemia. Due giorni dopo, il 13, il ministro della salute ha dichiarato che il coronavirus non era “un’emergenza sanitaria”. Finalmente, il 19 marzo, Modi ha tenuto un discorso alla nazione. Però non aveva fatto i compiti a casa, quindi ha preso in prestito il modello francese e quello italiano. Ci ha detto che il distanziamento sociale (facile da capire in un paese tradizionalmente diviso in caste) era necessario e ha indetto un giorno di “coprifuoco” per il 22 marzo. Non ha detto nulla su quello che il governo intendeva fare, ma ha chiesto alla gente di uscire sui balconi, suonare le campane e battere sulle pentole per rendere omaggio agli operatori sanitari. Non ha neanche accennato al fatto che in quello stesso momento l’India stava esportando dispositivi di protezione e respiratori, invece di tenerli per i suoi ospedali e i loro dipendenti.

Blocco criminale

Com’era prevedibile, la richiesta di Narendra Modi è stata accolta con grande entusiasmo. Nelle strade ci sono state sfilate di gente che batteva sulle pentole, danze e processioni. Ben poco distanziamento sociale. Nei giorni successivi ci sono stati uomini che saltavano nei barili di sterco delle vacche sacre, e sostenitori del Bjp che organizzavano feste in cui si beveva urina di vacca. Per non sfigurare, molte organizzazioni musulmane hanno dichiarato che la risposta al virus era l’Onnipotente e hanno invitato i fedeli a riunirsi in gran numero nelle moschee. Il 24 marzo, alle otto di sera, Modi è apparso in tv per annunciare che, a partire dalla mezzanotte, tutta l’India sarebbe stata bloccata. I mercati sarebbero stati chiusi. Tutti i trasporti, pubblici e privati, si sarebbero fermati. Ha detto di aver preso quella decisione non solo come primo ministro ma come anziano della famiglia. Chi altro avrebbe potuto decidere, senza consultare i governi dei vari stati su cui sarebbero ricadute le conseguenze di questa misura, di chiudere un paese con 1,38 miliardi di abitanti senza alcuna preparazione e con un preavviso di quattro ore? I metodi di Modi danno decisamente l’impressione che consideri i cittadini una forza ostile di cui non ci si può fidare e a cui bisogna tendere imboscate all’improvviso.

E così siamo rimasti chiusi dentro. Molti professionisti della sanità ed epidemiologi hanno applaudito questa scelta. Forse in teoria hanno ragione. Ma sicuramente nessuno di loro può approvare la disastrosa mancanza di preparazione e pianificazione che ha trasformato la più estesa e punitiva forma d’isolamento nell’esatto contrario di quello che avrebbe dovuto essere.

L’uomo che ama gli spettacoli ha creato la madre di tutti gli spettacoli.

Mentre il mondo guardava attonito, l’India si è mostrata in tutta la sua vergogna, le sue brutali disuguaglianze strutturali, economiche e sociali, la sua insensibilità e indifferenza nei confronti di chi soffre. Il blocco totale è stato come un esperimento chimico che ha improvvisamente illuminato certe zone nascoste. Mentre i negozi, i ristoranti, le fabbriche e l’industria delle costruzioni chiudevano, mentre i ricchi e la borghesia si rifugiavano nelle loro residenze protette da muri, le nostre città e megalopoli hanno cominciato a espellere i loro lavoratori, spesso immigrati, come se fossero un’escrescenza indesiderata. Molti sono stati licenziati o mandati via dai loro padroni di casa, e milioni di persone povere, affamate, assetate, giovani e vecchi, uomini, donne, bambini, ammalati, ciechi, disabili senza un posto dove andare, senza trasporti pubblici, hanno cominciato una lunga marcia verso i villaggi d’origine. Hanno camminato per giorni verso i distretti di Badaun, Agra, Azamgarh, Aligarh, Lucknow, Gorakhpur, a centinaia di chilometri di distanza. Qualcuno è morto lungo la strada.

New Delhi, India, 3 aprile 2020.

