Il lato nascosto della fuga dei cervelli: più giovani partono, meno lavoro si crea per chi resta

A lasciare l’Italia sono soprattutto neolaureati, dottori di ricerca e innovatori. Secondo una nuova ricerca questo flusso ha causato la mancata nascita di 80mila imprese. Con evidenti ricadute occupazionali

di Emanuele Coen (da L’Espresso on-line del 11-5-2023)

Un barcone con più di seimila italiani a bordo si allontana dalle nostre coste ogni settimana. Nello stesso arco di tempo, da una barca molto più piccola scendono a terra solo 220 migranti. Un’immagine (i numeri si riferiscono al 2019, l’ultimo anno pre-Covid) che rende l’idea di un fenomeno silenzioso, carico di sfumature e conseguenze. L’attenzione del governo, invece, si concentra sui migranti in arrivo, sulla fantomatica ondata di clandestini che rischia di sommergere il Paese. «La vera emergenza non riguarda gli sbarchi degli stranieri, ma gli imbarchi degli italiani, di cui non si occupa nessuno. Chi parte in aereo, chi in treno o in auto: un esodo di cui non ci accorgiamo», dice Massimo Anelli, professore associato nel dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Bocconi di Milano. «Nel 2019 sono stati 122 mila i connazionali registrati nell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire). Stimiamo che i flussi reali di italiani in uscita siano 2,6 volte superiori a quelli registrati ufficialmente. Ciò equivale a perdere ogni anno una città delle dimensioni di Bari, composta prevalentemente da giovani, con un alto livello di istruzione, innovatori e imprenditori».

Assieme a un gruppo di esperti – Gaetano Basso di Banca d’Italia, Giuseppe Ippedico e Giovanni Peri dell’Università della California – Anelli ha messo a fuoco un aspetto inedito della fuga dei cervelli: il nesso causale tra emigrazione e imprenditorialità. Gli studiosi, infatti, hanno calcolato che ogni mille emigrati, tra il 2008 e il 2015, in Italia sono state create circa 36 imprese in meno. Con evidenti ricadute occupazionali.

«Se pensiamo che ogni anno sono partiti 317 mila connazionali, si tratta di quasi 12 mila aziende in meno. Numero da moltiplicare per sette anni: cioè oltre 80 mila imprese mancate», aggiunge il professore che con i colleghi ha analizzato a fondo questo dato. E ha scoperto che la «fuga di imprenditori» è particolarmente grave per le imprese create da persone di età inferiore a 45 anni e tra le startup innovative. In particolare, solo il 36 per cento della perdita di imprese si spiega in ragione della semplice diminuzione della popolazione, mentre il 7 per cento va attribuito al fatto che gli emigranti italiani sono più giovani e dunque più imprenditoriali della popolazione media; il loro alto livello di istruzione, invece, determina un altro 10 per cento della perdita. Il restante 47 per cento, infine, discende dal fatto che – indipendentemente dall’età e dall’istruzione – gli emigrati connazionali hanno una maggiore propensione a diventare imprenditori rispetto alla media.

«Il nostro studio ribalta un luogo comune diffuso nel mondo politico», prosegue Anelli, «l’idea che con l’emigrazione di tanti italiani si liberino posti di lavoro per gli altri. Un’idea non supportata dall’evidenza empirica. Anzi, con la perdita di tanti potenziali imprenditori, l’emigrazione riduce le opportunità di lavoro per chi rimane». La ricerca rivela che in un Paese come l’Italia, dove la crescita economica è lenta, il livello di istruzione è medio-basso e la popolazione invecchia rapidamente, gli alti tassi di emigrazione di giovani talenti innescano una spirale negativa, la quale rinforza la stagnazione economica.

Che fare, quindi, per evitare i costi dell’emigrazione? «Occorre agire sui motivi che spingono i connazionali ad andarsene: salari non competitivi con il resto del mondo, una burocrazia che scoraggia la creazione di imprese, una politica che guarda poco alle nuove generazioni», sottolinea il professore che sposta l’accento su un altro aspetto: «La vera sfida non è fermare la fuga di cervelli o imprenditori, ma quella di attirarli, che siano italiani o meno». Secondo Anelli, è importante che i connazionali emigrati restino in contatto con interlocutori italiani e tornino con il loro bagaglio di istruzione, competenze, esperienze.

A supporto della ricerca, inoltre, arrivano i nuovi dati Istat nell’ultimo rapporto sulle migrazioni: si quantificano in un milione circa i connazionali espatriati tra il 2012 e il 2021, un quarto dei quali con una laurea. Tra le ragioni delle partenze spiccano le opportunità migliori che si trovano fuori e la variabile retributiva: a un anno dal conseguimento del titolo di studio, il guadagno è il 41,8 per cento in più di quanto sarebbe in Italia. Il Regno Unito è la meta preferita dei giovani laureati, seguito da Germania, Svizzera e Francia. «Emigrano tanti laureati, che in Italia sono già pochi. E poi, oltre ai laureati, va via chi ha un’alta propensione a creare imprese», specifica Anelli.

Stando alle statistiche, ora il fenomeno sembra rallentare. Ma i dati vanno letti con attenzione. Secondo il rapporto Istat sulle migrazioni, nel 2021 gli espatri sono stati 94 mila, in forte calo rispetto all’anno precedente (-22 per cento). E, in base ai primi dati disponibili del 2022 (gennaio-ottobre), la contrazione è pari al 20 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. «Per certificare la flessione dell’emigrazione bisogna aspettare i dati complessivi del 2022, il primo anno che non risente dell’influenza del Covid. Usciranno nel 2024», precisa Anelli.

Quanto alla capacità d’invogliare le persone a trasferirsi in Italia, il professore invita a guardare all’indice di attrattività dell’Ocse, che ci colloca in fondo alla classifica sotto diversi profili. «Per chi ha un master o un dottorato di ricerca l’Italia è in coda alla graduatoria, assieme a Messico, Grecia e Turchia. Ed è ultima per quanto riguarda il reddito dei lavoratori ad alta istruzione». Va un po’ meglio per le università: il nostro Paese si colloca a metà della classifica delle destinazioni dove studiare.

Per invertire la rotta, già da tempo sono attive diverse strategie. Con il Programma “Rita Levi Montalcini”, ad esempio, negli ultimi anni sono tornati tanti ricercatori. E di recente, per incentivare il rientro dei cervelli, il decreto legge Pnrr ha previsto l’esonero contributivo a favore delle imprese che partecipano al finanziamento delle borse di dottorato innovativo e assumono personale in possesso del titolo di dottore di ricerca. La misura è riconosciuta nel limite massimo di 3.750 euro per ogni assunzione a tempo indeterminato. «Quella del Programma “Levi Montalcini” è una storia di successo», conclude il professore, «nelle università italiane i giovani ricercatori rientrati, pieni di talento e con esperienze internazionali, hanno riequilibrato la situazione. Ora il seme c’è e germoglia». Per alimentare il circolo virtuoso, però, i cervelli di ritorno non devono limitarsi a popolare il mondo accademico: «Occorre attivare una dinamica simile anche per creare nuove imprese».

 

FONTE: https://espresso.repubblica.it/economia/2023/05/11/news/fuga_cervelli_lavoro-399565645/

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