n°31 – 05-08-’23 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Sen. Francesca La Marca *(PD):ritardo erogazione servizi consolari a Toronto. La senatrice la marca (pd) “risposta del governo insoddisfacente”
02 – I comuni commissariati per mafia nel 2022Mappe del potere – Ogni anno in Italia vengono commissariati in media poco meno di 12 comuni per infiltrazioni della criminalità organizzata.(*)
03 – Roberto Ciccarelli*, Pnrr stralciati 16 miliardi.
04 – Enrico Tomaselli *: due guerre – guerra guerreggiata e guerra cognitiva sono due aspetti della guerra ibrida in corso, che non sempre sembrano in connessione tra loro.
05 – Nel Mondo
06 – Giorgia Ausiello (*)Ponte sullo stretto e interessi militari – Anche la Nato preme per costruire il ponte sullo Stretto, l’infrastruttura servirà a collegare le basi di Sigonella e Napoli

 

01 – Sen. Francesca La Marca *(PD):RITARDO EROGAZIONE SERVIZI CONSOLARI A TORONTO. LA SENATRICE LA MARCA (PD) “RISPOSTA DEL GOVERNO INSODDISFACENTE”
Alcuni giorni fa è arrivata la risposta del Sottosegretario al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Giorgio Silli, ad una mia interrogazione riguardante le problematiche nel rilascio di alcuni servizi consolari da parte del Consolato Generale di Toronto. Si tratta di una risposta che non soddisfa appieno le mie richieste e che soprattutto non fa luce sulle possibili soluzioni da adottare. » è quanto afferma la Senatrice del Partito Democratico, Francesca La Marca.
Nell’interrogazione depositata il 28 giugno, la Senatrice La Marca chiedeva il perché dei lunghissimi tempi di attesa di alcuni servizi fondamentali, e spesso essenziali, per la comunità italiana residente a Toronto e che dovrebbero essere erogati dal Consolato Generale.
« Nei mesi che hanno preceduto la mia interrogazione, erano numerose le richieste di aiuto che mi erano giunte – ha continuato la senatrice La Marca – e mi sono resa conto che la situazione era davvero fuori controllo. I servizi per cui i connazionali chiedevano sostegno erano i più svariati, dal semplice rilascio di un documento all’impossibilità di prenotare un appuntamento fisico presso il Consolato. Ho capito subito che il cortocircuito era dovuto essenzialmente a una carenza di personale e così mi sono attivata perché arrivassero due nuove unità di ruolo che andassero a integrare quello già esistente. Eppure, mi aspettavo una risposta più soddisfacente da parte del Ministero considerando che il Consolato di Toronto presta servizio al 50% dei connazionali presenti nel paese. I ritardi che essi stanno riscontrando comportano anche un allontanamento dei cittadini dalle istituzioni italiani operanti sul territorio.»
Si stima che le persone di origine italiana residenti a Toronto siano superiori alle 500.000 unità. Inoltre, essendo Toronto la capitale della provincia dell’Ontario, la sua circoscrizione territoriale è molto vasta. È infatti la seconda più grande circoscrizione consolare in Nord America e comprende la provincia del Manitoba, i territori del Nordovest e la stessa provincia dell’Ontario, eccezion fatta per la città di Ottawa e la regione dell’Outaouais, le contee di Carleton, Dundas, Glengarry, Grenville, Prescott, Russel e Stormont.
« Sono molte le cose che possono essere attuate per risolvere questa problematica. Ad esempio, il servizio “70 Plus”, di mia iniziativa e per il quale ringrazio il Console Generale Luca Zelioli per averlo accolto e attivato sin da subito, ha permesso alla fascia di connazionali al di sopra dei 70 anni di poter fare riferimento ad un canale dedicato per prenotare appuntamenti e ottenere servizi specifici. Ed è su questa linea che dobbiamo continuare a lavorare. Dal canto mio mi aspetto risposte più precise e chiarificatrici da parte del Ministero e nel frattempo continuerò ad adoperarmi per cercare di risolvere le problematiche che attanagliano un Consolato così importante e strategico come quello di Toronto e per migliorarne i servizi. » ha concluso la senatrice La Marca.
*(Sen. Francesca La Marca (PD) Ripartizione Nord e Centro America/Electoral College – North and Central America)

