20 12 12 NEWS e Approfondimenti

01 – Mentre la pandemia si diffondeva per il mondo, una frase ha riassunto i diversi modi di vivere la crisi: siamo nella stessa tempesta, ma non siamo tutti sulla stessa barca.
02 – Violenza di genere e diritti umani, una storia che inizia sulla Queen Elizabeth
Giornata internazionale . Il 10 dicembre 1948 veniva approvata la Dichiarazione universale dei diritti umani. Oggi questo prezioso documento ha collezionato una lunga serie di violazioni e strappi. Soprattutto per quanto riguarda i diritti delle donne.,
03 – USA: Rodari, un marxista surreale a spasso per l’America – Express. Lo scrittore e pedagogista non è più lontano dai lettori statunitensi.
04 – Argentina: Legale, libero, sicuro, gratuito. E appeso al voto del parlamento argentino
Intervista. La proposta di legge sull’aborto torna in aula a Buenos Aires un anno dopo l’insediamento di Fernandez alla presidenza. Intervista a Martha Rosenberg: «Tra gli schieramenti favorevoli e contrari alla legalizzazione, poiché sono trasversali, c’è un patto di non aggressione. Lo scontro è sia ideologico sia legato a equilibri di partito».
05 – ALIAS Engels, uno spettro si aggira per l’Europa – Reportage. Engels nacque il 28 novembre 1820 a Barmen, al tempo importante centro industriale tedesco, nell’allora provincia prussiana di Jülich – Kleve-Berg: ritorno a quella che oggi si chiama Wuppertal, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, per un tour nella sonnacchiosa cittadina, «orfani», causa pandemia, delle celebrazioni per i duecento anni dalla nascita del filosofo.
06 – COVID19 e DOVEVAMO DIVENTARE MIGLIORI. Siamo invece al “MORS TUA VITA MEA” pur di avere la sensazione di poter vedere un po’ di luce.
07 – Mario Pierro: L’INCHIESTA – Il capitalismo dello choc pandemico – L’inchiesta. Dal capitalismo dei disastri al capitalismo dello choc pandemico. Le analisi sul mondo globale nel capitalismo dei disastri al capitalismo dello choc pandemico.
08 – Cile, Elena Basso: Santiago Zona Zero: «Come una guerra» Cile. Viaggio dentro la protesta cilena, iniziata nell’ottobre 2019, contro diseguaglianze sociali e violenze della polizia. Nonostante la vittoria al referendum per cancellare la costituzione di Pinochet, la mobilitazione prosegue con un pezzo di città trasformata da mesi di manifestazioni
Santiago del Cile è in guerra.


01 – MENTRE LA PANDEMIA SI DIFFONDEVA PER IL MONDO, UNA FRASE HA RIASSUNTO I DIVERSI MODI DI VIVERE LA CRISI: SIAMO NELLA STESSA TEMPESTA, MA NON SIAMO TUTTI SULLA STESSA BARCA. Vale anche per come usciremo dalla tempesta. Il vaccino Fizer Biontech ha già cominciato a essere somministrato nel Regno Unito. Ma vaccinare miliardi di persone in tutto il mondo potrebbe essere più complicato, e dipenderà anche dai paesi ricchi: in occasione della pandemia della cosiddetta influenza suina, nel 2009, si accaparrarono tutti i vaccini disponibili.
La buona notizia è che quasi 190 stati hanno aderito a Covax, un programma di acquisto condiviso che dovrebbe garantire una distribuzione più equa. L’obiettivo è consegnare due miliardi di dosi entro la fine del 2021, permettendo ai paesi partecipanti di vaccinare il personale sanitario e le persone più vulnerabili. Covax ha già stretto accordi con diversi produttori di vaccini. I due miliardi di dollari ricevuti finora serviranno a prenotare le prime dosi, ma serviranno altri cinque miliardi. Ci sono alcune questioni cruciali. Covax deve ancora firmare un accordo con la Pfizer o la Moderna.
I vaccini che dovrebbero essere più facili da distribuire sembrano essere molto più indietro nello sviluppo. Anche nei casi in cui sono stati raggiunti degli accordi, non è chiaro a che punto della lista d’attesa si trovi Covax. Molti paesi ricchi hanno dichiarato il loro sostegno all’iniziativa, salvo poi firmare contratti con le case farmaceutiche che riducono la disponibilità di dosi.
Garantire un’equa distribuzione del vaccino è semplicemente la cosa giusta da fare. Ma i governi dei paesi più ricchi devono convincere i loro cittadini. Un buon argomento è il rischio che i casi importati potrebbero causare nuovi focolai. Le restrizioni agli spostamenti non bastano: l’economia globale non potrà riprendersi se metà del mondo continuerà a lottare contro il virus. Le nazioni più ricche devono finanziare il programma, evitare di accaparrarsi le scorte e spingere le case farmaceutiche a garantire un prezzo abbordabile. La tentazione di pensare al propri interesse immediato potrebbe apparire irrefrenabile. Ma stavolta nessun paese potrà essere certo di essersi salvato mentre gli altri sono ancora in mare.( da Internazionale )


02 – VIOLENZA DI GENERE E DIRITTI UMANI, UNA STORIA CHE INIZIA SULLA QUEEN ELIZABETH. GIORNATA INTERNAZIONALE . IL 10 DICEMBRE 1948 VENIVA APPROVATA LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI. OGGI QUESTO PREZIOSO DOCUMENTO HA COLLEZIONATO UNA LUNGA SERIE DI VIOLAZIONI E STRAPPI. SOPRATTUTTO PER QUANTO RIGUARDA I DIRITTI DELLE DONNE., di Rossella Rossini

Si conclude oggi la «campagna dei 16 giorni» lanciata nel 1991 dal Center for Women’s Global Leadership e assunta dalle Nazioni Unite per sottolineare che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani. L’iniziativa, che dal 1991 ha coinvolto oltre 6.000 organizzazioni internazionali e della società civile in 187 paesi, collega due importanti ricorrenze: la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza di genere e la Giornata Internazionale per i diritti umani.
SECONDO DATI ONU, NEL MONDO 243 MILIONI DI DONNE NEL 2019 hanno subito violenza da parte del partner o ex partner. In Europa, il 25 novembre il Movimento delle donne curde ha lanciato la campagna «100 giorni» per raccogliere storie di donne abusate e uccise dal governo dell’Akp e raccogliere firme contro le politiche femminicide del regime turco, al fine di chiedere alla Corte dell’Aja di processare Erdogan per crimini contro le donne.
Il Rapporto Eures ha rilevato che in Italia le donne uccise tra il 2000 e il 31 ottobre 2020 sono state 3.344, con una escalation nei primi dieci mesi di quest’anno, che hanno registrato 91 femminicidi, uno ogni tre giorni, in gran parte in ambito familiare.
Ma la violenza di genere non si esprime soltanto con uccisioni e abusi sessuali. Si esprime attraverso matrimoni forzati e spose bambine, diseguaglianze e discriminazioni. La lotta per contrastarla passa, pertanto, anche attraverso le pari opportunità, nei campi dell’istruzione, dell’occupazione, delle politiche retributive e della carriera professionale, coinvolgendo l’intera gamma dei diritti umani e portandoci nel pieno della Giornata Internazionale che si celebra ogni 10 dicembre.
La notte di Capodanno del 1945 una donna alta, avvolta in un soprabito nero, salì a bordo della Queen Elizabeth diretta a Southampton. La nave di linea, ancora verniciata di grigio perché utilizzata per il trasporto delle truppe, si accingeva a solcare nella nebbia e nel freddo un oceano agitato per portare la delegazione degli Stati Uniti, nominata dal neo-presidente Harry Truman, alla prima riunione dell’Assemblea generale dell’Onu che si sarebbe svolta a Londra il 10 gennaio 1946.
Era Eleanor Roosevelt, unica presenza femminile nella delegazione, non più First Lady dopo la morte del presidente, Franklin Delano, avvenuta pochi mesi prima e non ancora consapevole di avere imboccato la strada verso il traguardo più importante della sua già illustre carriera: la stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che sarebbe stata approvata dopo un lungo e intenso lavoro il 10 dicembre del 1948.
Di quel documento, destinato a ispirare un gran numero di costituzioni nazionali, compresa la nostra, di trattati postbellici o post-coloniali e a diventare la stella polare dell’esercito di attivisti che si battono per i diritti umani internazionali e per la libertà, Eleanor, eletta all’unanimità alla presidenza della commissione competente, è considerata la principale artefice.

