Le radici della sollevazione palestinese

di Andrea Vento

Analisi del contesto geopolitico in cui è avvenuto il passaggio di Israele dallo status di impunità giuridica internazionale sostanziale a quella formale, ripercorso attraverso la disamina delle 74 Risoluzioni Onu di condanna.

L’improvvisa esplosione delle proteste palestinesi a Gerusalemme Est nei primi giorni di maggio che hanno acceso la miccia del conflitto armato fra Israele e la Striscia di Gaza, degli scontri nelle città a popolazione mista all’interno dello stato di ebraico e, in Cisgiordania, fra esercito e popolazione palestinese, se da un lato ha sorpreso l’opinione pubblica e la politica internazionale, dall’altro non ha colto impreparati gli osservatori più attenti e gli analisti delle vicende mediorientali.

Ad oltre una settimana dell’inizio dello scontro armato, mentre si contano già oltre 200 morti palestinesi, la politica e la diplomazia internazionale, salvo rare eccezioni, tacciono, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è bloccato dal veto degli Stati Uniti e l’Unione Europea si limita ad annunciare un blando vertice dei Ministri degli esteri. Il silenzio assordante di chi ha il compito e gli strumenti per poter imporre un “cessate il fuoco” è rotto dalle urla delle manifestazioni che da alcuni giorni, nei paesi occidentali e in Medio Oriente, stanno chiedendo il rispetto dei diritti dei palestinesi e di far tacere le armi. Un atto indubbiamente necessario per impedire un ulteriore spargimento di sangue di civili inermi, ma che deve rappresentare solo il primo passo sulla strada della risoluzione dell’annosa questione che tutt’oggi, ad oltre 50 anni dall’inizio dell’occupazione militare israeliana dei Territori Palestinesi, costituisce, oltre che fonte di negazione di diritti e di oppressione, una piaga aperta e fonte di instabilità perdurante nell’intero Medio Oriente.

La confisca delle abitazioni a 28 famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah, la chiusura dell’accesso alla Spianata delle Moschee durante il venerdì più sacro del Ramadam e le provocazioni degli ebrei ortodossi estremisti, hanno rappresentato solamente un casus belli occasionale, che ha fatto da detonatore all’insostenibile condizione in cui è stato relegato il popolo palestinese nell’indifferenza internazionale. Per comprendere le radici dell’esplosione della rabbia dobbiamo, pertanto, considerare la frustrazione accumulata dal popolo palestinese che, nei 20 anni successivi al definitivo fallimento del cosiddetto Processo di Pace, sancito a Camp David nel luglio 2000, ha subito, nel complice silenzio della comunità internazionale, l’inesorabile avanzamento della colonizzazione ebraica della Cisgiordania e l’ebraizzazione di Gerusalemme est, accompagnate da continue confische di terre e di edifici con relative espulsioni.

Nella parte araba della città, dove è inizialmente deflagrata la rivolta, la requisizione delle abitazioni, gli abbattimenti e il reinsediamento ebraico attuati dai governi israeliani ha confinato i residui 330.000 palestinesi, pari al 60% del totale degli abitanti, nel solo 14% dello spazio urbano di Gerusalemme est, peraltro in condizioni di apartheid legislativo. Israele, infatti, seppur con atto unilaterale e illegale abbia annesso de facto la parte della città occupata con la Guerra dei 6 Giorni del 1967, non ha proceduto ad analoga operazione con i palestinesi riservando loro lo status di “stranieri residenti permanenti” che, oltre ad essere soggetto a revoca, prevede diritti limitati, rispetto agli ebrei che vivono nella stessa Gerusalemme est.

I bombardamenti, le distruzioni e le morti civili di questi giorni, stanno attirando l’attenzione della società civile mondiale, ma è assolutamente necessario evitare che una volta placatesi le armi e spento il clamore mediatico, la situazione del popolo palestinese venga lasciato ancora una volta al di fuori dell’agenda politica internazionale, come avvenuto dopo le 3 precedenti operazioni militari israeliane contro Gaza del 2008/9, 2012 e 2014.

L’opinione pubblica mondiale, che in questi giorni ha mostrato capacità interpretative e di mobilitazione nettamente più spiccate rispetto alla leadership politica internazionale ferma a generici appelli a cessare le violenze, come se lo scontro fosse fra pari e non fra uno degli eserciti più efficienti e milizie male armate e popolazione civile in rivolta, deve continuare a mantenere alta l’attenzione sul dramma del popolo palestinese e ad esercitare pressioni sui rispettivi governi. I Paesi occidentali e l’Ue che si ritengono i paladini del rispetto dei diritti umani, devono essere indotti, attraverso un’azione dal basso, ad attivare azioni diplomatiche concrete tese ad esigere il rispetto della legalità internazionale da parte di Israele che, come stabilito dalle numerose Risoluzioni Onu (vedi dossier in coda), deve ritirarsi dai Territori palestinesi occupati militarmente, smantellare gli insediamenti colonici e consentire la nascita di uno stato palestinese entro i confini antecedenti il 5 giugno 1967 con Gerusalemme est capitale.

Le esortazioni a cessare le violenze o l’ipocrita refrain dei governi occidentali sul “diritto di Israele a difendersi”, puntualmente riemersi ad ogni esplosione di violenza, sono in realtà funzionali al progetto sionista, disvelato dallo storico israeliano Ilan Pappe ne “La pulizia etnica della Palestina”, di espulsione, colonizzazione e annessione territoriale, attuato ai danni del popolo palestinese. Invocare la pace senza effettivamente adoperarsi per garantire il rispetto dei diritti della controparte più debole e da decenni soggiogata, è un mero esercizio retorico che non porta ad alcuna risoluzione della questione.

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