n°14 – 02/4/2022 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

00 – (*)Lettera aperta al Presidente del Consiglio Mario Draghi da parte dell’Osservatorio sulla transizione ecologica – PNRR, per accelerare le misure sulla transizione ecologica, firmato anche da 3 storici esponenti ambientalisti .
01 – La Marca (Pd) *: cittadinanza: i miei emendamenti in commissione affari costituzionali. Non perdiamo questa occasione per rispondere alle attese dei connazionali all’estero
02 – Schirò (Pd)*: la mia interrogazione al MEF per evitare la doppia tassazione del reddito prodotto all’estero.
03 – Grandi Alfiero*: la nuova fase della battaglia per cambiare la legge elettorale. La Camera sta discutendo e dovrebbe approvare a giorni una modifica della Costituzione che consentirà di eleggere i senatori su base circoscrizionale e non più su base regionale.
04 – New York Times*: non si può più dire niente? “Negli Stati Uniti la libertà d’espressione è in pericolo”, ha scritto il New York Times in un editoriale che ha aperto un acceso dibattito.
05 – Pankaj Mishra*: I non allineati della nuova guerra fredda. A molti asiatici, latino americani e africani non sembra che Putin violi il diritto internazionale più di altri. Anzi, la sua retorica antioccidentale ad alcuni piace.
06 – Guido Moltedo*: Gli Stati uniti verso una permanente economia di guerra. USA. Il gigantesco bilancio militare e l’impiego delle riserve strategiche di petrolio prefigurano un’America – e il mondo – in una escalation che va oltre il teatro ucraino.

 

 

00 – (*)Lettera aperta al Presidente del Consiglio Mario Draghi da parte dell’Osservatorio sulla transizione ecologica – PNRR, per accelerare le misure sulla transizione ecologica, firmato anche da 3 storici esponenti ambientalisti .
OSSERVATORIO SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA – PNRR
Promosso da: Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Laudato Si’, NOstra

