Per un dibattito sulle elezioni Europee 2024

«Ahi serva Europa, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!»

Dante nel ‘24

Può sembrare eccessiva la permutazione del famoso verso di Dante Alighieri nella Divina Commedia, canto VI del Purgatorio. Ma l’immagine dell’Europa emersa negli ultimi anni non è certo avvincente. Della narrazione di un’Europa faro di civiltà, di convivenza, di solidarietà e di pace, restano tracce sgualcite che vengono via via disperse dal vento di una storia implacabile: dopo la grande crisi del 2007-2008, infatti, si sono intensificati eventi che possono essere definiti dirompenti se non tragici.

Ma anche prima erano accaduti fatti preoccupanti: a partire dall’attacco alla Libia (a guida franco-inglese, con il consenso Usa), poi al commissariamento dell’Italia e all’abbandono della Grecia al suo destino (operazioni guidate dalla Germania e…dai mercati), quindi all’uscita della Gran Bretagna, infine alla partecipazione alla guerra in Ucraina (che però risale al 2013-14). Nello stesso periodo, milioni di persone hanno dovuto emigrare da un paese all’altro (ma sempre da est e da sud verso il centro-nord del continente) per trovare occasioni di lavoro più degne di quelle offerte dal paese di partenza, mentre altri milioni sono arrivati da altri continenti alle prese con drammi e catastrofi sociali, politiche e ambientali in cui il ruolo di diversi paesi europei non è secondario (guerre in Iraq, Afghanistan, Siria).

Lungo questi percorsi sulle rotte balcaniche e nel Mediterraneo decine di migliaia di giovani, di donne e di bambini hanno perso la vita.  Ad addendum, abbiamo anche dovuto assistere allo spostamento di queste tragedie nelle interne miserie di un confronto politico strumentale e tra i diversi paesi. Solo con gli effetti della pandemia, all’inizio di questo decennio, si era intravisto un recupero di coscienza comune e di solidarietà (limitata agli autoctoni); la successiva narrazione europea dell’invasione russa dell’Ucraina aveva poi rafforzato la sensazione di un’Europa che si erge unita di fronte al vile nemico esterno (Putin), come si era contrapposta al virus (Covid).

In realtà la “solidarietà pandemica” era scattata solo nel momento in cui gli effetti su alcuni paesi (Italia e Spagna) rischiavano di scaricarsi sull’intero apparato economico del continente. Così come, il succulento boccone dello spazio ex-sovietico ad est della Polonia faceva (e fa) gola a tutta la composita e contraddittoria compagine comunitaria guidata dai suoi oligarchi. Come dire che solo la presenza di qualcosa che si ritiene profondamente alieno può consentire una provvisoria unità della creatura europea. 

Ma le narrazioni tali sono. Essenzialmente, per intenderci, sono propaganda interna. E poi le narrazioni emanano da alcuni punti, non sono certo narrazioni dei popoli che compongono questa Europa; sono piuttosto narrazioni delle élites tecno-economico-mediatiche nazionali che la compongono, allorché trovano una quadra rispetto alle ambizioni e sollecitazioni interne ed esterne.

Ambizioni e sollecitazioni che non cessano di essere improntate ad una estrema competitività tra le rispettive classi dirigenti, su chi debba e possa guidare la macchina, e su quali siano i paralleli gradi di libertà “nazionale” che ci si vuole riservare nello scenario globale. La fine del patto franco-tedesco aggrava la situazione e crea ulteriori cedimenti.

Ma in questa permanente competizione interna, la guerra in Ucraina ha lasciato anche emergere qualcosa che per molto tempo era stata tenuta sotto coperta: il continente non è in grado di esprimere un proprio autonomo ruolo che non abbia acquisito il preventivo nulla osta dall’altra sponda dell’atlantico. La natura semi-coloniale dell’Europa è apparsa lampante.

Per la verità, non c’è stato neanche il minimo tentativo di assumere una qualche significativa posizione; neanche il sabotaggio del north-stream, con le sue innumerevoli conseguenze sistemiche sull’economia guida (Germania) e a cascata sull’intera Europa, ha sortito qualche effetto. Se non che, nell’impossibilità di gestire politicamente la situazione, la via d’uscita che dovrebbe salvare capra e cavoli, è il recupero di una sorta di keynesismo di guerra contro il nemico delle steppe mongole, così da rinverdire le antiche soluzioni prodotte dai conflitti imperialistici.

Soluzioni che annunciano un futuro terrificante perché quei valori attorno a cui la tribù dovrebbe ritrovare la sua perduta unità interventista a salvaguardia del famoso diritto internazionale e dei suoi principi costitutivi, sono stati cancellati, senza batter ciglio, dal genocidio in corso in Palestina che prosegue indisturbato anche in spregio alle determinazioni della Corte Internazionale di Giustizia, con sede sul suolo europeo.  Ora la questione è la seguente: per cosa si vota il prossimo giugno in Europa? Per quali prospettive ci si può impegnare? Dunque per quali attori politici si deve optare?

Le tendenze politiche che abbiamo di fronte sono note: le destre estreme avanzano dovunque e saranno in grado di determinare i nuovi equilibri nel Parlamento europeo (che tuttavia, è sempre bene ricordarlo, non è e non determina l’esecutivo). Allo stesso tempo, quanto descritto fino ad ora è il prodotto dell’inazione o del delirio delle classi dirigenti e degli equilibri precedenti. Si potrebbe affermare a ragione che “nessuno può ritenersi assolto”, anzi, è più storicamente probabile che queste tendenze nient’altro siano, se non il prodotto dell’operato di chi ha tenuto in mano le sorti europee fino ad oggi.

 E se il nuovo corso che si annuncia prevede, come sembra, il massiccio investimento nel riarmo continentale è chiaro che la riduzione dei sistemi di welfare, che hanno caratterizzato l’unicità del modello europeo nel secondo dopoguerra, registrerà una ulteriore accelerazione. E quindi una ulteriore polarizzazione sociale e territoriale, ulteriore concentrazione di ricchezza in poche mani, aumento delle povertà, smantellamento di ciò che resta dei servizi pubblici, ecc.

Alla fine di questa corsa, al di là di un new green deal che sembra sempre più la foglia di fico in mano alla finanza piuttosto che un serio tentativo di salvare il pianeta e chi lo abita (non si può infatti realizzare in un contesto di competizione strategica, ma solo di cooperazione internazionale), alla fine della corsa, dicevamo, si va solo a sbattere. Definitivamente. 

Prima che ciò accada, come popoli europei abbiamo quindi una unica possibilità: ridurre a più miti consigli le agitate e nervose classi politiche dirigenti in rotta e riorientare il dissenso crescente in tutte le nazioni del continente verso forze politiche non colluse con questa gestione e contro tutte le destre.

Fascismo e nazismo sono le soluzioni classiche approntate dal deep power nei momenti di crisi sistemica affinché svolgano il lavoro sporco. Sono soluzioni che funzionano passando per guerre e tragedie incommensurabili, come mostra la storia della prima metà del secolo scorso. Ma funzionano a spese dei popoli.

Dovremmo convintamente sottrarci a questa incudine, a questo destino già approntato e parallelamente invocare, esigere, le dimissioni in massa di coloro che ci hanno condotto fin qui. Tenendo presente che è proprio perché hanno fallito che ci ripropongono la guerra come soluzione.

Rodolfo Ricci

 

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