n°04 – 22/1/2022 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO.

01 – Schirò (Pd): presentati due emendamenti al “milleproroghe” per salvaguardare detrazioni e assegni familiari degli italiani all’estero

02 – Andrea Ventura*: I danni del capitalismo Anti sociale per natura.

03 – IL 18 gennaio il parlamento europeo ha eletto alla presidenza la deputata maltese di centrodestra Roberta Metsola, che prenderà il posto di David Sassoli.

04 – Roberto Romano*: L’economia di mercato non ha come obiettivo la piena occupazione . Lavoro e Stato. L’Italia è un paradigma tecno-sociale: ha «istituzionalizzato» il lavoro povero e il saper fare fondato su flessibilità e sfruttamento. Così sono stati stravolti i diritti

05 – Tommaso Nencioni*: Berlusconi e Draghi il caso unico di due autocandidature al Quirinale. Sull’anomalia rappresentata da un’eventuale ascesa al Colle del Cavaliere poco c’è da aggiungere al molto che a proposito del leader di Forza Italia è stato detto e scritto negli ultimi trent’anni

06 – Piero Bevilacqua*: Come sottrarre il pianeta all’arbitrio umano e del mercato. Saggi. «Per una costituzione della Terra» di Luigi Ferrajoli, edito da Feltrinelli. L’autore e giurista presenta con rigore intellettuale i cento articoli in cui si dovrebbe articolare.

07 – Alessandra Algostino*: l’infodemia sul green pass stende un velo sul conflitto sociale. Ferma la costituzionalità relativa alla legittimità dell’obbligo vaccinale, dobbiamo interrogarci sulla pervasività della discussione che lascia fuori tutto il resto

08 – Alfiero Grandi*: Berlusconi non deve diventare Presidente della Repubblica. Il destino prossimo della democrazia italiana

09 –  Coordinamento Democrazia Costituzionale *: Richiesta al Governo di bloccare l’inserimento di nucleare e gas fossile nella tassonomia europea delle energie rinnovabili, alle 13 la petizione ha 147.002 firme, allegata petizione allegata con aggiornamento, raccolta delle firme continua OSSERVATORIO SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA – PNRR

 

 

01 – SCHIRÒ (PD): PRESENTATI DUE EMENDAMENTI AL “MILLEPROROGHE” PER SALVAGUARDARE DETRAZIONI E ASSEGNI FAMILIARI DEGLI ITALIANI ALL’ESTERO

“Con gli emendamenti che abbiamo presentato ieri al Decreto “Milleproroghe” in discussione alla Camera dei deputati intendiamo ribadire il nostro impegno e la nostra convinta battaglia affinché le detrazioni per i figli a carico e l’assegno per il nucleo familiare con figli continuino ad essere fruiti dai nostri connazionali aventi diritto residenti all’estero”. 21 gennaio 2022

“Come è noto sia le detrazioni che l’Anf saranno abrogati per tutti, residenti in Italia e all’estero, a partire dal 1° marzo 2022 in virtù delle disposizioni della nuova legge sull’Assegno unico universale. Tuttavia per chi risiede in Italia i due benefici abrogati saranno sostituiti e compensati dall’importante e positivo strumento dell’Assegno unico”.

“Purtroppo quei residenti all’estero che attualmente ne hanno diritto perderanno sia le detrazioni che l’Anf (per i figli) ma non potranno ottenere invece l’Assegno unico che è subordinato, tra le altre cose, alla residenza e al domicilio in Italia”.

“Siamo intervenuti sin dall’entrata in vigore nell’aprile del 2021 della Legge Delega sull’Assegno unico per sensibilizzare Governo e autorità competenti sulla situazione di iniquità e di discriminazione che la nuova legge avrebbe prodotto sui sacrosanti diritti acquisiti dalle nostre collettività residenti all’estero: diritti sanciti da leggi nazionali e da accordi internazionali di sicurezza sociale. Occorre quindi definire le necessarie normative per garantire tali diritti”.

“I nostri emendamenti al “Mille proroghe” intendono sollecitare ulteriormente Governo e Parlamento affinché si facciano carico della giusta tutela dei diritti fiscali e previdenziali dei nostri emigrati. In ogni caso, continueremo il nostro impegno per salvaguardare i diritti di decine di migliaia di nostri connazionali residenti all’estero”.

*(Angela Schirò – Deputata PD – Rip. Europa – – Camera dei Deputati)

 

02 – I DANNI DEL CAPITALISMO ANTI SOCIALE PER NATURA . IL CAPITALISMO SI BASA SULLA DISTRUZIONE DEI RAPPORTI SOCIALI E SULL’ANNULLAMENTO DEI BISOGNI, DELLE ESIGENZE E DELLE ASPIRAZIONI DEI SINGOLI INDIVIDUI, CHE VANNO BEN OLTRE LA LOGICA DEL PROFITTO, DEL CONSUMO E DELL’ARRICCHIMENTO

II CAPITALISMO NON È LEGATO ALLA DEMOCRAZIA, INFATTI SI TROVA A SUO AGIO ANCHE ACCANTO ALLE PEGGIORI DITTATURE.

Un cardine fondamentale della teoria economica dominante è costituito dalla cosiddetta sovranità del consumatore. L’idea di fondo è che l’individuo sia il miglior giudice delle proprie scelte, e che nessuno debba interferire con esse. Di conseguenza il libero mercato, dove ciascuno agisce individualmente, è il luogo dove si realizzano la libertà e il benessere di tutti. Muovere dalle

scelte individuali è anche un cardine metodologico. La teoria economica dominante, infatti, rifiuta l’idea che  un’economia ben funzionante possa essere controllata dai governi, o che in essa debbano interferire sindacati, partiti e portatori di interessi collettivi. La teoria si basa piuttosto sull’individualismo metodologico, cioè sulla tesi per la quale si deve partire dai singoli individui. E certamente ovvio che la società sia composta da individui, ma l’individuo non è mai isolato dai suoi simili.

Piuttosto, per riprendere una efficace formulazione di Marx, «l’individuo si può isolare solo in società». Il rapporto tra individuo e realtà sociale è dunque uno dei temi più complessi, e le forzature che propone la teoria economica dominante sono inaccettabili, soprattutto perché mancano di riconoscere gli elementi che rendono la vita umana diversa dalla vita delle altre specie

animali: essa si caratterizza per la maggiore socialità, non per l’assenza di essa, dunque ridurre la società alla somma di individui isolati toglie senso al nostro essere nel mondo. La protesta sociale a cui assistiamo assume spesso aspetti distruttivi proprio perché ha a monte un’ideologia che ha operato proprio nel senso della distruzione della solidarietà, dei valori collettivi, del ruolo pubblico, lasciando il singolo in balìa delle paure e delle angosce generate dalla perdita di senso dei rapporti sociali: rapporti la cui qualità, invece, è decisiva per la nostra identità in quanto esseri umani.