Al Presidente del Consiglio Mario Draghi
Siamo d’accordo con lei quando in Parlamento e in altre sedi pubbliche ha enunciato l’esigenza non solo di affrontare le emergenze, a partire dall’approvvigionamento del gas, a fronte dell’invasione russa in Ucraina e alle misure di pressione per costringere uno storico fornitore a scegliere la tregua e la pace anziché di proseguire la guerra di aggressione, ma soprattutto di puntare ad accelerare le misure per la transizione ecologica dell’economia con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5 gradi. Sono passati pochi mesi da importanti sedi internazionali che avevano la questione climatica come centro della discussione e oggi siamo precipitati in una situazione pericolosa, che provoca lutti e devastazioni in Ucraina e distorce gravemente l’attenzione dagli obiettivi climatici che dovrebbero riguardare tutti noi, tutti i Paesi della terra, in un grande impegno corale di collaborazione e cooperazione. Esattamente l’opposto della guerra come mezzo di regolazione delle contese.
Per questo ci rivolgiamo a lei consapevoli che l’Italia deve assolutamente accelerare nella transizione ecologica, utilizzando al meglio le risorse del PNRR.
Se la situazione è cambiata e occorrono decisioni radicali è inevitabile che le scelte del PNRR e la sua realizzazione vengano ripensate riguardo agli aspetti finanziari, alle localizzazioni, a partire dalla priorità del Mezzogiorno, e soprattutto a tempi di attuazione precisi e verificabili. Per questo sono indispensabili drastiche norme di semplificazione, visto che quelle decise sono o non attuate o inadeguate.
Intendiamo richiamare la sua attenzione sui ritardi, le incertezze, le lacune che rischiano di fare mancare l’obiettivo del cambiamento ecologico dell’economia italiana.La cabina di regia del PNRR non sembra avere adempiuto al compito di rendere chiare e forti le scelte al paese; e, in particolare, non sembra avere funzionato un rapporto indispensabile con tutte le soggettività istituzionali e sociali, dalle Regioni ai sindacati, per passare al complesso delle associazioni ambientaliste che hanno avanzato proposte precise su cui non ci sono fino ad ora risposte.
È condivisibile l’iniziativa per porre in sede europea le nuove urgenti questioni energetiche che sono davanti a tutti i Paesi europei, sia pure con modalità e forme diverse da Paese a Paese. Se è chiaro l’obiettivo, anche i sacrifici immediati e transitori acquistano un significato diverso, altrimenti si rischiano reazioni negative e il prevalere di timori, paure, inevitabili in una fase di guerra aperta.
La prima proposta che ci sentiamo di avanzare è che il Governo promuova in tempi brevissimi una Conferenza nazionale in cui fare il punto sulla situazione, sulle modifiche degli interventi, ascoltando le proposte e gli obiettivi che vengono avanzati dai soggetti istituzionali e sociali. Queste proposte potrebbero diventare parte di un impegno comune, a partire dal Governo, delle aziende a partecipazione pubblica – che sono tenute a comportamenti ispirati ad una nuova disciplina degli obiettivi comuni –, delle forze sociali (imprese e sindacati), delle associazioni ambientaliste, delle comunità energetiche e di quanti hanno competenze e storia che motivano la validità del loro ascolto.
Un esempio, per intenderci. Si è molto parlato di semplificazioni e superamento di vincoli burocratici, ma finora non si sono fatti veri passi avanti. Anzi, si configura come un serio autogol il blocco delle energie rinnovabili ai livelli di 10 anni fa, mentre restano inevase preziose candidature dei privati ad investire risorse nel settore eolico off shore, in quello terrestre e nel fotovoltaico. Ad esempio, è grave che le lentezze burocratiche e le ordinanze di alcune Sovraintendenze contribuiscano ad un effetto nimby contro le energie rinnovabili, mentre il contrasto alle infiltrazioni mafiose e all’illegalità sono compito degli organi investigativi e della magistratura.
