Sei milioni di italiani lavorano e vivono all’estero, l’allarme di Confindustria: “Ci costa un punto di Pil”

Sarebbe saggio puntare sul loro ritorno ma l’esecutivo va nella direzione opposta

 

di Brunello Rosa (da La Stampa del 28-10-23)

La settimana scorsa, in occasione della 64esima edizione della Riunione Scientifica Annuale della Società Italiana di Economia, è stato presentato un articolo, a firma di Ludovico Latmiral, Luca Paolazzi e Brunello Rosa, che dimostra la sistematica sottostima del fenomeno dell’emigrazione italiana da parte delle fonti ufficiali. Incrociando diverse fonti di dati di paesi Europei, sia di origine Eurostat che di uffici stastici nazionali, usando «mirror» e «proxy statistics» di varia natura si giunge alla conclusione che per ogni migrante «statistico» ci sono dai circa due fino a oltre tre migranti «reali», a seconda dei paesi di destinazione e dei periodi considerati.

Il caso tipico è quello del Regno Unito, in cui le statistiche del Settlement Scheme e delle richieste di naturalizzazione e cittadinanza presentate dai cittadini italiani residenti in UK a seguito della Brexit hanno evidenziato la presenza di circa 600-650,000 connazionali sul territorio britannico, a fronte dei quasi 450,000 censiti dall’Anagrafe Italiana dei Residenti All’Estero (AIRE) e dei quasi 350,000 censiti dall’Office of National Statistics, l’equivalente dell’ISTAT britannico, e più in linea con le fonti aneddotiche consolari che parlano di una popolazione italiana residente in Gran Bretagna vicino alle 700,000 unità.

Voglio qui sottolineare che non si sta mettendo in discussione la qualità dei dati o l’impegno degli organi preposti a raccoglierli, ma della natura stessa del fenomeno, che è di per se sfuggente e mutevole. Nel caso italiano, poi, l’iscrizione all’AIRE avviene su base volontaria, essendo la mancata registrazione (teoricamente obbligatoria per coloro che trasferiscono la residenza per piu’ di 12 mesi) non sottoposta a sanzione.

Qualche dato aiuterà a capire la vastità del fenomeno emigratorio italiano. Ad oggi, gli iscritti all’AIRE sono circa 6 milioni, e cioè il 10% della popolazione Italiana, e sono il doppio di quanti fossero nel 2006. Nel decennio tra il 2012 (l’anno successivo alla crisi dell’euro iniziata nel 2011) ed il 2021 (secondo anno pandemico), secondo le statistiche ufficiali, più di un milione di cittadini hanno lasciato l’italia e solo poco piu’ di 430,000 sono reintrati (anche a causa della pandemia), con un saldo migratorio netto (ufficiale) di piu’ di 580,000 persone. Di questi, quasi 80,000 erano laureati tra i 25 ed i 34 anni. Ma se le nostre analisi sono corrette, noi riteniamo che nell’ultimo decennio, più di un milione di giovani “reali” tra i 18 ed i 34 anni, hanno trasferito la loro residenza all’estero.

L’impatto economico di questo fenomeno e’ clamoroso. Come risulta da numerose altre indagini statistiche e campionarie, i nostri migranti sono mediamente più istruiti, motivati ed intraprendenti (cioè desiderosi e capaci di fare impresa) sia della popolazione che lasciano che di quella che raggiungono, e rappresentano pertanto una perdita netta per l’economia italiana ed un guadagno netto per quella di destinazione. Analisi di fonte Confindustria hanno stimato in circa un punto percentuale di PIL l’anno il costo «diretto» della recente emigrazione italiana, limitandosi solo alla stima dei costi di istruzione, assistenza sanitaria e spesa del settore pubblico e privato per formare un giovane migrante, e tralasciando gli enormi costi indiretti del fenomeno, quale la mancata formazione di nuovi nuclei familiari e creazione di imprese sul territorio nazionale, ed il crescente divario in tema di ricerca ed innovazione, solo per fare alcuni esempi.

