01 – La crisi mondiale del grano*. “Guerra in Ucraina significa fame in Africa”, ha avvertito la direttrice del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva. La dipendenza delle fragili economie africane dal mercato mondiale delle materie prime tiene il continente per la gola.
02 – Schirò (Pd) – assegno unico: ordine del giorno impegna il governo a tutelare i diritti dei residenti all’estero, 25 marzo 2022
03 – Schirò (Pd): ho interrogato il governo sul presente e sul futuro dei corsi di italiano all’estero dopo le difficoltà della pandemia e della transizione normativa.
04 – Schirò (pd): solidarietà con la comunità di la Louviere e cordoglio per le vittime del tragico evento che ha coinvolto anche nostri connazionali.
05 – Gideon Levy, Haaretz, ISRAELE- Le sanzioni economiche potrebbero servire anche a Gaza.
06 – Oliver Meiler*: L’Italia dipende troppo dal gas di Mosca. In quarant’anni la produzione interna è diminuita e il consumo è aumentato. Così il governo si è rivolto alla Libia e poi alla Russia
07 – OSSERVATORIO SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA – PNRR. Promosso da: Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Laudato Sì, Nostra.
08 – Alfiero Grandi*:L’invasione dell’Ucraina ha aperto il vaso di Pandora della guerra, va richiuso prima che sia troppo tardi.
01 – La crisi mondiale del grano*. “Guerra in Ucraina significa fame in Africa”, ha avvertito la direttrice del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva. La dipendenza delle fragili economie africane dal mercato mondiale delle materie prime tiene il continente per la gola.
Gli effetti del conflitto si stanno già facendo sentire fino in Sierra Leone e in Ghana, dove il prezzo del carburante è più che raddoppiato nel giro di poche settimane.
Ma il rincaro del petrolio è solo l’inizio. L’Ucraina e la Russia insieme producono quasi un quarto del grano mondiale, sfamando miliardi di persone. Rappresentano quasi il 90 per cento delle importazioni del Kenya, e lo stesso vale per il Sudan, il Ruanda, l’Etiopia e la Somalia, già colpiti da una grave siccità. Il vero test arriverà fra quattro mesi, quando comincerà il prossimo raccolto del grano. È impensabile che l’Ucraina sia in grado di soddisfare anche solo una parte della domanda. L’aumento della fame e dell’instabilità politica è inevitabile. In Egitto, che è stato teatro di varie rivolte per il pane negli ultimi anni, le riserve di cereali e la produzione nazionale basteranno solo fino a novembre.
La guerra sta anche aggravando la volatilità dei mercati, favorendo il rialzo dei tassi d’interesse che, a sua volta, costringerebbe i governi africani a spendere di più per ripagare i loro debiti e a ridurre la spesa per l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Inoltre la fuga di milioni di persone sta mettendo un’enorme pressione sugli ai ti internazionali, che erano già in calo, e distoglie l’attenzione dai grandi conflitti “dimenticati”, che hanno ancora un disperato bisogno di assistenza. In Yemen il direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale, David Beasley, ha avvertito: “Siamo costretti a togliere da mangiare a chi ha fame per nutrire chi di fame sta morendo”. Il conflitto in Ucraina è già una guerra mondiale.
*( The Irish Times, Irlanda )
02 – SCHIRÒ (PD) – ASSEGNO UNICO: ORDINE DEL GIORNO IMPEGNA IL GOVERNO A TUTELARE I DIRITTI DEI RESIDENTI ALL’ESTERO, 25 marzo 2022
Con l’approvazione del mio Ordine del giorno nell’ambito della discussione alla Camera del Decreto “Sostegni ter”, ora diventato legge, il Governo si è impegnato a programmare e disporre al più presto mirati provvedimenti legislativi atti ad introdurre degli strumenti di salvaguardia di alcuni importanti diritti dei nostri connazionali residenti all’estero che sono stati revocati dal 1° marzo con l’introduzione dell’Assegno unico.
Nell’odg avevo spiegato al Governo che sono attualmente migliaia i cittadini italiani residenti all’estero aventi diritto – in virtù di norme nazionali e anche di accordi internazionali – alle detrazioni per figli a carico e/o all’Anf per figli i quali però a partire dal 1° marzo 2022 hanno perso improvvisamente il diritto a tali agevolazioni fiscali, e i quali inoltre a causa della residenza all’estero non potranno tuttavia – in compensazione – avere diritto all’Assegno unico.
Si tratta di cittadini italiani iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), lavoratori e pensionati, i quali producono il loro reddito in Italia e pagano le tasse in Italia. Insomma contribuenti fiscali alla pari dei cittadini italiani residenti in Italia.
Ho stigmatizzato il fatto che il legislatore nell’abolire detrazioni e Anf per figli a carico e nel compensare tale abolizione con l’introduzione dell’Assegno unico non ha pensato alle pesanti conseguenze umane ed economiche che l’inesportabilità dell’Assegno unico all’estero avrebbe avuto sui diritti acquisiti dei nostri connazionali titolari di prestazioni che dal 1° marzo si sono visti revocare inopinatamente e ingiustamente.