In ogni nuova costruzione o ristrutturazione radicale, a partire da quelle associate al bonus del 110 %, il PNRR deve prevedere l’obbligo del ricorso al fotovoltaico e all’efficienza nell’uso dell’energia, con una priorità su tutto il patrimonio edilizio pubblico.
Proposte come queste possono diventare realtà se i tempi di realizzazione diventano stringenti e l’allaccio alla rete è garantito entro la conclusione dei lavori.
Bisogna uscire dalla contraddizione per cui da un lato si parla di rinnovabili ma in realtà si agisce per il gas, il carbone, o peggio.
Interventi per alleggerire le conseguenze dell’aumento dei prezzi del gas e del petrolio, delle carenze di forniture conseguenti alla guerra sono indispensabili, ma l’obiettivo strategico è il quadro europeo, che ha fissato nel 55% la riduzione entro il 2030 dei gas climalteranti.
Per questo occorrono proposte precise come la riscrittura in tempi rapidi del Piano integrato energia clima (Pniec) giustamente proposta da Greenpeace, Lega Ambiente e WWF. Il Pniec riscritto deve prevedere un nuovo piano di risparmio energetico che accompagni gli investimenti nelle energie rinnovabili. In passato, sulla scorta di studi Enea il Piano di “efficienza energetica 2010/2020, divenuto indirizzo comune di Confindustria e Cgil, Cisl, Uil prevedeva il risparmio di 51 Mtep di combustibili fossili, 207 milioni di tonnellate di CO2 in meno, 1.600,000 nuovi posti di lavoro nel decennio. Obiettivi che vanno ripresi ed aggiornati (poco è stato realizzato)anche per il loro eccezionale valore occupazionale.
Il nuovo PNIEC deve indirizzare Amministrazione pubblica, Enti e Istituzioni preposte insieme a tutta le imprese, grandi e PMI, in un percorso rapido di massima elettrificazione nei diversi impieghi – industria, trasporti, usi domestici – con energia elettrica fornita prioritariamente e sempre più da energie rinnovabili (FER).
Ciò implica che il nuovo Piano fissi al 2030 per le fonti rinnovabili l’obiettivo ambizioso di 90 nuovi GW (basta pensare alla Germania che programma 150 nuovi GW in più) all’insegna dell’urgenza di far fronte alla minaccia del cambiamento climatico in una prospettiva di rapida indipendenza dal gas russo e, più in generale, da idrocarburi e fonti fossili. In conformità con la raccomandazione Next Generation EU di realizzare il 40% degli obiettivi energia/clima entro il 2025, il Piano deve valutare gli aspetti industriali, economico-sociali e finanziari perché si possa procedere nel prossimo quadriennio a un ritmo 8/9 GW all’anno di nuovi impianti FER, rispondendo così anche alla richiesta di “Elettricità futura”, che ha chiesto al Governo di autorizzare 60 GW di nuovi impianti da FER entro giugno 2022.
Un tale sforzo produttivo necessita di adeguati finanziamenti per tutto il periodo previsto, procedendo, ad esempio, con detrazioni fiscali di entità uguale a quelle dei superbonus.
Insomma, Signor Presidente, pensiamo che le conseguenze della guerra debbano spingere a trovare provvedimenti ancora più urgenti e tempestivi e la sapienza politico-istituzionale di realizzazioni energetiche fondamentali per il Paese e per la lotta al cambiamento climatico, con il massimo coinvolgimento dei cittadini, come consente la ricchezza delle forme di partecipazione che la nostra democrazia mette a disposizione.
*(Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Gianni Mattioli, Jacopo Ricci, Massimo Scalia, Gianni Silvestrini
29/3/2022)