 

02 – I COMUNI COMMISSARIATI PER MAFIA NEL 2022 – MAPPE DEL POTERE – OGNI ANNO IN ITALIA VENGONO COMMISSARIATI IN MEDIA POCO MENO DI 12 COMUNI PER INFILTRAZIONI DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA. IL 2022 NON HA FATTO ECCEZIONE E A TUTT’OGGI SONO DIVERSE LE CITTÀ A GUIDA COMMISSARIALE, TRA CUI ANCHE UN CAPOLUOGO DI PROVINCIA, FOGGIA.

Nel 2022 sono stati commissariati 11 comuni per infiltrazioni della criminalità organizzata. Un dato in linea con la media annuale di 12 comuni.
Considerando anche gli enti commissariati in precedenza sono stati 36 i comuni sottoposti a gestione commissariale nel corso del 2022.
A essere particolarmente coinvolti sono comuni del mezzogiorno, ma non solo.
Più spesso si tratta di piccoli comuni, ma attualmente tra i comuni commissariati figura anche un capoluogo di provincia, Foggia.
In Italia, nel caso in cui si ritenga che le decisioni di un ente locale siano influenzate da interessi criminali, il governo può commissariare l’ente. Il procedimento prende avvio con una commissione di indagine prefettizia e, nel caso si emergano elementi concreti, si conclude per decisione del ministro dell’interno o del consiglio dei ministri (Tuel, articoli 143 e seguenti). Una volta adottata la decisione è con decreto del presidente della repubblica che vengono effettivamente sciolti gli organi politici del comune in questione.
La gestione del comune passa dunque sotto la guida di una commissione straordinaria di tre componenti nominati dal ministro dell’interno per un massimo di 18 mesi, prorogabili a 24.
È una misura di prevenzione straordinaria. Si applica quando esiste il reale pericolo che l’attività di un comune o di un’altra amministrazione locale sia piegata agli interessi dei clan mafiosi. Vai a “Come funzionano i commissariamenti per infiltrazioni mafiose”
Ma i comuni possono essere commissariati anche per ragioni completamente diverse, perlopiù di natura politica. Come le dimissioni della metà più uno dei consiglieri, oppure la mancata approvazione del bilancio. In questo caso però viene nominato un unico commissario che ha il compito di gestire l’ordinaria amministrazione fino alle elezioni, che dovranno tenersi alla prima occasione utile.
Si tratta dunque di due tipi di commissariamento molto diversi, che come tali devono essere interpretati. In questa occasione ci limiteremo ad analizzare i casi in cui il commissariamento è stato decretato a seguito di infiltrazioni criminali. A inizio luglio di questo stesso tema si è occupata una relazione del ministro dell’interno.

I COMUNI COMMISSARIATI TRA IL 1991 E OGGI
Nel corso del 2022 sono stati disposti 11 commissariamenti per infiltrazioni della criminalità organizzata. Un dato sostanzialmente in linea con la media degli ultimi 30 anni.
11,75 la media dei comuni commissariati ogni anno per infiltrazioni criminali tra il 1991 e il 2022.
Un dato in leggero calo rispetto al 2021, quando i comuni commissariati sono stati 14. I dati più recenti poi sembrano confermare che anche nel 2023 ci si potrebbe assestare su un numero simile. Tra gennaio e luglio 2023 risulta che siano stati commissariati altri 5 COMUNI.

I COMMISSARIAMENTI PER MAFIA DAL 1991 A LUGLIO 2023
Andamento dei provvedimenti di commissariamento per infiltrazioni criminali (1991- luglio 2023)
Tra il 1991 e oggi comunque il dato annuale ha subito variazioni considerevoli, da un massimo di 34 commissariamenti nel 1993 a un minimo di tre solo pochi anni più tardi, nel 1995.
Guardando alla media di ciascun decennio si può osservare che il valore più alto risale al periodo 2010-2019, quando in media si sono registrati 14,5 commissariamenti l’anno. Al secondo posto gli anni ’90 (12,22). In questo caso però il dato è frutto di un uso estensivo dello strumento nei primi anni dopo la sua istituzione, mentre nel periodo successivo si è molto ridotto.