Nel mio O.d.g. ho anche ricordato che la stessa Commissione Affari Sociali della Camera nella sua valutazione dello schema del decreto legislativo sull’Assegno unico aveva espresso parere favorevole sul decreto ma aveva altresì suggerito al Governo di modificare il decreto al fine di salvaguardare i diritti fiscali e previdenziali dei nostri cittadini residenti all’estero.
Ora il Governo con l’approvazione dell’ordine del giorno prende atto del problema e soprattutto si impegna a trovare soluzioni giuste ed adeguate al fine di tutelare e, spero, ripristinare i diritti dei nostri connazionali revocati in seguito all’introduzione dell’Assegno unico.
Siamo fiduciosi, ma vigileremo, sulla serietà e sulla attendibilità dell’impegno del Governo.
*(Angela Schirò – Deputata PD – Rip. Europa – Camera dei Deputati)
03 – Schirò (Pd): HO INTERROGATO IL GOVERNO SUL PRESENTE E SUL FUTURO DEI CORSI DI ITALIANO ALL’ESTERO DOPO LE DIFFICOLTÀ DELLA PANDEMIA E DELLA TRANSIZIONE NORMATIVA.
Sono nuovamente intervenuta con un atto parlamentare sulla situazione della promozione della lingua e della cultura italiana all’estero perché da qualche tempo in questo campo essenziale per la presenza del nostro Paese nel mondo si manifestano segnali non rassicuranti che è doveroso considerare con la massima attenzione e responsabilità. 22 MARZO 2022
Dall’emanazione nel 2017 del Decreto 64 che ha riorganizzato il sistema della formazione in italiano all’estero si è aperta una fase di transizione regolamentare e organizzativa difficile, sia per alcune contraddizioni e ritardi che si sono manifestati nelle procedure di assegnazione del personale scolastico all’estero, poi superati con una modifica normativa da me insistentemente sollecitata, che per i ritardi e le difficoltà che si sono avuti per gli enti gestori dei corsi di lingua e cultura a seguito dell’applicazione della circolare N. 3, per la quale avevo chiesto una moratoria di un anno.
A queste remore si è aggiunto il peso della pandemia che ha provocato un freno della partecipazione ai corsi, la necessità di convertire la didattica in presenza in didattica a distanza, seri impedimenti per le attività di supporto che consentivano agli enti di raccogliere risorse proprie e altro ancora.
Il lavoro avviato per superare la circolare N. 3 e adottarne un’altra capace di tenere conto della situazione critica che si era determinata, per altro, non ha tranquillizzato gli enti gestori che nelle nuove norme ipotizzate non hanno riscontrato la semplificazione auspicata e la certezza del rispetto dei tempi dei contributi ministeriali.
In prospettiva, poi, come ho avuto modo di sottolineare in un ordine del giorno accolto dal Governo in occasione dell’approvazione della legge di bilancio, sul capitolo che finanzia i corsi pesa il rischio di una regressione del budget di 2,2 milioni circa per gli anni 2023 e 2024, nonostante il rifinanziamento del Fondo per il sostegno alla promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo.
Per questo ho presentato un’interrogazione al Governo per chiedere che si faccia al più presto un aggiornamento del monitoraggio delle attività di promozione della lingua e cultura italiana nel mondo, affinché si possa valutare, dati alla mano, quali conseguenze abbiano prodotto negli ultimi anni la transizione normativa e la pandemia sul numero dei discenti e dei corsi.
Nello stesso tempo, ho chiesto ai responsabili del MAECI di tenere in maggiore e più diretta considerazione le istanze degli enti gestori, soprattutto per quanto riguarda la semplificazione delle procedure e la tempistica dei finanziamenti. Ho sollecitato il Governo, infine, a provvedere appena possibile alla reintegrazione dei fondi del capitolo riguardante il finanziamento dei corsi per il ’23 e il ’24, in modo da sgombrare l’orizzonte da una seria minaccia di crisi del sistema faticosamente consolidato negli anni passati.
*(Angela Schirò Deputata PD – Rip. Europa – – Camera dei Deputati)
04 – Schirò (pd): SOLIDARIETÀ CON LA COMUNITÀ DI LA LOUVIERE E CORDOGLIO PER LE VITTIME DEL TRAGICO EVENTO CHE HA COINVOLTO ANCHE NOSTRI CONNAZIONALI.
“Sconcerto e dolore sono i sentimenti che ho provato nell’apprendere la notizia del tragico evento di La Louvière che ha determinato la morte di sei persone e il ferimento di altre decine riunite in una occasione festosa e di serena socievolezza. Un dolore reso ancora più acuto dal fatto che molte delle persone coinvolte, sia come vittime che come responsabili dell’evento, siano nostri connazionali, discendenti da quegli italiani che hanno reso La Louvière uno dei luoghi simbolo della nostra emigrazione e una delle città più ”italiane” d’Europa.