La Dichiarazione divenne il pilastro di un nuovo ordine di relazioni internazionali inteso a prevenire il ripetersi degli orrori di due guerre mondiali, del nazifascismo e della tragedia di Hiroshima e Nagasaki, le cui immagini erano ancora fresche negli occhi del mondo. Basato sul principio per cui il modo in cui una nazione tratta i suoi cittadini non riguarda soltanto quel paese e non è esente da controlli esterni, quel nuovo ordine si è presto rivelato illusorio – in un mondo in cui la salvaguardia dei diritti umani si fa spesso pretesto per interventi armati o pressioni economiche.
Ma allora, pur essendoci tutte le ragioni per disperare della condizione umana, un gruppo di uomini e donne eccezionali lottarono con tutta la loro volontà per formulare un insieme di principi chiaro e applicabile in tutto il pianeta.
Il compito era irto di ostacoli. 58 nazioni avrebbero lavorato insieme, attraverso i loro rappresentanti, in un consesso internazionale di cui facevano parte paesi capitalisti e paesi comunisti, regimi totalitari e democrazie, sotto la cappa dell’incalzante deterioramento delle relazioni tra l’Urss e l’Occidente.
Le barriere da superare erano tante. Ideologiche e politiche, come rivelavano le frizioni esplose ogni qualvolta i delegati sovietici inserivano nei testi clausole di propaganda, o quando si levavano accuse di tentata egemonia delle potenze occidentali. Erano linguistiche, religiose, filosofiche e culturali.
Erano economiche e sociali, come emerse quando la delegata indiana evidenziò l’impossibilità di andare oltre l’obbligo della scuola primaria nel definire gli obiettivi in materia di diritti all’istruzione. Ciononostante si giunse a un documento condiviso, composto da un Preambolo e da trenta articoli, di cui ventidue relativi ai diritti politici e civili e otto ai diritti economici e sociali.
Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita nella sua terza sessione, approvò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani con quarantotto voti a favore, nessun voto contrario, otto astensioni prevalentemente in area sovietica e due assenze. Eleanor Roosevelt aveva coronato il progetto, condiviso con Franklin Delano, di costruire una grande organizzazione delle nazioni, facendosi artefice in prima persona di quella che, per usare le sue parole, aspirava a diventare «la Magna Charta internazionale di tutti gli uomini in ogni luogo del mondo».
Ma già gli eventi immediatamente successivi, dominati dalla guerra fredda, mandarono quelle speranze in frantumi. Oggi, gli Stati membri delle Nazioni Unire sono 193 e le violazioni dei diritti umani sono una piaga mondiale, come testimoniano i rapporti delle organizzazioni internazionali.


03 – USA: RODARI, UN MARXISTA SURREALE A SPASSO PER L’AMERICA – EXPRESS. LO SCRITTORE E PEDAGOGISTA NON È PIÙ LONTANO DAI LETTORI STATUNITENSI, di Maria Teresa Carbone

Non è mai troppo tardi. Come ha scritto su queste pagine Erica Moretti, a cento anni dalla nascita, a quaranta dalla morte, gli Stati Uniti scoprono Gianni Rodari, «il genio italiano che ha mescolato marxismo e letteratura per l’infanzia», per citare il titolo del bell’articolo di Joan Acocella appena uscito sul New Yorker.
Per quanto appaia strano, considerando la fama di Rodari in tutto il mondo, «negli Usa – scrive Acocella – praticamente nessuno conosce il suo nome. Dei suoi trenta libri neppure uno è stato pubblicato qui quando era in vita. Alcuni sono usciti nel Regno Unito, ed è ancora possibile acquistarne una copia, purché siate disposti a fare un’ipoteca sulla casa. Giorni fa ho cercato di comprare Tales Told by a Machine (Novelle fatte a macchina) del 1976. Amazon ne aveva una copia per 967 dollari, più spese di spedizione. Questo è un crimine contro l’arte».
Per fortuna, però, le forze oscure che hanno tenuto Rodari lontano dai lettori statunitensi sono state sgominate. Per rompere l’incantesimo ci è voluta, manco a dirlo, l’audacia di un editore indipendente, Enchanted Lion, che ha pubblicato le Favole al telefono, anzi, le Telephone Tales, nella traduzione di Antony Shugaar e con un’edizione curatissima: i disegni – dell’italiano Valerio Vidali – aprono «interi mondi di figure semi-astratte, con nasi giganteschi e palazzi di gelato» e le pagine «sono cucite con punti degni di una gonna di Balenciaga». Insomma, «è incredibile che il libro costi solo 27 dollari e 95», nota Acocella, e aggiunge perentoria: «Andate a comprarlo, subito».
Il punto – scrive la giornalista – è che i libri di Rodari sono un miracoloso precipitato di immaginario ereditato dal surrealismo e di pensiero critico acquisito grazie alla dottrina marxista: «Ogni cosa che scrive, lui la sottopone a un interrogatorio, a uno scrutinio, a uno sguardo lievemente ironico, o anche solo arguto… Molti in Occidente tendono ad associare il marxismo a una forma di controllo della mente. È difficile convincerli che alla fine dell’Ottocento il marxismo era considerato dai suoi aderenti il vessillo per la liberazione del pensiero».
Per questo (e non solo per questo) «come accade per Alice nel paese delle meraviglie, la sua scrittura fa sentire intelligenti i bambini». Soltanto i bambini? Ancora Acocella: «Una volta Rodari ha detto che sarebbe meglio non chiedersi se i suoi libri sono per bambini o per adulti, ma di considerarli come libri tout court».
Sono frasi che risuonano, leggendo i risultati di una indagine condotta dal britannico National Literacy Trust, un ente che promuove la lettura soprattutto nelle aree meno favorite. Alla domanda «Ti rivedi nei personaggi dei libri che leggi?» rivolta a quasi sessantamila ragazze e ragazzi di età compresa tra i 9 e i 18 anni, circa un terzo ha risposto di no, riferisce sul Guardian Alison Flood, specificando che la percentuale sale al 46 % quando a parlare sono bambini e teenager appartenenti a minoranze etniche nere. Del resto, uno studio del Centre for Literacy in Primary Education rivela che nei libri per l’infanzia usciti l’anno scorso nel Regno Unito solo il 5 % ha un eroe, o un’eroina, non di pelle bianca. Una miseria, ma se si pensa che nel 2017 la cifra era dell’uno per cento, si può dire con soddisfazione che la diversity si fa largo nell’editoria (perlomeno quella di lingua inglese).
E tuttavia, pensando a Rodari e alla sua grammatica della fantasia, ci si chiede se questo basti – se il libro sia solo uno specchio in cui ritrovarsi o se questo specchio non vada attraversato per andare come Alice in cerca di altri mondi o anche solo per vedere il nostro con occhi diversi e magari tentare di cambiarlo.


04 -Argentina: LEGALE, LIBERO, SICURO, GRATUITO. E APPESO AL VOTO DEL PARLAMENTO ARGENTINO. INTERVISTA. LA PROPOSTA DI LEGGE SULL’ABORTO TORNA IN AULA A BUENOS AIRES UN ANNO DOPO L’INSEDIAMENTO DI FERNANDEZ ALLA PRESIDENZA. INTERVISTA A MARTHA ROSENBERG: «TRA GLI SCHIERAMENTI FAVOREVOLI E CONTRARI ALLA LEGALIZZAZIONE, POICHÉ SONO TRASVERSALI, C’È UN PATTO DI NON AGGRESSIONE. LO SCONTRO È SIA IDEOLOGICO SIA LEGATO A EQUILIBRI DI PARTITO», di Andrea Cegna

In Argentina torna in discussione la proposta di legge per un aborto legale, gratuito e sicuro. Nelle prossime ore arriverà il voto della Camera. Fernandez, che proprio in questi giorni festeggia il primo anno di governo, aveva promesso da tempo un decreto in tal senso. Perché l’aborto sia legge la proposta dovrà essere votata anche in Senato, a differenza di quanto accadde nel 2018.
L’opposizione alla legge attraversa anche parti della maggioranza. Nel dibattito parlamentare sono state richieste importanti modifiche che se recepite potrebbero portare all’approvazione della legge in entrambe le votazioni ma allo stesso tempo snaturerebbero la proposta dei movimenti.
Ne parliamo con Matha Rosenberg, femminista e autrice del libro Aborto e altre interruzioni. Donne, psicoanalisi, politica.

COME SI È SVILUPPATO IL DIBATTITO?
Con le condizioni imposte dalla pandemia, e quindi in forma virtuale o mista. È piuttosto strano. Durante il precedente dibattito (2018) ci sono state grandi manifestazioni di strada con diverse iniziative e partecipazione di massa. Una mobilitazione continua con tanto di espressioni artistiche, appelli e spettacoli vari. Il dibattito è molto presente sui media così come sui social, nonostante l’impatto di misure socio-economiche simultanee molto importanti e di eventi casuali che scuotono, come la morte di Maradona. La discussione parlamentare va in onda in tv. C’è un patto di non aggressione tra i settori favorevoli e contrari alla legalizzazione poiché gli schieramenti sono trasversali. Lo scontro nasce sia per questioni ideologiche sull’aborto sia anche per questioni di equilibri di partito. La campagna ha messo in moto mobilitazioni in tutto il paese e molte altre attività: virtuali sui social network, lezioni universitarie, spettacoli teatrali, posizionamento pubblico di personaggi noti, ecc. Ci sono state anche manifestazioni di conservatori fondamentalisti. E vessazioni nei confronti dei parlamentari verdi.