Sapevano che stavano andando a casa nella speranza di non morire di fame. Forse sapevano anche che rischiavano di portare con sé il virus e infettare le loro famiglie, i genitori e i nonni, ma avevano un disperato bisogno di familiarità, accoglienza e dignità, se non di amore, oltre che di cibo. Lungo il cammino alcuni sono stati picchiati e umiliati dalla polizia, che aveva l’ordine d’imporre con la forza il coprifuoco. Alcuni sono stati costretti ad accovacciarsi e a saltare come rane lungo la strada. Alla periferia di Bareilly un gruppo di persone è stato innaffiato con uno spray chimico.

Qualche giorno dopo, preoccupato che la popolazione in fuga diffondesse il virus nei villaggi, il governo ha chiuso i confini degli stati anche per chi andava a piedi. Gente che camminava da giorni è stata fermata e costretta a tornare negli accampamenti delle città che aveva appena dovuto lasciare. Tra gli anziani questo ha evocato il ricordo dei trasferimenti forzati del 1947, quando l’India fu divisa e nacque il Pakistan. Solo che il motivo dell’esodo di oggi è la divisione in classi, non la religione. E i protagonisti di quest’esodo non sono neanche le persone più povere. Sono persone che (almeno fino a un attimo prima) avevano un lavoro in città e una casa a cui tornare. I disoccupati, i senzatetto e i diseredati sono rimasti dov’erano, nelle città e nelle campagne, dove la disperazione cresceva anche prima di questa tragedia. In tutti quegli orribili giorni, il ministro dell’interno Amit Shah non è mai apparso in pubblico.

Fame e violenza

Quando le carovane di persone sono partite dalla capitale, ho usato il permesso stampa per andare in macchina a Ghazipur, al confine tra lo stato di New Delhi e l’Uttar Pradesh. La scena davanti ai miei occhi era biblica. O forse no. Ai tempi della Bibbia quei numeri non esistevano. Il lockdown per imporre il distanziamento sociale aveva provocato il suo opposto, la compressione fisica a livelli inimmaginabili. Questo succede anche nelle città indiane piccole e grandi. Le strade principali saranno pure vuote, ma i poveri sono asserragliati nelle anguste abitazioni delle baraccopoli. Tutte le persone con cui ho parlato erano preoccupate per il virus. Ma era meno reale, meno presente nella loro vita della disoccupazione che li aspettava, della fame e della violenza della polizia. Tra i discorsi di quella gente, compreso un gruppo di sarti musulmani che solo due settimane prima erano sopravvissuti agli attacchi dei nazionalisti indù, mi hanno colpito in particolare le parole di un uomo, un falegname di nome Ramjeet, che voleva camminare fino a Gorakhpur, al confine con il Nepal.

“Forse quando Modi ha deciso di farlo, nessuno gli ha parlato di noi. Forse non sa che esistiamo”, ha detto.

Quel “noi” significa circa 460 milioni di persone.

I governi dei singoli stati (com’è successo negli Stati Uniti) hanno mostrato più cuore e comprensione in questo momento di crisi. Sindacati, privati cittadini e altri collettivi stanno distribuendo provviste e razioni d’emergenza. Il governo centrale è stato lento a rispondere alla loro disperata richiesta di soldi. Sembra che il Fondo nazionale di soccorso non abbia liquidità. Invece le donazioni stanno affluendo verso un nuovo misterioso fondo del primo ministro. Hanno cominciato a circolare pasti preconfezionati con sopra l’immagine di Modi. Per giunta, il primo ministro ha condiviso online i suoi video di yoga nidra, in cui un cartone animato che gli somiglia, con un corpo da sogno, mostra varie posizioni yoga per aiutare le persone a superare lo stress dell’autoisolamento.

Il suo narcisismo è davvero inquietante. Forse una delle posizioni potrebbe essere quella in cui chiede al primo ministro francese di permetterci di rinunciare all’oneroso accordo per l’acquisto di aerei da caccia Rafale e investire quei 7,8 miliardi di euro nei provvedimenti d’emergenza di cui abbiamo un disperato bisogno per aiutare qualche milione di persone affamate. Sicuramente i francesi capirebbero.

Mentre il blocco totale entra nella seconda settimana, le catene logistiche si sono interrotte, le medicine e i rifornimenti essenziali cominciano a scarseggiare. Migliaia di autisti di camion sono ancora bloccati sulle autostrade, senza niente da mangiare né acqua. Le colture pronte per essere raccolte stanno lentamente marcendo.