Mi unisco alle parole di solidarietà e cordoglio che i rappresentanti della Federazione del PD del Belgio hanno rivolto al Sindaco di La Louvière Jacques Gobert, esprimendo nello stesso tempo le mie sincere condoglianze alle famiglie delle vittime. Ai feriti l’augurio di una pronta guarigione”.
05 – GIDEON LEVY*, HAARETZ, ISRAELE – LE SANZIONI ECONOMICHE POTREBBERO SERVIRE ANCHE A GAZA. IMMAGINATE CHE ISRAELE INVADA DI NUOVO LA STRISCIA DI GAZA, CAUSANDO I SOLITI MASSACRI, ROVINA E DEVASTAZIONE. IMMAGINATE DECINE DI MIGLIAIA DI CIVILI CHE FUGGONO PER SALVARSI LA VITA DOPO AVER PERSO IL POCO CHE AVEVANO. Gli edifici crollano come castelli di carta, ma Israele procede come se nulla fosse: i piloti bombardano, i carri armati avanzano, i mezzi d’informazione e la popolazione israeliana esultano.
Ma improvvisamente la comunità internazionale prende una decisione: se Israele non si ritirerà immediatamente, andrà incontro a sanzioni. Se la Striscia di Gaza non diventerà una zona d’interdizione al volo, gli aerei da e per Israele resteranno a terra. Israele ignora l’avvertimento e, come sempre, si giustifica parlando di autodifesa, terrorismo e olocausto. A quel punto scatta la nuova arma definitiva: escludere Israele dal sistema internazionale dei pagamenti bancari e da quello con cui le banche li comunicano. Israele rimane senza lo Swift. Del resto, quello che vale per il paese che ha invaso l’Ucraina dovrebbe valere anche per l’invasore della Striscia di Gaza.
Senza lo Swift, Israele imploderebbe all’istante. Forse il tirannico gigante russo può resistere per un po’, ma non Israele. Nel giro di pochi giorni i signori dell’economia si presenterebbero dai vertici politici e militari con un messaggio chiaro: fermatevi. Così non possiamo andare avanti. Più o meno quello che successe in Sudafrica ai tempi dell’apartheid quando gli imprenditori dissero al governo bianco: stop. A quel punto resterebbe da capire solo per quanti giorni le forze armate israeliane continuerebbero a distruggere Gaza. Un giorno? Due giorni? Una settimana? Ma alla fine i soldati si ritirerebbero, l’assedio si concluderebbe e Gaza sarebbe finalmente libera, per la prima volta in anni. Tutto con un “colpo” di Swift.
NUOVO ORDINE MONDIALE
Fino a tre settimane fa uno scenario del genere sarebbe stato impensabile, ma forse sta prendendo forma un nuovo ordine mondiale, in cui a ogni attacco contro gli indifesi, a ogni tentativo di conquista, la comunità internazionale risponderà con misure economiche e politiche punitive. Per convincere un paese intransigente come Israele, i carri armati non servono. Basta chiudere i bancomat all’aeroporto internazionale di Tel Aviv. Gli israeliani non accetterebbero mai di pagare di tasca loro per le campagne di distruzione a Gaza, in Libano, in Siria o nella Cisgiordania occupata.
È innegabile che Israele non possa resistere a una pressione del genere: non lo farebbe. L’indifferenza degli israeliani davanti alle azioni del loro paese e del loro esercito lascerebbe immediatamente il posto alla preoccupazione e alla paura per il loro denaro. Anche i patrioti più convinti e i più inveterati guerrafondai cambierebbero subito idea. Ma la domanda è un’altra: la comunità internazionale prenderebbe mai una simile decisione? Punire la Russia non è un problema, ma Israele? Il pupillo dell’occidente? Chi oserebbe? Le parole “Israele” e “sanzioni” non sono mai state accostate e finora nessuno ha lontanamente immaginato di punire il suo arrogante disprezzo delle risoluzioni approvate dalle organizzazioni internazionali. Ma forse, dopo l’Ucraina, qualcosa è cambiato. Magari dopo aver punito la Russia non si può più perdonare tutto a Israele. Forse il mondo si sta risvegliando.
In un paese dove perfino la guerra in Ucraina è considerata un affare e un’opportunità per il sionismo (la ministra dell’interno Ayelet Shaked ha parlato della possibilità di vendere più armi all’estero mentre il parlamentare Zvi Hauser vorrebbe portare nel paese gli ebrei ucraini) la popolazione potrebbe improvvisamente aprire gli occhi e rendersi conto della realtà. La guerra in Ucraina ha dato al mondo l’occasione di non restare più in silenzio. Rispetto alla Russia, ma anche a Israele.