PERCHÉ «ABORTO LEGALE, LIBERO, SICURO E GRATUITO»?
La Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito implica che lo Stato dovrà garantire sì la libertà ma anche l’accesso universale all’aborto sicuro attraverso la sanità pubblica. Se ci fosse solo la depenalizzione l’aborto sarebbe sottoposto a logiche di mercato, cioè si manterrebbe «un’ingiustizia riproduttiva» che rende l’aborto sicuro e possibile un privilegio delle classi più abbienti.
Una parte importante del movimento femminista argentino si è concentrato su questa lotta, se si vincerà cosa potrebbe succedere?
Non c’è praticamente femminismo che non si sia unito a questa lotta. Suppongo che se la proposta di legge sarà votata affronteremo insieme il monitoraggio del suo adempimento. Sarebbe un profondo cambiamento culturale che dovrà essere digerito dall’intera società.

DIALOGATE CON LA PRESIDENZA?
Certo, e non solo. La campagna nazionale è formata da più di 600 associazioni e da persone singole. La mia forma di dialogo e il mio attivismo avvengono attraverso il Consiglio consultivo onorario del ministero delle Donne, genere e diversità di cui faccio parte. Altre appartengono alla stessa coalizione politica del presidente, il Fronte di Tutti. Ci sono molte femministe e persone LGBTQ+ che hanno voce autonoma e vanno oltre le richieste della campagna. È un compito enorme (forse impossibile e chissà se desiderabile) unire in una sola voce la ricchezza e la polifonia della nostra realtà come movimento.


05 – ALIAS: ENGELS, UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’EUROPA – REPORTAGE. ENGELS NACQUE IL 28 NOVEMBRE 1820 A BARMEN, AL TEMPO IMPORTANTE CENTRO INDUSTRIALE TEDESCO, NELL’ALLORA PROVINCIA PRUSSIANA DI JÜLICH-KLEVE-BERG: RITORNO A QUELLA CHE OGGI SI CHIAMA WUPPERTAL, NELLA RENANIA SETTENTRIONALE-VESTFALIA, PER UN TOUR NELLA SONNACCHIOSA CITTADINA, «ORFANI», CAUSA PANDEMIA, DELLE CELEBRAZIONI PER I DUECENTO ANNI DALLA NASCITA DEL FILOSOFO, di Dario Bellini

A – Il 28 novembre 2020 si sono celebrati i 200 anni dalla nascita di Engels a Barmen nella valle del fiume Wupper. La municipalità di Wuppertal, città di 300mila abitanti che unisce Barmen e Elberfeld, festeggia il bicentenario del suo più illustre cittadino nato qui due secoli fa. Finito il restauro della sua casa natale, molte erano quest’anno le iniziative e i progetti in corso, ma il Covid ha fatto sì che quasi tutto fosse cancellato. Gli eventi sono diventati Engels Digital, mostre, musei, concerti e conferenze (online). Peccato per il grande telo di 40 metri che avrebbe dovuto rivestire la facciata della casa di Engels, con un bel parco di grandi alberi davanti, lungo la valle della Wupper e la Swebebahn in vista. Duecento fotografie in b/n (stampate sul gigantesco telone) dei residenti in città che hanno accettato di farsi fotografare e mostrarsi nell’istallazione dell’artista di strada JR. Istallazione rimandata a causa delle regole anti-assembramento ma è stato possibile fruire di una presentazione virtuale, dove in versione web l’impacchettamento della casa ha proposto la composizione dei ritratti che con un click si aprono a mostrare i messaggi personali dei cittadini di Wuppertal che fanno gli auguri e scrivono riflessioni da indirizzare al grande pensatore.
Il pezzo forte già c’è ed è sempre possibile visitare: è la statua che nel 2014 è stata donata alla città dalla Repubblica popolare cinese. Realizzata dallo scultore Zeng Chenggang, alta 4 metri, è poggiata quasi a terra su un piedistallo di appena 40 centimetri, forse per favorire una presenza più ravvicinata. Engels è pensieroso chiuso in un cappottone di ispirazione austero-cinese. Vive in un lockdown all’aperto.
Turismo cinese
Lo stesso a Trier, cittadina natale di Karl Marx, più recentemente (nel 2018) è spuntata una sua scultura, di Wu Weishan, sempre dono cinese. Così come Xi Jinping in occasione del passato anniversario dei 200 anni di Marx lo ha celebrato e modernizzato in pompa magna come il più grande pensatore dei tempi moderni, anche a Treviri sono arrivate due tonnellate tutte per il Moro, approvate dal Consiglio comunale della più antica municipalità germanica. Questa volta però la statua è piazzata davanti a un muro, di profilo che guarda lontano, verso un salone di parrucchieri. Le inaugurazioni erano state attraversate da polemiche, poi è iniziata una convivenza tranquilla, grazie ai migliaia di turisti cinesi in visita nelle città natali di due illustri giornalisti, filosofi e pensatori.
A Treviri si arriva per ricordare un giovane Marx di 17 anni, che abbandonò i confini dell’Impero prussiano per andare nel mondo, così come qualche anno più tardi Friedrich Engels lasciò Wuppertal pe rgiungere a Manchester dove avrebbe dovuto lavorare nella fabbrica tessile di suo padre. È l’inizio delle lotte operaie, quasi un gemellaggio, si potrebbe dire: Manchester in riva alla Wupper, con la situazione delle prime industrie tessili e la fallita rivolta operaia di Elberfeld. In quegli anni, Engels strinse la sua amicizia con Marx, si innamorò e sposò Mary Burns, giovane operaia attivista irlandese che lavorava nella fabbrica di suo padre, scrisse il primo libro sulla situazione della classe operaia in Inghilterra. Qualche anno dopo, insieme a Marx nel 1848 venne redatto Il Manifesto dei Comunisti e fondato a Colonia un nuovo giornale, la Neue Rheinische Zeitung, soppresso dopo la sconfitta delle rivolte operaie in Germania. Da qui, la lunga fuga attraverso Zurigo, Parigi, Manchester e Londra. Dopo quasi due secoli, sembra che Engels continui ad aggirarsi nel mondo in forma di sculture, eventi che lo ricordano, siti web, libri e souvenir.
Letargo cittadino
In un’epoca di statue abbattute e di rifiuto delle iconografie dei passati regimi, qualche eccezione interessante di ritorno, in forma di «monumento», c’è anche a Manchester, città dove Engels era arrivato nel 1842, ispirandogli i suoi scritti rivoluzionari. L’artista e attivista di sinistra Phil Collins è riuscito recentemente a recuperare una statua di Engels degli anni 70 a Poltava in Ukraina (dove nel 2015 erano diventati illegali i segni e i simboli dell’era comunista). In un piccolo paese che volentieri si voleva liberare della statua compromessa, è stata ritrovata tagliata in due e abbandonata in un giardino. La statua è ora in centro a Manchester in bella vista in Tony Wilson Place, ad onore della maggioranza laburista della città (in consiglio comunale sono 92 i seggi del Labour, 3 dei Liberal Democratici e zero dei Conservatori), in una moderna piazza davanti al Centro di arte contemporanea. Un’eredità culturale ancora in movimento, in Inghilterra e Germania dove le lotte operaie iniziarono e dove i due – allora giornalisti – rivoluzionari iniziarono la lotta politica.

B – ALIAS Friedrich Engels, l’attualità dialettica della natura Ritratti. A duecento anni dalla nascita, una visione ecologica che ci interroga, di Dario Bellini e Lelio La Porta

Friedrich Engels nacque a Barmen, un sobborgo di Wuppertal, il 28 novembre del 1820. Si recò in Inghilterra per volontà del padre (un importante industriale) per compiervi un tirocinio commerciale. Qui entrò in contatto con la realtà dell’economia industriale sviluppata e con quella forma di socialismo che egli stesso, in seguito, definì «utopistico» (Proudhon, Fourier, Owen).

La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845) rappresenta un’indagine molto documentata sulle condizioni del proletariato inglese nella quale si metteva in evidenza il modo in cui lo sviluppo dell’industria moderna aveva generato a un tempo la lotta di classe proletaria e la possibilità della liberazione finale. Marx continuò ad apprezzare questo saggio anche anni dopo la pubblicazione; in una lettera ad Engels del 9 aprile del 1863 si esprimerà nel modo seguente, dopo aver confessato di aver appena riletto l’opera: «Con quale freschezza, con quale passione, con quale precorritrice audacia e senza erudite né dotte riserve viene qui afferrata la questione! E la stessa illusione che domani e dopodomani il risultato sgorgherà alla luce del sole anche storicamente, conferisce all’insieme un calore e un umore vitale, di fronte al quale il successivo «grigio grigiore» contrasta in modo maledettamente sgradevole».