Questa cosiddetta sovranità del consumatore crolla anche ove si considerino le distruzioni dell’ambiente naturale generate proprio dall’idea che il mercato possa essere il luogo dove si realizza la liberà individuale e l’efficienza economica. Il singolo, infatti, potrebbe essere l’unico giudice delle proprie scelte solo ove le conseguenze di esse ricadessero, nel bene e nel male, soltanto su di lui. Ma il normale svolgimento dell’attività economica ha conseguenze sia su chi quell’attività la esercita, sia su altri soggetti che ne sono coinvolti. La teoria economica considera questa eventualità e la definisce come “esternalità”: si ha un’esternalità quando l’attività di un soggetto economico genera conseguenze che non rientrano nei suoi costi o nei suoi benefici. Se un’impresa inquina, genera una esternalità perché danneggia, ad esempio, un’attività turistica, o agricola, o la salute pubblica. Se un consumatore usa un mezzo di trasporto inquinante, genera un’esternalità su chi decide di spostarsi a piedi o in bicicletta, o ama il silenzio. Se un Paese, un’impresa o una civiltà fanno fortune con i combustibili fossili, danneggiano Paesi e popolazioni la cui vita diverrà impossibile per l’aumento delle temperature e l’innalzamento del livello dei mari,

Gli esempi sono infiniti. Il punto è che la sovranità del consumatore, come anche l’individualismo metodologico, non possono esistere se non nel cervello di un piccolo gruppo di sacerdoti del libero mercato, che su queste idee malate ha costruito carriere accademiche, ha assunto incarichi lautamente retribuiti, ha condizionato la politica e i governi di tutto il mondo, per decenni, fino a condurre il pianeta sull’orlo della catastrofe ambientale. Lo scarto tra teoria e fatti è talmente profondo che, nell’ambito della stessa teoria economica, il dibattito su questo punto è tra i più accesi. Purtroppo il problema è assai più radicale di quanto possa essere riconosciuto in quel contesto. E la natura stessa del sistema capitalistico che, a fronte dei profitti privati, genera esternalità, meglio definite come costi sociali. Dunque: profitti privati da un lato, costi sociali dall’altro. Il profitto, in sostanza, non proviene dal nulla, ma dallo sfruttamento di risorse che, di volta in volta, possono essere la vita dei lavoratori, l’ambiente naturale, le imposte che i governi raccolgono per coprire gli interessi sul debito pubblico, i dati personali di ciascuno di noi, appannaggio a fini di controllo sociale e, appunto, di profitto, dei pochi colossi della rete; ed è sorprendente che, di fronte alla gravità di questi problemi, la critica al capitalismo sia un tema sempre più marginale.

Uno dei motivi di questa marginalità può essere individuato nel fatto che termini quali mercato, industria, capitalismo siano usati come sinonimi: superare il capitalismo, dunque implicherebbe costruire un’economia diretta dall’alto, oppure rinunciare al nostro benessere se non anche alle nostre libertà. Ora, a parte il fatto che questo benessere, oggi, è comunque in discussione proprio per le forme sempre più distruttive che il capitalismo sta assumendo, va chiarito che il capitalismo non può essere identificato col mercato o con l’industria, o con la ricchezza, né è sinonimo di libertà. Esso è piuttosto una modalità specifica di gestire i rapporti economici. Il capitalismo, infatti prospera anche senza mercato, come ad esempio avviene negli appalti pubblici, o nelle Partnership pubblico privato. Prospera senza industria, come avviene nella finanza e nel controllo dei flussi di informazioni che transitano nella rete. Il capitalismo riesce a prosperare anche quando fallisce, come è avvenuto a seguito della crisi del 2008, grazie alla gestione della moneta da parte delle banche centrali e ai sostegni dei governi. Il capitalismo non è neanche sinonimo di libertà, né è legato alla democrazia, in quanto si trova a suo agio anche accanto alle peggiori dittature, né assicura la pace: forse la preferisce, ma non disdegna la guerra, sia per il controllo delle risorse e delle persone, sia per profitti legati alle commesse militari. La grande domanda su cosa sia il capitalismo è tanto difficile quanto necessaria. Essa va affrontata con precisione, proprio come quando, dovendo combattere una malattia mortale, dobbiamo conoscerne esattamente la natura.

La risposta va cercata nella sua specifica modalità di gestire i rapporti sociali, e proprio la teoria economica che lo sostiene può fornirci una prima indicazione: così come essa annulla i rapporti sociali, il capitalismo, che orienta ogni forma di vita alla produzione di merci e al profitto, è basato sull’annullamento del valore del rapporto sociale. Gli esseri umani hanno bisogni, esigenze, aspirazioni, hanno una fantasia e una voglia di vivere che va assai oltre la logica del profitto e dell’arricchimento individuale. La società capitalistica annulla tutto questo. L’annullamento della vita psichica e di ciò che c’è nella mente umana al di là della razionalità calcolante, è la caratteristica essenziale del capitalismo. Alla radice del capitalismo vi è pertanto una forma di violenza sottile, invisibile, accompagnata dal miraggio del benessere economico, che talvolta – ma non sempre e non necessariamente – si risolve in violenza fisica. La ricerca che per decenni Massimo Fagioli ha condotto sulla pulsione di annullamento è un cardine imprescindibile per l’affermazione di una nuova umanità, e per poter affrontare, con efficacia, il grande tema della natura del capitalismo e le ragioni del suo dominio sulla società contemporanea.