La crisi economica è arrivata. Quella politica continua. I mezzi d’informazione di regime hanno inserito la storia del covid-19 nella velenosa campagna che portano avanti ininterrottamente contro i musulmani. Hanno scoperto che un’organizzazione chiamata Tablighi jamaat, che aveva organizzato un raduno a New Delhi prima che fosse annunciato il blocco totale, “sta diffondendo in lungo e in largo il contagio”. Usano questa notizia per incolpare e demonizzare i musulmani. Il tono generale fa pensare che siano stati loro a inventare il virus e lo stiano deliberatamente diffondendo come una forma di jihad.

La vera crisi del covid-19 deve ancora arrivare. O forse no. Non lo sappiamo. Se e quando arriverà, possiamo essere sicuri che sarà affrontata con tutti i pregiudizi religiosi, di casta e di classe ancora al loro posto. Il 2 aprile in India c’erano quasi duemila casi confermati e 58 morti. Sono cifre inaffidabili, basate su pochissimi test. Le opinioni degli esperti variano molto. Alcuni prevedono milioni di casi. Altri pensano che saranno molti di meno. Forse non conosceremo mai i veri numeri della crisi, anche quando arriverà. Per ora sappiamo solo che la corsa agli ospedali non è ancora cominciata.

Gli ospedali e le cliniche pubbliche in India – che non sono in grado di curare il milione circa di bambini che ogni anno muoiono di diarrea, malnutrizione e altri problemi di salute, le centinaia di migliaia di malati di tubercolosi (un quarto dei casi del mondo), una vasta popolazione di persone anemiche e malnutrite facilmente soggette a una serie di malattie minori che per loro si dimostrano fatali – non saranno in grado di gestire una situazione come quella che stanno affrontando oggi l’Europa e gli Stati Uniti. I servizi di assistenza sanitaria sono quasi tutti sospesi perché gli ospedali sono stati interamente dedicati agli infetti. Il centro traumatologico del famoso All India institute of medical sciences di New Delhi è chiuso, le centinaia di cosiddetti “rifugiati oncologici” che vivono per le strade fuori da quell’enorme ospedale vengono cacciati via come animali. Le persone si ammaleranno e moriranno in casa. Forse non conosceremo mai le loro storie. Forse non rientreranno neanche nelle statistiche. Possiamo solo sperare che gli studi secondo cui il virus preferisce i climi freddi abbiano ragione (anche se altri ricercatori lo mettono in dubbio). La gente non ha mai così tanto e così irrazionalmente desiderato l’arrivo della cocente, massacrante estate indiana.

LO STRAPPO

Cos’è questa cosa che ci sta capitando? È un virus, certo. In sé non ha nessun mandato morale. Ma è decisamente qualcosa di più di un virus. Qualcuno crede che sia il modo di dio per riportarci alla ragione. Altri che sia un complotto cinese per impadronirsi del mondo. Qualunque cosa sia, il nuovo coronavirus ha messo in ginocchio i potenti e fermato il mondo come nient’altro avrebbe potuto fare. Il nostro cervello continua a girare pensando al ritorno alla “normalità”, cercando di cucire il futuro al passato e rifiutandosi di ammettere che c’è stato uno strappo. Ma lo strappo c’è stato. E, in questa terribile disperazione, ci offre la possibilità di rivedere la macchina apocalittica che ci siamo costruiti. Nulla potrebbe essere peggio di un ritorno alla normalità.