Gli israeliani saranno disposti a pagare di tasca loro per avamposti illegali come Evyatar, che la maggior parte degli israeliani non ha mai visto e non vedrà mai? Continueranno ad applaudire l’aviazione dopo ogni bombardamento, sapendo che a ciascun crimine seguirà una punizione? Nella nuova e sconosciuta realtà globale tutto è possibile. Forse, quando i cannoni taceranno, tutto tornerà come prima, con Israele che si comporta come crede e ignora il mondo. Ma forse qualcosa cambierà. A Washington si sentono già nuove voci. Queste voci potrebbero diventare più forti quando la guerra sarà finita, e magari il mondo potrà finalmente far sentire la propria voce, agendo non solo contro la Russia ma anche contro lo stato più coccolato del mondo, a cui tutto è permesso. Un colpo allo Swift, e l’occupazione sarà finita.
(Fonte INTERNAZIONALE – Traduzione di Andrea Sparacino – di Gideon Levy, Haaretz, è un giornalista israeliano. Dal 1982 scrive per il quotidiano israeliano Haaretz e dal 2010 anche per il settimanale italiano Internazionale )
06 – Oliver Meiler*: L’ITALIA DIPENDE TROPPO DAL GAS DI MOSCA. IN QUARANT’ANNI LA PRODUZIONE INTERNA È DIMINUITA E IL CONSUMO È AUMENTATO. COSÌ IL GOVERNO SI È RIVOLTO ALLA LIBIA E POI ALLA RUSSIA
“Senza gas russo”, scriveva qualche giorno fa il Corriere della Sera, “l’autunno sarà freddo”. In senso letterale, sì, ma anche in senso metaforico per quanto riguarda la situazione generale.
Solo ora gli italiani si stanno rendendo conto di quanto il paese è dipendente dalle forniture di gas provenienti dall’estero, soprattutto dalla Russia. La guerra in Ucraina fa vacillare certezze che sembravano incrollabili. In Italia la preoccupazione è più forte che altrove visto che il gas serve per riscaldare e cucinare e provvede a una parte importante del fabbisogno di energia elettrica. In primavera e in estate probabilmente non ci saranno problemi, ma l’autunno è una minaccia cupa.
Il presidente del consiglio Mario Draghi non ha escluso un razionamento del gas per il settore industriale. L’Italia sta pagando le sue strategie miopi, la svendita della propria autonomia, l’insufficiente differenziazione delle fonti energetiche. Nel 1980, quando consumava solo quaranta miliardi di metri cubi di gas all’anno, ne produceva quasi la metà grazie a 115 piattaforme offshore, situate principalmente nel nord dell’Adriatico. Oggi consuma un quantitativo di gas quasi doppio rispetto a quarant’anni fa e ne produce solo 3,5 miliardi di metri cubi. Negli ultimi vent’anni le piattaforme d’estrazione e i combustibili fossili sono passati di moda e le quantità prodotte si sono ridotte sempre di più.
Da sapere
UN CONTINENTE DI IMPORTATORI
Percentuale di gas importato dalla Russia sul totale delle importazioni di gas di ciascun paese. Regno Unito e Bosnia Erzegovina, dati del 2019. Nel 202o la Norvegia ha importato dieci milioni di metri cubi di gas dalla Russia, ma non dipende da Mosca perché è un’esportatrice netta (esporta più gas di quanto ne importa). Eurostat, Agenzia statistica e analitica del dipartimento statunitense per l’energia, Bloomberg
Il resto del gas viene da Russia (circa il 40 per cento), Algeria (28 per cento), Azerbaigian (9 per cento) e Libia (4 per cento), per citare solo i fornitori maggiori. Il gas liquefatto trasportato dalle navi cargo che partono dal Qatar, invece, è convertito nei rigassificatori a Livorno, a Panigaglia e a Cavarzere, dov’è stoccata la maggior parte delle riserve italiane, che però sono piuttosto scarse: secondo il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani, infatti, se s’interrompessero le forniture di gas dall’estero, le riserve basterebbero solo per otto settimane.
DIVERSIFICARE LE FONTI
Ora l’Italia sta cercando di aumentare le quantità importate da fonti non russe, per sottrarsi ai possibili ricatti di Mosca. Da quando è scoppiata la guerra il ministro degli esteri Luigi Di Maio è già stato in Algeria e in Qatar, insieme all’amministratore delegato dell’Eni. Ma le trattative con il Qatar sono difficili, perché il paese ha impegni contrattuali a lungo termine con altri compratori in estremo oriente. Le cose sono andate meglio con l’Algeria, da cui ultimamente attraverso il condotto Transmed arrivano più forniture di gas rispetto a quelle provenienti dalla Russia. Anche dall’Azerbaigian ci si aspetta un aumento delle importazioni, visto che il nuovo gasdotto Trans-Adriatico al momento non è sfruttato a pieno regime. E poi c’è la Libia, ex colonia italiana, da cui in passato l’Italia importava grandi quantità di gas, anche per la vicinanza geografica tra i due paesi. Poi però l’Italia si è resa conto che Muammar Gheddafi sfruttava questa dipendenza a scopi politici e ha cercato nuovi fornitori. Ma la lezione non è bastata.