 

 

01 – LA MARCA (PD) – CITTADINANZA: I MIEI EMENDAMENTI IN COMMISSIONE AFFARI COSTITUZIONALI. NON PERDIAMO QUESTA OCCASIONE PER RISPONDERE ALLE ATTESE DEI CONNAZIONALI ALL’ESTERO – 1° APRILE 2022

Il 9 marzo scorso la Commissione Affari costituzionali della Camera ha dato il via libera all’adozione di un testo unificato presentato dal Presidente della Commissione e relatore, Giuseppe Brescia, che punta a modificare la legge n. 91 del 5 febbraio 1992 in materia di cittadinanza italiana.

Più nello specifico, il testo della proposta punta esclusivamente a introdurre il cosiddetto “Ius scholae” ossia il diritto per i figli di stranieri regolarmente residenti di ottenere la cittadinanza italiana dopo aver terminato un ciclo di studi nel nostro Paese.

L’adozione da parte della Commissione del testo unificato è sicuramente un traguardo positivo nella direzione di superare un divario, sempre più insostenibile, del nostro Paese rispetto a quelli più avanzati che su questa materia hanno legiferato da tempo.

Da deputata eletta all’estero, tuttavia, non posso non sottolineare che, come già avvenuto nella scorsa legislatura, il provvedimento all’esame, proprio perché circoscritto nei suoi obiettivi, lascia aperte alcune importanti questioni riguardanti gli italiani all’estero.

Per questa ragione, ho ritenuto giusto presentare alcuni emendamenti che propongono soluzioni concrete e di buon senso, indicate anche nelle due proposte di legge che ho depositato ad inizio legislatura.

In sintesi, i miei emendamenti riguardano:

1. la restituzione della cittadinanza italiana alle donne che l’hanno perduta a seguito di matrimonio con uno straniero contratto prima del 1° gennaio 1948.

2. Il riacquisto della cittadinanza da parte di chi è nato in Italia e che, a seguito di espatrio, l’ha perduta per necessità di lavoro o altro, facendone espressa richiesta all’ufficio consolare italiano che ha giurisdizione nel territorio di residenza estera. Un panorama limitato di persone che, attualmente, avvalendosi delle norme della legge 91/92, possono riacquistare la cittadinanza italiana esclusivamente rientrando in Italia e fissando la propria residenza presso un Comune italiano.
La Commissione Affari costituzionali, a breve, esaminerà gli emendamenti presentati. Mi auguro che non si ripeta quanto avvenuto nella precedente legislatura e che la Commissione non decida per l’accantonamento degli emendamenti riferiti agli italiani all’estero per non mettere a rischio la specificità del provvedimento, dedicato ai minori stranieri in Italia.
Spero, inoltre, che in questa circostanza si concretizzi un percorso di collaborazione parlamentare capace di scongiurare questa ipotesi per non deludere ancora una volta le attese dei nostri connazionali che, giustamente, non comprenderebbero le ragioni di un ulteriore rinvio.
*(On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D. – Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America)

 

 

02 – Schirò (Pd): LA MIA INTERROGAZIONE AL MEF PER EVITARE LA DOPPIA TASSAZIONE DEL REDDITO PRODOTTO ALL’ESTERO. CONTINUANO AD ARRIVARMI LE SEGNALAZIONI DI CITTADINI ITALIANI (SOPRATTUTTO GIOVANI) ANDATI A LAVORARE ALL’ESTERO I QUALI SI LAMENTANO DI AVER RICEVUTO AVVISI DI ACCERTAMENTO DALLE AMMINISTRAZIONI FISCALI ITALIANE CON I QUALI È RICHIESTO IL PAGAMENTO DELLE IMPOSTE SUL REDDITO PRODOTTO OLTRECONFINE. 29 marzo 2022

Per tutelare gli interessi di questi nostri connazionali e per rappresentare il problema al Governo italiano ho presentato in questi giorni una interrogazione al Ministro dell’Economia e delle Finanze.