TRAFFICO INDIFFERENTE
Il saggio del 1845 mantiene, a rileggerlo oggi e senza essere condizionati dal giudizio di Marx, un’incredibile attualità che si mostra in tutta la sua evidenza nelle pagine in cui Engels descrive la Manchester dell’epoca: «Già il traffico delle strade ha qualcosa di repellente, qualcosa contro cui la natura umana si ribella. Le centinaia di migliaia di individui di tutte le classi e di tutti i ceti si urtano… si passano accanto in fretta come se non avessero nulla in comune… La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale, emerge in modo tanto più ripugnante ed offensivo quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto». Affollamento, indifferenza, cura del proprio interesse, l’individualismo più gretto al servizio della dominazione del capitale!
Dal 1845 ebbe inizio la collaborazione con Marx che si protrasse fino alla morte di quest’ultimo nel 1883. Da questo sodalizio intellettuale e politico, cementato da un’amicizia solidissima dal punto di vista affettivo, nacquero alcune delle opere fondamentali per la fondazione e la diffusione della concezione materialistica della storia (La sacra famiglia, L’ideologia tedesca, Manifesto del partito comunista). Onde evitare futili congetture intorno ai caratteri della collaborazione fra i due, basterà ricordare che proprio Engels scrisse di una divisione del lavoro fra di loro in virtù della quale a lui spettava il compito di «presentare le nostre vedute nella stampa periodica, e quindi specialmente nella lotta contro le vedute avversarie».

Dopo la morte di Marx, Engels non soltanto si adoperò alla cura per la pubblicazione di scritti marxiani inediti o incompiuti (ad esempio il secondo e il terzo libro del Capitale) ma divenne, anche in virtù della collaborazione assidua con Marx, l’interprete più ascoltato del suo pensiero. Scrisse sulla scienza naturale, sulle origini della famiglia e dello Stato; analizzò la situazione irlandese e la strategia dei movimenti operai in Europa e negli Usa, si batté contro il proudhonismo e l’anarchismo, ebbe rapporti con i dirigenti della socialdemocrazia tedesca, si preoccupò per il mantenimento della pace in Europa dopo la fondazione della Seconda Internazionale.

CITTÀ E CAMPAGNA
Il suo Anti-Dühring (1878) – lo scritto polemico contro il professor Eugen Dühring, il quale, da positivista evoluzionista qual era, riteneva che, sul piano sociale, il socialismo fosse lo sbocco dell’evoluzione naturale, scritto al quale il Gramsci dei Quaderni del carcere guardava come un’opera in cui si riassumeva «la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme deteriori della filosofia della prassi» e che «potrebbe essere un Anti-Croce da questo punto di vista» – diventò per il movimento socialista europeo della fine del secolo XIX un punto di riferimento imprescindibile sul piano teorico. Ma ancora oggi c’è qualcosa in quest’opera engelsiana, spesso guardata con sospetto se non considerata del tutto obsoleta, che parla a chi ha a cuore le «magnifiche sorti e progressive dell’umanità»: il richiamo alla società socialista, in cui l’armonia delle forze produttive avrebbe consentito un modo diverso di utilizzare la produzione stessa, trovava il suo modo di realizzazione, scrive Engels, «con la fusione fra città e campagna», che avrebbe potuto eliminare «l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con quella fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante, non le malattie».
Nell’ultimo Engels, la dialettica diventa la legge di sviluppo fondamentale della natura e della storia proponendosi come scienza non soltanto delle leggi generali del movimento, e perciò del mondo esterno, ma anche del pensiero umano stesso. Si tratta della teoria del pensiero come «rispecchiamento», ossia di un indirizzo metodologico a pensare in termini di complessi reali di vita. Tutto questo aspetto della riflessione engelsiana fu riassunto in un’opera incompiuta, pubblicata soltanto nel 1925 in Urss con il titolo Dialettica della natura.
Lo stalinismo fece propria la posizione engelsiana considerando le leggi del materialismo come applicazioni delle leggi dialettiche della natura. Ma si tratta di un accordo formale. Nella sostanza, la dialettica della natura è parte della teoria engelsiana della rivoluzione nel senso che fornisce ai proletari un contributo affinché si liberino dalla dipendenza da idee metafisiche e comincino a pensare dialetticamente. Lo stalinismo, invece, concretizza l’elemento di emancipazione in un oggettivismo che è la manifestazione dell’impotenza dei soggetti.


APPARTENENZE
Eppure anche qui, quasi a voler portare verso una conclusione il suo ragionamento eco-logico, iniziato nel 1845 e proseguito nel 1878,Engels matura ed espone un argomento di attualità evidente: «Ad ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo da essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo». Si tratta della eco-appartenenza, del fatto che siamo della natura e nella natura. Engels pone le basi di una sorta di naturalismo materialistico ante litteram, di una dialettica profonda fra uomo e natura senza surrettizie interpolazioni metafisico-religiose.
Ed Engels in Italia? La sua eco si avverte nelle risposte di Labriola alle sue, purtroppo disperse, lettere. La sua presenza in Gramsci è già stata testimoniata in questa sede (ma il discorso sarebbe molto più lungo e complesso). Di monografie specifiche, oltre quella di Mondolfo del 1912, se ne ricordano altre due, entrambe dell’inizio degli anni Settanta del secolo scorso: quelle di Eleonora Fiorani e Giuseppe Prestipino. Ernesto Ragionieri si rammaricava nel 1970 di una «sottovalutazione di Engels» in Italia e Timpanaro, qualche anno dopo, aggiungeva che quando i marxisti devono sbarazzarsi di qualcuno, «questo qualcuno è Friedrich Engels».
Meglio rivolgersi a Calvino che, scrivendo dello stato delle città italiane alla metà degli anni 70, richiamando il saggio engelsiano del 1845, descriveva l’autore nel modo seguente: «Perché solo lui, Friedrich Engels, riunisce in sé parecchie condizioni che gli altri non avevano: uno sguardo che proviene dall’esterno (in quanto straniero) ma anche dall’interno (in quanto appartenente al mondo dei padroni), un’attenzione al «negativo» propria della filosofia di Hegel in cui s’è formato, una determinazione critica e demistificatoria cui lo porta l’orientamento socialista». Insomma, teoria e prassi.
A Wuppertal, la situazione è piuttosto addormentata, anche la famosa monorotaia che percorre tutta la valle funziona solo nel weekend. I musei sono chiusi, così come i cinema e le sale concerti.
Il bar del centro sociale Utopia è fermo, lì davanti sulla pista ciclabile che percorre i tragitti dei treni minerari dismessi, soltanto un bio-box per caffè da portare via, qualche cassetta di birra quasi da proibizionismo che passa di mano, e gli studenti di biologia che insistono a far germogliare piantine e ortaggi nelle serre sul tetto illuminato di notte al neon del loro container. Di giorno sparuti gruppetti di cittadini e bambini cercano qualche raggio di sole, sulle panchine fatte con i pallet.
In città non succede granché, una minoranza quasi maggioranza turca che vive a Barmen e Volkwinkel lavora e sonnecchia con i sussidi familiari che concede il governo (ma ormai scarseggiano). Negli ultimi anni, sono arrivati molti migranti siriani, per l’abbondanza di case disponibili. Per l’emergenza sanitaria, il teatro di marionette è stato chiuso, al teatro dell’opera il Flauto Magico è stato rimandato, il nuovo auditorium/teatro di Pina Bausch ancora non ha riaperto. Gli unici punti di aggregazione sociale (spettrale con le mascherine) sono i supermercati alimentari e quelli di attrezzature per la casa (Rewe, Lidl, Akzenta, Hornbach, Bauhaus e Aldi). Tutto il resto si svolge in una dimensione privata, casomai si passeggia nei boschi e si va in bicicletta sulle piste ciclabili e all’orto botanico. La viabilità della lunga Friedrich Engels Allee, che percorre tutta la valle, scivola parallela alla Swebeban con regole a corsie preferenziali germaniche e via così, su scattanti automobili, lavori in corso e ripidi sali e scendi.

RITORNO ALLA NATURA
Con la dismissione delle miniere di carbone e con la crisi dell’industria tessile (da dove tutto era iniziato) c’è stato un progressivo svuotamento di risorse ma anche di buone politiche per il ritorno della natura. Nel Bergische, verso le sorgenti del Wupper (in passato era chiamato «il fiume a colori» per via dell’inquinamento dovuto allo sbiancante e alle tinte dei tessuti), il piccolo fiume si sta per salvare: per un secolo è stato aggredito, ma ora scorre di nuovo veloce verso il Reno, sono tornati anche i salmoni.
Il Nord Reno Westfalia ha subito una grande trasformazione e Wuppertal è diventata una delle città più verdi della Germania, anche la grande fabbrica della Bayer, con la sua altissima ciminiera senza fumo, sonnecchia nella valle (forse verrà trasferita altrove). La città, che durante la seconda guerra mondiale è stata per due volte pesantemente bombardata, oggi vive una stagione di transizione quasi post industriale sociale, verso un non ben definibile sviluppo informatico. Chissà se gli studenti torneranno nei campus delle super specializzate università. Intanto, su alcune facciate di palazzi in città ci sono gli Angel Engels con la barba e le citazioni sulla religione, sulla morale e l’ideologia.
Friedrich Engels sta lì, in versione statua, da solo, ma i bambini ci girano intorno in bicicletta, qualcuno gioca a bocce nel campetto lì a fianco, altri passano il tempo sulle panchine nei dintorni. Di cinesi, quest’anno, neanche l’ombra.
Qui altre foto del reportage: https://www.youtube.com/watch?v=kLEkpABTXhw
Qui il sito per le celebrazioni dei 200 anni dalla nascita di Engels:https://www.wuppertal.de/microsite/engels2020/index.php


06– COVID19 e DOVEVAMO DIVENTARE MIGLIORI. Siamo invece al “MORS TUA VITA MEA” pur di avere la sensazione di poter vedere un po’ di luce. La libertà dello svago mentre si muore di Covid. La tensione affettiva di marzo sembra spenta, lasciando il posto a una oscena e impudica curiosità per feste e consumi.

