di Tonino D’orazio
(segue) Il carbone rappresentava una sfida energetica, per la ricostruzione post-bellica in tutta Europa, che presto però andrà scemando nei confronti del petrolio le cui importazioni raddoppieranno di anno in anno. Solo la crisi del canale di Suez, e le spinte consapevoli e indipendentiste dei paesi arabi, sembrano rilanciare il carbone come strategia nazionale per l’autosufficienza energetica, in Belgio in Francia, in Germania, e in Inghilterra.
Ma il carbone non basta a soddisfare l’enorme aumento dei consumi elettrici. Basti pensare all’elettrificazione delle ferrovie, agli aumenti degli elettrodomestici, alle trasformazioni energetiche delle centrali dal carbone al petrolio, alla crescita del parco automobilistico, allo sviluppo del riscaldamento a nafta. Il carbone è talmente insufficiente che i paesi produttori europei sono costretti, nel 1955, ad importarne quantitativi stratosferici dagli Stati Uniti, i quali non si impegnano, anzi si defilano, di fronte al problema di Suez anche per questo motivo. Vengono sempre prima i loro interessi.
Nella scia delle tragedie nelle miniere nord americane, le morti dei minatori aumentano considerevolmente anche lì, in quel periodo. Non è indifferente rimarcare la forza e la prepotenza successiva degli Stati Uniti e della Gran Bretagna in merito alla crescita dei bisogni energetici petroliferi del mondo ed in modo particolare dei paesi emergenti. Acquisire il controllo unilaterale delle regioni medio orientali produttrici di petrolio non è un obiettivo di poco conto.
Quando gli Stati Uniti divennero una vera e propria superpotenza, negli anni quaranta, la leadership politica vide la regione come l’area strategicamente più importante del mondo” (Eisenhower), “una enorme fonte di potere strategico, e uno dei maggiori obiettivi materiali della storia del mondo” oltre che “probabilmente il più ricco obiettivo del mondo nel campo degli investimenti stranieri” (Dipartimento di Stato, anni quaranta) un obiettivo che gli Stati Uniti intendevano tenere per sé e per l’alleato britannico, nel Nuovo Ordine Mondiale che si andava allora dispiegando.
Da allora, gli Stati Uniti si sono attenuti a una concezione strategica neocoloniale per la regione che avevano ereditato dal loro predecessore britannico, in declino e fiaccato dalla guerra. Basti pensare alla crisi del Canale di Suez, gli stessi giorni della tragedia di Marcinelle. Si trattava di governare dietro varie “finzioni costituzionali”, con governi cosiddetti “fantocci”, dopo aver concesso una garanzia di indipendenza nominale. Le varie crisi politiche e religiose dell’area, costruite e succedutesi fino ad oggi, non furono una variabile indipendente per l’energia carbone.
Nella guerra di accaparramento delle risorse petrolifere ne fece le spese anche l’Eni di E. Mattei e più in generale il nostro paese. Comunque anche l’invecchiamento dei pozzi, la loro sempre maggiore profondità, il prezzo del carbone e l’aumento, anche se relativo, dei salari dei minatori, le decisioni di riduzione della produzione decretate dalla CECA, (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) costituiscono fattori sempre più negativi per le miniere.
Inizia anche l’elaborazione della scelta nucleare civile. Verso la fine degli anni cinquanta tutti questi elementi decretano la fine delle miniere. I minatori, nel decennio post-bellico, rappresentavano un elemento indispensabile per il rilancio dell’economia e dell’industria di tutti i paesi occidentali. Ma soprattutto la “disaffezione” a questo lavoro da parte degli autoctoni costrinse lo spostamento massiccio di migliaia di emigrati con permessi di lavoro esclusivamente in questo settore, con pochi diritti, meno sicurezza sul lavoro, forti e pesanti ricatti.
E’ proprio in questo contesto che scoppiò la tragedia di Marcinelle e che irruppe nella storia non più come una fatale “catastrofe naturale” ma come un elemento strutturale della società e del modo di concepire il lavoro e la sicurezza. Il mondo politico conservatore non lo poteva permettere. Nell’immagine stessa della catastrofe, più simbolica che affettiva, la squadra di soccorso, l’azione di salvataggio o del suo tentativo, diventa l’elemento principale della lotta della vita contro la morte.
L’altro elemento è il “lutto nazionale”, quello che raccoglie tutti gli individui in una grande catarsi, come di un debito pagato dall’emozione e dalla pietà. E’ l’elemento che non permette lo sconvolgimento sociale, il cambiamento radicale, la trasformazione profonda dei rapporti sociali. Poi c’è la tecnica della persuasione. Una società come la nostra accetta difficilmente una catastrofe non spiegabile, irrazionale. Ne vuole la razionalità.
