n°51 – 18/1/2021 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – La Marca (Pd): approvata dalla commissione esteri della camera la mia risoluzione sui servizi consolari .

02 – Thomas Piketty*: Una mappa aggiornata del mondo disuguale.

03 – Nucleare e gas non entrano tra le energie da fonti rinnovabili, Bruxelles rinvia la decisione Comunicato dell’Osservatorio sulla transizione ecologica – PNRR

04 – Emanuele Felice*: Ora che le sinistre sono tornate dal governo, non bisogna rifare gli errori di vent’anni fa.

05 – Alessandro Penati*: Il lato oscuro della prima legge di bilancio del governo Draghi

Dopo tanti anni mi è capitato di sfogliare una bozza del Disegno di Legge di Bilancio 2022 (quella del 28 ottobre). Nulla è cambiato: sempre lo stesso documento deprimente, rappresentazione fedele dei mali che affliggono la pubblica amministrazione e la politica.

06 – Tommaso Di Francesco*: L’ipocrisia come forma di governo. Il golpe in casa. Del resto bastava guardare a 70 anni di storia per capire che gli Stati uniti, che si battono contro le ingerenze altrui, nelle crisi internazionali, abbiano costruito la distruzione della democrazia altrui, attraverso un sistema violento di ingerenza politica e militare con colpi di stato

07 – Jacopo Custodi*: Un vocabolario di sinistra per convincere gli operai. Un sondaggio promosso da Jacobin Usa e YouGov getta nuova luce su quali siano i candidati progressisti preferiti dalla classe lavoratrice. Devono dare priorità ai diritti sociali. Ma anche ai diritti civili, purché siano presentati con le parole giuste, adottando una retorica universalista e non escludente.

08 – Natale Cuccurese*: UNA LEGGE TARATA MALE. Tra le risorse da assegnare agli enti locali, attraverso la legge di bilancio da approvare entro fine anno, si continua a mantenere il gap miliardario che separa le regioni del Nord da quelle del Mezzogiorno.

09 – Va­le­rio Cal­zo­la­io*: Leo­par­di e Gram­sci, un az­zar­do di bi­no­mio.

 

 

01 – LA MARCA (PD): APPROVATA DALLA COMMISSIONE ESTERI DELLA CAMERA LA MIA RISOLUZIONE SUI SERVIZI CONSOLARI .ROMA, 16 dicembre 2021

Servizi consolari:  approvata la risoluzione del Partito Democratico nella Commissione esteri della Camera. Continua il mio impegno per raggiungere risultati concreti per i nostri connazionali

Esprimo soddisfazione per l’approvazione di un atto che ho suggerito, contribuito a definire e fortemente voluto. Non potendolo presentare direttamente in quanto componente della Commissione Affari sociali,  l’ho cofirmato con convinzione con le colleghe della Commissione esteri, Francesca La Marca e la nostra capogruppo PD Lia Quartapelle, con il proposito di adempiere ad un dovere verso i connazionali e ad una responsabilità istituzionale.

La risoluzione del PD contiene due impegni per il governo. Il primo legato ad un intervento straordinario per ridare agibilità ai consolati dopo la gelata della pandemia. I connazionali, che sanno soffrendo disagi inenarrabili per la difficoltà di ottenere anche i servizi indispensabili, sanno di che cosa parlo. Il secondo impegno riguarda un piano a medio termine per aumentare il personale in organico e a contratto da adibire ai servizi, per modernizzare ampiamente e velocemente le nostre sedi con l’apporto di nuove tecnologie, per semplificare le procedure.

La volontà della Camera si è dunque manifestata nel senso giusto. Si tratta ora di agire, di farlo presto e di farlo bene. La prima occasione sarà la Legge di bilancio per la quale il Partito democratico ha già presentato emendamenti orientati in questa direzione.

Questo dell’accesso ai servizi consolari lo considero un diritto di cittadinanza fondamentale per gli italiani residenti all’estero e dunque una priorità del mio impegno parlamentare.

La Commissione esteri della Camera ha approvato la mia Risoluzione, presentata insieme alle colleghe Schirò e Quartapelle del PD, sul miglioramento dei servizi consolari.

La mia risoluzione ha fatto da apripista ad altre due mozioni, presentate successivamente da Forza Italia e Italia Viva, anch’esse approvate.

La risoluzione è stata approvata da tutti, con l’eccezione della Lega che non perde occasione per dimostrare la sua distanza tra le parole e i fatti.

È una risposta seria ed organica che il Partito Democratico ha cercato di dare alle gravi difficoltà che i connazionali da tempo incontrano nella fruizione dei servizi consolari. Essi, come sono oggi, rappresentano una pesante penalizzazione per i cittadini e per le imprese che vogliono internazionalizzarsi.

Questa risoluzione impegna il governo ad adottare misure urgenti per un intervento di emergenza che consenta di superare le criticità insorte nel periodo di pandemia. Impegna inoltre il governo a reintegrare progressivamente la carenza di personale che si è determinata negli anni, ad accelerare i processi di digitalizzazione e a semplificare le procedure. Si tratterà ora di fare in modo che ci siano azioni coerenti con la volontà dalla Camera ad iniziare dalla legge di bilancio per la quale ho presentato emendamenti che vanno in questa direzione. Continuerò con la stessa convinzione e determinazione ad impegnarmi per dare all’Italia una rete estera all’altezza delle necessità e della sua grande comunità nel mondo.

 

TESTO

La Marca; sui .servizi consolari. NUOVO TESTO PRESENTATO DALL’ON. LA MARCA

La III commissione  premesso che:

i servizi consolari rei ai cittadini all’estero e alle imprese rappresentano una risposta dovuta ai diritti di cittadinanza degli italiani all’estero e un importante fattore di sostegno e di impulso per la

proiezione  del Sistema Paese in ambito globale;

la rete estera nei primi lustri del nuovo secolo si è dovuta misurare con processi profondi e dinamiche di cambiamento quali  la costante espansione della presenza dei cittadini italiani all’estero e il progressivo  incremento del commercio con l’estero. soprattutto nei settori vitali del made in Italy,  che  ne hanno messo a dura prova la capacità di rispondere con efficacia a una domanda crescente e differenziata, sia sui piano degli adempimenti amministrativi che di quello delle funzioni promozionali;

la presenza all’estero degli italiani di cittadinanza, infatti, che nel 2006, all’entrata in funzione della

circoscrizione Estero, ammontava a 3.106.251, a distanza di 15 anni supera formalmente i 5,5 milioni (+76.6 per cento) e, secondo i più attendibili dati delle anagrafi consolari, sarebbe raddoppiata, superando ormai i 6,2 milioni;

alla crescita quantitativa della platea degli utenti si aggiunge l’attribuzione alla rete consolare di nuove funzioni rispetto a quelle tradizionali, sia di natura amministrativa in conseguenza di una progressiva articolazione delie normative e delie regolamentazioni, sia di natura promozionale;

in attuazione del decreto-legge 21 settembre 2019, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 novembre 2019, n. 132, sono state trasferite ai Ministero degli affari esteri e della cooperazioni interazionale importanti funzioni relative alla internazionalizzazione delle imprese, in precedenza in attuazione del decreto-legge 2! settembre 2019, n. 104, convertito, con modificazioni, internazionale importanti funzioni relative alla internazionalizzazione delle imprese, in precedenza di Competenza dei Ministero dello sviluppo economico e nello stesso tempo rafforzate le strategie volte all’incremento del turismo culturale, della ricerca in ambito interazionale, dei turismo delle radici e del turismo enogastronomico, affidate e/o coordinate dalle strutture estere del Ministero degli affari esteri e delia cooperazione interazionale;

questi processi espansivi non hanno avuto una risposta organizzativa e funzionale adeguata a causa della crisi finanziaria ed economica di rilevanti proporzioni del 2007-2008 e del condizionamento dei cogenti impegni europei, die hanno indotto ad adottare una linea di risanamento e contenimento finanziario, concretizzatasi in politiche di spending rèview. In concreto, essa si è tradotta per il sistema dei servizi erogati dalla rete estera nella riduzione delle sedi distribuite sul territorio (consolati, agenzie consolari. Istituti di cultura e altri) e nella persistenza per oltre un decennio del blocco del turnover del personale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale;

a fronte di una presenza di connazionali distribuita in 236 Paesi del mondo, nel 2015 sono state chiuse quasi una cinquantina di strutture, di cui 36 sedi consolari, e quattro anni più tardi etano cancellati 27, …..”

*(On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D. – Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America – Electoral College of North and Central America – Ufficio/Office: – 00186 – Roma, Piazza Campo Marzio, 42 – Tel – (+39) 06 67 60 57 03 Email – lamarca_f@camera.it)

 

02 – THOMAS PIKETTY*: UNA MAPPA AGGIORNATA DEL MONDO DISUGUALE.

Cosa c’insegna l’ultimo rapporto sulle  disuguaglianze mondiali 2022 del  World inequality lab (dell’École  d’économie de Paris), da poco pubblicato e frutto della collaborazione tra  un centinaio di ricercatori di tutti i continenti? Al di là dei risultati ben noti sull’aumento  delle disuguaglianze di reddito negli ultimi decenni,  possiamo identificare tre novità principali, relative  alle disuguaglianze patrimoniali, di genere e ambientali.

