COVID-19: Il nostro Ramadan

Il rito musulmano del digiuno può insegnare a noi occidentali, oggi più che mai, un elemento ormai dimenticato: il tempo della pausa e della riflessione

 

di Emiliano Sbaraglia

Tra pochi giorni, il 23 aprile, inizierà il Ramadan, il nome del nono mese dell’anno nel calendario lunare musulmano, che in questo dannato 2020 appare più che mai significativo. Non sono musulmano, ma le circostanze della vita mi hanno portato a praticare il Ramadan per due volte, nell’estate del 2010 e del 2011, in una comunità di villaggi del Senegal. Una scelta derivante dal vivere e lavorare in un centro di accoglienza italo-senegalese, dove i miei compagni di avventura ne seguivano rigorosamente i dettami. In particolare il guardiano del centro, con cui condividevo la stanza, mi ha guidato alla preparazione e al rispetto delle regole del Ramadan, che sono molto semplici: in quel mese, dall’alba al tramonto, non si deve soltanto digiunare, né bere, ma niente può essere ingerito per via orale.

Per intenderci, non si può fumare nemmeno una sigaretta, o sciogliere una caramella. Per sostenere fisicamente la prova cui si è sottoposti si devono fissare dei rituali ben precisi: sveglia mezz’ora prima che sorga il sole, colazione composta da pane, burro e latte, e soprattutto da un litro e mezzo di acqua; poi, al canto del muezzin che decreta la scomparsa dell’ultimo raggio solare, è il momento di quello che in wolof, la lingua senegalese, viene chiamato ndogoula rottura del digiuno con datteri e latte, come la tradizione di Maometto insegna, accompagnata da altro pane e caffè, e un’altra bottiglia d’acqua. Infine, dopo un paio d’ore, una cena abbondante, sempre bevendo tanto, soprattutto d’estate.

Prendendo il ritmo, e abituando il corpo con qualche giorno d’anticipo iniziando a mangiare meno e bere di più, in fondo si può fare. Naturalmente, tutto questo per chi tutto questo può permetterselo, perché c’è anche chi deve fare di necessità virtù, mangiando e bevendo quello che capita, di solito a notte fonda. Negli anni successivi ho sviluppato quello che i senegalesi stessi hanno definito un “piccolo ramadan”, nel senso che durante l’arco della giornata bevevo un litro d’acqua mangiando una mela. “Vedrai, Allah non si arrabbierà”, era il commento divertito di un amico di ampie vedute, apprezzando comunque lo sforzo dell’uomo bianco.

L’osservanza di questa prescrizione coranica mi ha consentito di guadagnarmi il rispetto dei senegalesi; e ancora oggi, anche se non sono in Senegal, in quel mese spesso mi capita di far compagnia per una settimana o due a un mio amico di origini marocchine, vicino di casa, facendo colazione insieme prima di iniziare la giornata, e rompendo il digiuno davanti a un bel panorama, scambiando due chiacchiere sul mondo. Perché il Ramadan è prima di tutto un momento di condivisione e di unione, è il periodo in cui ancor di più si mangia tutti insieme, ma soprattutto è l’occasione per guardare dentro se stessi, per fare il punto della situazione dell’intero anno, per depurare corpo e mente, dando vita nella propria anima a un profondo esercizio spirituale. E così arriviamo a noi.

Il mondo occidentale non conosce, non conosce più, il tempo della pausa e della riflessione. Ora è arrivato nostro malgrado, o forse a causa nostra, e bisognerebbe cercare di utilizzarlo nel miglior modo possibile, facendo anche noi il punto della situazione, cercando di capire dove stiamo sbagliando, in ogni caso senza troppe privazioni dato che, quando torneremo a uscire, oltre al parrucchiere la professione più richiesta sarà quella del dietologo, altro che digiuno. Un ragionamento anche in questo caso valido per chi può permettersi di decidere cosa mangiare a pranzo e cena, sotto un confortevole tetto, perché stando tutti a casa in stato di emergenza abbiamo dimenticato più di prima che c’è chi un tetto non ce l’ha e da mangiare nemmeno, e dunque può dedicare poco tempo ai complotti orditi dalle speculazioni finanziarie, o al mea culpa sui disastri ambientali per la condotta irresponsabile della rapace società contemporanea.

Che la Terra ci stia dando una bella lezione, e che la Natura si stia riprendendo gli spazi sottratti in maniera brutale dalla cosiddetta civiltà degli uomini, è una sensazione inconfessabile anche dei più ostinati detrattori di Greta Thunberg, sparita dall’orizzonte. L’aria si percepisce più pulita soltanto aprendo la finestra, i mari tornano ad essere frequentati dai loro abitanti naturali, le anatre sguazzano nella Barcaccia ferita di Piazza di Spagna, si rivedono copiose le rondini, e le splendide giornate di una surreale primavera sembrano descrivere un contrappasso talmente perfetto che neanche Dante nelle sue migliori terzine, in questi giorni di Resurrezione nei quali chi dice di credere nelle parole di Gesù Cristo (uno che di comunismo anticapitalista se ne intende) dovrebbe davvero fermarsi a riflettere un po’, tra un abbacchio e una pastiera.

Speriamo dunque di recepirla in maniera dovuta, questa lezione, per scongiurare scenari ben più preoccupanti, vale a dire ritrovarci dopo qualche tempo, un tempo in cui tutto dovesse ricominciare come nulla fosse accaduto, ad essere costretti di nuovo a chiudere, a chiuderci, per un’altra quarantena o forse più. Questo diventerebbe il nostro Ramadan, l’obbligo di fermare tutto ogni tanto per poter respirare senza mascherina, con il rischio di doverlo fare in maniera sempre più frequente, non essendo più in grado di gestire il nostro presente, incapaci di provvedere alla nostra sopravvivenza.

La costrizione, quasi per ossimoro, implica convivenza con se stessi e con gli altri, lasciando la libertà di immaginare che almeno i nostri e altrui figli, vittime incolpevoli di questo funesto passaggio storico, segnati dall’esperienza sappiano fare meglio di noi domani, sempre che noi si riesca almeno a mantenere l’oggi, tornando a considerarci come esseri umani, esseri viventi, alla ricerca di un’armonia perduta.

 

FONTE: https://www.rassegna.it/articoli/il-nostro-ramadan

 

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