Alcuni studi dimostrano che se l’Italia interrompesse del tutto le forniture di gas russo, aumentando la propria produzione e le importazioni da Algeria, Azerbaigian e Libia, sarebbe in grado di compensare solo la metà del quantitativo perso: all’appello mancherebbero circa 15 miliardi di metri cubi di gas all’anno, una quantità considerevole.
IL RITORNO DEL CARBONE
Ma quali sono le alternative? L’Italia non ha centrali nucleari. Inoltre, aumentare la produzione da fonti rinnovabili non è facile: serve tempo, soprattutto a causa della burocrazia. A breve termine, perciò, la via d’uscita è una sola e in parlamento Draghi ne ha parlato con tono rassegnato: il governo ha dato disposizioni perché sei centrali a carbone si preparino a riportare la produzione a pieno regime.
L’Italia si era impegnata a dismetterle tutte entro il 2025, per contribuire alla riduzione delle emissioni di CO2. Circa l’otto per cento dell’inquinamento atmosferico in Italia, infatti, si deve a queste centrali. Quella di La Spezia era già stata chiusa, mentre le altre avevano ridotto la produzione. La centrale di Monfalcone, nel nordest del paese, era vicina alla chiusura, con grande sollievo della popolazione locale, che ora a causa di Vladimir Putin rischia di tornare a vivere tempi bui.
All’improvviso si parla di nuovo anche di trivelle, le piattaforme di estrazione da sempre contestate per motivi ecologici e per il loro impatto sul paesaggio. Cingolani ha annunciato che il governo ha semplificato le procedure per autorizzare nuovi impianti. Una dichiarazione singolare visto che il suo ministero ha il compito di rendere più sostenibile la produzione di energia in Italia.
( Fonte INTERNAZIOALE, Oliver Meiler, Süddeutsche Zeitung, Germania, È il corrispondente in Italia del quotidiano svizzero Tages-Anzeiger e di quello tedesco Süddeutsche Zeitung.)
07 – OSSERVATORIO SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA* – PNRR. Promosso da: Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Laudato Sì, Nostra. Puntare strategicamente sulle energie rinnovabili, altri ritardi sono inaccettabili. Il Presidente del Consiglio Draghi ha detto più volte che bisogna puntare sulle energie rinnovabili per raggiungere l’obiettivo della nostra sovranità energetica. Per ora il Ministro Cingolani ha annunciato solo l’approvazione di alcuni parchi eolici che valgono solo 400 Megawatt e l’intenzione di costruire due rigassificatori galleggianti.
Troppo poco per parlare di svolta nella politica energetica del nostro paese. 400 MegaW sono un ventesimo delle richieste di eolico che Terna ha in attesa di approvazione. Occorre fare seguire alle parole i fatti e le scelte.
Bisogna uscire da questa contraddizione: da un lato si parla di rinnovabili ma in realtà si pensa al gas, al carbone, o anche peggio.
Interventi per alleggerire le conseguenze dell’aumento dei prezzi e della guerra sono indispensabili ma il problema di fondo è puntare su un nuovo piano energetico nazionale, in un quadro europeo. Per questo occorrono proposte precise.
Greenpeace, Lega Ambiente e WWF hanno avanzato una proposta importante. Riscrivere il Piano energetico nazionale (Pniec) entro giugno per definire con precisione quanto fotovoltaico, quanto eolico in mare e a terra, quanto possono dare le altre fonti rinnovabili e un nuovo piano di risparmio energetico, perchè ad esempio i rigassificatori per riportare il gas naturale liquefatto a temperatura ambiente possono fornire l’energia del freddo alle imprese che ne hanno necessità per loro produzioni, altrimenti questa grande risorsa viene sprecata e dispersa nell’ambiente.
Un piano energetico aggiornato deve avere come primo obiettivo riprendere almeno il ritmo degli investimenti nelle energie rinnovabili del 2010/2013, puntando a 90 GigaW entro 5/6 anni, come propongono giustamente le associazioni ambientaliste, andando oltre gli obiettivi precedenti a causa dell’urgenza di creare alternative al gas.
CI SONO DUE PRECONDIZIONI.
La prima sono le autorizzazioni per i nuovi impianti. Il PNRR consente al Governo di adottare decisioni per ottenere l’ok definitivo ai nuovi impianti fotovoltaici entro 30/60 giorni e l’approvazione dell’eolico, in particolare off shore, entro 6 mesi, garantendo gli allacci di Terna all’entrata in funzione degli impianti.