COMINCIAMO DAL PATRIMONIO. Per la prima volta i ricercatori hanno raccolto  dati che permettono di confrontare la  distribuzione delle ricchezze in tutti i  paesi: la conclusione generale è che l’iper-concentrazione patrimoniale, che si  è ulteriormente aggravata con la pandemia, riguarda allo stesso modo tutte  le regioni del pianeta. Nel 2020 il 50 per  cento più povero della popolazione  mondiale possedeva appena il 2 per  cento delle proprietà private (beni immobiliari, professionali e finanziari), mentre il 10 per cento più ricco aveva il 76 per cento del totale.

LA PALMA DELLA DISUGUAGLIANZA VA ALL’AMERICA LATINA E AL MEDIO ORIENTE, SEGUITI DA RUSSIA E AFRICA SUB-SAHARIANA, DOVE IL 50 PER CENTO PIÙ POVERO DETIENE  SOLO L’1 PER CENTO DELLE PROPRIETÀ PRIVATE, MENTRE IL 10  PER CENTO PIÙ RICCO SI AVVICINA ALL’80 PER CENTO. LA SITUAZIONE È LEGGERMENTE MENO ESTREMA IN EUROPA, MA  C’È POCO DI CUI ANDARE FIERI: IL 50 PER CENTO PIÙ POVERO  POSSIEDE IL 4 PER CENTO DEI BENI, MENTRE IL 10 PER CENTO  PIÙ RICCO ARRIVA AL 58 PER CENTO.

Di fronte a questa situazione, ci sono vari atteggiamenti possibili. Si può aspettare pazientemente

che la crescita economica e le forze del mercato diffondano la ricchezza. Ma visto che, più di due secoli dopo la rivoluzione industriale, la parte detenuta dal 50 per cento più povero raggiunge appena il 4 per cento in Europa e il 2 per cento negli Stati Uniti, si rischia di dover aspettare ancora per un bel po’ di tempo.

Si può anche sostenere che la situazione attuale è il male minore, e che ogni tentativo di ridistribuire i patrimoni sarebbe economicamente pericoloso.

Questa argomentazione però è poco convincente. In Europa fino al 1914 la parte di patrimonio detenuta dal 10 per cento più ricco della popolazione si assestava intorno all’80-90 per cento del totale. In un secolo si è ridotta, arrivando al 60 per cento di oggi, soprattutto a favore del 40 per cento della popolazione compresa tra il 10 per cento più ricco e il 50 per cento più povero. Questa classe media patrimoniale ha così potuto comprare case e creare aziende, il che ha contribuito al benessere generale tra il 1945 e il 1973. Come fare per prolungare questo movimento di lungo periodo verso l’uguaglianza, che storica mente è necessaria a un’evoluzione verso una maggiore prosperità? Idealmente servirebbe una redistribuzione delle eredità.

IL SECONDO INSEGNAMENTO DEL RAPPORTO RIGUARDA LE DISUGUAGLIANZE DI GENERE. A livello globale nel 2020 le don ne hanno ricevuto appena il 35 per cento circa del reddito derivante dal lavoro

(contro il 65 per cento degli uomini).  Questa percentuale era del 31 per cento nel 1990 e del 33 per cento nel 2000:  quindi abbiamo fatto dei passi avanti, ma molto lentamente. Nel 2020 in Europa è andato alle donne il 38 per cento del reddito derivante dal lavoro: la parità è ancora molto lontana.

Questi dati offrono un quadro meno edulcorato e più corretto della situazione generale rispetto all’analisi di determinati tipi di lavoro: confermano che le donne non ricoprono gli stessi incarichi né fanno gli stessi orari degli uomini, in particolare a causa dei pregiudizi, delle discriminazioni e degli sforzi insufficienti fatti dalle istituzioni per regolamentare i settori in cui le donne sono più presenti (in particolare la cura delle persone, la grande distribuzione e le pulizie). In alcune regioni, come in Cina, si osserva addirittura un calo dei redditi femminili.

LA TERZA NOVITÀ DEL RAPPORTO RIGUARDA LE DISUGUAGLIANZE AMBIENTALI. TROPPO spesso il dibattito sul clima si riduce a un confronto tra le emissioni di gas serra medie per paese e alla loro evoluzione nel tempo. Invece grazie allo studio del World inequality lab  abbiamo dei dati sulla distribuzione delle emissioni  all’interno di ogni paese e nelle diverse regioni del  mondo. Si vede che il 50 per cento più povero del pianeta produce quasi ovunque livelli di emissioni relativamente accettabili, per esempio 5 tonnellate per  abitante in Europa. Nel frattempo le emissioni medie  raggiungono 29 tonnellate per il 10 per cento più ricco, e 89 tonnellate per l’élite dell’1 per cento. La conclusione è ovvia: non è tassando tutti alla  stessa maniera che saremo all’altezza delle sfide ecologiche. Il mondo, se vorrà vincere le sfide sociali e  ambientali che lo minacciano, dovrà fare qualcosa  per affrontare i diversi tipi di disuguaglianza che lo  attraversano.

*(THOMAS PIKETTY  è un economista  francese. È  professore all’École  des hautes études en

sciences sociales e  all’École d’économie  de Paris. Il suo ultimo  libro pubblicato in  Italia è Una breve  storia dell’uguaglianza (La nave di Teseo  2021). Questo  articolo è uscito su Le  Monde.)

 

 

03 – NUCLEARE E GAS NON ENTRANO TRA LE ENERGIE DA FONTI RINNOVABILI, BRUXELLES RINVIA LA DECISIONE COMUNICATO DELL’OSSERVATORIO SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA – PNRR

Il Consiglio europeo non ha trovato l’accordo sull’energia, né sull’inserimento delle energie rinnovabili tra le fonti rinnovabili – una forzatura senza alcun fondamento scientifico -, né su come fronteggiare l’aumento eccessivo, immotivato, speculativo del prezzo del gas e di altre fonti fossili.

Questo stallo dovrebbe portare il governo Draghi ed in particolare il Ministro Cingolani, che hanno aperto al nucleare dopo l’incontro col presidente francese Macron, a ripensarci perché altri paesi europei, a partire dalla Germania, non sono d’accordo. Tanto più che il nuovo governo tedesco ha confermato la chiusura delle sue centrali nucleari per produrre energia elettrica entro la fine del 2022 e quindi faticherebbe a spiegare l’eventuale contraddizione tra le due posizioni ai tedeschi.

Avevamo chiesto al Governo Draghi, con un appello pubblico condiviso da migliaia di firme, di fermare lo scempio di una tassonomia europea scritta sotto dettatura di  Macron. Sarebbe questa una scelta priva di senso e di fondamento scientifico, utile solo a esaltare la scelta nuclearista di Macron che forse pensa così di fare concorrenza elettorale alla destra e di scaricare sui fondi europei i costi enormi del nuovo nucleare per i cittadini francesi se non sarà possibile usare i soldi dell’Europa. Soldi che la Francia non a caso ha chiesto solo a fondo perduto.

Da uno stallo potrebbero uscire le condizioni per tornare a dire la verità e cioè che sono fonti di energie rinnovabili solo acqua, vento, sole, terra, il resto non può ricevere incentivi europei vincolati a contenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi.

Infine Cingolani dovrebbe decidersi a proporre un piano concreto, immediato, con scadenze ravvicinate, di nuovi investimenti nelle rinnovabili in Italia. Questosarebbe il miglior contributo per contrastare l’aumento immotivato e speculativo del gas, che è aumentato perfino più del petrolio.

Accelerare per le rinnovabili è l’unico modo per contrastare l’aumento dei prezzi del gas ed entro il 2022 potremmo ottenere dei risultati importanti per il nostro paese.

*( Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Jacopo Ricci ) Roma, 17 dicembre 2021

 

 

04 – EMANUELE FELICE*: ORA CHE LE SINISTRE SONO TORNATE DAL GOVERNO, NON BISOGNA RIFARE GLI ERRORI DI VENT’ANNI FA.

I social-democratici, alleati con i verdi e i liberali, sono tornati a guidare la Germania, il principale paese d’Europa. Dopo 16 anni. Si affianca la loro vittoria a quella di Joe Biden un anno fa, negli Stati Uniti. Al governo delle due principali economie del campo occidentale vi sono oggi le forze della sinistra democratica.

Non accadeva da un po’, ma non è la prima volta che succede. Alla fine degli anni Novanta, la sinistra democratica guidava gli Stati Uniti (Clinton) e la Germania (Schröder), ma anche il Regno Unito (Blair), la Francia (Jospin) e pure l’Italia.

Allora, però, quelle forze e quei leader, con la parziale eccezione di Jospin, avevano aderito ai presupposti dell’ideologia neoliberale e le loro riforme si limitarono ad adeguare le loro economie a questa impostazione (al limite, ma nemmeno sempre, puntando ad attutirne i contraccolpi negativi).

Così è stato, per restare alla Germania, con le riforme del lavoro promosse da Schröder a inizio anni Duemila (il «Piano Hartz»), che hanno forse favorito la crescita ma al costo di precarizzare il lavoro e la vita di milioni di persone.