Chissà cosa si è rotto dalla prima alla seconda ondata, cosa è scattato nei cuori, cosa si è stuellato nella testa e cosa ha dilagato nelle redazioni di giornali e televisioni.
L’Europa esce dal ritorno infernale del virus con numeri che non lasciano adito a troppe interpretazioni: al 7 dicembre erano 349.316 i morti ufficiali (secondo l’Ecdc). Solo che mentre questa primavera giustamente si facevano i conti con il dolore, con gli ospedali che scoppiavano, con un’intera generazione che si ritrovava a rischio e che faceva i conti con le proprie fragilità ora quel senso di riflessione, quella tensione sociale e affettiva sembra essersi spenta, addirittura convertita a un’impudiche oscena curiosità per cenoni, feste, lustrini e acquisti compulsivi.
Non si discute più dei malati che muoiono soli, non si discute nemmeno delle migliaia di famiglie che si ritrovano a chiudere l’anno facendo i conti con un lutto: le sedie che rimarranno vuote a Natale sono considerate un argomento troppo poco goloso per finire nelle pagine e allora meglio buttarsi su altro, in quest’orgia di pareri sulle piste da sci, sulle vacanze, sulla presunta dittatura sanitaria che impedisce di ammassare in un cenone che sputa regali.
Ne saremmo dovuti uscire migliori e invece ne stiamo uscendo invertiti. Siamo invertiti nella solidarietà sociale, di fronte a numeri che fanno spavento come quei 500mila posti di lavoro che si sono dissolti durante la pandemia e che pongono migliaia di famiglie di fronte all’incubo di non avere più un reddito, siamo invertiti nel non essere più umani, abituati come ci siamo abituati a contare i numeri come se fossero semplicemente cifre che scorrono ogni sera nei bollettini e che non riusciamo a quantificare, ci siamo invertiti perfino con la memoria come se non sapessimo che questa malattia è la vestale della solitudine, della preoccupazione amplificata dal divieto di contatti e di rapporti, in terapie intensive che solo ora cominciano a svuotarsi lentamente e che hanno sottoposto a un terrificante stress affettivo migliaia di famiglie.
Qualche giorno fa il presidente della Liguria Toti ha rilasciato una lunga intervista in cui chiedeva che venissero aperti gli impianti sciistici perché «i cittadini hanno diritto di godere delle proprie libertà». Ha detto proprio così. Un politico di primo piano del panorama nazionale ha avuto lo stomaco di usare la parola “libertà” in un’epoca di affossamento de la dignità applicandola allo svago. Lo svago è tutto, il bicchiere di spumante è il simbolo del loro stare al mondo, il cin cin è la forma di socialità che disperatamente anelano.
Quando ci riprenderemo dopo questa pandemia ricorderemo il Natale 2020 come quel periodo in cui mentre un pezzo di Paese rimaneva schiacciato dalle disuguaglianze sempre più disuguali un altro pezzo si prendeva la briga di organizzare feste nelle suite, di accalcarsi a Riccione per le nuove luminarie, di scavalcarsi in fila alle porte di qualche grande magazzino e di reclamare il diritto allo svago fottendosene di tutto quello che c’è intorno.
Se è vero che la politica si giudica dalle priorità che mette in campo e che decide di discutere allora queste feste del 2020 ce le ricorderemo anche per questo: un irrispettoso, continuo dibattito sulle lucine dell’albero mentre il Paese (ce lo dice il 54esimo rapporto Censis) continua a incattivirsi sempre di più: il 38,5% degli italiani si dice pronto ad accettare limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione e alla possibilità di iscriversi a sindacati e a associazione in cambio di un po’ di benessere economico. Siamo al “MORS TUA VITA MEA” pur di avere la sensazione di poter vedere un po’ di luce. E non stupisce che mentre questi cianciano sull’orario in cui far nascere il bambinello ci sia il 31,2% che vorrebbe che chi si è ammalato per comportamenti irresponsabili non venga curato. E così via in un turbine di ferocia affilata che si consuma perfino tra generazioni: secondo il 49,3% dei giovani è giusto che gli anziani vengano curati solo dopo di loro.
E alla fine risulta perfino naturale, scorrendo i numeri, che il 43,7% si dichiari favorevole alla pena di morte nel nostro Paese. E la percentuale sale addirittura al 44,7% tra i giovani. Fanno finta di non vederlo ma la pandemia ha creato un Paese segato in due: da una parte ci sono quelli che lamentano l’impossibilità di sollazzarsi e dall’altra ci sono quelli che hanno timore di non sopravvivere. E quando si accende una guerra così feroce sotto la brace significa che non c’è da aspettarsi nulla di buono. E questi ancora s’accapigliano sul vino da portare in tavola l’ultimo giorno dell’anno. Che umanità…


07 – MARIO PIERRO: L’INCHIESTA – IL CAPITALISMO DELLO CHOC PANDEMICO – L’INCHIESTA. DAL CAPITALISMO DEI DISASTRI AL CAPITALISMO DELLO CHOC PANDEMICO. LE ANALISI SUL MONDO GLOBALE NEL DAL CAPITALISMO DEI DISASTRI AL CAPITALISMO DELLO CHOC PANDEMICO. Le analisi sul mondo globale nel 18esimo rapporto sui diritti globali. Il 2020, con la pandemia di Covid-19, ha portato e sta residuando un drastico peggioramento nei diritti e nelle libertà, così come nella condizione sociale ed economica di milioni di cittadini in molte parti del mondo e ha mostrato con maggior evidenza la pericolosa vulnerabilità del sistema democratico e dello Stato di diritto rapporto sui diritti globali. Il 2020, con la pandemia di Covid-19, ha portato e sta residuando un drastico peggioramento nei diritti e nelle libertà, così come nella condizione sociale ed economica di milioni di cittadini in molte parti del mondo e ha mostrato con maggior evidenza la pericolosa vulnerabilità del sistema democratico e dello Stato di diritto, di Mario Pierro

Dal capitalismo dei disastri al capitalismo dello choc pandemico. È questa la chiave di lettura offerta dal diciottesimo Rapporto sui diritti globali, coordinato da Sergio Segio e intitolato «Il virus contro i diritti» che ripercorre i dodici mesi che hanno sconvolto l’intero pianeta, gli equilibri economici, sociali e ambientali.

Ogni crisi è ambivalente, e quella del Covid lo è senz’altro. L’isolamento fisico è una dolorosa necessità per salvare vite umane, ed è in realtà un meccanismo politicamente delicato e gestito in maniera sconcertante e imperfetta dai governi. e, allo stesso tempo, è un laboratorio permanente e altamente redditizio di un futuro senza contatto fisico. basti qui pensare al boom dei fatturati e dei rendimenti in borsa delle piattaforme digitali. Al 19 giugno 2020, si legge nel rapporto, Amazon era valutata 1.317,3 miliardi di dollari, il 43,8% in più rispetto all’inizio dell’anno; Microsoft 1.473 miliardi (+22,4%); Apple 1.523,9 (+16,8%); Facebook 671 miliardi (+14,6%); Alphabet 991,1 miliardi (+7,4%); PayPal 192,4 miliardi (+51,5%); Netflix 196,9 (+38,9%); Zoom 66,8 miliardi (+255,1%). Una tendenza, peraltro, in rapidissima evoluzione: già ad agosto 2020 Apple ha superato una capitalizzazione di 2.000 miliardi di dollari, un primato a Wall Street. In attesa che i reiterati annunci sul rifinanziamento dei sistemi della sanità pubblica, massacrati da tagli da vent’anni, le vincitrici della crisi sono le piattaforme digitali. Così Naomi Klein ha definito un futuro prossimo che «sarà gestito dall’Intelligenza Artificiale, ma che in realtà sarà tenuto insieme da decine di milioni di lavoratori anonimi nascosti nei magazzini e nei data center, ammassati in uffici dove si moderano i contenuti o in fabbriche di elettronica, nelle miniere di litio, nei complessi industriali, nei mattatoi e nelle prigioni, esposti al- le malattie e all’ipersfruttamento. È un futuro nel quale ogni nostra mossa, ogni nostra parola, ogni nostra relazione sarà rintracciabile, tracciabile, con una miniera di dati immagazzinati grazie a una collaborazione senza precedenti tra governi e giganti della tecnologia». Nelle crisi si eccede con le distopie. queste ultime crescono incontrastate in un immaginario subalterno. Ma spesso sono realistiche.