Nell’interrogazione ho denunciato il fatto che questi lavoratori hanno già pagato le tasse nel Paese dove si sono recati a lavorare e che quindi non dovrebbero essere tassati una seconda volta. Si tratta di lavoratori i quali non si sono iscritti (per i più svariati motivi) all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), hanno quindi mantenuto la residenza fiscale in Italia ma non hanno presentato in Italia, come previsto dalla legge, la dichiarazione dei redditi (o l’hanno presentata con ritardo o hanno omesso di indicare nella dichiarazione i redditi conseguiti all’estero).

I cittadini italiani i quali non si iscrivono all’AIRE e producono reddito all’estero sono spesso soggetti quindi a doppia tassazione anche in virtù del diritto tributario italiano basato sulla “tassazione mondiale”, in particolare quando il Paese di destinazione ha stipulato con l’Italia una convenzione contro le doppie imposizioni fiscali che prevede la tassazione concorrente ancorchè mitigata dalla facoltà del credito di imposta. Si sta perciò sviluppando da anni una grave criticità fiscale per cui molti giovani emigrati sono sottoposti a doppia tassazione nel Paese di lavoro e nel Paese di residenza che è in questo caso l’Italia nonostante abbiano già pagato le tasse all’estero e nonostante il fatto, paradossalmente, che l’Italia abbia stipulato centinaia di convenzioni bilaterali proprio contro la doppia imposizione. Spesso si tratta di importi da pagare per migliaia o decine di migliaia di euro che sconvolgono la vita di contribuenti inconsapevoli e in buona fede che hanno già adempiuto ai loro doveri fiscali nel Paese estero dove vivono, lavorano e producono reddito regolarmente denunciato.
Nell’interrogazione ho anche ricordato al Governo che più volte la Corte di Cassazione (in ultimo con l’ordinanza 9725 depositata il 14 aprile 2021) si è espressa circa la possibilità di scomputare le imposte pagate all’estero anche nel caso in cui il contribuente abbia omesso di presentare la dichiarazione dei redditi qualora con il Paese della fonte e l’Italia sia in vigore una convenzione per evitare le doppie imposizioni.
Ho chiesto quindi al Ministro di intervenire anche a livello legislativo, proponendo, nei casi in cui il contribuente abbia già pagato le tasse all’estero, una sanatoria e modificando opportunamente l’articolo 165 del TUIR in modo tale da prevedere il credito di imposta anche in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi o di omessa indicazione dei redditi prodotti all’estero.
Credo infine che sia opportuno ricordare che secondo la vigente normativa sono obbligati ad iscriversi all’Aire i cittadini che trasferiscono le propria residenza all’estero per periodi superiori a 12 mesi e i cittadini che già vi risiedono sia perché nati all’estero che per successivo acquisto della cittadinanza italiana a qualsiasi titolo.
*(Angela Schirò – Deputata PD – Rip. Europa – Camera dei Deputati – Piazza Campo Marzio, 42 – 00186 ROMA)

 

 

03 – Grandi Alfiero*: LA NUOVA FASE DELLA BATTAGLIA PER CAMBIARE LA LEGGE ELETTORALE,
LA CAMERA STA DISCUTENDO E DOVREBBE APPROVARE A GIORNI UNA MODIFICA DELLA COSTITUZIONE CHE CONSENTIRÀ DI ELEGGERE I SENATORI SU BASE CIRCOSCRIZIONALE E NON PIÙ SU BASE REGIONALE. QUESTA MODIFICA DELLA COSTITUZIONE SI È RESA NECESSARIA DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DEL TAGLIO DEI PARLAMENTARI (400 DEPUTATI E 200 SENATORI) CHE SARÀ IN VIGORE DALLE PROSSIME ELEZIONI POLITICHE.

