Se Sahra Wagenknecht è rosso bruna, Mette Frederiksen cosa è ?

 

 

di Francesco Piobbichi – C’è un partito di sinistra in Europa che condivide con l’estrema destra il paradigma secondo cui i migranti, in particolare modo i rifugiati, non avrebbero il desiderio di integrarsi, ma desidererebbero tornare quanto prima nel proprio Paese di origine. È un partito di sinistra che sta dentro una logica effettiva di destra, e su questo prende i voti, perché al governo mantiene in vita leggi di destra e di fatto accelera i processi per respingere i migranti. La cosa che mi colpisce però è che i media non chiamano la sinistra danese di Mette Frederiksen rosso bruna come invece fanno in queste ore con Sara la rossa che ha preso risultati a due cifre nella Germania dell’est dopo aver spaccato la linke. (ndr: Mette Frederiksen è la Presidente del Partito socialdemocratico danese e capo di governo dal 2019) 

Presumibilmente il nuovo partito BSW tedesco viene chiamato Rosso bruno perché a differenza della sinistra che governa in Danimarca non è a favore dell’escalation in Ucraina. È contro la Nato, ed ha una posizione dura con Israele. È abbastanza incredibile come la politica crei categorie per annullare ogni discussione e memoria. Tant’è che paradossalmente uno come Gentiloni che ha firmato con Minniti gli accordi con la Libia in queste ore accusi Sara la rossa di avere una politica anti migranti.

Detto ciò, visto che ho letto sull’argomento vari post sul tema migranti e sinistra, vorrei provare a discutere del tema senza sputarci veleno addosso. Ora può essere che io abbia una impostazione diversa dai compagni della BSW sul tema, ma vorrei discuterne e confrontarmi senza avere un approccio isterico. Per quel poco che mi pare di aver letto la posizione del Bsw è quella della vecchia guardia comunista, con una chiara impostazione antimperialista che sostiene cooperazione tra i popoli e fine dell’imperialismo. E quindi fine dell’immigrazione/emigrazione. In poche parole aiutiamoli a casa loro mandando via le multinazionali occidentali (solo quelle?) dall’Africa.

Sul piano dei processi di rottura delle politiche coloniali questo ragionamento è da sostenere, ma diventa controproducente se si attua in contemporanea con la limitazione della libertà di movimento dei lavoratori migranti come vuole la destra. E su questo occorre essere chiari e non avere tentennamenti. Se contrapponiamo la lotta al colonialismo alla libertà di movimento la battaglia egemonica è già vinta in partenza dagli stati nazionali o continentali, e dalla destra.

Fallimentare perché se si vede il migrante come esercito di riserva ( che abbassa i salari ) si rischia di non cogliere il nocciolo del tema e si dà corda alla destra reazionaria. La disoccupazione di massa, l’esercito di riserva infatti non è il prodotto della eventuale apertura delle frontiere ma dallo sviluppo delle forze produttive in una economia capitalista.

La disoccupazione di massa, il precariato ed i bassi salari si determinano dentro i processi produttivi non fuori di essi. Possiamo poi ragionare sul fatto che, verificatisi questi processi, la forza lavoro mobile diventi come i 40 Mila crumiri della Fiat o come i facchini della logistica che esprimono oggi un conflitto sociale che molti hanno dimenticato in questo paese. Ma dobbiamo avere chiaro chi è il nostro avversario principale.

In seconda battuta, leggendo qualche commento sembra quasi che in Europa ci sia stata l’apertura dei confini. Ma dove? Ma quando? Così non è, le imprese infatti vogliono lavoratori ricattabili, e le leggi della frontiera e del lavoro sono un combinato disposto utile per questa forma di disciplinamento al basso salario. Jobs act e Bossi fini ad esempio a questo servono.

È probabile che la Bsw critichi come sono state aperte le frontiere tedesche per il flusso di Siriani in Germania avvenuto sotto la Merkel per un breve periodo, ma questo apre un altro discorso semmai.

Nella materialità dei processi produttivi e delle leggi sul lavoro/immigrazione il tema della mobilità della forza lavoro è stato totalmente lasciato alle imprese ed ai loro governi amici quando in realtà doveva essere questione che investiva i sindacati. Sindacati dei paesi di arrivo e di partenza dei lavoratori che dovevano legare mobilità della forza lavoro ad un salario minimo europeo ed ad una accoglienza degna.