LA RELAZIONE DEL MINISTERO DELL’INTERNO E I COMMISSARIAMENTI AL 2022
Nel corso del 2022 sono stati 36 gli enti che, almeno per un periodo, sono stati sottoposti a una gestione commissariale. Come abbiamo visto 11 sono stati sottoposti a questo provvedimento proprio nel corso del 2022, mentre gli altri 25 derivano da commissariamenti adottati negli anni precedenti.

36 I COMUNI CON UNA GESTIONE COMMISSARIALE NEL 2022.
QUESTO DATO PUÒ SEMBRARE TUTTO SOMMATO CONTENUTO SE SI CONSIDERANO I QUASI 8MILA COMUNI ITALLIANI. TUTTAVIA I RESIDENTI DI COMUNI COSÌ AMMINISTRATI NEL 2022 SONO STATI QUASI 750MILA, OVVERO L’1,3% DI TUTTA LA POPOLAZIONE ITALIANA.
A essere particolarmente esposte risultano la Calabria, con 11 comuni commissariati, la Campania (8), la Sicilia e la Puglia (entrambe 7). Ma anche 2 comuni del Lazio hanno seguito questo stesso percorso (Anzio e Nettuno) e 1 della Valle d’Aosta (Saint-Pierre). Come si può notare dunque il fenomeno riguarda principalmente regioni del mezzogiorno, anche se non solo. Negli scorsi anni in effetti i commissariamenti hanno riguardato anche altre regioni settentrionali come il Piemonte, la Lombardia, la Liguria e l’Emilia-Romagna.
Nella maggior parte dei casi si tratta di comuni piccoli, sotto i 10mila abitanti (18), tra cui Cosoleto di soli 916 abitanti. Quindici invece i comuni sotto i 50mila abitanti e 3 quelli più grandi. Si tratta di due realtà campane (Castellammare di Stabia e Marano di Napoli) nonché di una grande città capoluogo di provincia, ovvero Foggia.

• LE DIMENSIONI DEI COMUNI COMMISSARIATI NEL 2022
• I COMUNI COMMISSARIATI PER INFILTRAZIONI DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA NEL 2022 DIVISI PER FASCIA DI POPOLAZIONE

LA PRASSI DELLE PROROGHE E ALTRI POSSIBILI ESITI
Come anticipato il procedimento che può portare al commissariamento inizia con una relazione prefettizia. Dalle conclusioni tratte possono quindi delinearsi 3 percorsi.
Se dalla disamina non emergono gli elementi richiesti il procedimento ha termine con un decreto del ministero dell’interno che ne accerta la conclusione. Nel 2022 però nessuna delle relazioni prefettizie ha avuto questo esito.
Il secondo caso riguarda quelle situazioni in cui sono stati rilevati condizionamenti dell’attività amministrativa del segretario generale o di altri dirigenti o funzionari dell’ente. In questi casi vengono presi tutti i provvedimenti necessari a interrompere i condizionamenti. Tra questi la sospensione o la destinazione ad altro incarico dei funzionari in questione. Nel corso del 2022 sono stati adottati tre provvedimenti di questo tipo, nei confronti di altrettanti enti commissariati (San Giuseppe Vesuviano, Soriano Calabro e Nettuno). L’adozione di questi provvedimenti tuttavia può essere disposta anche in assenza del commissariamento.
Le proroghe dovrebbero rappresentare delle eccezioni ma nella pratica rappresentano la prassi più frequente.
Quanto al commissariamento vero e proprio, come anticipato questo dovrebbe avere una durata massima di 18 mesi. Tuttavia dei 36 comuni in questione ben 26 hanno ricevuto un provvedimento di proroga. In altri 9 invece la scadenza è prevista per la fine del 2023 o l’inizio del 2024. Eventuali proroghe quindi verranno emesse durante i prossimi mesi. Attualmente quindi si può dire che di 36 comuni commissariati solo 1, Ostuni, ha concluso il periodo commissariale entro i 18 mesi previsti. Malgrado la legge preveda che le proroghe siano adottate solo in casi eccezionali quindi sembra questa la prassi effettivamente seguita in via ordinaria.
Il decreto di scioglimento conserva i suoi effetti per un periodo da dodici mesi a diciotto mesi prorogabili fino ad un massimo di ventiquattro mesi in casi eccezionali.