Storicamente, le pandemie hanno sempre costretto gli esseri umani a rompere con il passato e a immaginare il loro mondo da capo. Questa non è diversa. È un portale, un cancello tra un mondo e un altro. Possiamo scegliere di attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro odio, dei nostri pregiudizi, la nostra avidità, le nostre banche dati, le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e cieli fumosi. Oppure possiamo attraversarlo con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso. E a lottare per averlo. (Traduzione di Bruna Tortorella)

 

12 – Joseph Stiglitz, economista. I paesi poveri hanno troppi debiti

Diffondendosi da un paese all’altro, il covid-19 non ha badato alle frontiere nazionali né a nessun grande muro costruito lungo il confine. Né tantomeno è stato possibile contenerne le ricadute economiche. Com’è stato chiaro fin dall’inizio, la pandemia è un problema globale che richiede una soluzione globale. Nelle economie avanzate, la compassione dovrebbe bastare a giustificare una risposta multilaterale. Ma un intervento globale è anche una questione d’interesse egoistico. Finché il nuovo coronavirus imperverserà nel mondo, sarà una minaccia per tutti. Le conseguenze sulle economie dei paesi emergenti hanno appena cominciato a manifestarsi.

Ci sono buone ragioni per ritenere che questi paesi saranno devastati dalla pandemia molto più delle economie avanzate. Spesso nelle zone a basso reddito le distanze tra le persone sono più ravvicinate. Molti soffrono di problemi di salute preesistenti che li rendono più vulnerabili e i sistemi sanitari sono ancora meno preparati a gestire una pandemia rispetto a quelli delle economie avanzate (dove non tutto è filato liscio, anzi).

Un rapporto del 30 marzo della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) ci offre una panoramica di quello che succederà alle economie emergenti. Le più dinamiche hanno puntato sulla crescita guidata dalle esportazioni, che però ora crolleranno per la contrazione dell’economia globale. Anche i flussi d’investimento stanno precipitando, così come i prezzi delle materie prime, il che preannuncia tempi duri per i paesi esportatori di risorse naturali. Questi sviluppi si vedono già nei tassi elevati del debito pubblico dei paesi emergenti. Per molti governi sarà impossibile rinnovare i debiti in scadenza quest’anno a condizioni ragionevoli. Per di più, i paesi in via di sviluppo hanno meno alternative su come affrontare la pandemia. Quando la gente vive alla giornata senza protezioni sociali, perdere il reddito può significare morire di fame. Sfortunatamente, però, questi paesi non possono seguire l’esempio degli Stati Uniti, che hanno varato un piano da duemila miliardi di dollari.

La ristrutturazione del debito dovrà essere una priorità quando ci sarà la resa dei conti dopo la pandemia

Il 26 marzo, dopo un vertice d’emergenza, i leader del G20 hanno emesso un comunicato in cui si sono impegnati a “fare tutto il necessario” per ridurre il danno economico. Ci sono almeno due cose che si possono fare per affrontare la terribile situazione delle economie emergenti. In primo luogo, vanno sfruttati i diritti speciali di prelievo (Dsp) del Fondo monetario internazionale, una forma di “denaro globale” che l’istituzione è stata autorizzata a creare alla sua fondazione. I Dsp si basano sull’idea che la comunità internazionale debba avere uno strumento per aiutare i paesi più bisognosi senza gravare sui bilanci nazionali. Un’emissione standard di Dsp – con il 40 per cento dei fondi destinati alle economie emergenti – farebbe un’enorme differenza. Ma sarebbe ancora meglio se le economie avanzate come gli Stati Uniti prestassero i loro Dsp a un fondo fiduciario dedicato ai paesi più poveri. È prevedibile che chi concederà i prestiti imporrà alcune condizioni.

Un altro punto fondamentale è che i paesi creditori annuncino una sospensione del debito delle economie in via di sviluppo. Per capire perché è così importante, prendiamo il caso dell’economia americana. A marzo il dipartimento statunitense per l’edilizia abitativa e lo sviluppo urbano ha annunciato che per sessanta giorni non ci sarebbero stati pignoramenti sui mutui assicurati a livello federale. La misura fa parte di una “sospensione” generalizzata dell’economia statunitense. I lavoratori stanno a casa, i ristoranti sono chiusi e le compagnie aeree sono ferme. Perché i creditori dovrebbero continuare ad accumulare rendite? Se i creditori non fanno la loro parte, molti debitori emergeranno dalla crisi con una quantità di debiti che non saranno in grado di ripagare.