*(Andrea Ventura, Economista, ricercatore, ha insegnato Economia per le scienze sociali ed Economia degli interventi pubblici presso la Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” dell’Università degli studi di Firenze. Autore di numerose pubblicazioni, i suoi interessi di ricerca vertono sulle problematiche del costo sociale, del pensiero economico e del rapporto tra scienza e metodo in economia. Ha dedicato particolare attenzione alle dinamiche della crisi, pubblicando nel 2012 La trappola. Radici storiche e culturali della crisi economica (L’Asino d’oro edizioni). Da alcuni anni collabora con il settimanale “left” da 30 LEFT 21 gennaio 2022)

 

03 – IL 18 GENNAIO IL PARLAMENTO EUROPEO HA ELETTO ALLA PRESIDENZA LA DEPUTATA MALTESE DI CENTRODESTRA ROBERTA METSOLA, CHE PRENDERÀ IL POSTO DI DAVID SASSOLI. METSOLA, GIURISTA DI 43 ANNI E FINORA VICEPRESIDENTE DEL PARLAMENTO, È LA TERZA  DONNA A PRESIEDERE L’ISTITUZIONE DOPO LE FRANCESI  SIMONE WEIL E NICOLE FONTAINE.

ll sostegno alla sua candidatura non è stato unanime. Molti deputati non gradiscono che Metsola, cattolica praticante come la maggior parte dei suoi compatrioti, sia contraria al diritto all’aborto. Malta, unico paese dell’Unione europea dove l’interruzione volontaria di gravidanza è ancora illegale, ha negoziato un’esenzione nel 2004 al momento dell’adesione. Nel 2021 Metsola si è astenuta su una risoluzione contro la violenza sulle donne insieme a novanta esponenti del Partito popolare europeo.

La nuova presidente del parlamento ha posizioni progressiste su altri grandi temi (immigra[1]zione, diritti lgbt, stato di diritto, corruzione), fa parte dell’ala meno conservatrice del suo gruppo parlamentare e non è considerata vicina all’estrema destra. Inoltre è una dei pochi politici maltesi ad aver criticato apertamente il governo dopo l’omicidio della giornalista Daphne  Caruana Galizia nel 2017.

Tuttavia la scelta di una presidente che si oppone all’aborto, in un momento in cui le donne polacche lottano contro i tentativi del loro governo di privarle di questo diritto, contraddice gli obiettivi e i valori dell’Unione. Anche se il  diritto all’aborto non è minacciato nel parla[1]mento europeo, che non ha alcuna competenza  per legiferare in materia, la scelta contrasta con l’opinione dominante nell’istituzione, dove la  difesa dei diritti delle donne è stata oggetto di diverse risoluzioni. Sono stati i calcoli politici e  le manovre per la spartizione delle cariche a convincere i socialdemocratici e i liberali a sostenere la candidatura di una deputata di cui  non condividono le posizioni.

 

 

04 – Roberto Romano*: L’ECONOMIA DI MERCATO NON HA COME OBIETTIVO LA PIENA OCCUPAZIONE – LAVORO E STATO. L’ITALIA È UN PARADIGMA TECNO-SOCIALE: HA «ISTITUZIONALIZZATO» IL LAVORO POVERO E IL SAPER FARE FONDATO SU FLESSIBILITÀ E SFRUTTAMENTO. COSÌ SONO STATI STRAVOLTI I DIRITTI

L’occupazione, meglio ancora il pieno impiego stringente come obbiettivo di politica economica che ha come corollario la riduzione delle disuguaglianze (secondo Minsky), meriterebbe una riflessione capace di uscire dalle convenzioni e dalle dispute politiche. Il capitalismo moderno, almeno quello dei paesi maturi, ha piegato il lavoro e il significato economico che il lavoro sottende, domanda di consumo, a mero fattore di produzione dal quale è possibile estrarre un profitto.

Inoltre, se un sistema economico è particolarmente povero di conoscenza, prospettive e financo sostenuto da norme che favoriscono la povertà lavorativa e, per assurdo, margini di profitto legati alla riduzione del costo del lavoro, perché sorprendersi della crescita del working poor?

L’Italia è un paradigma tecno-sociale da questo punto di vista e, passo dopo passo, ha «istituzionalizzato» il lavoro povero e il paradigma economico del saper fare fondato su flessibilità e sfruttamento che hanno stravolto i diritti di seconda generazione di Norberto Bobbio. Non sorprende nemmeno che l’occupazione femminile, dai dati di “Bilancio di genere”, nell’anno della pandemia (2020) sia calata al 49% contro una media europea del 62,7%, in particolare tre le giovani e quelle del Mezzogiorno. Si tratta dell’esito delle politiche fin qui adottate che hanno costretto il lavoro e la parità di genere a puro diritto naturale, abbandonando il diritto positivo teso a prefigurare una società più giusta.

Spiace osservare la sorpresa del Ministro Orlando, ma sapere che un quarto dei lavoratori italiani ha una retribuzione individuale bassa (cioè, inferiore al 60% della mediana) e che più di un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà, non sono una novità. Il Ministro Orlando – secondo il rapporto del suo ministero – sottolinea che «solo il 50% dei lavoratori poveri percepisce una qualche prestazione di sostegno al reddito rispetto al 65% in media europea», ma la soluzione immaginata, al netto dell’estensione dei contratti collettivi principali a tutti i lavoratori oppure di introdurre un salario minimo per legge, rischia di essere demagogia (Minsky in “Ending poverty: Jobs, Not Welfare”) se è basata sui trasferimenti (work benefit) e cose simili. Vale a dire passaggio governativo di fondi statali ai padroni. Salvano la coscienza di chi li propone, ma non intervengono nel mercato e trasferiscono denaro pubblico al lavoro senza che il sistema delle impresa sia in nessun modo responsabilizzato. In soldoni, lo Stato mette i soldi che le imprese non mettono. Un vizio privato noto e ormai insopportabile. Invece purtroppo, l’11% di lavoratori prossimo alla soglia di povertà e non, è un richiamo sufficiente per «imporre» per legge e/o contratto redditi dignitosi.

Il fatto che il capitalismo maturo costruisca le proprie fortune sul concetto di «margine», cioè sull’estrazione di profitto dalla riduzione del costo del lavoro, dovrebbe interrogare la società. La prima questione che dovrebbe essere indagata è la seguente: si tratta di un fenomeno transitorio, oppure di un fenomeno strutturale?

Guardando a ritroso sia la dinamica del Pil e sia la dinamica dell’occupazione, al netto dei gloriosi trent’anni, sembra che il numero di occupati aggregati, indipendentemente dalla crescita del Pil, siano sempre quelli, con delle variazioni in più o in meno che nel tempo si assottigliano. Crescono o calano di qualche migliaio, e non c’è variazione del Pil (recente) capace di creare occupazione aggiuntiva. Naturalmente è auspicabile una crescita del Pil sufficiente per creare lavoro, ma la sensazione è che serva una crescita del Pil tecnicamente impossibile da raggiungere.