L’IMPUNITÀ DEI DOMINANTI
È in questo quadro che va inteso il concetto chiave del rapporto sui diritti globali di quest’anno: l’impunità dei dominanti. Prendiamo la gestione della pandemia sulla quale anche la magistratura italiana ha aperto diverse inchieste. Le morti per Covid-19 nelle residenze degli anziani in Italia o in Francia; quelle provocate dai contagi sui luoghi di lavoro, o in transito per raggiungerli, causati dalla necessità di sopravvivere; le morti causate dalla radicalizzazione delle diseguaglianze e della lotta di classe sono alcuni dei casi che confermano l’esistenza dei “crimini di sistema”. Per il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli il crimine di sistema è un illecito giuridico compiuto dai dominanti, dai governanti e da tutti coloro che esercitano un potere politico, sociale ed economico che crea le premesse, e gestisce le conseguenze, di eventi catastrofici, sistemici o pianificati a seguito di politiche precise.

Alla base di questi crimini c’è un vuoto di diritto, ben più che di diritto penale, dovuto a molteplici fattori, tutti legati all’odierna globalizzazione della sola economia e al carattere ancora locale della politica e del diritto: l’assenza di una sfera pubblica all’altezza dei poteri economici e finanziari in grado di limitarne e controllarne l’esercizio; il conseguente ribaltamento del rapporto tra economia e politica, in forza del quale non è più la politica che governa l’economia, ma è l’economia che governa la politica, ovviamente a vantaggio dei soggetti economicamente più forti; il nesso, infine, tra l’impotenza della politica e l’onnipotenza dei poteri economici globali. Questo scarto danneggia sempre più gravemente le persone e i loro diritti costituzionalmente stabiliti.

“L’attacco ai diritti e il desiderio di impunità non sono nati durante il periodo della pandemia – sostiene Antonio Panzeri, Presidente Association Against Impunity and for Transitional Justice – Vengono da lontano, ma è indubbio che l’uso politico, in tante parti del mondo, ha accentuato questo processo. Per questo è indispensabile mostrare una più forte attenzione. La violazione dei diritti umani non è solo una violazione di una legge morale, ma una vera e propria violazione della legalità, perché i diritti umani non sono solo un sentimento etico, ma sono diritti riconosciuti, sanciti, protetti e garantiti da trattati, normative, accordi internazionali che hanno il valore di legge”.

CRIMINI DI SISTEMA
Il mondo dentro il virus sta amplificando a dismisura questi crimini di sistema. È tale persino l’idea che il Covid «non è stato responsabilità di nessuno». quante volte in questi mesi abbiamo ascoltato questa frase da tutti i governanti e i dominanti, a cominciare dagli esponenti dell’attuale governo. Sembra proprio che questa pandemia sia semplicemente accaduta come un disastro naturale, un incidente catastrofico imprevedibile, uno “choc esogeno” che si è abbattuto su un sistema economico globale che funzionava alla perfezione. Tale convinzione è una verità di comodo che non rispecchia affatto la realtà complessa in cui questa pandemia si è generata e si è trasmessa.

Il virus non è un alieno giunto dallo spazio, non è accaduto per errore e la sua diffusione devastante non è il prodotto di uno “choc” imprevisto, ma la conseguenza strutturale della globalizzazione che ha avvolto il mondo con le sue catene del valore collegate dagli aerei, ad esempio. Non solo la nuova famiglia dei coronavirus è il prodotto della distruzione delle foreste, della trasformazione degli ecosistemi, dell’inurbamento delle campagne e della convivenza forzata tra umani, animali e pipistrelli. Esso è anche il risultato di una nuova relazione tra il sistema produttivo dell’agro-business e delle megalopoli. Rimuovere queste caratteristiche strutturali nella genesi e nella diffusione dei coronavirus che si sono consolidate nell’ultimo ventennio, insieme ad altre epidemie come la SARS, è una strategia fondante del “capitalismo dei disastri” ed è funzionale alla nuova fase di ristrutturazione e investimenti che non intervengono sulle cause della pandemia ma solo sui suoi effetti contingenti. Questo è il modo ideale per riprodurre fenomeni patogeni ancora più devastanti di quello attuale. Come si chiama questo? Crimine di sistema, appunto.

“Parliamo di un sistema criminale che produce morti su scala industriale – sostiene il coordinatore del rapporto diritti globali Sergio Segio – questo rapporto aiuta a comprendere la vastità di un sistema di crimini contro l’umanità, non solo quelli tradizionali. L’industria bellica è uno dei sistemi criminali che producono morti su larga scala. È vorace e aggressivo anche durante la pandemia. Nella prossima legge di bilancio in Italia sono stati stanziati sei miliardi di acquisti di armi. Nel “Recovery plan” italiano sono al momento previsti solo 9 miliardi per la sanità dopo tutto quello che abbiamo passato in questi mesi. Nel 2019 la vendita di armi è aumentata a 361 miliardi di dollari, oltre l’otto per cento. In Italia la Leonardo è cresciuta del 18 per cento con 11 miliardi di ricavi. Ci sono industrie che non producono solo lavoro e crescita, ma producono guerra e distruzione che colpiscono le popolazioni civili e spesso i bambini come nella guerra nello Yemen alle cui stragi ha collaborato anche l’Italia con una fabbrica di bombe in Sardegna: la RWM. Solo nel giugno 2019 il parlamento italiano ha sospeso questa produzione. Finirà questo dicembre senza dare al momento garanzie che non riprenda a produrre”.

“Sono crimini impuniti fare affari con il governo egiziano – continua Segio – La procura di Roma ha assodato una precisa responsabilità degli alti vertici dei servizi segreti egiziani e dunque del governo di Al Sisi insignito da Macron della legione d’onore. Non si ritira l’ambasciatore italiano in Egitto perché ci sono enormi affari da 10 miliardi di euro nei prossimi anni. Non sempre questo è un problema dei governi. Ci sono diverse amministrazioni comunali che hanno tolto gli striscioni che chiedevano giustizia per Regeni, come se fosse una battaglia di parte per un caso di torture e impunità. E poi c’è il caso di Patrick Zaki a cui è stata prorogata la detenzione. In Egitto ci sono 60 mila prigionieri politici, solo ad ottobre 2020 ci sono state 50 condanne a morte. In Turchia, un paese al quale l’Unione Europea ha appaltato il blocco dei migranti che fuggono dalla guerra in Siria. In questi anni è stata lasciata libera di armare l’Isis e di impadronirsi dei territori nel nord est siriano o allargare la sfera di influenza in Libia dove controlla la guardia costiera responsabile dei lager dei migranti e dei loro viaggi in mare. Il Consiglio europeo sta prendendo in considerazione serie sanzioni, ma si tratterà di rendere efficaci gli annunci politici. In questo momento nelle carceri turche sono prigionieri 260 giornalisti e 122 cittadini reporter, numerose testate sono state chiuse d’autorità. Sindaci e parlamentari in carica sono stati incarcerati. il 26 novembre c’è stato un altro processo contro il famigerato golpe di due anni fa, un pretesto usato da Erdogan per scatenare una guerra interna che ha prodotto 300 mila arrestati e 150 mila epurati, persone costrette a lasciare il loro lavoro. Tutto ciò avviene grazie a complicità e un uso di una parola passepartout: “terrorismo”, usata per reprimere i diritti umani”.

I DIRITTI SOCIALI A PARTIRE DALLA SALUTE
“Il virus ha trovato una società globale dove le premesse per avere esiti drammatici della pandemia c’erano tutti – aggiunge Susanna Ronconi, ricercatrice e autrice di un capitolo del rapporto – Il diritto alla salute è uno di quelli più violati in questo mondo. In questa cornice la salute delle donne è sempre più in pericolo, basti pensare alla moltiplicazione dei divieti all’aborto inPolonia o in molti stati Usa. E poi ci sono i crimini contro le donne a causa delle violenze maschili come si è visto durante il lockdown. La salute dipende dal reddito, lavoro, qualità vita urbana o della condizione abitativa. Tutte questioni che influiscono sulla salute ma che sono poco verificabili dal punto di vista della loro esigibilità. Questo avviene perché sono diritti sociali. Spesso si cerca di contrapporre diritti umani a quelli sociali. Ma gli uni senza gli altri non vanno. Il diritto alla salute mette inscena questa complessità. Lo vediamo nella competizione nazionalista sul vaccino contro il Covid. I paesi poveri lo avranno forse nel 2024. Questa è una tragedia universale. il vaccino non è un bene comune. Nelle ultime riunioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità tutti i paesi ricchi si sono opposti alla liberalizzazione dei brevetti. Sono state adottate risoluzioni deboli. La lotta contro i brevetti è stata vinta con l’accordo di doha sull’aids. È su questo che è possibile lavorare come movimento”.

Il rapporto sui diritti globali è ricchissimo di dati e di storie sull’impatto del virus sui sistemi sanitari e sulle società dei paesi più colpiti. Negli Stati Uniti, ad esempio, è stato studiato in tempo reale rispetto alla composizione di classe e di razza di una società profondamente impoverita e violenta contro tutti i subalterni. I dati sono sconvolgenti. Il tasso di ospedalizzazione per Covid è stato circa cinque volte superiore rispetto a quello dei bianchi non ispanici, i neri non ispanici hanno avuto un tasso di ospedalizzazione circa cinque volte superiore a quello dei bianchi non ispanici, gli ispanici o i latini hanno un tasso di ospedalizzazione circa quattro volte superiore a quello dei bianchi non ispanici. Perseguitata dalle violenze omicide della polizia per la parte di popolazione di origine afroamericana il bilancio dei primi mesi della pandemia è stato devastante.