La sospensione è importante sia a livello internazionale sia nazionale. Molti paesi non possono far fronte ai propri debiti: in assenza di una sospensione globale del rimborso del debito, il rischio è quello di una serie di insolvenze a catena. In molte economie in via di sviluppo ed emergenti, la scelta dei governi è tra pagare i creditori stranieri o lasciar morire i cittadini. Quindi la vera scelta per la comunità internazionale è tra una sospensione ordinata e una sospensione disordinata. Quest’ultima, inevitabilmente, si tradurrebbe in turbolenze per l’economia globale.

Sarebbe ancora meglio se avessimo un meccanismo istituzionalizzato per la ristrutturazione del debito pubblico. Forse è tardi per creare subito un sistema di questo tipo. Ma ci saranno altre crisi, quindi la ristrutturazione del debito dovrà essere una priorità quando ci sarà la resa dei conti dopo la pandemia. John Donne disse: “Nessun uomo è un’isola”. Lo stesso vale per qualsiasi paese, come la crisi del covid-19 ha dimostrato. Se solo la comunità internazionale tirasse la testa fuori dalla sabbia. (Traduzione di Fabrizio Saulini)

(Fonte: Internazionale)

 

13 – CORONAVIRUS | SOTTOSEGRETARIO MERLO: “RIENTRATI IL 90% DEGLI ITALIANI BLOCCATI ALL’ESTERO, PREZIOSO LAVORO DELLA FARNESINA”

L’esponente del governo italiano: “L’obiettivo è quello di consentire il rientro in Patria a tutti quei connazionali che desiderano farlo”

Va avanti senza sosta il lavoro del governo, con il ministero degli Esteri in prima linea, per riportare in Italia i connazionali rimasti bloccati oltre confine in piena emergenza coronavirus.

Oltre 70mila sono già rientrati in Patria dall’inizio della pandemia. E’ impossibile sapere con certezza quanti ancora siano costretti a restare nei paesi che li ospitano al momento. La Farnesina, sulla base delle segnalazioni raccolte in rete, stima che siano tra i 5 e i 6mila gli italiani che ancora devono rientrare dall’estero.

“Continuiamo a vivere in una fase di piena emergenza legata al coronavirus, non solo in Italia ma nel mondo intero”, sottolinea il Sen. Ricardo Merlo, Sottosegretario agli Esteri e presidente del MAIE – Movimento Associativo Italiani all’Estero, che spiega: “Proprio perché l’emergenza è mondiale, sono tanti i Paesi che mantengono le proprie frontiere bloccate. Questo rende assai difficile le operazioni di rimpatrio. Ciononostante – prosegue il Sottosegretario Merlo, in trincea fin dall’inizio dell’emergenza – il lavoro della Farnesina va avanti, con la fondamentale collaborazione della nostra rete diplomatico-consolare nel mondo. L’obiettivo è quello di consentire il rientro in Patria a tutti quei connazionali che desiderano farlo”.

“Prosegue dunque l’organizzazione di voli speciali tesi proprio a questo fine, calcolando che circa il 90% degli italiani bloccati fuori sono già rientrati, grazie all’ottimo lavoro dell’Unità di Crisi e della nostra rete consolare nel mondo”, evidenzia l’esponente del governo italiano, che prosegue: “La compagnia Blue Panorama, per esempio, ha attivato per il 6 maggio un volo commerciale da Cancun per Milano Malpensa e Roma Fiumicino. Si lavora, inoltre, per organizzare un nuovo volo da Santo Domingo, Repubblica Dominicana: si tratterebbe del quinto, da un mese circa a questa parte. Lo stesso sta avvenendo in altre zone del mondo. In Argentina, per esempio, da dove la scorsa settimana sono rientrati circa 200 connazionali con volo Alitalia e altrettanti ne rientreranno nei prossimi giorni”.

“Capiamo la frustrazione e il sentimento d’impotenza che provano i nostri connazionali bloccati all’estero – aggiunge il Sottosegretario Merlo -, ma siamo alle prese con un’emergenza mai vista prima e, pur non avendo bacchette magiche, vi assicuro che stiamo facendo l’impossibile per risolvere tutti i casi che ci vengono segnalati e per organizzare voli di rientro ovunque ce ne sia bisogno. Finora sono state centinaia le operazioni di rimpatrio – conclude l’esponente del governo italiano – che hanno interessato 90 Paesi del mondo”.