Nella migliore delle ipotesi possiamo considerare una crescita del 3%, ma sarebbe qualcosa di inedito e credo anche poco credibile. Sebbene sembra esserci una stabilità del numero degli occupati, ciò non implica rigidità del lavoro; non discuto del mercato del lavoro e delle sue regole, piuttosto della composizione quali-quantitativa del lavoro. I dati su menzionati lo spiegano bene. Il lavoro e la produzione degli anni Novanta non sono minimamente comparabili con il lavoro e la produzione degli anni Duemila e ancor di più del 2020. In qualche misura, gli attuali livelli di lavoro sembrano essere il massimo possibile con questo capitalismo maturo (europeo). Non è mancata la ricomposizione interna del lavoro tra precariato e tempo indeterminato, ma i numeri di questo fenomeno sembrano ormai stabili per tutti i paesi europei tra il 2010 e il 2020: 28 percento di occupati precari in Germania; 23 percento in Italia; 16 percento in Spagna; 22 percento nell’area euro.

Il sospetto è il seguente: la stagnazione secolare del Pil e del lavoro saranno l’ambiente con cui la società moderna sarà costretta a misurarsi. Il punto sollevato è delicato: la piena e stringente occupazione come obbiettivo alla Minsky non è realizzabile dentro i soli meccanismi di mercato. Se il mercato non può creare lavoro non rimane che lo Stato. Il pubblico deve intervenire, ma la questione del lavoro è diventata via via sempre più complicata. Serve fantasia – l’immaginazione al potere? – e qualche coraggio nel gettare il cuore oltre l’ostacolo.

*(Roberto Romano, economista)

 

05 – Tommaso Nencioni*: BERLUSCONI E DRAGHI IL CASO UNICO DI DUE AUTOCANDIDATURE

QUIRINALE. SULL’ANOMALIA RAPPRESENTATA DA UN’EVENTUALE ASCESA AL COLLE DEL CAVALIERE POCO C’È DA AGGIUNGERE AL MOLTO CHE A PROPOSITO DEL LEADER DI FORZA ITALIA È STATO DETTO E SCRITTO NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI

Sul tavolo delle trattative per l’elezione del Presidente della Repubblica risaltano due autocandidature (fatto di per sé inedito nella nostra storia repubblicana). La prima candidatura è quella esplicita di Silvio Berlusconi; la seconda è quella implicita, ma non per questo meno evidente, dell’attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi. Qualunque sia l’esito di questa “guerra dei nonni” (per riprendere il fulminante titolo del manifesto), essa pone urticanti dinamiche istituzionali.

Le due autocandidature pongono il nostro Paese di fronte a torsioni che è utile riproporre davanti all’opinione pubblica in questo scorcio di “campagna elettorale” quirinalizia.

Sull’anomalia rappresentata da un’eventuale ascesa al Colle del Cavaliere poco c’è da aggiungere al molto che a proposito del leader di Forza Italia è stato detto e scritto negli ultimi trent’anni; rimane semmai da rinnovare il monito a non sottovalutare le capacità di manovra del personaggio, specialmente sul finire di una legislatura come questa, contraddistinta dall’auge di un personale politico non propriamente esemplare.

Più ovattate, ma non per questo meno minacciose, le ombre che si addensano attorno alla prassi repubblicana del Paese sulla scia dell’autocandidatura di Draghi. Per due ordini di motivi. Il primo, per il ricatto implicito che essa pone al Parlamento. Considerato infatti il potere assunto dalla figura presidenziale nei cascami della crisi italiana (il famoso presidenzialismo di fatto, ormai una realtà più che una possibilità), la mancata accettazione da parte dei partiti di maggioranza dell’autocandidatura di Draghi comporterebbe una sua delegittimazione anche come primo ministro. Un corto circuito non previsto dalla nostra Carta costituzionale, ma nei fatti operante: per via dell’impotenza dei partiti, e di una campagna mediatica che ha fatto di un presidente del consiglio incaricato, se capace, di risolvere alcuni problemi del paese poco meno di un Re taumaturgo, ai cui desiderata risulta adesso complicato opporsi.

Più insidioso ancora il secondo motivo. In caso infatti di una sua elezione al Quirinale, Draghi sarebbe il primo Presidente ad essere eletto sulla scorta di un dettagliato programma politico. Un precedente potrebbe essere trovato a prima vista nell’elezione di Giovanni Gronchi nel 1955. Ma in quel caso il programma – far seguire il disgelo costituzionale al disgelo bipolare – non precludeva nessuna formula di governo specifica; nessuna potenziale “coabitazione forzata” avrebbe potuto insomma prodursi, per dirla in termini presidenzialisti. Anzi, l’elezione dell’esponente della sinistra Dc ampliava nei limiti del possibile lo spettro delle potenziali soluzioni parlamentari “legittime” in diversi campi (eventuale rottura del “centrismo” e ingresso dei socialisti in maggioranza; politica estera di distensione; attuazione della Costituzione).

Con Draghi invece al Quirinale traslocherebbe non solo una personalità, ma anche un programma politico rigido e poco suscettibile di essere scalfito nel caso in cui le urne producessero maggioranze politiche ad esso avverse: quello del “vincolo esterno”, col suo portato di svalorizzazione del lavoro e subordinazione alla disciplina del mercato dei servizi pubblici essenziali, senza limite alla concentrazione e alla volatilità dei capitali.

Cosa accadrebbe in caso si producesse una maggioranza parlamentare con programma politico di segno opposto a quello presidenziale? Quale dei due poteri ne uscirebbe delegittimato? Con quali conseguenze?

Male farebbe la sinistra a non considerare questi aspetti, crogiolandosi nella consapevolezza che al momento il draghismo al Quirinale porrebbe problemi soprattutto alla destra nazionalista: c’è da sperare che prima o poi, più prima che poi, una critica di massa alle politiche egemoni negli ultimi anni venga messa in campo anche da sinistra.

Ma più in generale tutti i partiti sono chiamati a considerare che, vigente ancora la Carta del ’48, l’unico programma politico affidato alla presidenza della Repubblica dovrebbe consistere nel suo rispetto e nella sua attuazione.

*(Tommaso Nencioni, Magister in storia comparata per l’Università Autonoma di Barcellona e dottore di ricerca in storia contemporanea per l’Università di Bologna.)