LA «AGENDA 2010» DI SCHRÖDER OLTRE AL LAVORO HA RIDOTTO LE IMPOSTE MA TAGLIATO SANITÀ PUBBLICA, WELFARE, SUSSIDI DI DISOCCUPAZIONE, PENSIONI E INVESTIMENTI.

Anche in quanto ai fondamentali macroeconomici (pareggio di bilancio e contenimento dei prezzi) e politiche europee (idem) il governo Schröder (1998-2005) è stato in piena continuità con la visione neoliberale (e ordoliberale nel caso tedesco).

Nel 1998, Schröder si era presentato con lo slogan «il nuovo centro»: fece, da cancelliere, quello che aveva promesso. Segno dei tempi, e in sintonia con Biden negli Stati Uniti, il programma con cui l’Spd ha vinto le elezioni, è invece molto diverso: è un programma keynesiano, di forti investimenti soprattutto in direzione ambientale, di diritti sociali a cominciare proprio dal lavoro.

Tuttavia, nell’accordo del governo Scholz questi propositi sono stati inseriti in un quadro contraddittorio. Si assicura ad esempio che verrà mantenuto il pareggio di bilancio, a livello federale e regionale, come previsto dalla riforma costituzionale del 2009 (simile al pareggio di bilancio introdotto in Italia nel 2012): a questo punto, in teoria non resta che aumentare le tasse.

È evidente che le resistenze a un programma keynesiano di investimenti e welfare, sia nel governo (i liberali) sia nella società e nelle istituzioni (la Bundesbank), sono molto forti.

La riforma della Germania e quella dell’Europa sono strettamente legate. L’una aiuta l’altra, e viceversa.

In Italia la partita è aperta. Se noi, la Francia e altri paesi riusciamo a dare un contributo per cambiare il patto di stabilità in Europa, aiutiamo anche le forze progressiste in Germania. Aiutiamo l’evoluzione di tutto il continente in senso sociale e ambientale.

*( Emanuele Felice è un economista e saggista italiano, storico dell’economia)

 

05 – Alessandro Penati*: IL LATO OSCURO DELLA PRIMA LEGGE DI BILANCIO DEL GOVERNO DRAGHI. DOPO TANTI ANNI MI È CAPITATO DI SFOGLIARE UNA BOZZA DEL DISEGNO DI LEGGE DI BILANCIO 2022 (QUELLA DEL 28 OTTOBRE). NULLA È CAMBIATO: SEMPRE LO STESSO DOCUMENTO DEPRIMENTE, RAPPRESENTAZIONE FEDELE DEI MALI CHE AFFLIGGONO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E LA POLITICA.

 

PER IL CITTADINO COMUNE, UN TESTO INCOMPRENSIBILE, CHE USA ESPRESSIONI ESTRANEE ALL’ITALIANO CORRENTE.

Dopo tanti anni mi è capitato di sfogliare una bozza del Disegno di Legge di Bilancio 2022 (quella del 28 ottobre). Nulla è cambiato: sempre lo stesso documento deprimente, rappresentazione fedele dei mali che affliggono la pubblica amministrazione e la politica.

Per il cittadino comune, un testo incomprensibile, che usa espressioni estranee all’italiano corrente. Ci si trovano la “desertificazione commerciale” (art.107), le “facoltà assunzionali” (art.98) o “la povertà educativa” (art.33).

Incomprensibilità aggravata dal rimando continuo a commi, articoli, decreti legge e leggi in cui sono convertiti, con o senza “modificazioni”.

Come per esempio l’articolo 11, che recita: «La dotazione del fondo di cui all’articolo 72, comma 1, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, è incrementata di 150 milioni di euro annui per ciascuno degli anni dal 2022 al 2026, per le finalità di cui alla lettera d) del medesimo comma». E così via per tutte le cento pagine della bozza.

Il linguaggio ostico e i continui rimandi a una normativa vasta e frammentata conferiscono a funzionari e amministratori pubblici, che conoscono la materia, un potere che li rende una vera e propria casta, come i mandarini della Cina imperiale, e favorisce l’industria delle lobby, indispensabile per muoversi nella giungla del processo legislativo e della pubblica amministrazione.

Crea inoltre un terreno fertile per i colpi di mano da parte della politica e degli interessi di parte, con emendamenti, comma cancellati, o sub-articoli inseriti all’ultimo momento: più ostico il linguaggio, maggiore la complessità della legge, minore la trasparenza e l’assunzione di responsabilità di fronte all’opinione pubblica.

 

DA QUI, L’ASSALTO ALLA DILIGENZA CHE CARATTERIZZA OGNI ANNO L’APPROVAZIONE DELLA LEGGE DI BILANCIO.

La forma evidenzia anche il problema di un processo legislativo bulimico e farraginoso, che produce una struttura estremamente complessa di norme, a volte incoerenti, di cui spesso si perdono le finalità originali.

Da anni si ripete che la prima grande riforma dovrebbe essere la riorganizzazione delle leggi in Testi unici; temo si continuerà a ripeterlo.

La tecnica legislativa del rimando facilita anche il perpetuare di un capitolo di spesa che, deliberato in un anno per una specifica contingenza o un interesse particolare, diventa permanente, rifinanziato e “stabilizzato” anno dopo anno.

Per esempio il rifinanziamento della Nuova Sabatini (art. 10) avviene ai sensi di una legge del 2013; il Fondo rotativo 394 (art. 11) viene “stabilizzato” dal 1981; il Fondo Sociale (art.30) rifinanziato dal 2008, e così via.

 

L’INUTILE FRETTA

Nella Legge di Bilancio si mischiano elementi di riforme con interventi di spesa a favore di interessi di parte. Così, accanto alla riforma delle aliquote Irpef e la riorganizzazione della governance dell’Agenzia per la riscossione delle imposte, c’è anche l’Iva agevolata per assorbenti e tamponi femminili, o il limite all’utilizzo dei crediti di imposta nelle fusioni, disposti appositamente per l’abortita fusione di Mps con Unicredit.

La ragione di questa prassi deprecabile è che la Legge di Bilancio deve essere approvata entro una data certa, e diventa perciò un omnibus usato dal governo per far passare misure che sarebbero a rischio in Parlamento; dai partiti per guadagnare consensi; e da lobby varie per indirizzare risorse pubbliche verso interessi particolari.

Nella Legge di Bilancio c’è così di tutto: il famoso “super bonus” e quello per la cultura per i diciottenni; i 25 milioni per gli immobili dell’Archivio di Stato e la decontribuzione per le nuove cooperative di lavoratori; i 110 milioni per la riorganizzazione del Cnr e gli sgravi contributivi per le madri lavoratrici; la costituzione dell’Osservatorio nazionale per le parità di genere e i 30 milioni per gli acquisti delle biblioteche; i 90 per il sostegno straordinario all’editoria e i 150 per le “Infrastrutture stradali sostenibili” (sic!); i 1.450 milioni complessivi stanziati per il Giubileo del 2025 come i 30 euro l’anno per ciascun lavoratore della pesca marittima stabilito dal Fondo sociale.

 

LE MICROSPESE

La Legge stabilisce poi nel dettaglio i singoli capitoli di spesa, deresponsabilizzando in questo modo i ministeri e gli enti preposti all’erogazione.

Tanta complessità ingigantisce il problema dei controlli sull’effettivo rispetto delle regole, senza ridurre quello degli abusi; e gonfia una già pletorica burocrazia.

Per esempio, si istituisce un Comitato Strategico per il Piano di riorganizzazione e rilancio del Cnr, composto da 5 membri al costo di 232.700 euro; si introducono 2 ore settimanali di educazione motoria nella 4 e 5 elementare, al fine di «promuovere nei giovani l’assunzione di stili di vita funzionali alla crescita armoniosa”, e per questo si indice un Bando per docenti formati “da idoneo titolo e correlata classe di concorso»; si assumono 82 nuovi magistrati al costo nel 2022 di 5.777.557 euro esatti; e si assegnano 44 milioni per gli asili nido di Sicilia e Sardegna sulla «base di un’istruttoria tecnica condotta dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard, allo scopo integrata con i rappresentanti delle regioni Siciliana e Sardegna, con il supporto di esperti del settore, e previa intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali».

Se capisco bene (ma non ne sono sicuro), la ragione della Legge di Bilancio in questa forma risiede nel principio del garantismo insito nel nostro diritto amministrativo: per ogni atto si deve avere la garanzia che sia stato autorizzato da chi ha il potere di farlo.

Ma forse la spiegazione vera è che dopo anni di criteri di Maastricht, Patto di stabilità, e “manovre” di finanza pubblica si sia stabilito una specie di equilibrio in cui il governo determina i macro aggregati di deficit e debito ma, fatto salvo il rispetto di questi ultimi, si lasci poi ai partiti e gli interessi costituiti spartirsi la torta. Un errore perché a volte per la crescita, più del deficit conta la struttura di spesa e imposte.

 

MODELLO EUROPEO

Credo si possa fare diversamente, e riformare la legge di Bilancio, abbandonando il criterio garantista a favore di un sistema basato su budget affidati a ministeri ed enti locali (che in questo modo vengono responsabilizzati), specificando chiaramente gli obiettivi che si vogliono raggiungere, con indicazioni limitate ai macro capitoli spesa, e un sistema contabile “accrual” (ovvero di competenza) come ci richiede Eurostat per permettere un migliore controllo, e soprattutto per verificare ex-post l’efficacia dei provvedimenti. E lasciando le riforme ad apposite leggi. Impossibile? No. Il Pnrr è proprio strutturato così: con chiari obiettivi divisi in 6 missioni, a loro volta suddivisi in tanti interventi, con specifica degli importi, cronoprogramma, modalità di monitoraggio e verifica dei risultati.