La seconda sono i finanziamenti. I nuovi impianti fotovoltaici, comprensivi di accumuli, debbono essere agevolati con detrazione fiscale al 100 %, anziché al 50%, fino a 20 kW, installandoli sui tetti delle case e dei capannoni. Questo intervento può essere inserito nel quadro dei bonus edilizi, stanziando un miliardo in più all’anno, cioè meno della metà degli aumenti appena decisi per le spese per armamenti.
PER LE ARMI I SOLDI SI TROVANO E PER GLI INVESTIMENTI ENERGETICI NO ?
Questa incentivazione decennale delle rinnovabili va discussa dal Governo con le imprese e i sindacati per costruire un piano per produrre, installare e l’assistenza degli impianti, puntando a fare crescere la produzione nazionale e l’occupazione. 90 GigaW di energie rinnovabili sostituiscono 30 miliardi di metri cubi di gas, pari al 45% di tutto l’import di gas in Italia e tutto il gas russo importato.
Per l’eolico off-shore oltre le 12 miglia (20 Km) di distanza dalla costa l’approvazione dei progetti è di competenza del governo centrale e deve avvenire entro 6 mesi. La normativa che oggi congela ed impedisce il repowering e l’aggiornamento dei progetti eolici deve essere modificata in modo da consentire l’installazione dell’ultima generazione di turbine. Terna deve essere predisporre l’allaccio alla rete elettrica delle turbine, con contratti per l’immissione in rete dell’elettricità prodotta a tariffa concordata per 10 anni.
Le tariffe elettriche per gli utenti vanno rese trasparenti sulla base della effettiva produzione (FER, fossile, altro) dell’energia elettrica venduta al consumatore, in modo da rendere evidente la convenienza dell’apporto delle energie rinnovabili sulle altre fonti.
Piano per la produzione siderurgica connesso alla produzione da energie rinnovabili e di idrogeno verde, di cui manca il piano. Piano per la produzione di pale eoliche, ecc. e per la produzione di pannelli solari, inverter, batterie di accumulo. Piano di formazione di operatori/manutentori per fotovoltaico ed eolico (compreso offshore).
Uso dell’idroelettrico esistente, non di costosi e inutili nuovi turbogas, per stabilizzare a rete elettrica, anche attraverso i pompaggi. Nuovi investimenti ove possibile con estensione ai piccoli salti d’acqua. Nel mezzogiorno e nelle isole l’idroelettrico può dare un’importante contributo di regolazione all’approvvigionamento idrico dell’agricoltura e del territorio. Occorre introdurre l’obbligo di installazione di impianti solari FV su tutte le nuove costruzioni come in Germania.
Liberalizzazione del mercato delle FER eliminando l’anacronistico obbligo della vendita di energia esclusivamente all’operatore monopolista elettrico. Il cittadino auto produttore di energia deve essere libero di vendere l’energia sul mercato locale e il gestore della rete elettrica deve essere di supporto ai cittadini.
Liberare le comunità energetiche da una normativa controproducente ed eccessivamente vincolante, in modo da ampliarne l’applicazione e il potenziale di sviluppo.
Creazione di un fondo interbancario per finanziamenti a tassi agevolati con procedura semplificata degli investimenti, senza decurtare gli incentivi.
Ulteriori misure per il fotovoltaico agricolo, biomasse, ecc. per contribuire a realizzare gli obiettivi. Blocco della costruzione di inutili nuove centrali a gas, conferma della chiusura delle centrali a carbone nel 2025. Il PNIEC dovrà tracciare la “road-map” di riferimento per gli investimenti nel settore energetico in Italia, confermando comunque l’esclusione del nucleare da fissione in Italia.
*(Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Jacopo Ricci, Alex Sorokin 21/3/2022)
08 – Alfiero Grandi*:L’INVASIONE DELL’UCRAINA HA APERTO IL VASO DI PANDORA DELLA GUERRA, VA RICHIUSO PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI.
LA GUERRA IN UCRAINA CONTINUA. L’invasione russa prosegue sia pure con difficoltà, l’Ucraina ne contrasta l’avanzata. Le richieste insistenti di Zelensky sulla No-Fly Zone, per la fornitura di aerei dalla Nato, per avere armi letali come Iron dome da Israele, per il blocco delle forniture all’Europa di gas dalla Russia, confermano che un conto è contrastare, mettere in difficoltà l’invasione russa, altro è vincere. Quanto sta accadendo in Ucraina, dove ci sono morti, feriti, distruzioni e si sta scavando un burrone tra mondi e culture, va fermato senza perdere tempo. Non fermare subito i combattimenti significa che lutti, distruzioni, la semina di odi e rotture profonde diventeranno sempre più gravi, insopportabili in Ucraina e nel mondo.
L’impressione è che le parti in causa non abbiano ancora deciso se sia giunto il momento per trattare seriamente e che anche i mediatori siano in attesa di un momento più favorevole per svolgere il loro ruolo. La speranza è che riservatamente qualcosa si stia muovendo, ma per ora è solo una speranza. Nelle valutazioni che si ascoltano e si leggono su questa guerra in Italia, e non solo, prevale lo schierarsi a sostegno, ma questa non è una competizione pacifica nella quale fare il tifo, è una guerra che deve arrestarsi prima possibile.