 

06 – Piero Bevilacqua*: COME SOTTRARRE IL PIANETA ALL’ARBITRIO UMANO E DEL MERCATO

SAGGI. «PER UNA COSTITUZIONE DELLA TERRA» DI LUIGI FERRAJOLI, EDITO DA FELTRINELLI. L’AUTORE E GIURISTA PRESENTA CON RIGORE INTELLETTUALE I CENTO ARTICOLI IN CUI SI DOVREBBE ARTICOLARE. DUE RAGIONI FONDATIVE ISPIRANO LE DRAMMATICHE RIFLESSIONI CON CUI LUIGI FERRAJOLI TORNA A RIPROPORRE IN UN VOLUME PIÙ AMPIO LA SUA NOTA PROPOSTA DI COSTITUZIONE UNIVERSALE (PER UNA COSTITUZIONE DELLA TERRA. L’UMANITÀ AL BIVIO).

LA PRIMA nasce da una conclamata insufficienza della tradizione giuridica occidentale, quella del costituzionalismo, vale a dire la concertazione normativa realizzata dagli stati nazionali moderni, grazie a cui la vita dei cittadini è stata sottratta all’arbitrio del potere sovrano e regolata secondo principi universali di diritti e doveri.

FERRAJOLI NON HA DUBBI sul fatto che le costituzioni nazionali siano oggi configurazioni giuridiche impotenti di fronte alla ormai piena unificazione del mondo e ai problemi inediti e gravi che questa pone. L’altra riguarda la presa d’atto, appunto, dello scenario gravido di pericoli mortali che l’attuale assetto internazionale, fondato su stati divisi e in competizione, squaderna davanti a noi.

È «inverosimile – scrive Ferrajoli – in mancanza di limiti e vincoli istituzionali, che quasi 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani, 10 dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile, possano a lungo sopravvivere senza andare incontro alla devastazione del pianeta, fino alla sua inabitabilità, alle guerre endemiche senza vincitori, alla crescita delle disuguaglianze e della povertà».

Si tratta di una previsione per nulla allarmistica e agitatoria, e che ha trovato una paradossale e inquietante conferma in questi due anni di pandemia. Un biennio che ha mostrato gli effetti rovinosi di una economia interamente affidata al mercato, generatrice di danni ambientali sempre più estesi, di disuguaglianze e povertà, di scelte che hanno indebolito la sanità pubblica, lasciandola sguarnita di fronte all’emergenza sanitaria.

EBBENE, NONOSTANTE la diffusione del Covid 19 abbia mietuto nel mondo milioni di vittime e oggi appare tutt’altro che contenuta o indebolita, «non è stato fatto nulla» per prevenirla, né di strutturale per scongiurarne repliche nei prossimi anni. Moltissimo, invece, si è fatto e si continua a fare per i conflitti futuri: «In previsione delle guerre si accumulano armi, carri armati e missili nucleari, si fanno esercitazioni militari, si costruiscono bunker, si mettono in atto simulazioni di attacchi e tecniche di difesa». Com’è noto ai lettori del manifesto – uno dei pochi giornali che ne ha dato ampiamente conto – nel 2020 la spesa in armamenti, da parte degli stati più importanti del mondo, è stata raddoppiata.

MENTRE LO STATO PRESENTE della popolazione mondiale richiederebbe pace, cura della natura ferita, nuove economie di rigenerazione delle risorse, redistribuzione dei redditi, limitazione dell’inquinamento, contenimento della diffusione dei gas climalteranti, quasi tutte le nazioni si muovono come eserciti nemici.

Ai processi di interdipendenza sempre più stretta degli Stati, indotti dalla globalizzazione «ha fatto riscontro, in questi anni, anziché una più complessa articolazione istituzionale della sfera pubblica attraverso la creazione di funzioni globali di governo e di garanzia, una sua semplificazione: da un lato, la verticalizzazione e la personalizzazione dei poteri di governo in capo a leader o a ristrette oligarchie, che li rendono esposti alle pressioni dell’economia; dall’altro, lo sviluppo incontrollato del libero mercato, la crescente concentrazione e confusione tra poteri politici e poteri economici e la sostanziale subordinazione liberista dei primi ai secondi».

Alla luce di queste analisi, qui ridotte all’essenziale, selezionate da una densa massa di lucide e appassionate argomentazioni, Luigi Ferrajoli, eminente giurista, in perfetta solitudine, ha l’ardire intellettuale e politico di proporre una Costituzione della Terra. La presenta non nel senso che ne auspica la realizzazione, ma letteralmente la scrive, e la colloca in appendice al presente libro, in forma di Progetto, compiutamente definito, con i suoi 100 articoli.

SI TRATTA DI UNO SFORZO teorico di prima grandezza, che ripete, in condizioni mutate, un superbo e generoso gesto intellettuale della prima modernità: quello con cui Immanuel Kant, come ricorda l’autore, con il testo Per la pace perpetua perorava, nel 1795, «una costituzione civile» quale fondamento di «una federazione di popoli» estesa a tutta la terra. Ispirandosi a quel momento altissimo della civiltà europea, Ferrajoli tuttavia mostra con dovizia analitica oltre alla necessità, i vantaggi molteplici di una tale Costituzione.

Tra questi non possiamo dimenticare la possibilità di imporre limiti e vincoli ai poteri imprenditoriali, ponendo fine alla concorrenza al ribasso tra i lavoratori dei paesi ricchi e quelli privi di tutele «sulla base di un modello unitario e globale di diritti e garanzie del lavoro». Una conquista che porrebbe fine all’attuale asimmetria drammatica tra capitale e lavoro, che impedisce il conflitto, motore del progresso sociale, e costituisce forse la ragione ultima e fondativa delle disuguaglianze che lacerano il mondo e svuotano la democrazia.

*( Piero Bevilacqua, storico e saggista, già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma «La Sapienza», nel 1986 ha fondato con altri studiosi l’Istituto .)

 

07 – Alessandra Algostino*: L’INFODEMIA SUL GREEN PASS STENDE UN VELO SUL CONFLITTO SOCIALE, FERMA LA COSTITUZIONALITÀ RELATIVA ALLA LEGITTIMITÀ DELL’OBBLIGO VACCINALE, DOBBIAMO INTERROGARCI SULLA PERVASIVITÀ DELLA DISCUSSIONE CHE LASCIA FUORI TUTTO IL RESTO.

La discussione attorno al green pass e all’obbligo vaccinale continua a stringere in una cappa asfissiante il dibattito pubblico, emblema di una, non innocente, infodemia. Non si intende sminuire la gravità dell’epidemia né la necessità di una attenzione (critica) ai provvedimenti adottati (in sé e in quanto rischiano di normalizzare restrizioni eccezionali e temporanee): sul punto, nella prospettiva di una democrazia solidale, si è ragionato più volte in queste pagine.