E così scattano tutta una serie di inchieste, amministrative, giudiziarie, ministeriali, internazionali. Commissioni che tracciano il perimetro di quel che si deve dire e pensare, definendo una cronologia precisa delle cause tecniche, appiglio di tutta la stampa che non vuole andare a fondo delle questioni. La tecnica si ripropone ad ogni tragedia. Magari anche puntando su un caso estremamente pietoso.
Gli stessi rappresentanti dei lavoratori italiani e dei sindacati belgi, per Marcinelle, non riuscirono a far uscire la commissione dal tecnicismo e dalla tecnocrazia. In una loro nota di minoranza della commissione d’inchiesta, si può leggere: “la causa originaria della catastrofe si trova nelle istallazioni (del Bois du Cazier)” però poi prosegue: “non desideriamo comunque far perdere alla Nazione il beneficio dello sfruttamento delle ricchezze minerarie alle quali contribuisce.”
Inutile ribadire la scarsa presenza, anche qualitativa, dei rappresentanti ufficiali dello stato italiano. Presenza insignificante e attenta a non disturbare la diplomazia ufficiale. Basta leggere nella cronaca della tragedia, la polemica tra l’ambasciatore italiano e i giornalisti sulla libertà di stampa. Questa catastrofe, emotivamente forte, fu canalizzata in un sistema di razionalizzazione tecnica, chiudendo quel poco di sovversione, o cambiamento, contro l’ordine sociale della vita e del tempo.
Infatti questa catastrofe sembra essere rimasta quella degli italiani in Belgio, degli emigrati, ed ha segnato l’inizio del radicamento sul territorio. Con il seppellimento dei propri morti si prende storicamente possesso di una terra, come nei grandi miti di fondazione e colonizzazione. I media giocano un ruolo fondamentale nell’ampiezza emozionale della tragedia e nella costruzione successiva della memoria collettiva. Pensate all’attesa. Le donne, i bambini e i parenti aggrappati ai cancelli dall’8 al 22 agosto del 1956, in una attesa lunga, vana e insopportabile.
Eccetto L’Unità, tutti i giornali temporeggiano e annegano piano piano la notizia con due elementi: quello dell’attesa spasmodica e inutile (donne e bambini piangono ai cancelli) e la speranza nel gruppo di salvataggio, fino alla terribile frase del 23 agosto: ”Tutti cadaveri…”. Le Peuple, organo del partito socialista belga uscì listato di nero sin dai primi giorni, la solidarietà fu vasta e forti le richieste di accertare le responsabilità. Più duro ancora Le Drapeau rouge, organo del Partito Comunista Belga.
La televisione, pionieristica, apriva squarci di tempo veramente impressionanti dell’avvenimento. Molti di questi strumenti erano alle prime armi ma seppero immediatamente individuare l’impatto emotivo, forte, delle immagini e dei suoni e la loro diffusione internazionale. La stessa Rai Uno, più tardi, ebbe a evocare che “per la prima volta seguì la morte in diretta.” Quello che la stampa ha “nascosto”, in realtà, è la reazione forte del mondo del lavoro.
Dopo la catastrofe vi furono forti movimenti dei minatori in tutti i bacini minerari, per la prima volta, lo “sciopero politico”, durò anche tre giorni con il rifiuto di riprendere il lavoro. Furono coinvolte quasi tutte le miniere della regione. E, come d’abitudine, vi furono violenti incidenti tra la gendarmeria e gli scioperanti che chiedevano “maggiore sicurezza sul lavoro”. Il clima era talmente teso che per i funerali delle vittime arrivarono sul posto più di mille militi per presidiare i circa 2.500 metri di tragitto dalla chiesa al cimitero.
A novembre del 1956 la Conferenza della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) sulla sicurezza nelle miniere escluse dal tavolo la CGIL e la Cisnal. Dalla fine della guerra al 31 dicembre 1955, nelle miniere belghe sono morti 1.164 minatori, tra cui 435 italiani. Nel 1956, oltre a quelli del Bois du Cazier, morirono altri 112 minatori. Fino al 1955 furono registrati 116.910 incidenti sul lavoro. Nel 1956: 99.997. Dal 1945 al 1956: 35.000 minatori furono pre-pensionati per invalidità prima dei 45 anni.
Solo dopo la tragedia di Marcinelle la silicosi viene riconosciuta come malattia professionale dei minatori, prima in Belgio poi negli altri paesi europei. Per i nostri connazionali però, una volta rientrati in Italia, pagò l’Inail. Ma nessuna delle cause vere che determinarono la tragedia di Marcinelle fu eliminata e nessuno fu condannato, come nelle grandi calamità naturali determinate dalla fatalità. E’ la tragedia nella tragedia.
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