L’obiettivo è farla cessare per risparmiare vite umane, altre distruzioni, altri veleni che vanno in circolo in modo potente. Ad esempio, il diffondersi della convinzione che evitare la guerra è un sogno irrealizzabile, quasi fosse un fenomeno naturale, e per questo la corsa al riarmo sarebbe inevitabile. Non a caso è tornato di moda il motto latino guerrafondaio: se vuoi la pace prepara la guerra.
Partendo dall’invio di armi all’Ucraina si passa con disinvoltura a prendere in considerazione un intervento armato diretto.
Esattamente dove porterebbero la No-Fly zone, oppure l’invio di aerei da combattimento, richiesti da Zelensky, se non all’estensione del conflitto, ad una guerra aperta tra Nato e Russia? Si delinea sempre più nitido il pericolo di un’escalation. Tanto è vero che iniziano le distinzioni tra guerra diretta tra Russia e Nato e il rischio di un conflitto nucleare, che secondo queste valutazioni sarebbe possibile evitare. Ne hanno parlato in questi termini autorevoli dirigenti ucraini e anche esponenti di altri paesi europei. Per questo l’iniziativa per una tregua e per la pace debbono essere la priorità per tutti.
Per questo il movimento per la pace deve crescere, diventare potente, unificando tutte le posizioni che convergono sull’obiettivo di cessare la guerra e puntano ad un accordo di pace. Posizioni che debbono convergere sull’obiettivo centrale anche quando le valutazioni di partenza sono diverse. Oggi non è così, il tentativo di contrapporre la piazza di Firenze a quella di Roma è stato un segnale preoccupante. Il movimento per la pace in Ucraina deve resistere ai tentativi di “arruolarlo” perché in gioco ci sono le vite di altri e a loro deve guardare l’iniziativa per fermare i combattimenti e imboccare la difficile strada di una soluzione pacifica del conflitto.
La mediazione è indispensabile per trovare una via d’uscita dal conflitto armato.
Le parti in causa hanno difficoltà a farlo direttamente, infatti quando si rivolgono all’altro contendente danno l’impressione di considerare la trattativa come un aspetto della campagna di guerra. Occorre individuare una sede e un ruolo di mediazione. L’Onu è la sede preferibile e naturale. Luigi Ferrajoli ha proposto che l’assemblea generale dell’Onu si riunisca in modo permanente fino alla fine dei combattimenti. È una proposta che indica con nettezza l’importanza che l’Onu deve dare alla soluzione di questo conflitto, sottraendolo ai rapporti di forza e alle convenienze delle grandi potenze, facendo rientrare il loro stesso ruolo nell’ambito delle Nazioni Unite. Certo, il ruolo dell’Onu negli ultimi decenni si è molto indebolito, ma questo è il risultato di scelte precise delle potenze mondiali grandi e meno grandi che hanno preferito, per loro interessi, decidere loro interventi militari mettendo l’ONU di fronte al fatto compiuto, facendogli mancare le risorse. In questo hanno responsabilità tutte le principali potenze del pianeta.
Ricordo che fino a poco tempo fa anche la Nato non godeva di grande considerazione, basta ricordare i giudizi di Trump e Macron.
La tragedia ucraina può essere l’occasione per ridare peso e ruolo alle Nazioni Unite, riconoscendo il loro ruolo di sede in cui condurre le trattative. Questo non vuol dire che le grandi potenze vadano tenute ai margini. Al contrario l’obiettivo deve essere di imporre loro comportamenti che rispondano a tutta l’opinione pubblica mondiale. Nel ruolo di mediazione sotto l’egida dell’Onu possono essere stemperati anche i dubbi sulle reali motivazioni di alcuni paesi che si sono candidati alla mediazione e possono essere spinte ad assumere un ruolo potenze come la Cina, che altrimenti sembrano restie, basta ricordare quanto ha detto XI a Biden: spetta a chi mette il sonaglio al collo della tigre il compito di toglierlo. In quella sede anche personalità di riconosciuta credibilità possono svolgere un ruolo, altrimenti a quale titolo potrebbero avanzare proposte alle parti in causa?
L’urgenza di sospendere i combattimenti deve diventare l’assillo principale per tutti – oggi ancora non lo è – per spingere ad imboccare la via della trattativa. Tra i veleni che si stanno diffondendo, forieri di gravi conseguenze, c’è una fortissima spinta al rilancio degli armamenti. Eppure Francesco ha detto solo pochi giorni fa che non è accettabile che i soldi per le armi si trovino sempre mentre quelli per fare stare meglio le persone no. Spendere di più per le armi è una profezia che auto avvera la guerra, per la quale vengono prodotte.