Fermo il quadro costituzionale relativo alla legittimità dell’obbligo vaccinale, così come delle limitazioni dei diritti, certo si può annotare come nella selva oscura di disposizioni viepiù caotiche, smarrendo proporzionalità e ragionevolezza, si possano annidare distinzioni arbitrarie e suscettibili di amplificare le diseguaglianze. Tuttavia, il nodo è un altro: è la pervasività e insieme la polarizzazione della discussione attorno al green pass in sé che interroga la democrazia, come pluralista, conflittuale e sociale.

La questione del “green pass” svia l’attenzione da una sindemia che ha acuito le diseguaglianze e dai contenuti di un Piano nazionale di ripresa e resilienza che, nel pretendere di forgiare il corso dei prossimi anni, agisce come se l’unico destino possibile fosse un neoliberismo, che, a fisarmonica, richiede politiche di austerity o di welfare autoreferenziale, in totale spregio di un progetto di futuro, quello della Costituzione (mai nemmeno menzionata).

Il Pnrr è assunto come una regalia nei confronti della quale nutrire unicamente un atteggiamento riconoscente. Non si discute della sua impostazione, ordoliberale, del suo netto sbilanciamento sulle imprese (in una Repubblica fondata sul lavoro…) e della centralità della concorrenza, che relega la giustizia sociale a eventuale effetto collaterale (la concorrenza «può anche contribuire ad una maggiore giustizia sociale» si legge nella Premessa del Piano).

Ugualmente, non si mette in discussione il disinvestimento nella sanità, il suo modello aziendalista, la sua privatizzazione e regionalizzazione, nonostante gli ultimi due anni ne abbiano mostrato fuori di ogni dubbio gli effetti nefasti: la soluzione sono i vaccini e il green pass. Senza negare la loro utilità, essi non possono divenire un alibi, la panacea per risolvere tutti i mali.

L’elenco degli elementi mancanti nel dibattito politico è lungo: la Legge di Bilancio, che evoca ad un tempo il tracollo della democrazia politica, scendendo ulteriormente la china di un Parlamento esautorato e prono, e della democrazia sociale; e poi, la politica industriale, dove a delocalizzazioni selvagge si oppone una debole proceduralizzazione, molto distante dal controllo e dalla programmazione che il costituente immaginava (art. 41, c. 2-3, Cost.), ignorando quanto nasce nella vivacità del conflitto (la proposta di legge elaborata dagli operai della Gkn con i giuristi democratici); il lavoro, che aumenta solo in forme precarie e servili, ….

Ad ipotecare o a trasformare il presente non è il green pass, semplice o super: occorre rimettere al centro la questione dell’eguaglianza, della giustizia sociale ed ambientale, ovvero del modello di sviluppo e di società, ripartire dalla centralità dei conflitti intorno alle materialità delle condizioni dell’esistenza.

Focalizzarsi sul green pass rischia di rivelarsi una trappola, in quanto mistifica la necessità di trasformare l’esistente. Non solo: la polarizzazione sul green pass è una trappola anche in quanto distrae il conflitto sociale attraverso la creazione di un nemico.

Le proteste no green pass, oltre ad essere embedded rispetto alla razionalità dominante nell’adesione ad una libertà senza limiti (senza uguaglianza, senza solidarietà) e, per inciso, oltre a nascere proprio nel disagio e nella disgregazione sociale che essa ha prodotto, integrano ottimamente la figura del nemico; e il nemico compatta la società e occulta il conflitto sociale.

La loro criminalizzazione, inoltre, crea un humus favorevole alla lettura di ogni protesta come azione irresponsabile e nociva per la società, delegittimando il dissenso. Non è solo un timore, i movimenti sociali e i lavoratori da anni conoscono la repressione, e il coro di smodate critiche allo sciopero generale del 16 dicembre è emblematico. È la “democrazia senza conflitto”: un ossimoro, perché la democrazia pacificata in quanto nega l’esistenza del conflitto è un simulacro di se stessa. E tutto ricorda una volta di più che la chiave è la lotta per una democrazia, come quella della Costituzione, pluralista, conflittuale e sociale.

*( Alessandra Algostino, docente di Diritto costituzionale nell’Università di Torino, studia da sempre i temi dei diritti fondamentali e delle forme di partecipazione politica e di democrazia diretta con particolare attenzione alla loro concreta attuazione)

 

08 – Alfiero Grandi*: BERLUSCONI NON DEVE DIVENTARE PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA. IL DESTINO PROSSIMO DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA.

DESTA SCONCERTO IL SOLO FATTO CHE SE NE DISCUTA. Se la destra italiana non sa proporre di MEGLIO VUOL DIRE CHE HA SUBÌTO UN GRAVE PROCESSO DI INVOLUZIONE POLITICA CHE RICORDA LA DERIVA TRUMPIANA DEI REPUBBLICANI NEGLI USA, E TENTA DI TROVARE NELLA FRATTURA POLITICA DEL PAESE (NOI E VOI) IL FONDAMENTO DELLA SUA UNITÀ, VISTO CHE AL SUO INTERNO IN REALTÀ CONCORRENZA E SGAMBETTI SONO ALL’ORDINE DEL GIORNO. LA QUESTIONE IN CAMPO È LA DEMOCRAZIA.

Lo è negli Usa come ha chiarito Biden a quanti sottovalutano tuttora l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Lo potrebbe diventare anche in Italia. In più, la credibilità dell’Italia nel mondo prenderebbe un grave colpo, sia dagli autocrati che ne sarebbero contenti, sia per lo sconcerto che susciterebbe in chi crede nelle istituzioni democratiche, perché la democrazia non è, o non dovrebbe essere, un gioco riservato ai super ricchi e potenti, anche se negli ultimi tempi si sono moltiplicati i casi. Per questo è bene non sottovalutare i rischi, non fare finta di nulla, non sminuire i problemi, non abbozzare.

Il Presidente Mattarella ha ormai concluso il suo congedo da tutti in Italia e nel mondo. La forzatura per farlo restare dovrebbe essere molto forte, quasi una costrizione, ed è perfino difficile capire se sarebbe sufficiente. Sappiamo anche che rieleggere il Presidente in carica non è usuale, pone problemi non di poco conto dal punto di vista della Costituzione, perché le sue disposizioni rischiano di essere interpretate come una pelle di zigrino. Non a caso in Senato è stata presentata una proposta di modifica costituzionale che prevede la non rieleggibilità del Presidente della Repubblica, ritenendo che fino alla sua entrata in vigore sia quindi possibile reiterare il mandato, una sorta di una tantum. Solo per dire quanto sia ancor più delicata da accettare la proposta di rielezione per un costituzionalista come Mattarella che in passato si è pronunciato in materia. Da tempo si parla di altre candidature di varia natura, esprimendo criteri come personalità autonoma, sincero democratico, in grado di unificare schieramenti oggi fortemente divisi. Anche un grande mago si starebbe chiedendo se sia possibile dare una risposta nominativa. La fantasia politica sembra finora non abbia dato risultati adeguati.