Le Regioni più piccole hanno la garanzia di avere eletti 3 senatori (1 in Val d’Aosta) ma questo è anche il limite che rende praticamente impossibile un minimo di proporzionalità, in quanto in queste regioni la soglia per ottenere eletti sarà molto alta (20/30%) e potrebbe perfino consentire a qualcuno, con alcune mosse, di fare l’asso pigliatutto. La soluzione di come realizzare una rappresentanza più aderente alla realtà politica, culturale, sociale delle piccole regioni verrà affidata alla legge attuativa.
Può sembrare un percorso agevole verso la modifica costituzionale che apre la strada a correggere per legge una distorsione del sistema elettorale del Senato che potrebbe portare ad una maggioranza diversa tra Camera e Senato, aprendo potenzialmente una fase di instabilità politica.

In realtà non è così. Per arrivare al traguardo in tempo utile occorre anzitutto ipotizzare che le elezioni politiche si svolgeranno a scadenza naturale nel marzo del 2023, che il Senato approverà rapidamente nello stesso testo la modifica approvata dalla Camera. Infine che a tre mesi di distanza sia la Camera che il Senato approveranno una seconda volta lo stesso testo, che è particolarmente breve: una parola sola, circoscrizione al posto di regionale.

A quel punto la modifica sarà approvata definitivamente ed è sperabile che sia approvata con più dei due terzi delle camere in modo da entrare in vigore immediatamente. Se tutto va bene a settembre dovrebbe arrivare l’approvazione definitiva, indispensabile per discutere ed approvare una nuova legge elettorale.
Questo passaggio, inevitabilmente più complesso, è tutt’altro che scontato, anche se l’approvazione della modifica della Costituzione obbliga a cambiare la legge elettorale in vigore almeno per questo aspetto, quindi di legge elettorale bisognerà parlare in ogni caso.

Tuttavia sarebbe bene che il parlamento iniziasse a discutere di legge elettorale prima possibile, perché ridursi all’ultimo, cioè vicino alla scadenza elettorale, consegna nelle mani di chi non vuole cambiare nulla l’occasione di menare il can per l’aia e di avere gioco facile nel bloccare tutto. Preparare una riforma della legge elettorale è un modo per essere ragionevolmente certi che il risultato sia possibile. Rinviare ancora comporta il serio rischio di arrivare all’ultimo momento e di non farcela.

La legge elettorale in vigore ha profili evidenti di incostituzionalità, consente ai capi partito di imporre di fatto l’elezione dei fedelissimi. Basta metterli nel posto giusto di lista con uno dei diversi meccanismi previsti attualmente. Inoltre chi vota un candidato nell’uninominale automaticamente fa eleggere persone nel listino proporzionale, con nomi bloccati, che nemmeno conosce e di cui nessuno gli ha parlato. Una sorta di eterogenesi del voto.

Le ragioni della crisi del ruolo del parlamento e della caduta di credibilità dei parlamentari sono diverse, complesse e chiamano in causa direttamente i partiti e il loro (mal)funzionamento, tanto è vero che si dovrebbe trovare il coraggio di attuare finalmente l’articolo 49 della Costituzione.

Quindi non si può ridurre tutto alla legge elettorale. Tuttavia è sicuro che una legge elettorale che non consente di garantire la rappresentanza delle diversità politiche, territoriali, culturali e che vede i parlamentari di fatto nominati dall’alto – senza alcun rapporto con gli elettori del territorio che dovrebbe sceglierli – aggrava ed approfondisce la frattura tra eletti ed elettori e questo è un problema di prima grandezza per il funzionamento di una democrazia come quella italiana in cui il parlamento è centrale nell’assetto costituzionale.

La legge elettorale non risolve tutto, ma una buona legge elettorale è indispensabile per risalire la china della crisi del parlamento.
Se i parlamentari continueranno ad essere scelti per la fedeltà al capo corrente o del partito avremo ancora la prevalenza dei signorsì, mentre al contrario – non a caso – i costituenti disegnarono per il parlamentare il ruolo di rappresentante della nazione e gli imposero di comportarsi con dignità ed onore e la precondizione è che sia libero di scegliere e di decidere secondo coscienza, soprattutto nei casi difficili.
*( Alfiero Grandi su Domani del 30 marzo 2022)

 

 