Le imprese infatti usano proprio la limitazione della libertà di movimento dei lavoratori come strumento di differenziazione salariale e possono così contrapporre la forza lavoro dopo averla frammentata. Legare la cittadinanza al lavoro cosa è se non la più grande forma di ricatto affidato alle imprese?

In poche parole le frontiere sono un modo per gestire la forza lavoro mettendola in competizione e quando più non serve rimpatriarla. Si aprono e si chiudono quando servono braccia ( decreto flussi), determinando una condizione di ricattabilità perenne, sia per i pochi che arrivino legalmente che per i molti che arrivano illegalmente.

Come si vede in agricoltura lo sfruttamento dei lavoratori braccianti immigrati non è però peggiore di quello che avveniva prima del loro arrivo e coinvolgeva gli autoctoni. Semmai è stata la trasformazione della meccanizzazione imposta dalla fabbrica verde globalizzata ad inserire forza lavoro migrante sotto ricatto per questo modello produttivo.

Questo elemento è un tema di discussione serissima che a sinistra non si è mai sviscerato per davvero, lasciandola o ad una prospettiva umanitaria che lo ha in parte nascosto, o ad un tecnicismo liberale che vedeva il migrante nella sua utilità economica.

Mai al migrante è stata riconosciuta la libertà di scelta, di poter arrivare in maniera degna a cercare lavoro e di potersi regolarizzare agevolmente la propria condizione (di quando e l’ultima sanatoria?).

La totale assenza dei sindacati che hanno lasciato la gestione della forza lavoro mobile alle imprese ed agli stati nel processo della globalizzazione è una delle più grandi sciagure che ci attraversa. Le organizzazioni internazionali dei sindacati non sono state capaci di produrre una visione alternativa a questo processo, che ha finito per rendere questi lavoratori un bersaglio senza difesa.

Così i migranti sono divenuti gli unici responsabili nella scala sociale verso il basso prodotta dalla globalizzazione, accusato di abbassare i salari al lavoratore autoctono, mentre le riforme di gente come Renzi, Treu, Dini, e le politiche concertative sono uscite dal banco degli imputati. Così come gli imprenditori che hanno e vaporizzato il sistema produttivo spostando le produzioni altrove.

Così mentre i padroni sono stati liberi di muoversi per il mondo e portare via il lavoro per generarlo dove gli era più comodo per pagare meno i salari i lavoratori mobili sono diventati i responsabili di una colpa che non hanno mai avuto.

Ancora più ridicolo in una fase come questa chiedere o pretendere che un lavoratore che nel proprio paese ha salari di merda, debba lottare su battaglie impossibili da vincere perché qualche antimperilista da cattedra gli chieda di rimanere recintato nella miseria invece che andarsene nel qui ed ora.

Sarebbe come dire ad un calabrese di oggi, o di ieri, di rimanere sulla sua terra senza provare a immaginare un futuro migliore. C’è un elemento con il quale la sinistra statalista ha avuto sempre una certa difficoltà, si chiama libertà. E questa è una parola con la quale dobbiamo fare i conti legandola sempre nel qui ed ora alle scelte individuali.
Libertà di restare nel proprio paese senza essere sfruttati, libertà di andarsene dal proprio paese senza essere sfruttati, e Libertà di ritornare senza essere sfruttati.

A pensarci bene, libertà , lotta al colonialismo e all’ingiustizia sono parole che potrebbero benissimo stare insieme senza contrapporle come invece qualche compagno mi pare stia facendo. E questo lo scrivo senza nessuna vena di polemica della quale non ne sento bisogno ma con spirito di confronto aperto.

 

PS. In questo post non ho usato il termine rifugiati, e non ho nemmeno parlato di ong e salvataggi in mare. L’ho fatto volutamente, primo perché penso che dopo il clamore per i ricchi che muoiono in mare a fronte delle decine di migliaia di poveri ogni discussione al riguardo diventa inutile. Secondo perché chi scappa dalla guerra, ucraino o siriano che sia, palestinese o curdo, debba avere comunque la stessa accoglienza degna. Usare però la categoria del rifugiato nella discussione sulla mobilità della forza lavoro rischia di portarci in una nebbia dove prevale l’approccio tecnico umanitario. La discussione sulla mobilità oggi è una discussione di classe, perché la libertà di volare comodamente sopra la frontiere riguarda solo i borghesi occidentali. O viaggiamo tutti allora o non viaggi più nessuno.

 

 

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