Nell’anniversario dei bombardamenti Nato del 1999 sulla Serbia, il ricordo di un incontro sotto le bombe, a Belgrado, con una famiglia di rifugiati serbi che avevano dovuto lasciare Sarajevo da anni. E’ stato pubblicato nella raccolta Racconti dal mondo, Premio Pietro Conti IX edizione.
di Marinella Correggia
Cara Vesna, la tua casa in mezzo alla strada
Le guerre spostano i popoli e anche qualche pacifista occidentale. Fortunati, noi della delegazione italiana di solidarietà con gli abitanti della Serbia sotto i bombardamenti della Nato, fra aprile e maggio 1999. Arrivati in pullman a Belgrado, avevamo bussato all’hotel Jugoslavia. C’erano tutte le stanze libere ma costava troppo per noi auto-paganti; l’equivalente di 40.000 lire per notte. Finimmo in un albergo più economico nel quartiere Zemun. Il giorno dopo, il portiere ci disse che l’hotel Jugoslavia era stato bombardato quella notte.
Due notti ardenti a parlare con voi. Vivevate da tempo nella stanza accanto. Vesna, Neboish e vostro figlio Stephan di sette anni, begli occhi allungati come i tuoi. Sfollati ormai stabili dalla sventurata Sarajevo, sventurata per tutte le etnie, da quando queste erano diventate un fattore che conta.
La sedia in più per me entrava a malapena nella vostra stanza già piena: il letto dove dormivate in tre, i quaderni di scuola, il fornellino dove friggeva la frittatina palacinka, «se non c’era la guerra te la facevo più buona con le noci», i fagotti da profughi, le foto della vostra casa e di un’antica gita a Venezia, la chitarra e la Bhagavad Gita di Neboish. Ti dichiaravi «jugoslava, io sono ancora jugoslava», e Neboish taciturno annuiva. Un po’ sdrammatizzavi le bombe che ci cadevano a poca distanza: «Non c’è morte senza destino. Anche a Sarajevo faceva…troppo caldo, ci siamo abituati. Ma certo il cielo ci è nemico. Il bambino di notte ha paura. Il 5 aprile hanno colpito a 100 metri. Devo chiedere il risarcimento danni psicologici alla Nato!» Vesna, tuo marito mobilitato durante la guerra in Bosnia era diventato invalido; da 4 anni vegetariano per amore degli animali, questo pericoloso soldato serbo non trovava lavoro, solo una pensione di 50 marchi. Ti arrangiavi tu, commerciando in biancheria intima, «ma adesso temendo una lunga guerra tutti risparmiano».
Vesna, non dormivamo mai. Il tuo senso di ospitalità e la nostra voglia di amicizia ci tenevano sedute, mentre a gesti incrociavamo io italiano e inglese, tu serbo e tedesco. Mi obbligavate a bere tazze piene di quel pastoso e forte caffè turco che ho sempre detestato, ma come dirvelo? Cosa mangiava Neboish, in questa Belgrado di guerra dove sembrava esser rimasta solo carne e io infatti ero a stecchetto? Scherzavi: «E già, i serbi mangiano i bambini. Violentano le donne. Invece le bombe Nato sono buone». Ridevate amaro. «Il problema era antico, in Kosovo. C’erano conflitti, certo. Ma l’intervento militare porta non solo altri morti, altri senzatetto, porta anche odio». E tu? Profuga di guerra, in un’altra guerra, che pensavi di fare? «Già prima vivevamo giorno per giorno. Adesso è ora per ora. Siamo sfortunati. Forse abbiamo costruito la nostra casa in mezzo alla strada, così si dice da noi. Ma quasi sette settimane di bombe sono tante, non lo auguro a nessuno». Potevi forse tornare a Sarajevo? «No, la nostra casa è abitata da altri, e poi non saremmo al sicuro. Spero nella pace qui, un giorno».
Vesna, la nostra sorellanza nell’emergenza.
Dopo qualche tempo mi mandasti con un volontario che faceva la spola un regalino e io – sempre con lui – ricambiai. Poi ti ho persa. Non avevi email. Non avevo un cellulare.
Dove sei adesso?
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