04 – NEW YORK TIMES: NON SI PUÒ PIÙ DIRE NIENTE? “NEGLI STATI UNITI LA LIBERTÀ D’ESPRESSIONE È IN PERICOLO”, HA SCRITTO IL NEW YORK TIMES IN UN EDITORIALE CHE HA APERTO UN ACCESO DIBATTITO.
Secondo il giornale, lo scontro sempre più aspro tra destra e sinistra sulla cancel culture (il boicottaggio per escludere dal dibattito pubblico chi promuove idee e comportamenti discriminatori) ha creato una dinamica pericolosa.
“Molti progressisti dicono che la cancel culture non esiste e che è solo una copertura per promuovere odio e bigottismo: molti conservatori hanno sostenuto forme di censura ancora più estreme in risposta ai rapidi cambiamenti sociali. Il risultato è che molti statunitensi sono confusi su quello che si può o non si può dire”.
Secondo un sondaggio del New York Times e del Siena College, solo il 34 per cento degli statunitensi dice di credere che tutti abbiano piena libertà d’espressione. Inoltre il 46 per cento dice di sentirsi meno libero di parlare di politica rispetto a dieci anni fa.
Secondo Will Bunch, opinionista del Philadelphia Inquirer, il New York Times ingigantisce il tema della cancel culture e minimizza i pericoli creati dalla destra. “I casi di persone ‘cancellate’ sono duecento in quarant’anni. Tra il 2021 e il 2022 i repubblicani hanno presentato 175 leggi che vietano agli insegnanti di affrontare con gli studenti argomenti controversi sul razzismo e il genere”.

 

 

05 – Pankaj Mishra*: I NON ALLINEATI DELLA NUOVA GUERRA FREDDA. A MOLTI ASIATICI, LATINO AMERICANI E AFRICANI NON SEMBRA CHE PUTIN VIOLI IL DIRITTO INTERNAZIONALE PIÙ DI ALTRI. ANZI, LA SUA RETORICA ANTIOCCIDENTALE AD ALCUNI PIACE.
Le democrazie si stanno dimostrando all’altezza del momento”, ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden durante il suo discorso sullo stato dell’unione, mentre il presidente russo Vladimir Putin scatenava la sua guerra contro l’Ucraina. Il politologo Francis Fukuyama e altri commentatori affermano che lo “spirito del 1989” è tornato e che nel mondo stiamo per assistere a una “rinascita della libertà”. Una simile retorica, solitamente usata da uomini che hanno vissuto gli ultimi giorni della guerra fredda, è pericolosa. Potrebbe spingere di nuovo l’occidente a interpretare male il mondo.
Le realtà geopolitiche di oggi sono ancora più complicate di quanto lo fossero nel novecento, e confondono ogni possibile distinzione tra democrazia e autocrazia. Rivolgendosi al Venezuela e
forse addirittura all’Iran per alleviare la pressione sul prezzo del petrolio, gli Stati Uniti stanno
già indebolendo il senso della loro “alleanza delle democrazie”. La Cina, un affidabile partner antisovietico negli anni settanta, sembra aver capito che un legame stretto con l’occidente non è né auspicabile né sostenibile, e fa da megafono alla propaganda russa.
Fatto più importante, molti governi sembrano pronti a tenersi fuori da una nuova guerra fredda tra un occidente che si è ricompattato in tutta fretta e la Russia. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha dichiarato che il suo paese “non prenderà posizione”. Il Sudafrica si è astenuto nel voto sulla risoluzione delle Nazioni Unite che condanna l’invasione russa dell’Ucraina.
Argentina, Turchia, Messico e Indonesia appartengono alla maggioranza degli stati che si sono rifiutati di imporre sanzioni a Mosca.
Il paese che meglio rappresenta questa scelta di non schierarsi è l’India. I legami di lunga data con
MOSCA – metà degli armamenti militari in India arrivano dalla Russia – spiegano solo in parte il rifiuto di New Delhi di schierarsi al fianco di Stati Uniti, Australia e Giappone, suoi alleati all’interno del Quad, l’intesa per contenere l’espansionismo cinese. Come molti governi che devono fare i conti con le insidie dell’inflazione, il primo ministro Narendra Modi è preoccupato dall’aumento dei prezzi delle merci esportate dalla Russia: petrolio, grano e fertilizzanti.
E apprezza il sostegno di Mosca allo smantellamento dell’autonomia del Kashmir. Quindi l’India non si schiererà. I sostenitori della guerra fredda, che insistono sul “con noi o contro di noi”, non hanno mai capito i mutevoli rapporti d’interesse che stanno al cuore del non allineamento. Né cercano di comprendere la cautela con cui i paesi più popolosi al mondo misurano la loro cooperazione all’interno di un ordine internazionale dominato dall’occidente. Gli indonesiani ricordano ancora il collasso finanziario del 1998 nel sudest asiatico, la cui responsabilità è attribuita agli investitori occidentali. I nazionalisti cinesi denunciano ancora il bombardamento della Nato sull’ambasciata di Pechino a Belgrado nel 1999. E in Asia e in Africa il ricordo dell’invasione dell’Iraq nel 2003 rimane doloroso.
A molti asiatici, latinoamericani e africani non sembra che Putin violi il diritto internazionale più di altri. Anzi, la sua retorica antioccidentale ad alcuni piace. Lo testimonia la sua popolarità in India e Indonesia. In ogni caso la sfiducia verso le potenze regionali aggressive come Russia, Cina, Turchia e Iran è bilanciata dal sospetto che gli Stati Uniti siano una superpotenza indebolita e instabile. Questi timori sono stati confermati durante la presidenza di Donald Trump e non sono ancora stati dissipati, vista l’influenza del trumpismo nella politica statunitense.
L’egoistica risposta europea e statunitense alla pandemia ha contribuito a rafforzare il risentimento antioccidentale. Di sicuro, mentre gli Stati Uniti con gelano le riserve in dollari della banca centrale russa e aziende come la Apple, l’American Express e McDonald’s vanno via dalla Russia, le nazioni di tutto il mondo stanno riconsiderando la loro dipendenza da beni, tecnologie e sistemi finanziari occidentali. La Cina, indignata dall’attacco di Trump contro la Huawei e dalla minaccia di espellere le aziende cinesi da Wall Street, è alla ricerca di indipendenza in settori fondamentali come la finanza e la tecnologia, e sta cercando di trovare modi per mettere in discussione il dominio globale del dollaro.
Man mano che la globalizzazione va in pezzi, le prospettive per la democrazia s’indeboliscono. Le dittature del mondo stavano già costruendo fortezze digitali per reprimere il dissenso. La ritirata delle aziende della Silicon valley l’aiuterà. Qualunque cosa succeda in Ucraina, il non allineamento e l’indebolimento della democrazia sono destinati a crescere.
La guerra fredda è finita nel 1989 con troppe fantasie sul prestigio morale del mondo libero. Una seconda guerra fredda si sta trasformando in uno stallo o addirittura in una sconfitta dell’occidente.
*(Fonte Gardian, PANKAJ MISHRA è uno scrittore e saggista indiano, collabora con la New York Review of Books. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Le illusioni dell’Occidente. ALLE ORIGINI DELLA CRISI DEL MONDO MODERNO).

