Intervista. «L’espulsione di massa fu pianificata, le prove sono accessibili: sono negli archivi israeliani e dell’Onu»
di Michele Giorgio
Mai come quest’anno l’anniversario della Nakba (catastrofe), il termine con il quale si definisce in lingua araba l’esodo più di 70 anni fa di centinaia di migliaia abitanti della Palestina, cacciati via o fuggiti dalla loro terra nel 1948, è stato accostato ad alcune battaglie politiche e civili che i palestinesi conducono in questi giorni a Gerusalemme Est. Ne abbiamo parlato con il professore Ilan Pappè, per anni docente di storia e relazioni internazionali all’università di Haifa e dal 2007 all’università britannica di Exeter, considerato uno dei massimi esperti mondiali di questo tema. Dei suoi saggi segnaliamo La pulizia etnica della Palestina (Fazi).
In questi giorni in cui i palestinesi commemorano la Nakba si sente spesso parlare, a proposito degli sgomberi di 28 famiglie annunciati nel quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, di un «prolungamento della Nakba». Si fa riferimento a quel periodo per ricordare la confisca da parte del neonato Stato di Israele delle proprietà di profughi e sfollati e al fatto che anche i palestinesi di Gerusalemme non possano reclamarle. Un diritto che la legge israeliana garantisce agli ebrei che avevano proprietà nella parte araba della città prima del 1948.
Una considerazione opportuna, è vero, un palestinese rispetto alle proprietà precedenti al 1948 non ha gli stessi diritti di un israeliano. In quella che oggi è Gerusalemme Ovest (la zona ebraica della città, ndr) ci sono appartamenti, terre, ville e molto di più che appartenevano a palestinesi. Ad esempio, nei quartieri di Talbiye e Baqaa abitavano famiglie palestinesi benestanti, in possesso di un patrimonio immobiliare valutabile oggi in molti milioni di dollari. Se i discendenti di quei palestinesi andassero dai giudici israeliani a rivendicare quelle proprietà non le riavrebbero indietro, a causa delle leggi sulla confisca di quei beni e per considerazioni politiche. Perché sarebbe come riconoscere da parte di Israele il diritto al ritorno per profughi e sfollati alle loro case, villaggi, città. Al contrario un israeliano ebreo può reclamare i suoi terreni a Sheikh Jarrah, anche se lì a farlo non sono i veri proprietari bensì organizzazioni della destra che hanno acquisito quei terreni.La Corte Suprema israeliana è chiamata in meno di un mese a decidere se accogliere o meno lo sgombero delle famiglie palestinesi. A Sheikh Jarrah prevedono una sentenza sfavorevole e non hanno fiducia dei giudici israeliani.
Dubito fortemente che i giudici che daranno ragione alle famiglie palestinesi. La Corte suprema quasi certamente dirà che si sta occupando non di un caso politico ma di una normale disputa riguardo la proprietà di terreni e che pertanto darà un giudizio sulla base della legge in vigore. Quindi autorizzerà l’evacuazione dei palestinesi dalle loro case che saranno occupate dai coloni israeliani coinvolti nel caso.
La Nakba significa l’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi e la perdita della terra. Ci sono però altri aspetti che andrebbero presi in considerazione. Abbiamo parlato di case e terreni, cosa ci può dire dei risparmi lasciati nelle banche dai palestinesi ormai fuori dalla loro terra?
Furono confiscati e usati dalle autorità israeliane. All’epoca i palestinesi facevano riferimento alla Arab Bank e alle filiali delle banche della Gran Bretagna che aveva il Mandato sulla Palestina. Chi si ritrovò profugo da un giorno all’altro non fu mai in grado di recuperare i suoi risparmi. All’inizio il governo israeliano congelò quelle somme, poi cominciò ad usarle per finanziare progetti e programmi. Alcune banche avviarono una battaglia legale e in qualche caso riuscirono a recuperare i fondi ma la maggior parte restarono in Israele.
Se ne parla in questi giorni ma la Nakba è un terreno scivoloso che il mondo dell’informazione cerca di evitare e il mondo accademico di aggirare. Un tema di scontro resta quello dei profughi. Alcuni suoi colleghi israeliani respingono l’ipotesi che i dirigenti futuri di Israele avessero programmato l’espulsione dei palestinesi. Affermano che non ci sono le prove dell’esistenza di questi piani. Lei ha dedicato una fetta importante del suo lavoro a questo tema, cosa può dirci?
Penso che oggi sia impossibile respingere i risultati delle mie ricerche e di altri accademici: che tanti palestinesi diventarono profughi 73 anni fa per un piano ben preciso di espellerli dalla loro terra, ciò che oggi chiameremmo pulizia etnica. In realtà gli stessi archivi di Israele sono pieni di quelle prove. Gli archivi delle Nazioni unite e della Gran Bretagna contengono documenti che non possono dare altra interpretazione di quanto accadde. E gli israeliani, ancora vivi, che presero parte agli quegli eventi ora ammettono senza problemi che le direttive ricevute e le intenzioni andavano in quella direzione. Credo che nel mondo accademico globale e nella società civile internazionale l’espulsione dei palestinesi sia riconosciuta, non è più argomento di dibattito.
FONTE: Il Manifesto del 15 maggio 2021
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