di Pasquale Martucci (da la Gazzetta di Salerno)
In questi ultimi mesi, nel territorio cilentano, caratterizzato da fenomeni drammatici di abbandono e dispersione, si è prodotto un interessante dibattito sull’emigrazione, prevalentemente giovanile. Tutto ciò è avvenuto a seguito dell’uscita di un libro, curato da Ezio Martuscelli e Luciana Gravina, dal titolo: “L’emigrazione nel Cilento tra diaspora e ritorno possibile”, Associazione “Progetto Centola” e Gruppo “Mingardo/Lambro/Cultura”, 2023. Esso contiene gli scritti di vari autori: Angelo Carelli, Pasquale Carelli, Antonella Casaburi, Francesco D’Episcopo, Ferdinando De Luca, Sabatino Echer, Giovanni Falci, Luciana Gravina, Rita Gravina, Domenica Iannelli, Luigi Leuzzi, Pasquale Martucci, Ezio Martuscelli, Angelo Paolo Perriello, Raffaele Riccio, Orazio Ruocco, Micheal Shano, Antonio Stanziola.
Di seguito, produco alcune riflessioni, partendo dal contributo offerto al volume e integrando lo stesso dopo il dibattito che si è sviluppato in vari paesi del Cilento.
Il fenomeno sociale “emigrazione” richiede analisi e approfondimenti, che evocano un termine definito “diaspora”. Di tale avviso, le posizioni del gruppo di lavoro coordinato da Ezio Martuscelli (cfr.: E. Martuscelli, “Cilento. Terra Matrigna. Emigrazione, spopolamento, diaspora dei giovani”, Associazione “Progetto Centola” e Gruppo “Mingardo/Lambro/Cultura”, 2022; L. Gravina, E. Martuscelli, a cura di, “L’emigrazione nel Cilento tra diaspora e ritorno possibile”, Associazione “Progetto Centola” e Gruppo “Mingardo/Lambro/Cultura”, 2023).
Per “diaspora” si intende la dispersione di un consistente numero di persone che abbandonano le loro sedi d’origine e si “disseminano” in varie parti del mondo. Queste persone non hanno prospettive, soprattutto economiche, ed allora cercano altrove la possibilità di un’esistenza migliore, differente.
In passato, la diaspora era organizzata senza conoscere il futuro, senza sapere il destino cui affidare le possibilità di vita, vivendo una condizione di limbo, margine, in cui non avevano più i riferimenti della loro terra e al tempo stesso avvertivano una ostilità nei luoghi di accoglienza. Solo con le seconde e terze generazioni di migranti le difficoltà sembrano più delineate: esse hanno trovato una collocazione lavorativa e dunque hanno radicato le loro famiglie nel nuovo contesto.
Per margine si intende una posizione che non è più o non è ancora quella di riferimento: gli attori sociali sono contemporaneamente dentro e fuori dal sistema, sul limite, sulla frontiera, di ciò che risulta accettabile per una data comunità di riferimento (G. Pozzi G., Margini. Pratiche, politiche e immaginari, Tracce Urbane, 5 giugno 2019). È anche lo stato d’eccezione di Giorgio Agamben, che presuppone l’inclusione attraverso l’esclusione e realizza una sovranità che si situa, nel contempo, fuori e dentro. Partendo da tutte quelle parti intermedie e indistinte, che non stanno né dall’una né dall’altra parte, il filosofo individua lo spazio in cui si trova immerso l’homo sacer, l’abitante della vita nuda, non vestita, che non ha un habitus: è in quell’intermedio, quello che non è altro dal mediato sociale o dal nuovo, che presuppone l’esclusione e l’inclusione, che si realizza una zona di “irriducibile indistinzione” (G. Agamben, Homo sacer, Quodlibet, 2018).