Eppure in passato quando si è arrivati sull’orlo del burrone nucleare c’è stata una reazione che ha definito le modalità per evitare errori irreparabili e avviato trattative per ridurre gli armamenti, a partire dal nucleare. Sono state scelte vie diverse, a volte tortuose, su segmenti, ma alla fine del percorso qualche risultato significativo di disarmo è stato raggiunto. Ma ora la posizione riarmista ha ripreso forza, mettendo in discussione accordi e bloccando la possibilità di farne altri. C’è un abisso tra l’attenzione ad evitare che l’Iran si doti di armi nucleari e la distrazione, o peggio, sui comportamenti di quanti le hanno già, il cui arsenale viene ammodernato e reso ancora più letale. Anche l’Italia avrà presto sul suo territorio un potenziamento/ammodernamento dell’arsenale nucleare, che è di stanza nei depositi USA e Nato. C’è troppa rassegnazione verso il riarmo, che la guerra in Ucraina sta spingendo potentemente.
Occorre puntare ad un clima politico che consenta di invertire la tendenza al riarmo, anzitutto nucleare, per impedire che la previsione della catastrofe mondiale si auto avveri. Dopo pochi mesi rischiamo il tramonto definitivo di iniziative come quelle sul clima, che hanno bisogno di un orizzonte mondiale, che si aggiungerebbe alla sopraffazione sull’ambiente e sul clima che rappresenta la guerra. Ci sono approfondimenti da fare sul rapporto tra Europa e Nato. Unione europea e Nato non sono la stessa cosa. L’UE non dovrebbe essere la dimensione europea della Nato. L’Unione europea ha già affrontato una prova difficile estendendosi sul versante dell’est Europa, male immaginata e peggio organizzata. Non a caso la capacità di decisione su questioni di fondo in Europa continua ad essere condizionata dall’unanimità e quindi un solo paese ha diritto di veto. I cerchi concentrici delle cooperazioni rafforzate possono servire per alcune situazioni, vedi Euro, ma non possono diventare la regola. Le divisioni interne all’Europa sono frutto di una costruzione bislacca e di una reazione all’egemonia dei fondatori. Ora la guerra in Ucraina spinge l’Europa a sostenerla con la fornitura di armamenti, con interventi dell’UE (si arriverà ad un miliardo di euro) e dei singoli paesi. Eppure la fornitura di armamenti all’Ucraina è già affrontata dalla Nato, e dagli Usa a cui evidentemente la Nato non basta.
Perché l’Europa deve scendere in campo in aggiunta all’alleanza militare di cui fa parte? Semmai l’UE dovrebbe decidere che è giunto il momento di dare vita ad un proprio sistema militare, ma in questo caso occorre evitare il raddoppio delle spese per la difesa. Il parlamento italiano ha deciso di portare le spese militari al 2% del bilancio dello Stato (da 26 a 38 miliardi) entro il 2027, senza aumentare il deficit vuol dire sottrarre risorse ad altre voci, spesa sociale, ecc… Il 2% di aumento delle spese militari nazionali rischia di aggiungersi alle spese europee, mentre la “difesa europea” era stata immaginata come un rafforzamento per integrazione, quindi con meno spese. In realtà il 2% è una richiesta degli USA e della Nato. La difesa comune europea potrebbe essere una buona idea a condizione che ci sia un reale Governo europeo, Difesa compresa, e che tutti i sistemi siano integrati, resi europei, risolvendo anche il ruolo della Francia, unico paese con armamento atomico. La Gran Bretagna ormai è fuori dall’UE e insegue il sogno di diventare un regolatore mondiale a fianco degli Usa.
Comunque la si pensi è inevitabile che questa orribile guerra porti a reazioni di paura, al rafforzamento dei peggiori istinti bellicisti. Per contrastarle occorre una riflessione adeguata sulle prospettive, sia per disinnescare il massacro in corso, sia in prospettiva per individuare un sistema di prevenzione dei conflitti, ristabilendo fiducia e canali di comunicazione che portino il pianeta nella direzione opposta a quella attuale. Il contrario di quanto accade.
Il mondo era impreparato ad una prova come l’invasione dell’Ucraina ma ora non può non prepararsi a progettare una soluzione stabile che prevenga i conflitti e sia in grado di risolverli. Nel pieno della seconda guerra mondiale fu progettato l’ONU come sede di prevenzione e regolazione dei conflitti. Un grande sogno che trovò le forme di realizzazione che conosciamo. Ora il problema da risolvere è di pari livello. Basta pensare all’irrisolto problema di come svolgere il ruolo di polizia internazionale, di interposizione, che ha bisogno di forza reale per non fallire come a Sarajevo.
Da una tragedia si esce solo se si reagisce al meglio delle idee e delle scelte per correggere la deriva in atto. Altrimenti rischiamo di vedere tempi molto bui.
*(Fonte Jobsnwes, Alfiero Grandi, è un politico e sindacalista italiano.)
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