– Tuel, articolo 143 comma 10
In ogni caso trascorsi 24 mesi la gestione commissariale deve necessariamente terminare. È quanto accadrà ad esempio per il comune di Foggia ,che andrà alle urne il prossimo 22 e 23 ottobre. E questo nonostante la commissione abbia descritto un “ambiente reso estremamente difficile per la presenza della criminalità organizzata”.
Il coinvolgimento della macchina amministrativa, del resto, appare cruciale nel ritorno alla normalità dell’ente. Sotto questo punto di vista, il 45% delle commissioni ha riscontrato un atteggiamento ambivalente nelle Pa locali. Con una parte del personale collaborativa ed aperta, e un’altra parte indifferente o addirittura ostruzionistica.
Al contempo nel 48% dei casi un atteggiamento inizialmente distaccato è divenuto col tempo sempre più collaborativo.
*(Fonte: Open Polis)

 

03 – Roberto Ciccarelli*, PNRR STRALCIATI 16 MILIARDI A SANITÀ, COMUNI E AMBIENTE
COME I NOSTRI LETTORI SANNO BENE, NON SIAMO MAI STATI TENERI CON IL COSIDDETTO PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA” (PNRR, UN MAESTOSO E NEANCHE NASCOSTO MODO DI RISCRIVERE IL RUOLO E LA CONFIGURAZIONE PRODUTTIVA DI QUESTO PAESE DENTRO UNA GENERALE RISTRUTTURAZIONE DEL “MODELLO SOCIALE EUROPEO” MIRANTE A FAR SCOMPARIRE PROPRIO GLI ULTIMI RESIDUI DEL LATO “SOCIALE” A FAVORE DEL PROFITTO.
Il meccanismo fondamentale del Pnrr – prestiti contro “riforme” indicate una per una, dentro uno scadenzario molto rigido che lega l’erogazione di singole “rate” a realizzazioni effettuate – è infatti la modalità regina con cui l’Unione Europea ha fin qui costretto i singoli Paesi ad applicare politiche decise a prescindere – programmaticamente – dai diversi risultati elettorali.
Il paese che più di tutti ha pagato questo modo di superare la “sovranità popolare” a favore della “sovranità dei mercati” è stato, com’è noto, la Grecia nel 2015, senza peraltro mai superare la crisi che l’attanagliava, ma consegnandola infine all’estrema destra.
Stupisce – molto relativamente, sia chiaro – che questa stessa Unione Europea approvi benevolmente, dopo lunghe trattative, una riscrittura del Piano che modifica ben 144 “punti fermi” su 349. Non solo per il numero, quanto per i beneficiari di questa riscrittura. Che sono poi l’asse portante del “blocco a-sociale” della destra italiana.
Il punto più evidente è il dirottamente di almeno 16 miliardi dai pochi obiettivi tutto sommato aventi una logica non regressiva (opere per contrastare il dissesto idrogeologico, implementare la rigenerazione urbana o rivitalizzare almeno un po’ la sanità pubblica) per altri interventi definiti “infrastrutturali” dietro cui si intravede senza filtro il volto di cementificatori, vampiri della sanità privata e palazzinari d’assalto.
Il “via libera” dato infine da Ursula von der Leyen sta lì a dimostrare che la partecipazione entusiasta della destra italiana alle politiche euro-atlantiche – dopo tanti anni di “sovranismo recitato” a fini elettorali – val bene qualche deformazione dello schema disegnato tre anni fa.
Il “compromesso”, in fin dei conti, avviene sulla pelle di lavoratori, disoccupati, pensionati, studenti di oggi e di domani. Tutte figure che, per la UE come per il governo Meloni, “contano zero”.
P.s. A seguire l’articolo con cui il manifesto ha registrato “la svolta” illustrata dal ministro Fitto, due giorni fa.