Le condizioni degli emigranti sono state ampiamente presentate in molte ricerche sull’emigrazione italiana verso paesi stranieri, che hanno interessato un arco temporale molto ampio, più di centocinquant’anni. Dagli studi, si possono individuare le difficoltà legate alla lingua, alle condizioni lavorative, all’inserimento in culture e società differenti. Poi ci sono stati i rimpianti per l’abbandono del territorio di appartenenza, anche se le condizioni economiche con il passar del tempo miglioravano e consentivano di poter trasferire rimesse presso le famiglie che abitavano il paese natale.
Se le generazioni successive hanno superato molte situazioni di precarietà ed hanno compiuto l’integrazione, resta comunque il problema dello svuotamento dei paesi che negli anni continuano a conoscere una diminuzione notevole della popolazione residente.
Facendo un salto all’oggi, si rileva un fenomeno caratterizzato dalle stesse condizioni: il giovane non riesce a trovare una collocazione lavorativa accettabile nel paese di origine, ed allora si dirige altrove, che siano le città italiane più sviluppate o all’estero. La situazione è diversa perché le forme comunicative e le conoscenze tecnologiche fanno compiere il processo di abbandono avendo spesso contezza della situazione d’arrivo. Sia coloro che hanno elevati titoli di studio, che coloro che comunque hanno la consapevolezza di dover intraprendere questo percorso, sono indotti da prospettive differenti rispetto a quelle dei loro nonni e bisnonni: in assenza di possibilità di affermazione la condizione è meno dura e forse il senso di fallimento meno condizionante. Ciò accade anche perché la società è molto precaria e la prospettiva di vita sempre in bilico.
È un quadro con una dimensione storica molto radicata, ma anche con una dinamicità che rende gli italiani tra i più grandi popoli migranti di ieri e di oggi.
Si è detto che gli italiani che emigrano cercano occupazioni più soddisfacenti e remunerative. Ma tali esperienze di successo sono selettive: sono più frequenti tra gli uomini, tra i laureati negli atenei del Nord, tra coloro che hanno origini sociali più elevate. Un dato stupefacente è che non sono solo i giovani ad andare all’estero. Oltre agli spostamenti di singoli e intere famiglie con figli al seguito, assistiamo in questi anni all’emersione di nuove categorie di migranti: disoccupati, ultracinquantenni, che si spostano per far fronte alla precarietà lavorativa; genitori-nonni ricongiunti, di età avanzata che seguono i propri figli e nipoti, spesso per facilitare la gestione familiare nel nuovo Paese; migranti di ritorno, cioè persone che sono rientrate in Italia dopo essere state all’estero a lungo ma decidono di ripartire, spesso per bisogni familiari o perché l’esperienza di rientro ha deluso le loro attese; migranti previdenziali, uomini e donne in pensione che si spostano dove la vita costa meno rispetto all’Italia. Le ragioni che spingono le persone ad emigrare sono volontarie, una scelta personale, e forzate, perché costrette per cause di forza maggiore. In questo caso, si tratta di migranti economici. I flussi migratori sono influenzati principalmente da tre fattori: globalizzazione e tecnologia; cambiamento climatico, che ridisegnerà la mappa delle zone abitabili sulla Terra; sviluppo socio-economico, che favorirà le migrazioni, specialmente in quei Paesi con un’economia in via di sviluppo, dove milioni di persone stanno uscendo dallo stato di povertà (P. Martucci, La complessità dell’abbandono, https://www.ricocrea.it, 26 agosto 2022; Rapporto sulla popolazione, Il Mulino, 2021; Svimez, Rapporto 2022).
Le strategie da attuare riguardano la creazione di condizioni per la modernizzazione e lo sviluppo di attività economiche sostenibili, centrate prioritariamente sulle risorse del territorio, attraverso progetti, formazione, imprenditorialità, ammodernamento di strutture e servizi, nuove forme di gestione della burocrazia.
Il riscatto dovrebbe essere trovato nella propria terra, ricca di risorse, ed attuata attraverso la cultura dei luoghi, che potrebbe far crescere, comprendere ed organizzare un’area con infinite potenzialità. Siamo sul versante socio-comunitario, in cui ci si confronta con le prospettive storico-antropologiche.