Basta immaginare di sostituire le Missioni del Pnrr con i ministeri, e si capisce come il Pnrr di fatto sia una Legge di Bilancio parallela, ma strutturata in modo da aumentare l’efficienza dell’intervento pubblico. Perché non adottarne il metodo e riformare la nostra Legge?  Peccato che tra le “Riforme Abilitanti” del Pnrr proprio quella della Legge di Bilancio non ci sia.

*( Alessandro Penati, economista. Presidente e fondatore della Quaestio Capital Management. Ha

alle spalle una lunga carriera accademica in Economia e Finanza)

 

06 – Tommaso Di Francesco*: L’IPOCRISIA COME FORMA DI GOVERNO. IL GOLPE IN CASA. DEL RESTO BASTAVA GUARDARE A 70 ANNI DI STORIA PER CAPIRE CHE GLI STATI UNITI, CHE SI BATTONO CONTRO LE INGERENZE ALTRUI, NELLE CRISI INTERNAZIONALI, ABBIANO COSTRUITO LA DISTRUZIONE DELLA DEMOCRAZIA ALTRUI, ATTRAVERSO UN SISTEMA VIOLENTO DI INGERENZA POLITICA E MILITARE CON COLPI DI STATO

AVETE PRESENTE, LO «STUPORE» DEL GOVERNO DRAGHI DI FRONTE ALLA PROCLAMAZIONE DELLO SCIOPERO GENERALE DEL 16 DICEMBRE PER L’INIQUITÀ DELLA LEGGE DI BILANCIO?

Non è stupore, è ipocrisia. Sono pienamente consapevoli che la legge di bilancio è limitata e sbagliata di fronte al peso delle diseguaglianze che dilagano con in più la condizione della pandemia, ma è come se dicessero: «Che volete di più?». Malcelata e sottesa alla stupefazione fa capolino l’ipocrisia consapevole, che sbatte sul piatto della bilancia l’attualità dei rapporti di forza tra le classi.

E se volgiamo lo sguardo alle cose del mondo, è quasi peggio. L’anno che volge al termine si è aperto con un evento epocale- paragonabile alla caduta del Muro di Berlino – l’assalto dei riots al Campidoglio americano, simbolo della democrazia statunitense, contro «il furto della vittoria presidenziale di Trump». Sull’evento oggi si celebrano processi che tuttavia sembrano riattivare la pancia reazionaria e di massa dell’America e lo stesso Donald Trump, mentre, denunciano il Guardian e il New York Times, emerge anche un sordido golpe preparato da Trump, con tanto di stato d’assedio militare pronto, per fermare l’insediamento di Biden. All’assalto guardò uno sgomento e immobile neoeletto Joe Biden. «Non è questa la faccia dell’America – gridò Biden – il mondo ci guarda, noi siamo il faro della democrazia».

Ma quel giorno il «faro» si spense e Alan Friedman, non un bolscevico, commentò:

«ORA NON POSSIAMO PIÙ ESSERE IL MODELLO DI DEMOCRAZIA NEL MONDO».

Se fosse andato in porto il golpe di Trump saremmo stati alla nemesi cilena della storia americana.

Del resto bastava guardare a 70 anni di storia per capire che gli Stati uniti, che si battono contro le ingerenze altrui, nelle crisi internazionali, abbiano costruito la distruzione della democrazia altrui, attraverso un sistema violento di ingerenza politica e militare con colpi di stato – c’è un nuovo libro illuminante da leggere “Sistema Giacarta” – finanziamento di paramilitari (anche in Italia), e soprattutto guerre, tante guerre impunite delle quali soffriamo i nostoi, i tragici ritorni che si chiamano profughi, una umanità disperata quanto cancellata; e il terrorismo come risposta asimmetrica, violenta e sanguinosa anch’essa, alle aggressioni militari che hanno devastato generazioni e continenti a partire dal Medio Oriente.

Fino al ritiro Usa dall’Afghanistan la cui occupazione militare con la Nato è durata 20 anni, ma come «vendetta per l’11 settembre 2001» non certo per la democrazia: parole di Biden. Che torna nella crisi ucraina come un elefante, dimentico del suo coinvolgimento personale non limpido nelle vicende di Kiev fin dalla rivolta oscura di Piazza Majdan, per riaprire lo scontro con la Russia (che il capo di stato maggiore Usa Austin chiama ancora «Unione sovietica»), rea di «aggressione» perché muove le truppe entro i suoi confini però – le aggressioni belliche Usa sono state ben altra cosa e purtroppo fuori dai suoi confini. Poi, se un’alleanza militare offensiva come è la Nato – rivitalizzata con il pericoloso allargamento a Est che circonda la Russia con sistemi d’arma, basi, missili, manovre dal Baltico al Mar Nero -, si allargasse ai confini Usa saremmo già alla Terza guerra mondiale.

Così ha promosso un vertice con Putin dal quale il leader russo – che in quanto ad ipocrisie non scherza – è uscito mezzo vincitore, perché si è reso evidente che quella potenza è tutto meno che in declino. Se ne deve essere accorto tardivamente Biden perché da due giorni la Casa bianca tuona che saranno gli Stati uniti a decidere sull’ingresso nella Nato dell’Ucraina. Rischiamo un Afghanistan nel cuore d’Europa: a deciderlo sarà Biden.

Non è dato poi capire che cosa sia realmente cambiato negli Usa in questi quasi dodici mesi, se non la pandemia – che dovremmo «ringraziare», ahimé, se nella cruda Europa ha permesso finora la sospensione del patto di stabilità – finalmente riconosciuta dopo il negazionismo di Stato trumpiano e per la quale vengono impegnati montagne di finanziamenti. Ma la stagione americana resta attraversata da diseguaglianze profonde, di reddito, di razza, di genere – per non dire della guerra civile strisciante che l’attraversa -, mentre in numerosi Stati viene rimesso in discussione anche il diritto di voto. Per i migranti Biden riedita la politica trumpiana del respingimento e del Muro per la marea umana in fuga dall’America centrale e dall’America latina verso i confini del Messico.

Ma l’ipocrisia americana è inarrestabile: ha avviato sanzioni contro la Bielorussia per il suo ruolo vergognoso nella pressione dei profughi afghani alla frontiera polacca usandoli come squallida arma politica, mentre gli Usa stabiliscono un nuovo rapporto politico-istituzionale di forza con Messico e America centrale basato sui respingimenti dei migranti e in forza del Muro americano alla frontiera. Parafrasando Orwell e guardando le tendopoli nostrane ora al gelo, dal Pas de Calais, a Ventimiglia, al confine di fili spinati spagnolo, ai boschi polacchi, alla Bosnia, se il presidente bielorusso Lukashenko è un porco come distinguerlo dai maiali europei e occidentali?

Nonostante tutto questo Biden si è fatto promotore di un «summit per la democrazia» esclusivo dei cattivi e dei nuovi nemici, riproponendo gli Usa come faro, senza avere risolto alcuno dei problemi che ha in casa, e scegliendo come interlocutori altri «fari» quali Bolsonaro, Erdogan, il Pakistan, il governo polacco sotto infrazione dalla Corte Ue per violazione dello stato di diritto. Un’operazione che il settimanale Time ha definito una «vetta di ipocrisia».

A riprova, nello stesso giorno del summit è arrivata la nuova sentenza contro Julian Assange, che con Wikileaks è stato il «giornalista diffuso» che ha rivelato i crimini delle guerre occidentali in Iraq e Afghanistan. Ora Assange è estradabile negli Stati uniti. Lo aspetta un tribunale per accusarlo di tradimento. Con lui è colpita a morte la libertà d’informazione, cuore di ogni democrazia. Il faro americano resta spento.

*( Tommaso Di Francesco, è un poeta, giornalista e scrittore italiano. È condirettore del quotidiano Il Manifesto. )

 

07 – JACOPO CUSTODI*: UN VOCABOLARIO DI SINISTRA PER CONVINCERE GLI OPERAI. UN SONDAGGIO PROMOSSO DA JACOBIN USA E YOUGOV GETTA NUOVA LUCE SU QUALI SIANO I CANDIDATI PROGRESSISTI PREFERITI DALLA CLASSE LAVORATRICE. DEVONO DARE PRIORITÀ AI DIRITTI SOCIALI. MA ANCHE AI DIRITTI CIVILI, PURCHÉ SIANO PRESENTATI CON LE PAROLE GIUSTE, ADOTTANDO UNA RETORICA UNIVERSALISTA E NON ESCLUDENTE.

 

I LAVORATORI SONO DAVVERO CONSERVATORI? 0 NON SONO ATTRATTI DA CERTA NARRAZIONE PROGRESSISTA?.

IL LINGUAGGIO WOKE SI È RIVELATO COMPLESSIVAMENTE UNA DEBOLEZZA PER TUTTI I CANDIDATI.