È quindi inevitabile che si discuta della candidatura di Draghi, malgrado la preoccupazione che questa elezione possa destabilizzare il governo.

Draghi è un candidato che pone delicate questioni costituzionali perché non c’è mai stato un presidente del Consiglio che sia diventato Presidente della Repubblica, anche se il prof Ainis ha individuato chiaramente un percorso che consentirebbe di non contraddire la Costituzione, dando le dimissioni del Governo (quindi di Draghi) nelle mani di Mattarella, il quale potrebbe anche iniziare subito il percorso di consultazione. Nel caso l’esplorazione non desse esito passerebbe al suo successore il “semilavorato” con il compito di concludere fino all’incarico di formare un nuovo governo, con un altro presidente del Consiglio. Se i partiti che oggi condividono la maggioranza non fossero in grado, come è probabile, di dare vita ad una coalizione, il nuovo presidente del Consiglio non può e non deve rispondere – nemmeno per scherzo – alle indicazioni di Giorgetti, che sono contra Costituzione, cioè essere il franchising di Draghi a Palazzo Chigi. Questo non si può fare, anzi sarebbe un disastro.

L’alternativa potrebbero essere elezioni subito oppure un governo di ristretta maggioranza o anche di minoranza ma con un patto politico con l’opposizione, indicando con chiarezza le poche cose da fare prima delle elezioni politiche. La legge elettorale, ad esempio, non deve fare parte del patto di governo ma essere invece un impegno politico centrale del parlamento per il periodo che resta della legislatura, cioè un impegno dei partiti. È stato un errore non avere affrontato il problema nella finestra politica del dopo legge di bilancio per approvare una nuova legge elettorale. Perché carica ancora di più i problemi da risolvere ora ed espone al ricatto che resti in vigore una legge elettorale sbagliata e inaccettabile, che si intreccia al disastro del taglio dei parlamentari compiuto nel modo sbagliato che sappiamo, con due Camere ridotte e meno rappresentative. Una Camera sola con 600 deputati sarebbe già stata cosa diversa, discutibile ma diversa, purtroppo ha prevalso l’opportunismo (di quasi tutti) e la richiesta del M5Stelle ha prevalso. Ormai è cosa fatta, sbagliata ma fatta.

Il governo ha compiti impegnativi da affrontare. La pandemia anzitutto ma anche la ripresa economica e sociale attraverso la spina dorsale del PNRR e le scelte di transizione economica e sociale, indispensabili quanto difficili. Starace, amministratore delegato dell’Enel, ha detto a proposito della transizione energetica che gli investimenti nelle rinnovabili che si affrontano oggi non sono un costo ma un investimento sul futuro, attuarli è conveniente. Queste parole sono una rivoluzione che difficilmente abbiamo sentito, lontane dal conservatorismo diffuso nelle grandi aziende pubbliche e nelle altre imprese. Non a caso Deloitte Italia ha detto che se l’Italia si impegna, nel 2043 potrebbe essere il primo grande paese europeo ad arrivare al nuovo equilibrio energetico, anni prima degli altri paesi.

Per una valutazione su Draghi al Quirinale bisogna anzitutto dare una valutazione dell’azione del governo. Non siamo pochi a pensare che Draghi abbia esaurito parte della sua spinta propulsiva, mettendo in evidenza che sul merito delle scelte qualcosa è mancato e non tutto può essere attribuito alla natura contraddittoria della maggioranza, quindi al freno tirato della destra, e alla debolezza delle sinistre parlamentari che hanno fatto sentire la loro voce troppo poco. Ci sono anche responsabilità del presidente del Consiglio, che, come abbiamo visto nelle ultime settimane della pandemia, era quasi prigioniero dell’esigenza di valorizzare le scelte fatte anche quando era chiaro che c’erano stati limiti ed errori da correggere.

Resta ancora da capire perché verso le partite di calcio ci sia stata un’attenzione e un riguardo che non ci sono stati verso altri ambienti ben più importanti come la scuola, ad esempio.

La scelta di non fare chiusure per il governo andava confermata in ogni modo anche con differenze di atteggiamento tra settori di intervento. Così sulle questioni sociali e sul PNRR. Con i sindacati non ci sono mai state vere trattative, hanno dovuto prendere atto delle decisioni del governo. Dispiace dirlo, ma Ciampi aveva ben altro spessore politico, la sua idea di concertazione si può discutere ma oggi sembra un sogno rispetto al rapporto attuale tra governo e parti sociali. Ciampi usava il rapporto con le parti sociali per spingere a una diversa sensibilità le forze politiche, oggi è il contrario. Anche gli appelli disperati a contrastare seriamente le chiusure delle multinazionali in Italia sono caduti nel vuoto, il decreto in discussione fa ricordare il rapporto tra montagna e topolino. Il tavolo a lungo invocato per le pensioni sembra essere posticcio.

Anche il PNRR non va. Cingolani è un pessimo ministro della Transizione ecologica, perfino l’ad dell’Enel dice cose più forti di lui. Ha cincischiato sul nucleare, vagheggiando diversità e novità che non ci sono, ma soprattutto al dunque ha dato un assist a Macron sulla tassonomia verde europea (inserire anche il nucleare e il gas che di verde non hanno nulla). Invece sulle rinnovabili, le semplificazioni per sbloccare gli investimenti fermi (solo nell’eolico off shore secondo Terna valgono 17 GW) non hanno dato risultati e gli investimenti nel fotovoltaico sono tuttora sotto i livelli passati, figuriamoci rispetto a quelli futuri promessi. In realtà non c’è un piano energetico aggiornato, con relative priorità, tutto sembra funzionale a poter dire tra un poco che solo il gas ci può salvare. Invece il gas fossile affosserebbe insieme la lotta al cambiamento climatico e la diminuzione delle tariffe elettriche. Risulta che Cingolani abbia detto in un incontro riservato di avere sentito per la prima volta che i pompaggi idroelettrici valgono 7,6 GW da impiegare per bilanciare la rete nei momenti di bisogno. Per questa insufficienza politica pesano tanto i conservatori politici e gli interessi frenanti, altrimenti staremmo discutendo di idrogeno (suggerimento di Kerry, inviato speciale di Biden), di riconversione verde delle acciaierie e delle aziende energivore, con piani, investimenti, obiettivi precisi. Giorgetti non se ne occupa.