È da chiedersi se quelle basi sono importanti per un’idea di sviluppo, oppure, come fanno in tanti, occorre abbandonare tutto ciò che rappresentano le tradizioni del passato e la stessa storia di un luogo. Si tratta di affermare una consapevolezza che arriva quando l’individuo è pronto per accoglierla e cambiare così i suoi comportamenti. Per fare ciò, occorre avere padronanza di se stessi, attuare una scelta, agire senza attendere gli eventi, realizzare gli obiettivi che ci si è prefissati. Credo che si tratti di una consapevolezza che il soggetto ha di sé stesso, in continua relazione con il mondo esterno, della propria identità e del complesso delle proprie attività interiori.
La coscienza/consapevolezza è dunque connessa al soggetto e alla sua azione di soggettivazione (Cfr.: M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, 2003; V. Sorrentino, Michel Foucault: il soggetto e il potere, Mimesis, 2013; G. Deleuze, La soggettivazione. Corso su Michel Foucault 1985-1986, 3, Ombre Corte, 2020).
Michel Foucault si è occupato di potere, che insieme al sapere non consentiva di progredire, ma accettava le istituzioni consolidate. Ad un certo punto, introdusse la soggettivazione, la dimensione della pratica, intendendo una serie di operazioni che servono a definire “un’identità, la nostra identità di soggetti”. Si trattava di attivare un processo che doveva permettere al soggetto di trovare una linea, una “piega”, per potersi incuneare. Utilizzò la metafora della barca che sta nell’oceano, che tra tante difficoltà deve trovare il modo di poter galleggiare, incuneandosi in quel “piegamento”, per cambiare la staticità e tutto ciò che è dato. Si entra qui nel livello delle singolarità che sono quelle del resistere, e per procedere occorre cercare un punto, una fessura, una differenziazione.
Per fare ciò è necessario confrontarsi con la società complessa di Edgar Morin (cfr.: E. Morin: Il metodo VII. Il metodo del metodo, Armando Siciliano, 2021), considerando l’oggetto del conoscere, territorio/ambiente, il soggetto conoscente e la loro relazione, affermando un’epistemologia che è auto-approfondimento della conoscenza e meta-superamento della teoria. Il filosofo propone il concetto di auto-eco-ri-organizzazione, in cui il soggetto deve affrontare le dinamiche consolidate, riflettendo sulle differenze e sulle perturbazioni che accadono: “il mondo è il rumore, la nebbia che regna fuori dalle frontiere della disciplina, fuori dai contorni dell’oggetto, e che si addensa sempre di più fino a ingoiare gli orizzonti”.
Partendo dall’esperienza migratoria, che ha sempre caratterizzato il nostro territorio, oggi si riscontrano diversificate condizioni. La percezione non è più legata a svilimento e perdita, ma ad opportunità di incontro e di arricchimento reciproco con modelli culturali diversi, come ad esempio quelli della mobilità circolare, un movimento maturato a seguito dei processi di globalizzazione del lavoro, delle economie, delle società. Ciò significa che il mettersi in cammino può portare nuove esperienze, rivitalizzare progetti e percorsi individuali e/o di famiglia. Si tratta di un fenomeno positivo dal lato dei soggetti, anche se lo è molto meno per quanto riguarda la crescita e lo sviluppo del territorio, che va radicalmente ripensato offrendo opportunità e nuove possibilità.
Finora ci si è affidati ad un’economia di mercato, la capacità di produrre tenendo conto di risorse umane competitive, eppure i limiti e i problemi sono evidenti per i mutamenti sociali che si stanno affermando. L’auspicio è un cambiamento di prospettiva e un ripensamento del “modello neoliberistico”, che riduce la società ad una tecno-cultura.
Il superamento può avvenire attraverso una forma di identità evolutiva con l’affermazione di quella che può essere definita creatività culturale collettiva.