Negli Stati Uniti è da poco uscita una nuova ricerca che analizza le preferenze elettorali dei lavoratori. Si tratta di uno studio corposo e metodologicamente solido, condotto dal magazine americano di sinistra Jacobin, insieme al neonato Centro per la Working class politics e a YouGov, un’azienda internazionale di sondaggi, ricerche di mercato e analisi dei dati, che conta oltre mille dipendenti.

Non mi soffermo qui sui dettagli tecnici dello studio, per non annoiare i lettori (per chi fosse interessato alla metodologia, il report completo dello studio è leggibile gratuitamente sul sito americano di Jacobin, nda). Va però menzionato che il campione analizzato è composto da lavoratori con meno di quattro anni di istruzione universitaria e non esplicitamente Repubblicani, ovvero lavoratori di varie preferenze politiche fino a “tendenzialmente Repubblicani”, in modo così da escludere dall’analisi persone difficilmente convincibili da alcun tipo di discorso di sinistra.

E una ricerca sperimentale, che non si limita a sondare le preferenze politiche, ma analizza l’efficacia e il consenso che diverse narrative e proposte di sinistra riscuotono tra i lavoratori. Andando oltre i semplici sondaggi d’opinione, i ricercatori propongono ai lavoratori dei veri e propri candidati ipotetici tra cui scegliere. Lo studio parte dalla premessa che molti lavoratori negli ultimi anni si siano spostati a sinistra sui temi economici, pur rimanendo spesso moderati sui temi culturali. Ma allo stesso tempo la ricerca problematizza questa premessa, sostenendo che «il messaggio e il linguaggio di un candidato possono influenzare il modo in cui gli elettori percepiscono una determinata proposta politica», sia essa economica o culturale. E, in modo analogo, certi «stili politici e narrative possono danneggiare un candidato con una proposta politica altrimenti popolare». In- somma, i lavoratori sono davvero conservatori? O è invece il modo in cui narriamo il nostro progressismo a non convincere molti di loro? È a partire da questa attenzione per la comunicazione politica di sinistra che lo studio si sviluppa.

I profili dei candidati ipotetici elaborati dai ricercatori includono una varietà di caratteristiche demografiche (“razza”, genere e classe), programmatiche (che vanno dalle posizioni progressiste a quelle conservatrici in economia, salute e diritti civili) e comunicative. Quest’ultima variabile è analizzata attraverso cinque diversi stili comunicativi: “populista progressista”, “woke progressista”, “i woke moderato” (moderato nel senso di liberale), “mainstream moderato” e “repubblicano”. “Woke” è una parola poco usata in Italia: rappresenta un paradigma comunicativo che il report di Jacobin definisce come uno stile politico che mostra particolare consapevolezza verso determinate disuguaglianze di gruppi specifici (soprattutto le minoranze etniche), utilizza un linguaggio militante e specializzato (“ingiustizia sistemica”, “appropriazione culturale” ecc.) e forme di linguaggio inclusivo (“La- tinx”).

 

VEDIAMO ORA CINQUE DEI RISULTATI PRINCIPALI DI QUESTO STUDIO.

Le proposte politiche di sinistra hanno successo se presentate con una retorica universalista e di classe

PRIMO. Gli elettori della classe operaia preferiscono i candidati che si concentrano sui problemi economici di base, con proposte politiche espresse in termini universali e non legate a determinate categorie. I candidati che hanno dato priorità a questioni di base (lavoro,

assistenza sanitaria, economia) e che le hanno presentate con una retorica semplice, diretta e universalista, hanno ottenuto risultati significativamente migliori rispetto a quelli che avevano altre priorità politiche o altri tipi di linguaggio. Questo dato si è dimostrato sempre vero in tutte le aree del Paese studiate, ma in modo molto più netto nelle aree rurali e nelle città medio-piccole. Inoltre, non solo i candidati che hanno dato centralità a proposte politiche universaliste hanno ottenuto risultati migliori di quelli che si sono concentrati su politiche targettizzate per gruppi

specifici, ma la retorica woke ha diminuito l’attrattiva di altre caratteristiche del candidato. Ad esempio, i candidati che impiegavano un linguaggio woke, ma che allo stesso tempo mettevano l’economia al centro delle loro priorità politiche, sono stati visti meno favorevolmente rispetto alle loro controparti che hanno sostenuto le stesse priorità politiche ma hanno optato per un linguaggio universalista.

SECONDO RISULTATO. I candidati progressisti non hanno bisogno di abbandonare il progressismo culturale per conquistare gli elettori della classe operaia, ma la retorica woke è una debolezza. Gli elettori della classe operaia non hanno evitato i candidati che si opponevano fermamente al razzismo, dimostrandosi molto meno sciovinisti e culturalmente conservatori di come vorrebbe un certo consenso accademico. Allo stesso tempo, però, i candidati che hanno dato centralità assoluta al tema del razzismo, parlandone con un linguaggio woke, se la sono cavata significa mente peggio dei candidati che hanno usato altri linguaggi, come quello populista o quello mainstream  Infatti, la difficoltà principale per i candidati progressisti non è emersa quando parlano di questioni specifiche dei gruppi svantaggiati, ma piuttosto qua mettono queste questioni specifiche al centro del messaggio politico, con una retorica non universalista. A questo proposito, è emerso che le proposte politiche progressiste, se inquadrate con una rete universalista, populista e di classe, riscuotono sue so nella classe operaia.

TERZO RISULTATO. Gli elettori della classe operaia feriscono i candidati della classe operaia. Il gru etnico (race, nello studio) o il genere di un candidato non sembra importare molto agli elettori della cl operaia. A parità di altre condizioni, non sono en se differenze significative di preferenza tra candì ti donne o uomini, né tra candidati neri o bianchi E invece emersa una differenza significativa in t alla classe sociale di appartenenza: i candidati con background educativo o di classe superiore a qui degli elettori hanno ottenuto risultati di molto inferiori rispetto ad altri candidati. In altre parole, elettori operai preferivano candidati provenienti c la loro stessa classe sociale. Questo però non vuol dire che genere ed etnia fossero irrilevanti: ad esempio è emerso che le donne lavoratrici sono più propense a sostenere candidati progressisti rispetto agli uomini. Inoltre, i lavoratori non bianchi hanno mostrato un maggiore sostegno a politiche progressiste sui diritti civili rispetto ai lavoratori bianchi. Infine, il linguaggio woke ha penalizzato i candidati tra i lavoratori bianchi, ma non tra i lavoratori di altri gruppi etnici, per i quali il linguaggio woke non è stata una variabile rilevante nella scelta del candidato.

QUARTO RISULTATO. Il legame coi Democratici non danneggia i candidati progressisti. Distanziarsi retoricamente dal Partito democratico non è emerso come un fattore che favorisce i candidati progressisti. Anzi, lo studio suggerisce una leggera preferenza (benché poco rilevante statisticamente) per i candidati progressisti che si candidano come Democratici, rispetto ai candidati progressisti che rivendicano la loro indipendenza dal partito.

QUINTO, E ULTIMO, RISULTATO. Gli operai manuali sono i più sensibili alle differenze di linguaggio. Il linguaggio woke si è rivelato complessivamente una debolezza per tutti i candidati, indipendentemente dalla loro proposta politica. E però emerso che sono i colletti blu quelli più sensibili alle differenze comunicative. Gli operai manuali, rispetto ai colletti bianchi, sono infatti quelli che più di tutti hanno penalizzato i candidati che usavano questo tipo di linguaggio, a parità di altri fattori.

In conclusione, si tratta di una ricerca estremamente utile nell’elaborazione di una comunicazione politica per una forza di sinistra che abbia la capacità di imporsi elettoralmente. Essendo uno studio americano, le sue conclusioni non possono essere applicate automaticamente anche in Italia, ma ci forniscono numerosi spunti di riflessione utili anche per la sinistra italiana, e ci indicano la necessità di condurre studi simili anche da noi, in vista della campagna elettorale per le elezioni del 2023

*( Jacopo Custodi – Fondazione Giangiacomo Feltrinelli  è dottorando di ricerca alla Scuola Normale Superiore. Fa parte del Cantiere delle Idee. )

 

08 – NATALE CUCCURESE*: UNA LEGGE TARATA MALE. TRA LE RISORSE DA ASSEGNARE AGLI ENTI LOCALI, ATTRAVERSO LA LEGGE DI BILANCIO DA APPROVARE ENTRO FINE ANNO, SI CONTINUA A MANTENERE IL GAP MILIARDARIO CHE SEPARA LE REGIONI DEL NORD DA QUELLE DEL MEZZOGIORNO. ANCHE PERCHÉ I LEP. LIVELLI ESSENZIALI DI PRESTAZIONI NEI SERVIZI PUBBLICI, NON SONO MAI STATI DEFINITI. SECONDO EURISPES, FINO AL 2017, BEN 840 MILIARDI SONO STATI SOTTRATTI AL SUD, A FAVORE DEL CENTRO-NORD. COME NON BASTASSE, NELLE PIEGHE DELLA MANOVRA È STATA RIPROPOSTA L’AUTONOMIA.