 

 

06 – Guido Moltedo*: GLI STATI UNITI VERSO UNA PERMANENTE ECONOMIA DI GUERRA. USA. IL GIGANTESCO BILANCIO MILITARE E L’IMPIEGO DELLE RISERVE STRATEGICHE DI PETROLIO PREFIGURANO UN’AMERICA – E IL MONDO – IN UNA ESCALATION CHE VA OLTRE IL TEATRO UCRAINO.

L’America si sta preparando a una “permanente economia di guerra”, sostiene su The Nation Michael T. Klare. Il bilancio militare proposto da Joe Biden per l’anno fiscale 2023 è imponente: 813 miliardi di dollari. E la decisione di attingere alle riserve strategiche di petrolio – un milione di barili al giorno nei prossimi sei mesi – non è solo una misura per contenere l’aumento della benzina provocato dalle conseguenze del conflitto in Ucraina. È anche il segnale simbolico di una situazione emergenziale propria di uno stato di guerra.
Con il suo ormai celebre discorso di Varsavia, Joe Biden ha tracciato una linea di demarcazione tra due poli, che riflette e ripropone quella “ideologica” della guerra fredda, riassumibile in un dilemma: “Chi prevarrà? Prevarranno le democrazie? O prevarranno le autocrazie?”.

Il teatro di guerra è l’Ucraina, ma lo scontro si fa globale. Rispetto alla “guerra fredda”, la confrontation attuale non è però strettamente bipolare, tra due superpotenze con i rispettivi sistemi di alleanze. Oggi i nemici della “democrazia” sono due: la Cina e la Russia. Anzi, va detto che il gigantesco budget militare, che peraltro il Congresso vorrebbe ben più sostanzioso, è ideato per fronteggiare soprattutto Pechino, considerato l’avversario più temibile e imminente.

Va detto, infatti, che i fondi per il Pentagono erano stati decisi prima della crisi ucraina, e dichiaratamente erano dentro un’ottica che vedeva la Cina come “nemico” principale. Il che, peraltro, la dice lunga sulla decantata capacità americana di valutare, prima dell’invasione, i disegni della Russia nei confronti dell’Ucraina, se non nelle settimane immediatamente precedenti l’invasione. Aggiungere altri miliardi di dollari a un budget militare mastodontico, dopo l’invasione russa, è un correttivo che non corregge la percezione di un’America costretta a giocare di rimessa, su un campo che non considerava prioritario.

La scelta degli Usa, e degli alleati europei, di un forte incremento delle spese militari va oltre lo scenario ucraino e il teatro europeo. Essa ha infatti la conseguenza di una generalizzata corsa alle armi da parte di tutte le potenze regionali, con considerevoli investimenti nell’industria militare. Intanto l’effetto domino delle sanzioni minaccia severe crisi alimentari, specie nei paesi del Sud.

E il ritorno senza tanti se e ma ai combustibili fossili – e perfino al nucleare – tiene in scacco gli impegni per le energie alternative. Cosicché il combinato di queste criticità, alimentari e ambientali, con il protagonismo di complessi militari-industriali sempre più forti e arroganti, di grandi e medie potenze, disegna un mondo di pericolosa instabilità. Nell’immediato è una prospettiva più preoccupante dello stesso rischio di una guerra nucleare.

In uno scenario di “permanente economia di guerra” è cruciale tuttavia la tenuta delle opinioni pubbliche occidentali, quella statunitense innanzitutto. Biden è un commander-in-chief senza il necessario carisma per guidare un paese che resta preda di profonde divisioni, di particolarismi locali e di battaglie per diritti riguardanti considerevoli parti della popolazione.
L’accoglienza di centomila ucraini – irrilevante rispetto all’onere spettato agli europei – non ha fatto altro che mettere in luce la deportazione di profughi verso i paesi africani e caraibici di provenienza, fuggiti da tortura, arresti arbitrari, violenze e altri abusi.

Un evidente doppio standard che indigna leader e rappresentanti politici delle minoranze e di organizzazioni come Human Rights Watch, alimentando la diffidenza che serpeggia nell’elettorato nero nei confronti di Biden e del Partito democratico.
A questo s’aggiunga l’insofferenza verso le sanzioni di pezzi di constituency democratica più direttamente colpiti dalle conseguenze delle misure punitive nei confronti della Russia. Per esempio, il settore dell’industria ittica del New England, che con il deperimento della pesca locale, lavora grazie all’import di merluzzo e crostacei provenienti dalla Russia. Colpita di conseguenza anche la filiera della ristorazione, compresi i fish and chips (nel Regno Unito le conseguenze sono ancora più severe per lo street food simbolo degli inglesi).

Sono esempi dei diversi segnali che la Casa bianca non può ignorare in un anno elettorale che vede il Partito democratico in grande affanno nella corsa per le elezioni di medio termine, con i sondaggi che crudelmente non cessano di prospettare la possibile se non probabile conquista da parte dei repubblicani di almeno uno dei due rami del Congresso, se non di entrambi.
Ed è una situazione per certi versi anche paradossale, perché alcuni dati più strutturali indicano una situazione in miglioramento, in particolare sul fronte dell’occupazione, che segna un recupero del 93 per cento di posti di lavoro perduti a causa del Covid e segnala un aumento dei salari fino a oltre il 5 per cento rispetto allo scorso anno. “Si fanno più soldi e si trovano posti di lavoro migliori”, vanta Biden, che però non vede tradurre questi dati in numeri a suo favore. Il timore dell’inflazione, già in azione, spegne l’ottimismo.
Oppure continua drammaticamente a non funzionare la chimica tra il presidente democratico e l’elettorato. Una parte del quale, la maggioranza, voterebbe di nuovo Donald Trump.
*( Guido Moltedo, segue da anni la politica statunitense ed è attualmente capo della redazione esteri del quotidiano «Europa».)

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