Il tema della creatività nella vita quotidiana e la sua dimensione relazionale si rivolgono a quella che definisco “la cultura di un territorio”. La creatività è un modo particolare di pensare che implica originalità, anticonformismo e fluidità, e rompe con i modelli esistenti introducendo qualcosa di nuovo. Essa si inserisce nel concetto di pensiero divergente, che significa uscire dai pregiudizi e dagli schemi prefissati, considerando punti di vista alternativi per trovare soluzioni davvero innovative e mettere in dubbio le presunte certezze (L. Savonardo e coll., L’industria culturale e creativa. Giovani e innovazione in Campania, FrancoAngeli, 2022).
I processi culturali e le nuove strategie volte alla costruzione sociale della realtà affronta un salto di paradigma dall’industria culturale classica, affidata ai vissuti collettivi, alla nascita della società digitale, che mette in crisi i consolidati rapporti tra soggetto e territorio alla luce delle nuove reti. Il carattere nuovo delle tecnologie digitali apre nuovi scenari alla creatività diffusa e favorisce le nuove generazioni (A. Baldazzi e coll., La creatività. Prospettive e orizzonti di ricerca nelle scienze umane e sociali , Mimesis, 2022).
Richard Florida è lo studioso che ha introdotto il concetto di classe creativa, ovvero coloro che svolgono un lavoro inventivo che produce innovazioni utili: teorici ed epistemologi, ma anche professionisti, oppure lavoratori esecutivi che si affidano a strutture complesse di conoscenza (nuove tecnologie) per risolvere problemi specifici (R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, 2003).
La classe creativa è costituita da giovani talenti, volti al cambiamento e capaci di interpretare i segnali inediti che caratterizzano la modernità. Per questo, occorre entrare nella logica di modalità di relazione che ogni individuo stabilisce con l’esterno e con gli altri attori sociali. Il tutto perché cambiano le economie locali e il binomio cultura-creatività diventano centrali nelle politiche pubbliche: cambiano le logiche della distribuzione dei prodotti culturali, ma anche le modalità di consumo grazie alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie.
Il nesso tra cultura, creatività e sviluppo locale necessita di un potenziamento e di una valorizzazione. Occorre costruire le condizioni economiche, ambientali e istituzionali che facilitino l’emersione della cultura e della creatività nelle loro molteplici espressioni. In particolare, per costruire i presupposti della relazione cultura-creatività-economia, occorre riconoscere e legittimare la creatività, anche attraverso il supporto all’imprenditorialità culturale e creativa giovanile.
Un primo limite è legato all’aspetto organizzativo che dovrebbe insistere sul concetto di imprenditorialità, come: a) conoscenze esperienziali (pratiche dirette); b) conoscenze concettuali (attività formativa); c) conoscenze sistemiche (documenti, manuali, epistemologia, banca dati). Questo serve per ridefinire il proprio approccio gestionale. Il problema sono le azioni formative finalizzate al potenziamento delle capacità imprenditoriali in ambito scolastico ed accademico (R. Florida, cit.).
Nel caso della creatività culturale, occorrerebbe una regolamentazione per non precarizzare ulteriormente il mercato del lavoro, e di conseguenza non attrarre i soggetti/giovani interessati a tornare nel territorio di appartenenza.
Per fare ciò è essenziale superare: sviluppo senza controllo; attenzione alle sole attività finanziarie; arretratezze burocratiche come limite allo sviluppo; democrazia svalutata nel suo modello rappresentativo; accentuazione della privatizzazione dei servizi; scarsa attenzione alla formazione critica dei giovani, che sono ridotti all’acquisizione di competenze per esigenze produttive.
È da compiere un’inversione di tendenza per porre al centro la capacità territoriale di trovare le risorse idonee ad attenuare i fenomeni di dispersione e abbandono. Tutto passa attraverso una capacità di mettere in relazione i soggetti, uomini ed istituzioni, che devono occuparsi del rilancio del territorio.
FONTE: https://www.gazzettadisalerno.it/emigrazione-le-possibilita-del-ritorno/
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