 

Sempre più grave, sempre più pressante, sempre più sconvolgente è l’attacco che il governo Draghi, con la complicità di tutti o quasi i partiti presenti nel Parlamento, sta portando al Mezzogiorno. Nella Legge di bilancio, infatti, viene riproposto un metodo di ripartizione dei

fondi pubblici che danneggia il Sud, non riconoscendogli quanto gli spetterebbe di diritto. Per capire cosa è successo, però, occorre fare un passo indietro.

La modifica del Titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001, doveva portare alla definizione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) che avrebbero dovuto essere uno strumento per garantire l’applicazione, in tutte le Regioni, degli stessi standard minimi di qualità per i servizi pubblici essenziali (come istruzione, salute, assistenza sociale, ecc.). Una volta definiti questi standard minimi, lo Stato sarebbe dovuto intervenire per sostenere finanziariamente quei territori che

ne avessero avuto necessità al fine di fornire i servizi della qualità stabilita. Tuttavia, in 20 anni, i Lep non sono mai stati definiti. Successivamente la legge sul federalismo fiscale del 2009 prevedeva che lo Stato colmasse integralmente – tramite un fondo perequativo – il gap tra la capacità fiscale e il fabbisogno degli enti locali. Anche questo però non è avvenuto. Addirittura quando nel 2015 il leghista Giorgetti, attuale braccio destro di Draghi, chiese una simulazione della perequazione al 100% i dati non vennero mai resi pubblici, perché «se fosse stata applicata la legge Calderoli ai comuni del Sud sarebbero arrivati decine e decine di milioni in più, anche centinaia» come rivelato da Sigfrido Ranucci nell’inchiesta di Report sul federalismo fiscale che andò in onda nel novembre 2019. In un’audizione del 2015 alla Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo da lui presieduta all’epoca, l’onorevole Giorgetti chiese cosa succederebbe «se applicassimo non il 20 per cento, ma il 100 per cento della perequazione». Quale sarebbe l’effetto di una perequazione piena? Per poi commentare «I dati probabilmente sarebbero scioccanti, magari ce li fate avere in modo riservato o facciamo una seduta segreta, come avviene in Commissione antimafia». Quei dati non sono mai stati resi pubblici e non sono stati messi agli atti della seduta della COMMISSIONE.

Questa serie di inadempimenti fa  sì che oggi la differenza di qualità tra i servizi offerti nelle diverse Regioni è elevato e sbilanciato a favore di quelle più ricche. In attesa di definire i Lep, è stato introdotto un sistema diverso per distribuire le risorse tra i diversi territori, basato sul criterio della “spesa storica”, un meccanismo perverso che in un ventennio, in silenzio, ha affossato sempre di più il Mezzogiorno, tanto è vero che il Rapporto Italia Eurispes 2020 ha conteggiato, solo fino al 2017, una sottrazione di fondi a favore del Centro-Nord di ben 840 miliardi di euro.

L’impressione però è ci sia la volontà di continuare nella sottrazione di fondi a danno del Sud.

Infatti leggendo la Legge di bilancio proposta dal go-verno Draghi, all’articolo 179 dal titolo Disposizioni concernenti le modalità per il riparto delle risorse Lep da assegnare agli enti territoriali, notiamo che dal testo proposto non solo mancano i criteri dei servizi da erogare, ma anche i costi relativi in assenza di una legge quadro. Ovviamente non vi è nessun cenno a fondi per la perequazione. Tutto è affidato nell’articolo al parere della Commissione tecnica per i fabbisogni standard. Un atto a dir poco preoccupante perché in questo modo si possono varare i Lep senza che possa intervenire la Corte dei conti, che guarda caso nel gennaio scorso era intervenuta sul tema lamentando che a 12 anni dalla legge Calderoli sul federalismo fiscale la mancata applicazione dei Lep abbinati al calcolo dei fabbisogni standard dei Comuni, che altro non fa che ricalcare la vecchia spesa storica, hanno messo in ginocchio le Regioni e i Comuni del Mezzogiorno. «Le recenti istanze di regionalismo differenziato – a detta dei giudici contabili – rendono potenzialmente ancora più problematica la definizione di un quadro stabile di federalismo simmetrico». L’allarme è riportato a pagina 151 del Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica, nel paragrafo dedicato alla “Finanza degli enti territoriali: criticità e prospettive”. Il sotto-finanziamento non riguarda solo le Regioni del Sud ma anche i Comuni: «Anche dal lato comunale – scrivono i magistrati – appare fermo il processo di definizione dei fabbisogni legati alle funzioni fondamentali, e molta incertezza, negli anni, si è manifestata sul ruolo di specifiche fonti di finanziamento, con particolare riferimento ai prelievi di tipo immobiliare. Appaiono, inoltre, piuttosto incerti i meccanismi perequativi finora predisposti, sia per ciò che riguarda le modalità di distribuzione, sia per ciò che concerne l’estensione della perequazione dei livelli essenziali e delle capacità fiscali».

SECONDO OPENCIVITAS, il portale di accesso alle in-formazioni degli enti locali, le Regioni del Sud, nel 2016, per tutti i servizi elencati hanno sopportato un costo complessivo di 7,90 miliardi (spesa storica), ma avrebbero avuto bisogno, secondo i calcoli, di almeno 8,18 miliardi (spesa standard), uno scarto negativo del 3,43%. Viceversa le Regioni del Nord, hanno investito complessivamente 16,42 miliardi, nonostante il fabbisogno reale fosse di 15,23 miliardi. Hanno speso di più avendo ricevuto più soldi da Roma.

Il fatto è ancora più grave se pensiamo che a sottrazione passata si prepara il terreno per possibile sottrazione futura in vista dell’arrivo dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, dato che nelle piante organiche dei Comuni e Regioni del Sud il personale tecnico non solo scarseggia, ma continua ad arrivare con il conta gocce, a causa di decenni di politiche federaliste e di austerity che hanno svuotato proprio gli apparati burocratici meridionali più in difficoltà.

Quale sarà la capacità ora di progettazione, esecuzione e controllo di investimenti pubblici negli enti locali del Sud, dopo decenni di tagli al personale e agli investimenti? Fra l’altro Draghi sta accelerando il percorso in vista di fine anno, data ultima in cui l’Italia deve presentare le riforme richieste dalla Commissione europea, pena la perdita dei fondi del Recovery. Un gatto che si morde la coda e che vede la concreta possibilità che i fondi al Sud non arrivino, o che siano spostati a vantaggio di altri territori come più volte accaduto in passato. Una trappola perfetta, di cui poi saranno accusate di incapacità le amministrazioni meridionali. Bisogna assolutamente frenare ed iniziare ad invertire questa tendenza iniziando col rivedere l’impostazione dell’art. 179. Inoltre il Parlamento dovrebbe dare un atto di indirizzo al governo e un vincolo anche per-ché i Livelli delle prestazioni non siano solo essenziali, perché in questo modo si può facilmente giocare al ribasso, ma siano uniformi, come Costituzione richiederebbe. Su questo bisogna richiamare l’attenzione soprattutto dei deputati meridionali affinché diano battaglia in Parlamento.

Se poi consideriamo anche la recente riproposizione nella Nadef (nota di aggiornamento al documento di economia e finanza) del collegato alla legge di bilancio del progetto Autonomia differenziata, presentato addirittura senza testo che quindi al momento non è stato ancora depositato, è facile capire come l’attacco al Sud, già prostrato da una povertà che non ha eguali in Europa, pongono il governo Draghi in cima alla classifica, non solo fra quelli più classisti, ma anche fra i più antimeridionali della storia della Repubblica.

*( Natale Cuccurese è presidente del partito del Sud)

 

09 – Va­le­rio Cal­zo­la­io*: Leo­par­di e Gram­sci, un az­zar­do di bi­no­mio.

La cop­pia Leo­par­di-Gram­sci trat­ta­ta come un in­sie­me (con o sen­za trat­ti­no) può sem­bra­re un bi­no­mio az­zar­da­to e di­sor­di­na­to, qua­lun­que sia la di­sci­pli­na di ri­fe­ri­men­to e l’or­di­ne scel­to, cro­no­lo­gi­co o al­fa­be­ti­co. Il pri­mo nac­que mol­to più di due se­co­li fa, nel 1798, in una fa­mi­glia no­bi­le di un iso­la­to pae­si­no ita­lia­no del­le Mar­che pon­ti­fi­cie; il se­con­do qua­si un se­co­lo dopo, nel 1891, in una fa­mi­glia ab­ba­stan­za po­ve­ra di un iso­la­to pae­si­no del­l’i­so­la sar­da. Ov­via­men­te il pri­mo non par­lò mai del se­con­do; Gram­sci ama­va Leo­par­di e ri­flet­té sul suo la­sci­to, ma pro­ba­bil­men­te non scris­se a ri­guar­do pa­ro­le o con­cet­ti ri­vo­lu­zio­na­ri.