Nel Michigan oltre il 40% dei decessi da Covid-19 sono stati afroamericani sebbene questi costituiscano solo il 14% della popolazione. Nell’Illinois il 43% delle persone morte a causa della malattia e il 28% di quelle che sono risultate positive erano afroamericane, un gruppo che costituisce solo il 15% della popolazione di questo Stato. In Louisiana, circa il 70% delle persone morte erano di colore, anche se solo un terzo della popolazione di quello Stato lo è. Anche il Nord Carolina e il Sud Carolina hanno riportato un rapporto tra residenti neri e residenti bianchi positivi al virus che superava di gran lunga la percentuale sulla popolazione generale. I neri erano sovrarappresentati tra i contagiati nell’area di Las Vegas e tra le persone positive al virus nel Connecticut. Solo nel Minnesota le persone di colore sono state infettate dal coronavirus a tassi approssimativamente proporzionali alla loro percentuale di popolazione. L’obbligo del lavoro in condizioni rischiose ha spinto inoltre a contagiarsi ancora di più. Per molte di queste persone non era infatti possibile restare a casa senza alcun tipo di assistenza. Il lavoro è apparso sia la salvezza che la condanna. In molti casi hanno dovuto continuare a fare i commessi nei supermercati, nelle fabbriche, nelle strade come i rider o gli operatori di autobus e treni. Molti si sono affidati ai mezzi di trasporto pubblico per recarsi al lavoro e si sono trovati in una situazione di esposizione forzata al vi- rus. In un momento in cui le autorità invitavano a restare a stare a casa, l’unico modo concreto per evitare il virus, i neri americani erano tra coloro che hanno svolto le attività ritenute “essenziali” e non potevano contare sul lusso di lavorare da casa.

LA FORMA DELLA CRISI NEL CAPITALISMO PANDEMICO
Questa violenza economica e sociale perpetuata sui subalterni durante le quarantene variabili in base alla curva epidemiologica e ai contraddittori interessi dei politici alla ricerca disperata di un consenso fa parte di un’analisi sulla crisi economica e le sue prospettive nel capitalismo dello choc pandemico. La presidente della Banca Centrale Europea Christine Lagarde ha confermato la stretta interdipendenza tra le politiche monetarie, finanziarie, fiscali e industriali e la situazione pandemica. Dai vaccini anti-Covid, trovati a tempo di record, dipende apparentemente la durata di una crisi che ha colpito in maniera asimmetrica sia la domanda che l’offerta del mercato, “congelando” l’economia globale e bloccando le catene lunghe del valore. In termini di prodotto interno lordo, e di quotazione dei mercati finanziari, questa spiegazione andrà verificata. Da queste analisi, che condizionano gli orientamenti di tutti i governi dei paesi colpiti dalla pandemia, manca quasi del tutto l’impatto di questo infarto economico – il secondo in soli 12 anni dalla crisi finanziaria del 2008 – sulle diseguaglianze sociali. A questo proposito è molto interessante la discussione sulla forma della crisi rappresentata attraverso le lettere. Sarà a V, a W, a L oppure a K? Per “V” si intende: crollo catastrofico dell’economia e ripresa velocissima; per “W” si intende un orientamento dell’economia chiaramente recessivo fatto di cadute e riprese ad alto tasso di incertezza e turbolenze; per “L” si intende crollo rovinoso e stagnazione prolungata; “K” è la lettera che sintetizza gli effetti indicati dalle altre e aggiunge un elemento in più: crollo, ripresa solo per pochi (i ricchi saranno sempre più ricchi; in poveri saranno sempre più poveri).E’ in questo scenario che si affermeranno gli effetti più duraturi della crisi nel capitalismo pandemico.

Per ora gli effetti sociali e sul lavoro di questa crisi economica innescata dalle politiche di contenimento del virus sono state parzialmente attutite da misure eccezionali. Basta pensare a quello che è stato fatto in Italia, un paese dove sono stati adottati interventi originali anche rispetto ad altri: il blocco dei licenziamenti e il prolungamento eccezionale delle casse integrazioni fino al 21 marzo 2021 per quanto riguarda il lavoro dipendente; un primo abbozzo occasionale, temporaneo e relativamente discrezionale di “bonus” per il lavoro autonomo terminati dopo appena tre mesi; una selva di aiuti categoriali per chi ha dovuto chiudere (e poi riaprire, e infine richiudere, così via) esercizi commerciali e attività micro-imprenditoriali; interventi insufficienti per il contrasto delle nuove povertà che stanno esplodendo. Questa realtà è variabile di paese in paese, i problemi legati all’accesso agli aiuti e alla loro insufficienza sono noti in paesi come gli Stati Uniti; l’aumento della disoccupazione e della precarietà di massa una realtà prospettica ormai assodata. In questa situazione emerge chiaramente l’assenza di una visione universalistica di un nuovo patto sociale contro la crisi e per la riforma strutturale dello Stato sociale. A questo proposito gli appelli giunti dall’Italia di estendere senza condizioni il cosiddetto “reddito di cittadinanza” verso un “reddito di base incondizionato” – o comunque verso un “reddito minimo garantito” – sono rimasti inascoltati.

LA DIDATTICA A DISTANZA E IL FUTURO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA
In questo quadro va fatto anche un discorso sulla condizione degli studenti, e dei docenti, messi in quarantena davanti ai computer con una modalità che abbiamo imparato a chiamare “didattica a distanza”. I danni psicologici, relazionali e sociali di questa decisione presa per contenere la diffusione del virus legata alla mobilità delle persone con i trasporti pubblici sono evidenti ma ancora da quantificare. Decisioni di questo tipo sono state prese negli Stati Uniti, anche se non in maniera univoca dai governatori e dai sindaci. Anche in città come New York che ha il sistema scolastico più ampio del paese la volontà del governatore Cuomo e del sindaco Di Blasio, protagonisti anche di conflitti su questo problema, è stato quello di tenere aperte le scuole in una situazione davvero molto difficile. Così è stato anche nella maggioranza dei paesi europei, tranne l’Italia. L’incresciosa gestione della politica scolastica nella pandemia ha portato il governo Conte ha chiudere ripetutamente, e per mesi, gran parte delle scuole, a cominciare da quelle superiori ancora oggi in didattica a distanza al 100%. L’incapacità di garantire il diritto allo studio, contrapponendolo al diritto alla salute degli studenti, dei docenti e delle famiglie, è stata più unica che rara rispetto alla situazione dei paesi europei vicini. Tutto questo sta avvenendo nonostante la forte mobilitazione del movimento “Priorità alla scuola” su un’agenda molto ampia che ha inserito l’istruzione in un articolato progetto con il ripensamento radicale della medicina territoriale, delle categorie neoliberali che hanno mutato l’istruzione negli ultimi vent’anni e del Welfare universalistico a sostegno delle famiglie precarie. Insieme alle reti mutualistiche che si sono organizzate in tutto il mondo, e anche in Italia, questo movimento è uno degli eventi politici più interessanti emersi nei primi mesi della crisi.
«Il virus – ha scritto il segretario della Cgil, Maurizio Landini nell’introduzione al rapporto – ha svelato crudelmente che uno sviluppo basato sulla finanza e sulla crescente diseguaglianza non è sostenibile né per l’uomo né per la natura, insieme alla fragilità del nostro sistema sociale e in particolare quello dell’assistenza delle persone».
ll Rapporto sui diritti globali è curato dall’associazione Società INformazione, in associazione con la Cgil ed è edito in Italia da Ediesse-Futura, In inglese con l’editore Milieu. Il progetto quest’anno è divenuto internazionale ed è in collaborazione dell’Association Against Impunity and for Transitional Justice, indagando lo «Stato d’impunità nel mondo». Ieri è stato presentato online al Parlamento Europeo.


08 – CILE, ELENA BASSO: SANTIAGO ZONA ZERO: «COME UNA GUERRA» CILE. VIAGGIO DENTRO LA PROTESTA CILENA, INIZIATA NELL’OTTOBRE 2019, CONTRO DISEGUAGLIANZE SOCIALI E VIOLENZE DELLA POLIZIA. NONOSTANTE LA VITTORIA AL REFERENDUM PER CANCELLARE LA COSTITUZIONE DI PINOCHET, LA MOBILITAZIONE PROSEGUE CON UN PEZZO DI CITTÀ TRASFORMATA DA MESI DI MANIFESTAZIONI SANTIAGO DEL CILE È IN GUERRA. Le proteste, iniziate nell’ottobre 2019 per l’aumento del costo del biglietto della metro, non sono mai finite; i disordini contro il governo crescono di giorno in giorno e gli abusi dei carabineros, denunciati sin da ottobre, continuano ancora oggi.

