3/ Tristi vicende

Sta di fatto che migliaia di lavoratori italiani emigrati sono morti sul lavoro e per il lavoro in ogni angolo del mondo. Dimenticati nel silenzio del tempo e ricordati con qualche scritta sui monumenti dei nostri piccoli comuni, spesso di montagna, in Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, ma anche Liguria, Lombardia, Veneto, Trentino. Spesso, per le tragedie meno recenti, non si riesce nemmeno a rintracciare la lista dei deceduti. L’oblio sembra averli inghiottiti una seconda volta.

Vi sono anche vicende politiche. Una triste vicenda si tramutò in tragedia quando la nave Arandora Star, con 1200 deportati italiani, tedeschi e austriaci, tutti lavoratori emigrati, che venivano trasportati dagli inglesi nei campi di prigionia in Canada, venne affondata nell’Atlantico da un sottomarino tedesco, ma con gravissime responsabilità da parte inglese, dal momento che non era stato segnalato in alcun modo, alcuni dicono volutamente, l’utilizzo come nave di trasporto per internati. Nel naufragio morirono, oltre a tantissimi membri dell’equipaggio, anche 700 deportati tra cui 446 emigrati italiani. (“Arandora Star, una tragedia dimenticata”, ricerca di Maria Serena Balestracci).

“Una cicatrice in Canada fu creata il 13 giugno 1940, quando il ministro della giustizia Ernest Lapointe annunciò la politica governativa nei confronti di quelli che, di nazionalità italiana, o naturalizzati dopo il 1929, avevano la colpa di provenire dal paese del fascismo: prigionia nei campi di concentramento per tutti (in quello di Petawawa 3.000 innocenti) sospensione dei diritti civili, regime controllato e vigilanza per la comunità italiana. Ma lo stesso avvenne per i cinesi, i giapponesi e gli ucraini. Le scuse ufficiali non sono ancora arrivate”. 

Ancora in Argentina e Brasile dove, agli emigrati italiani, nel 1940, furono sequestrati i beni e furono essi stessi internati in campi di concentramento, sia perché non ci si poteva fidare dell’Italia mussoliniana e sia, successivamente, per la partecipazione di quei paesi alla guerra quali alleati degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica.

Spesso nei luoghi dove i minatori hanno vissuto, lavorato, amato, sofferto, gioito è ancora viva e palpitante la memoria, che non si rassegna all’oblio e all’ingiustizia delle vite stroncate. E la costante verità è che nessuno è mai risultato responsabile, nessuno ha mai pagato per questo lento genocidio, nessun tribunale ha mai condannato i responsabili.  Anzi per Mattmark il tribunale svizzero di Sion, dopo aver assolto tutti i “responsabili”, ha chiesto ai parenti delle vittime le spese processuali. E già: anche la fatalità costa! I comuni di residenza dei deceduti si accollarono le spese, anche del ritorno delle salme.

Un capitolo speciale meritano le donne, sia perché nelle miniere spesso lavoravano in superficie, in lavori faticosi e ripetitivi, con stessi rischi invalidanti e malattie respiratorie professionali, sia perché rimanendo vedove trascinavano sulle loro spalle, spesso per il resto della vita, le conseguenze delle tragedie. Una morte sola, mille morti per coloro che rimangono. 

Donne silenziose, vedove bianche che hanno costruito la cultura del paese dove vivevano, o dove erano rimaste, allevando e educando i figli, sole e spesso senza risorse, con tenacia e disperazione. La tragedia si abbatté sulle loro teste; delle migliaia di donne rimaste vedove, costrette a moltiplicare gli sforzi, già disumani, pur di guadagnare il pane per sé e per i propri figli, divenuti improvvisamente orfani”.  (Guglielmo Epifani).

Solo negli Stati Uniti, dal 1884 al 1924, morirono nelle miniere, solo di carbone, più di 18.000 italiani, lasciando circa 25.000 vedove (contando quindi anche le vedove bianche rimaste in Italia) e circa 100.000 orfani, e calcolo approssimativo (statisticamente si moltiplica per 5, vai a capire!) si tratterebbe di circa 80.000 invalidi. Tralascio penosamente la questione dell’assenza totale di assicurazioni e le immense conseguenze miserevoli di vita rimasta. I numeri non sono esagerati, ne sarete convinti dagli articoli successivi.

E’ ovvio che le tragedie costituiscono un dramma per le vittime e per i familiari, ma spesso assumono valori simbolici di forte impatto grazie all’ampiezza delle reazioni emotive suscitate. Ancora 68 anni dopo vale per Marcinelle. La “memoria collettiva” è l’interpretazione stessa degli avvenimenti e del loro significato, e mantenerla viva rimane un atto di giustizia.

Come mantenere vivo quello che non si sa o non si è mai saputo …

Tonino D’Orazio

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