È questo il limite del governo, avere pensato che 240 miliardi da qui al 2026 si mettano in moto da soli e che non servano progetti, piani, obiettivi chiari per tutti. Così i bandi sono modalità che potrebbero portarci a spendere tanto senza realizzare il cambiamento del nostro sistema produttivo e sociale. I limiti del banchiere sono evidenti. Il metodo del cercare il giusto mezzo pure. Il risultato è che rischiamo di arrivare in ritardo e in modo non adeguato. La cabina di regia di fatto non c’è e la cabina con i sindacati, le imprese, le associazioni ambientaliste ancora meno.

Draghi potrebbe forse arrivare alla fine della legislatura, ma conviene? A lui anzitutto, al paese di conseguenza? Prima che sia troppo tardi non conviene prendere atto dei limiti che si sono accumulati e per evitare di perdere il ruolo di una persona che comunque oggi è nel bene e nel male un elemento protettivo dall’instabilità dei mercati, una garanzia?

Se queste valutazioni sono fondate, almeno in parte, la scelta migliore per il nostro paese è Draghi alla Presidenza della Repubblica per evitare di perderlo, perché questo diventerebbe un serio problema e lo spread potrebbe ricordarcelo molto presto. Certo un discorso politico chiaro va fatto prima a lui anzitutto: l’Italia è una Repubblica parlamentare, non presidenziale. Detto questo, non c’è alcuna ragione per non uscire da una fase di minorità della politica e dei partiti, e neppure è indispensabile che tutte le scelte debbano essere fatte dalla stessa ampia maggioranza, questa è una dichiarazione priva di fondamento. Se il centro sinistra ha chiaro che l’interesse del paese viene prima di tutto deve procedere votando il Presidente dalla prima votazione, deve scegliere, non giocare di rimessa. La destra deciderà cosa fare sul Presidente della Repubblica, se si assumerà la responsabilità di bocciare la proposta, contrapponendo Berlusconi a un altro nome, sapremo che c’era una trappola pronta a scattare.

Dopo l’elezione del nuovo Presidente saranno i partiti a dovere decidere chi governerà e hanno un ampio ventaglio di possibilità, dal confermare la maggioranza attuale con pochi e chiari compiti fino ad un governo di minoranza che comunque ha bisogno di un patto con l’opposizione sugli stessi punti, pochi e chiari.

Dopo si tornerà a votare e il paese deciderà da chi vuole essere governato perché protrarre oltre le ambiguità e i compromessi discutibili non conviene a nessuno, né a destra, né a sinistra.

*(Alfiero Grandi)

 

09 –  COORDINAMENTO DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE *: RICHIESTA AL GOVERNO DI BLOCCARE L’INSERIMENTO DI NUCLEARE E GAS FOSSILE NELLA TASSONOMIA EUROPEA DELLE ENERGIE RINNOVABILI, ALLE 13 LA PETIZIONE HA 147.002 FIRME, ALLEGATA PETIZIONE ALLEGATA CON AGGIORNAMENTO, RACCOLTA DELLE FIRME CONTINUA OSSERVATORIO SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA – PNRR – PROMOSSO DA: COORDINAMENTO PER LA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE, LAUDATO SII, NOSTRA – PETIZIONE AL GOVERNO ITALIANO CON 146.371 FIRME

Il Governo blocchi l’inserimento di nucleare e gas fossile nella tassonomia europea delle energie rinnovabili

Il cambiamento climatico continua la sua preoccupante corsa. Il limite di 1,5°C è sempre più vicino. Secondo il Climate Action Tracker , infatti, continuando con le attuali politiche globali si avrà un aumento delle temperature fino a circa 2,9°C, molto oltre gli impegni della conferenza di Glasgow. Eppure, gli eventi catastrofici che già oggi viviamo dimostrano come ogni ritardo nell’avviare un processo reale di transizione ecologica ha effetti negativi drastici sulle vite di miliardi di esseri umani.

In questo quadro la nuova proposta di tassonomia europea (elenco delle energie rinnovabili) della Commissione Europea è inaccettabile. Così la tassonomia europea da strumento utile per finanziare attività economiche sostenibili a lungo termine, puntando su eolico e solare, diventerebbe  un ostacolo alla trasformazione verde dell’economia e della vita sociale e dirotterebbe le risorse sul nucleare (il Commissiario Breton ha parlato di 500 miliardi di euro) e sul gas fossile.

Il Governo si era impegnato per una transizione dalle fonti fossili a quelle rinnovabili, mentre la stampa ha annunciato il rilancio del in 48 centrali con 20 GW di potenza distribuite in 16 Regioni italiane, che causeranno danni all’ambiente, alle persone e produzione di nuova CO2.

Il gas fossile non è una soluzione ma parte del problema, ne abbiamo conferma sotto ogni aspetto, compreso il rilascio nell’atmosfera con effetti climalteranti.

Per iniziativa di associazioni italiane e tedesche, che hanno unificato le loro iniziative, sono state raccolte 146.371 firme  all’indirizzo https://chng.it/52bC5wSRHf , dove si trova il testo che chiede al Governo italiano di schierarsi contro l’attuale proposta di tassonomia europea.

Chiediamo una posizione netta del Governo italiano contro l’inserimento di gas e nucleare nella tassonomia europea e nello stesso tempo di dare rapida attuazione all’impegno di realizzare altri 70 Giga watt di rinnovabili entro il 2030 per realizzare la riduzione del 55% delle emissioni di CO2.  Va aggiornato il PNIEC confermando l’esclusione del nucleare, bocciato a grande maggioranza da 2 referendum popolari, escludendo una strategia fondata sul gas fossile, avviando la realizzazione, la distribuzione e l’uso dell’idrogeno verde.

*( Domenico Gallo 1° firmatario, Mario Agostinelli p. Laudato Sii, Alfiero Grandi p. Coordinamento Democrazia Costituzionale, Jacopo Ricci p. Nostra – 19/1/2022 – Allegati il testo della petizione, con l’aggiornamento, mentre le firme raccolte sono verificabili su change org all’indirizzo    https://chng.it/52bC5wSRHf  )

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