In­se­ri­re Leo­par­di e Gram­sci in un me­de­si­mo esclu­si­vo con­te­sto cul­tu­ra­le o let­te­ra­rio si può fare solo con qual­che for­za­tu­ra sto­ri­ca e li­ber­tà in­tel­let­tua­le. Però pos­sia­mo pro­va­re, con l’o­biet­ti­vo di sol­le­ci­ta­re pen­sie­ri fre­schi e af­fet­tuo­se cri­ti­che, ri­sul­tan­do an­co­ra oggi, en­tram­bi, due del­le per­so­na­li­tà ita­lia­ne più co­no­sciu­te in pa­tria e nel mon­do e su­sci­tan­do me­de­si­mi sen­ti­men­ti di sti­ma e af­fet­to: è raro che, fra i no­stri con­tem­po­ra­nei, qual­cu­no ap­prez­zi l’u­no e non l’al­tro, qua­si che fos­se­ro den­tro un ap­pas­sio­na­to uni­ta­rio filo di pen­sie­ri, lai­co acu­to mo­der­no, an­ti­ro­man­ti­co an­ti­dog­ma­ti­co an­ti­mo­de­ra­to, an­che se il pri­mo vis­se pri­ma de­gli ismi del­l’Ot­to­cen­to (dar­wi­ni­smo e mar­xi­smo fra gli al­tri), men­tre il se­con­do di­ven­ne e ri­ma­se co­mu­ni­sta.

Un pri­mo for­za­to bi­na­rio pa­ral­le­lo ri­guar­da l’in­fan­zia e l’a­do­le­scen­za lon­ta­ni dal­le me­tro­po­li dei loro tem­pi, più sul polo cam­pa­gna che sul polo cit­tà, un aspet­to fon­dan­te il rap­por­to con la vita co­mu­ni­ta­ria e so­cia­le del­la sto­ria mo­der­na e con­tem­po­ra­nea. Era­no di dif­fe­ren­te estra­zio­ne so­cia­le, co­mun­que vis­se­ro poi en­tram­bi esi­sten­ze bre­vi e va­ga­bon­de, a lun­go in con­te­sti me­tro­po­li­ta­ni, il pri­mo nel­le prin­ci­pa­li gran­di cit­tà ita­lia­ne, fug­gen­do là dal pic­co­lo bor­go na­tio che lo se­du­ce­va e im­pri­gio­na­va e mo­ren­do a Na­po­li; il se­con­do in gran­di cit­tà ita­lia­ne ed eu­ro­pee e, so­prat­tut­to, co­no­scen­do ol­tre die­ci anni di ter­ri­bi­le pri­gio­nia ma­te­ria­le in vari car­ce­ri, mo­ren­do in­fi­ne a Roma, ri­co­ve­ra­to semi li­be­ro da po­chi gior­ni. Ov­via­men­te, mol­to va re­la­ti­viz­za­to: la cam­pa­gna ap­pen­ni­ni­ca adria­ti­ca e la cam­pa­gna in­su­la­re sar­da non era­no cer­to iden­ti­che, le gran­di cit­tà ope­ro­se e cul­tu­ral­men­te vi­ta­li di due se­co­li fa sono de­ci­sa­men­te di­ver­se dal­le gran­di cit­tà ope­ra­ie, col­te e po­li­ti­ca­men­te con­flit­tua­li di un se­co­lo fa.

Un se­con­do for­za­to bi­na­rio pa­ral­le­lo è l’a­spet­to fi­si­co, una cer­ta mo­de­sta al­tez­za da una par­te, la gra­ci­li­tà e la pre­co­ce in­fer­ma sa­lu­te dal­l’al­tra. Leo­par­di e Gram­sci sof­fri­ro­no fin da gio­va­ni en­tram­bi, fra l’al­tro, del mor­bo di Pott, una tu­ber­co­lo­si os­sea ex­tra­pol­mo­na­re, che rese la loro im­ma­gi­ne pub­bli­ca in­con­fon­di­bil­men­te pe­cu­lia­re, quei gran­di oc­chi e i ca­pel­li biz­zo­si, fari so­pra un cor­po de­for­me. Si trat­ta di una for­te in­fiam­ma­zio­ne del mi­dol­lo os­seo, un’in­fe­zio­ne ab­ba­stan­za rara (an­cor più oggi) che spes­so ini­zia in un sin­go­lo ele­men­to e poi si esten­de ai di­schi e alle ver­te­bre adia­cen­ti; do­lo­ro­sa, gib­bo­sa e ten­den­zial­men­te pa­ra­ple­gi­ca, tan­to più quan­do i mo­der­ni an­ti­do­lo­ri­fi­ci, an­ti­bio­ti­ci e la stes­sa fi­sio­te­ra­pia non era­no an­co­ra usa­ti.

Pur scher­ni­ti da al­cu­ne e al­cu­ni coe­vi, l’i­ro­ni­co Leo­par­di e il sar­ca­sti­co Gram­sci non fu­ro­no, co­mun­que, né te­tri né pes­si­mi­sti, piut­to­sto ca­pa­ci di ac­cet­ta­re in­tel­li­gen­te­men­te l’i­ne­vi­ta­bi­le ci­clo del­le il­lu­sio­ni sto­ri­ca­men­te de­ter­mi­na­te. Mo­ri­ro­no re­la­ti­va­men­te gio­va­ni, a 100 anni di di­stan­za l’u­no dal­l’al­tro, nel XIX se­co­lo a giu­gno 1837 Leo­par­di, nel XX se­co­lo ad apri­le 1937 Gram­sci. Al­tret­tan­to ov­via­men­te, an­che ri­fe­ren­do­si alle bio­gra­fie, mol­to va re­la­ti­viz­za­to: le due ef­fet­ti­ve esi­sten­ze han­no geo­gra­fia e sto­ria, re­la­zio­ni ed even­ti, ra­di­cal­men­te in­com­pa­ra­bi­li, sia il de­li­ca­to rap­por­to con l’al­tro ses­so che le scan­sio­na­te ri­stret­tez­ze eco­no­mi­che han­no avu­to ri­le­van­ti pesi spe­ci­fi­ci.

Un ter­zo for­za­to bi­na­rio pa­ral­le­lo at­tie­ne alle mo­da­li­tà di tra­smis­sio­ne del loro pen­sie­ro, pure esse da pren­de­re in con­si­de­ra­zio­ne con le do­vu­te dif­fe­ren­ze: an­che po­lie­dri­ca­men­te mul­ti­for­me per Leo­par­di, an­che oral­men­te im­po­nen­te per Gram­sci. Poe­sie, ope­ret­te, sag­gi, ma an­che let­te­re e Zi­bal­do­ne di pen­sie­ri per Leo­par­di. Re­la­zio­ni, co­mi­zi, in­ter­ven­ti in riu­nio­ni, ma an­che let­te­re e Qua­der­ni del car­ce­re per Gram­sci. Le let­te­re e gli ap­pun­ti scien­ti­fi­ci sono un loro pro­prio co­mu­ne fon­da­men­ta­le stru­men­to let­te­ra­rio che si è tra­man­da­to nel tem­po con straor­di­na­rie for­za ed ef­fi­ca­cia, pur co­sti­tuen­do due ge­ne­ri con­tin­gen­ti e sui ge­ne­ris, go­du­ti po­stu­mi da mi­lio­ni di let­to­ri.

Il pa­ral­le­lo meno for­za­to fra i due ri­spet­ti­vi scar­ta­fac­ci ri­guar­da mol­te­pli­ci pia­ni: la gra­fia chia­ra e leg­gi­bi­le (con po­che cor­re­zio­ni e cas­sa­tu­re); la non si­ste­ma­ti­ci­tà del­le ope­re e, pure, la loro in­ter­na coe­ren­za; il pro­ce­di­men­to “crea­ti­vo” che in­con­sa­pe­vol­men­te si sve­la nel­le ste­su­re suc­ces­si­ve e ri­pe­tu­te di mol­ti pa­ra­gra­fi con un pia­no (e in­di­ci e sche­da­ri) che via via si pre­ci­sa e si ag­gior­na, in una con­ti­nua rie­la­bo­ra­zio­ne, an­che me­ta­fo­ri­ca, di con­cet­ti, no­ti­zie, dati; il rit­mo e il re­spi­ro straor­di­na­ri del­la scrit­tu­ra, che ine­vi­ta­bil­men­te non può con­dur­re a ri­sul­ta­ti com­piu­ti e de­fi­ni­ti­vi, pri­gio­nie­ra di co­stri­zio­ni ma­te­ria­li li­mi­tan­ti; la pub­bli­ca­zio­ne cu­ra­ta da al­tri, po­stu­ma, a lun­go in­com­ple­ta, con per­ma­nen­ti que­stio­ni fi­lo­lo­gi­che e in­ter­pre­ta­ti­ve.

Il bi­no­mio è for­za­to ma fa­sci­no­so e non ine­di­to, sot­to­li­neia­mo an­co­ra la ne­ces­si­tà di cau­te­la e pu­do­re. Dopo Cor­ra­do Al­va­ro, fu for­se il gran­de Pier Pao­lo Pa­so­li­ni ad ave­re tra i pri­mi la chia­ra per­ce­zio­ne del­le sot­ti­li af­fi­ni­tà. Nel­la ra­gio­na­ta rac­col­ta poe­ti­ca Le Ce­ne­ri di Gram­sci (1957) im­ma­gi­nò di ri­vol­ger­si alle spo­glie del di­ri­gen­te co­mu­ni­sta per­se­gui­ta­to dal fa­sci­smo e pro­po­se ver­si di chia­ra ispi­ra­zio­ne leo­par­dia­na al­ter­nan­do mo­men­ti au­to­bio­gra­fi­ci, pas­sag­gi li­ri­ci, bra­ni ar­go­men­ta­ti­vi. Anni dopo Pa­so­li­ni espli­ci­te­rà una pos­si­bi­le ana­lo­gia tra Gram­sci e Leo­par­di nel­la nar­ra­zio­ne Di­vi­na Mi­me­sis (1975), rie­vo­can­do, nei pan­ni di un dan­te­sco Vir­gi­lio, “Gram­sci stes­so… con la sua schie­na di pic­co­lo eret­to Leo­par­di”, e sot­to­li­nean­do così la co­mu­nan­za sia del­l’a­spet­to fi­si­co este­rio­re che del­lo sguar­do lu­ci­do sul­la real­tà.