 

 

14 – SOTTOSEGRETARIO MERLO: “DAL GOVERNO 5 MILIONI DI EURO PER GLI ITALIANI ALL’ESTERO” “E’ UN ATTEGGIAMENTO CHE DIMOSTRA QUANTO ABBIAMO BEN CHIARO IN TESTA CHE, OLTRE CONFINE, ESISTE UNA COMUNITÀ DI ITALIANI CHE NON SONO DI SERIE B, E A CUI BISOGNA PRESTARE LA GIUSTA ATTENZIONE”

 https://maiemondiale.com/2020/04/28/emergenza-coronavirus-sottosegretario-merlo-dal-governo-5-milioni-di-euro-per-gli-italiani-allestero/

Buone notizie per gli italiani all’estero arrivano dal cosiddetto decreto “cura Italia”. Fondi per 5 milioni di euro, destinati agli italiani nel mondo in condizioni di emergenza e all’assistenza dei connazionali indigenti.

“E’ un atteggiamento che dimostra quanto abbiamo ben chiaro in testa che, oltre confine, esiste una comunità di italiani che non sono di serie B e a cui bisogna prestare la giusta attenzione”, sottolinea il Sottosegretario agli Esteri Sen. Ricardo Merlo, fondatore e presidente del MAIE – Movimento Associativo Italiani all’Estero, che ringrazia “tutti gli eletti all’estero, sia di maggioranza che di opposizione, che hanno contribuito a raggiungere questo risultato”.

In particolare, viene stanziato 1 milione per l’anno 2020 per le misure a tutela degli interessi italiani e della sicurezza dei cittadini all’estero in condizioni di emergenza; 4 milioni per l’anno 2020 per le misure di assistenza ai cittadini all’estero in condizioni di indigenza o di necessità.

A tale ultimo riguardo, è autorizzata, fino al 31 luglio 2020, proprio per rispondere a eventuali difficoltà dovute alla pandemia, l’erogazione dei sussidi senza promessa di restituzione anche a cittadini non residenti nella circoscrizione consolare.

“Sia ben chiaro – evidenzia il Senatore Merlo -, sono stanziamenti extra, che vanno a integrare le risorse già previste per quei capitoli. Si tratta dunque di somme appositamente stanziate per affrontare l’emergenza legata al coronavirus. Come governo non ci dimentichiamo dei nostri fratelli all’estero e lo dimostriamo con i fatti”, conclude il Sottosegretario della Farnesina.

 

EMERGENCIA CORONAVIRUS | Subsecretario Merlo: “Del gobierno 5 millones de euros para los italianos en el exterior”

Buenas noticias para los italianos en el exterior llegan del decreto llamado “cura Italia”. 5 millones de euros, destinados a los italianos en el mundo en condiciones de emergencia y a la asistencia de los compatriotas en dificultad.

“Es una actitud que demuestra visiblemente que somos concientes que más allá de la frontera existe una comunidad de italianos valorada por nuestro gobierno y a los que hay que prestar la debida atención”, comentó el Subsecretario de Asuntos Exteriores, Sen. Ricardo Merlo, fundador y presidente del MAIE – Movimiento Associativo Italianos en el Exterior.

 

En particular, se asignará un millón para el año 2020 a las medidas destinadas a tutelar la seguridad de los ciudadanos italianos residentes en el exterior en condiciones de emergencia; y 4 millones para el año 2020 para las medidas de asistencia a los ciudadanos en el exterior en condiciones de indigencia o de necesidad.

Sobre esto, se autoriza, hasta el 31 de julio de 2020, precisamente para responder a las posibles dificultades debidas a la pandemia y a la mobilidad, la concesión de subsidios a fondo perdido también a ciudadanos no residentes en la circunscripción consular.

“Estos fondos – resalta el Senador Merlo -, constituyen asignaciones adicionales al presupuesto 2020, que van a completar los recursos ya previstos para estos capítulos. Se trata, por tanto, de fondos destinados específicamente a hacer frente a la emergencia causada por el COVID 19 . Como gobierno no nos olvidamos de nuestros compatriotas en el exterior y lo demostramos con hechos”, concluye el Subsecretario de la Farnesina.

 

 

 

 

 

 

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