Anche senza addentrarsi in stime statistiche, la normale «euristica» del fenomeno è nota. Lo stato (e le famiglie) italiane spendono ingenti risorse per formare giovani che, non trovando sbocco professionale adeguato, si trasferiscono all’estero proprio nel momento in cui potrebbero poter iniziare a ripagare, in termini di tasse e contributi, l’investimento fatto su di loro in termini di istruzione ed assistenza sanitaria. Invece, all’estero i nostri migranti vanno a contribuire allo sviluppo economico di paesi che sono ben lieti di accogliere professionalità che non hanno speso per formare, e che per di più versano tasse e contributi che contribuiscono a mantenere il sistema di welfare del paese di destinazione. Sistema che i nostri migranti non utilizzano, data la giovane età, e di cui non faranno uso nel momento in cui potrebbero averne bisogno, e cioè in vecchiaia, in quanto molto probabilmente torneranno nel paese di origine, andando a pesare sul sistema di welfare italiano, a cui non hanno contribuito negli anni in cui erano lavorativamente attivi. Si intuisce pertanto che questo è un meccanismo perverso a saldi tutti negativi per l’Italia e tutti positivi per i paesi esteri.

Si capisce pertanto il motivo per cui, nel corso degli anni, siano stati introdotti diversi meccanismi incentivanti per il rientro dei migranti italiani, e non si capisce in nessuno modo il motivo che ha spinto l’attuale governo a varare misure, per fortuna non ancora approvate in via definitiva, a ridurre questi incentivi. Una spesa minima annua in termini di ridotto introito di imposte dirette porta infatti enormi benefici in termini di riequilibrio degli investimenti in formazione e welfare, e di crashata economica di medio termine. Senza contare il segnale pessimo che viene lanciato ai nostri migranti, che pure intimamente nella maggior parte dei casi vorrebbe rientrare, soprattutto verso coloro che vengono colpiti degli effetti retroattivi del provvedimento.

Questo punto potrebbe a breve diventare dirimente per la sostenibilità del debito pubblico italiano, recentemente tornata sotto pressione a causa della decisione di rinviare di qualche anno il raggiungimento di obiettivi di finanza pubblica precedentemente concordati a livello Europeo. Se la riforma del Patto di Stabilità e Crescita andrà in porto come attualmente configurata, la Commissione Europea varerà una serie di accordi bilaterali con i diversi stati membri, per la riduzione del debito (in rapporto al PIL) in tempi brevi, tra i 4 ed i 7 anni.

Centrale per l’accordo bilaterale sarà l’analisi di sostenibilità del debito che verrà fatta per ciascun paese. Dato lo stock di debito, che non può essere modificato (a meno di non ridurlo con proventi da privatizzazioni), tutta l’attenzione verrà posta sulle due variabili chiavi della sostenibilità, cioè costo medio del debito (che però è in gran parte determinato dalle scelte di politica monetaria effettuate in modo indipendente dalla BCE) e crescita attesa. La crescita potenziale del paese dipende strettamente dall’incremento della popolazione (il cosiddetto «dividendo demografico», attualmente negativo) e dall’incremento della produttività del lavoro, del capitale e del sistema nel suo complesso.

Una completa implementazione del PNRR in tutte le sue parti potrebbe portare ad un incremento di produttività nel medio termine, ma le difficoltà incontrate nell’attuazione del piano rendono a questo punto poco credibile un incremento del potenziale di crescita, grazie alle riforme e gli investimenti del piano, tale di per sè a rendere sostenibile il debito pubblico. Sarebbe molto più saggio puntare su un massiccio rientro dei cosiddetti «cervelli in fuga» che potrebbero in brevissimo tempo generare incremento del potenziale di crescita dell’economia, che potrebbe essere credibilmente speso in sede di trattativa con la Commissione Europea. Peccato che la recente iniziativa del governo vada nella direzione totalmente opposta a quella che sarebbe altamente auspicabile e necessaria.

 

FONTE: https://www.lastampa.it/economia/2023/10/30/news/sei_milioni_di_italiani_vivono_lavorano_e_vivono_allestero_confindustria_questo_ci_costa_un_punto_di_pil-13819823/

 

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