In­nu­me­re­vo­li cen­ni a Leo­par­di si ri­trac­cia­no ne­gli stu­di de­di­ca­ti a Gram­sci. E vi­ce­ver­sa, in qual­che mi­nor modo. Il gran­de fi­lo­lo­go Se­ba­stia­no Tim­pa­na­ro com­pì a suo tem­po (qua­si cin­quan­t’an­ni fa) un’a­na­li­si ac­cu­ra­ta dei luo­ghi te­sti­mo­nia­li del­l’in­te­res­se di Gram­sci per Leo­par­di, ov­ve­ro del­le ci­ta­zio­ni di Leo­par­di re­dat­te da Gram­sci; com­ples­si­va­men­te non tan­tis­si­me, già ne­gli ar­ti­co­li gio­va­ni­li (1916 e 1920), poi nel­le let­te­re (1927, 1932) e nei Qua­der­ni (1930-35); qua­si sem­pre in­di­ret­te e per­lo­più bre­vis­si­me, in­ter­ne ad al­tri pen­sie­ri e ar­go­men­ti; con rari ri­fe­ri­men­ti a sin­go­le ope­re leo­par­dia­ne (uno, si­gni­fi­ca­ti­vo, al Pa­sto­re Er­ran­te nel Qua­der­no 6). Co­mun­que, un pos­si­bi­le nes­so fu evi­den­zia­to da mol­ti fin dal­la pri­ma pub­bli­ca­zio­ne del­le ope­re di Gram­sci (1947), come Vi­go­rel­li e Gal­lo. Al­cu­ni stu­dio­si ten­ta­ro­no col­le­ga­men­ti or­ga­ni­ci ri­spet­to ai temi let­te­ra­ri (Sti­p­ce­vic, Ber­nar­di, Gu­gliel­mi), non man­ca­ro­no spun­ti in sag­gi e vo­lu­mi col­let­ta­nei.

Ne­gli ul­ti­mi qua­ran­ta anni, di rado ma con ri­lie­vo, si è scien­ti­fi­ca­men­te trat­ta­to pro­prio il bi­no­mio: ne par­la­ro­no in modo ar­go­men­ta­to e di­scu­ti­bi­le Car­pi, San­gui­ne­ti, Gen­si­ni, Mu­scet­ta, Ga­rin, Lu­pe­ri­ni; me ne oc­cu­pai or­ga­niz­zan­do un con­ve­gno di ita­lia­ni­sti e lin­gui­sti alla metà de­gli anni Ot­tan­ta; stu­dio­si di va­rie di­sci­pli­ne (come Giu­sep­pe Pre­sti­pi­no, Ga­spa­re Po­liz­zi. An­to­ni­no Bar­ba­gal­lo, e al­tri) sono via via di con­ti­nuo ri­tor­na­ti sul tema con acu­te ri­fles­sio­ni, tal­vol­ta trat­tan­do even­tua­li pos­si­bi­li pro­spet­ti­ve di co­mu­ne in­te­res­se (un fu­tu­ro cam­po di ri­cer­ca po­treb­be es­se­re il rap­por­to con la scien­za e le scien­ze), ta­lal­tra af­fron­tan­do se­pa­ra­ta­men­te i due pen­sie­ri e va­lu­tan­do poi i pun­ti di con­tat­to, so­prat­tut­to con­nes­si al rap­por­to fra in­tel­let­tua­li e so­cie­tà. Sem­bra ac­qui­si­to or­mai che en­tram­bi ab­bia­no af­fron­ta­to con lun­gi­mi­ran­za due cri­si di tran­si­zio­ne mo­ra­le e po­li­ti­ca ver­so l’uo­mo mo­der­no, con scien­za sen­za scien­ti­smo.

Vi sono poi bi­na­ri pa­ral­le­li in­di­ret­ti: i te­sti di­sor­di­na­ti tan­to di Leo­par­di quan­to di Gram­sci sono sta­ti “sac­cheg­gia­ti” alla ri­cer­ca di ri­spo­ste su tut­to, come fos­se­ro en­ci­clo­pe­die o vo­ca­bo­la­ri, au­to­ri del­la cui ci­ta­zio­ne fre­giar­si su ogni aspet­to del vi­ve­re ci­vi­le, pub­bli­co e pri­va­to; la stru­men­ta­li­tà con­tin­gen­te dei ri­fe­ri­men­ti a uno qual­sia­si dei due ha spes­so con­dot­to a scon­tri epi­ci fra stu­dio­si di va­rie di­sci­pli­ne e di dif­fe­ren­ti ten­den­ze sia su aspet­ti bio­gra­fi­ci che sul­le ri­co­stru­zio­ni cri­ti­che, op­pu­re a vere e pro­prie in­ven­zio­ni (per Leo­par­di); nes­su­no ha po­tu­to mai con­te­sta­re l’in­cre­di­bi­le fer­ti­li­tà di mol­te loro se­pa­ra­te ri­fles­sio­ni scrit­te, pur ac­can­to a ele­men­ti da­ta­ti o con­trad­dit­to­ri; nes­su­no si è mai pen­ti­to di con­ti­nua­re a ri­leg­ger­li per far go­de­re il pro­prio in­tel­let­to e i pro­pri sen­si, an­che quan­do par­la­va­no con fred­do di­sin­can­to dei loro ri­spet­ti­vi do­lo­ri fi­si­ci, po­li­ti­ci e mo­ra­li; la for­tu­na e lo stu­dio a li­vel­lo in­ter­na­zio­na­le dei due fa­mo­si ita­lia­ni è da sem­pre in co­stan­te cre­sci­ta, sia ne­gli am­bien­ti po­li­ti­co-cul­tu­ra­li che nel­le sedi uni­ver­si­ta­rie-ac­ca­de­mi­che.

Si può for­se sot­to­li­nea­re, in­fi­ne, un ul­ti­mo iden­ti­co bi­na­rio sul qua­le Leo­par­di e Gram­sci sono in­tan­gi­bil­men­te ben col­lo­ca­ti, se­pa­ra­ti e di­stan­ti ma in buo­na com­pa­gnia: van­no fre­quen­ta­ti an­co­ra. La sim­pa­ti­ca fre­quen­ta­zio­ne dei due ita­lia­ni è mol­to uti­le per cit­ta­di­ne e cit­ta­di­ni del XXI se­co­lo e, cre­do, an­che dei se­co­li a ve­ni­re, con­giun­ta o se­pa­ra­ta che sia. Ca­pi­ta di co­no­sce­re ot­ti­mi ra­gaz­zi o di ave­re buo­ni fi­gli che nel loro per­cor­so sco­la­sti­co non sono sta­ti in­dot­ti a leg­ge­re e stu­dia­re Leo­par­di o Gram­sci, vi sono in­nu­me­re­vo­li ma­te­rie che giu­sti­fi­che­reb­be­ro uno spun­to: si­gni­fi­ca pro­ba­bil­men­te che non han­no avu­to sem­pre buo­ni in­se­gnan­ti, ma nul­la è per­du­to, ami­ci e ge­ni­to­ri pos­so­no par­lar­glie­ne, pre­sto o tar­di. Ca­pi­ta di co­no­sce­re gran­di scrit­to­ri che non li han­no mai let­ti: con­si­glia­re di ar­ric­chir­si con quei te­sti non po­trà che mi­glio­ra­re la loro vita e, ul­te­rior­men­te, le loro scrit­tu­re. Ca­pi­ta di co­no­sce­re e in­con­tra­re uo­mi­ni e don­ne che per mil­le ra­gio­ni non leg­go­no, sono egual­men­te in­te­res­san­ti e vi­ta­li: chi vuol loro bene può rac­con­ta­re qual­co­sa dei due, ci­ta­re un ver­so o un epi­so­dio, sug­ge­ri­re un film o una tra­smis­sio­ne che li ri­guar­da, aiu­tar­li un poco in va­rio modo a col­ma­re quel­la che era e re­sta una la­cu­na, Leo­par­di o Gram­sci o al­tro il­lu­stre ita­lia­no per­be­ne che sia la vo­stra oc­ca­sio­ne. Per quan­to mi ri­guar­da, con­ti­nue­rò a leg­ger­li e leg­ger­ne, par­lar­ne e scri­ver­ne, vin­cu­li o di­sgiun­ti, an­che in pub­bli­co (come pre­sto in una con­fe­ren­za a Se­ni­gal­lia).

*( Valerio Calzolaio è un politico e accademico italiano,  Ri­por­tia­mo un ar­ti­co­lo che ha scrit­to per il Bo­Li­ve, gior­na­le on­li­ne del­l’u­ni­ver­si­tà di Pa­do­va.)

 

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