Le manifestazioni, che in poco tempo hanno portato in piazza oltre un milione di persone, chiedono eguaglianza sociale in un Paese dove l’1% della popolazione detiene il 26,5% della ricchezza e i diritti di base non sono garantiti.

OGGI I MANIFESTANTI chiedono le dimissioni del presidente Sebastian Piñera, giustizia per chi ha subito abusi dalle forze dell’ordine e il rilascio dei manifestanti incarcerati. Negli ultimi mesi si sono susseguite decine di denunce dei manifestanti che riportano visibili ustioni dopo essere stati colpiti dalle camionette idranti durante le proteste. I social sono invasi dalle foto dei corpi ustionati dei manifestanti e dalle loro testimonianze. È del 30 novembre scorso la denuncia del fotografo José Tomás Don-Oso che ha pubblicato su Twitter le foto delle ustioni presenti sulla schiena e sul collo.

Venerdì 27 novembre, sostiene José, stava lavorando come fotografo per documentare i disordini al centro di Santiago, quando è stato investito dall’acqua della camionetta idrante. Come ha spiegato su Twitter non era la prima volta, ma quel venerdì ha sentito immediatamente la pelle bruciare. E, nonostante indossasse caschetto, maschera antigas e impermeabile, le ustioni sono diventate in poco tempo così gravi che è stato costretto a recarsi all’ospedale. José ha denunciato l’accaduto alla Policía de investigaciones (Pdi).

Il primo dicembre il direttore dei Carabineros, Ricardo Yañez, ha dichiarato alla Cnn che si farà un’inchiesta a riguardo ma ha assicurato che si usano solo gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Nel frattempo l’Istituto nazionale dei diritti umani (Indh) ha richiesto alle forze dell’ordine di dichiarare pubblicamente la percentuale di sostanze chimiche che si trovano nell’acqua degli idranti. Il 7 dicembre scorso la Comisión Chilena de Derechos Humanos, presentando un report di 19 pagine, ha denunciato i carabineros per l’uso eccessivo della forza ed elementi chimici utilizzati per disperdere i manifestanti.

Nel report sono presenti vari casi fra cui quello di Vincente Rojas López, giornalista dell’agenzia Panoptik. Vincente ha dichiarato che lo scorso 13 novembre con altri colleghi, si stava avvicinando a un manifestante che i carabineros stavano arrestando quando diverse camionette idranti hanno iniziato a sparare ripetutamente contro di lui acqua mischiata ad agenti chimici.

VINCENTE, come i colleghi presenti, si era identificato come giornalista. In seguito si è accorto che poco distante gli agenti stavano portando via, in maniera violentissima con l’uso di gas e colpi di scudo, chiunque passasse nella zona (anche cittadini che non stavano protestando, ma solo camminando nell’area).

A quel punto si è diretto dal sottoufficiale in comando chiedendo perché stessero facendo quest’operazione. Gli ha risposto «Alle 8 stasera gioca il Cile, voglio vedere la partita». Vincente ha riportato gravissime ustioni al collo e agli occhi, come gli altri giornalisti presenti alla manifestazione, oggetto, per tutto il giorno, di attacchi con acqua e agenti chimici.

La capitale del Cile oggi esibisce le ferite di una città teatro di un conflitto: la cosiddetta «Zona Zero» dove si sono concentrate le proteste dal 2019 è un’area fantasma. Non c’è uno spazio bianco sui muri degli edifici, ogni centimetro è zeppo di graffiti e murales di protesta. A terra non ci sono più marciapiedi e si cammina sul terriccio, i manifestanti hanno usato le pietre come unica arma di difesa. La chiesa al centro della Zona Zero è stata data alle fiamme, come la maggior parte degli edifici circostanti.

DOVE C’ERA LA CUPOLA oggi c’è il vuoto e il rosone, con i vetri rotti, è circondato dalla scritta «Libertà per i Mapuche», il popolo originario del Paese. Bar, negozi e uffici sono tutti chiusi e al centro della zona campeggia un grande palazzo, un hotel di lusso che fino all’ottobre 2019 era in piena attività. Oggi è chiuso e il palazzo è devastato.

Ai muri moltissimi volti di donne con al braccio il pañuelo verde simbolo della lotta per la legalizzazione dell’aborto. Pareti intere sono occupate da manifesti con occhi disegnati, un riferimento agli oltre 400 manifestanti che hanno subito lesioni oculari durante le proteste. E ovunque si vede il viso di Camillo Catrillanca, il giovane leader mapuche ucciso con una pallottola alle spalle nel 2018 dai carabineros.

Oggi più che mai, Santiago rappresenta perfettamente la spaccatura di un Paese in cui le disuguaglianze sono sempre state forti. Ci sono due Santiago. Una è quella dei quartieri ricchi, dove si va ogni giorno a lavorare, a correre e le strade sono libere e pulite. E l’altra, della Zona Zero, in cui i marciapiedi, i lampioni e i negozi non ci sono più. I disordini e le manifestazioni di protesta ci sono quasi ogni giorno e portano in piazza migliaia di persone.

Il venerdì, giorno in cui le proteste si intensificano, si cammina tranquillamente nei quartieri limitrofi alla Zona Zero, sono moltissime le persone sedute al bar a godersi il sole dell’estate cilena. Ma avvicinandosi a Plaza Italia – epicentro delle proteste – si cominciano a sentire le sirene e gli occhi bruciano per i lacrimogeni. Le rive del fiume Mapocho sono circondate da scritte che chiedono giustizia per i manifestanti incarcerati e, nel punto esatto del ponte dove lo scorso 2 ottobre le forze dell’ordine hanno buttato giù un ragazzo di 16 anni, sono attaccate decine di bandierine per segnalare il luogo.

LA MAGGIOR PARTE dei manifestanti indossano occhialoni protettivi e maschere antigas. Sono donne e uomini di tutti i tipi e di tutte le età, moltissimi i giovani, anche minorenni.

Più ci si avvicina al centro delle proteste più si domanda a chi si allontana quale sia la situazione e quanti pacos (carabineros) ci siano. Una ragazza e un ragazzo spiegano che la situazione questo venerdì è molto pesante: «Non gli importa di nessuno, picchiano e portano via donne e minori. Siamo stati lì per ore». Hanno meno di 30 anni e gli occhi rossi a causa dei lacrimogeni e prima di andarsene dicono: «Scrivetelo che in Cile c’è un popolo che lotta».

Sul ponte arriva un carretto, sopra c’è un ferito protetto dai medici e dagli infermieri della «Brigada dignidad», volontari che dall’ottobre 2019 soccorrono i manifestanti feriti. Hanno scudi di lamiera con sopra croci azzurre e formano una barriera intorno al ferito. Al passaggio del carretto tutti i manifestanti si fermano e applaudono. Le proteste sono in diverse aree della Zona Zero, da una parte una banda suona canti di lotta popolare e blocca il traffico, in una via più centrale ci sono gli appartenenti alla «Primera Linea». Sono le ragazze e i ragazzi che da oltre un anno hanno deciso di frapporsi fra i manifestanti e i carabineros.

RISCHIANO OGNI GIORNO la vita: la repressione contro i manifestanti è particolarmente violenta. Sin dai primi giorni della protesta le forze dell’ordine hanno deciso di puntare con le pistole agli occhi dei manifestanti e sono moltissimi i casi di uomini e donne rimasti completamente ciechi. Sono decine i video di riprese di telecamere di sicurezza che mostrano pestaggi violentissimi che hanno causato polmoni perforati, paralisi e morti, più di 40. Non si contano poi le numerosissime denunce di torture e abusi (anche sessuali) compiuti nei commissariati.
Ma perché si sono sviluppati questi disordini in Cile? Cosa chiedevano i manifestanti? Nell’ottobre 2019 gli studenti hanno iniziato a protestare contro l’aumento del costo del biglietto della metro e in pochissimi giorni sempre più persone si sono unite a loro in Plaza Italia, al centro di Santiago, per manifestare contro il governo e chiedere le dimissioni del presidente Piñera.
In brevissimo tempo il movimento spontaneo è cresciuto e ha portato in piazza oltre un milione di persone: in un Paese in cui le disuguaglianze sono fortissime, l’aumento del biglietto è stata la cosiddetta «goccia che ha fatto traboccare il vaso».

I CILENI CHIEDEVANO inoltre una nuova Costituzione e sono riusciti a ottenerla il 25 ottobre scorso: il 78,12% dei partecipanti al referendum ha votato per cancellare la Costituzione redatta durante il governo militare di Augusto Pinochet. Dopo la vittoria però i disordini non si sono placati, perché in tutto questo tempo gli abusi dei carabineros non si sono fermati.
OGGI LA ZONA ZERO è ancora in piena guerriglia. Le barricate, fatte di rami di alberi, vanno a fuoco. Il cielo è nero per le nubi dei lacrimogeni e le camionette idranti corrono da una parte all’altra dei viali. I manifestanti ormai si sono dispersi, nei viali ci sono meno di una decina di persone, uomini e donne di diverse età, che protestano pacificamente. La camionetta idrante li raggiunge uno a uno e con la forza del getto d’acqua li scaraventa a terra e al muro. Corrono via spaventati con la pelle che brucia.

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