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I comuni protestano perché il governo Meloni intende spostare 13 miliardi di euro di fondi Pnrr sul programma RePowerEu lasciando le uniche amministrazioni pubbliche che hanno un’idea di come impiegare i soldi del Sacro Graal dell’economia italiana finanziata dalla Commissione Europea.
I costruttori edili dell’Ance che si oppongono allo spostamento nel medesimo RePowerEu di circa 4,5 miliardi che sarebbero stati impiegati in teoria per la gestione del «rischio alluvione» e del «rischio idrogeologico» proprio nelle settimane dei disastri dell’acqua in Romagna e degli incendi in tutto il paese.
E poi la Sanità: gli interventi previsti per le «Case della Salute» (da 1.350 strutture ridotte a 936), la telemedicina o gli interventi antisismici negli ospedali saranno ridotti. E pensare che il Pnrr, nel lontanissimo passato recente, era nato retoricamente per rimediare agli sfasci della sanità pubblica durante la pandemia.
Infine 300 milioni di euro tolti alla valorizzazione dei beni confiscati alle mafie. Secondo Libera era già stata pubblicata la graduatoria definitiva di ammissione al finanziamento degli enti locali.
Sono alcune delle «modifiche» da 15,9 miliardi di euro al «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr) che il governo Meloni intende presentare alla Commissione Europea entro il 30 agosto (e al parlamento martedì prossimo).
Complessivamente sono 144 su 349, e sono contenute in una bozza di 150 pagine. In pratica, una mezza riscrittura.
L’ha annunciata in una conferenza stampa l’affaticato Raffaele Fitto, il ministro delegato al Pnrr messo degasparianamente «alla stanga» per tirare il peso del Sacro Graal dell’economia italiana.
A vedere il preoccupatissimo e affabulante Fitto, il calice da sorbire di questo piano malconcepito, di cui si iniziano a vedere gli effetti mancati, sembra decisamente amaro.
«SE IL PNRR HA UNA PORTATA DECISIVA PER L’AVVENIRE DELL’ITALIA», come ha detto il presidente della Repubblica Mattarella, allora sull’avvenire il mistero si è decisamente infittito.
Tra le sue ombre ieri si aggirava per esempio Antonio De Caro, sindaco di Bari e presidente dei comuni dell’Anci. De Caro ha detto che «la notizia ci ha colpito molto» perché vengono tolti ai comuni soldi che potrebbero spendere mentre ci sono i soggetti attuatori come in ministeri «che non hanno ancora elaborato i progetti».
De Caro ha chiesto al governo «garanzie immediate sul finanziamento delle opere che in molti casi sono state realizzate come quelle finanziate dal ministero dell’Interno».
Vista la sorpresa, ci si chiede cosa si siano detti, De Caro con il suo corregionale Fitto, nella cabina di regia. Non sempre l’accentramento dei poteri a Palazzo Chigi – tanto voluto dal governo Meloni – favorisce la comunicazione.
Un’altra persa nella nebbia del Pnrr sembra la presidente dell’Ance, Federica Brancaccio: “Non condividiamo la scelta di stralciare dal Pnrr fondi destinati al dissesto idrogeologico e alla rigenerazione urbana – ha detto – I Comuni e le imprese sono fortemente impegnati su tutti i territori nel portare avanti questi interventi urgenti e non più procrastinabili visti anche i continui eventi calamitosi. Peraltro il monitoraggio della spesa sta premiando finora proprio i Comuni e gli interventi diffusi».
Davanti ai primi annunci online sulle modifiche («colpi di spugna» urlavano i titoli) Fitto ha pregato i giornalisti di non parlare di «de finanziamento». Dato che si dà per certa l’incapacità di spendere i soldi del Pnrr nelle modalità finora stabilite, si tratterebbe di una ‘riprogrammazione’. O di una partita di giro con il RePowerEu.
Agli ignari della sofisticatissima arte delle finanze resta però un dubbio: ma come si finanziano le opere di cui, per esempio, parla De Caro e sono partite
Nel regno dell’approssimazione che è il Pnrr l’esecutivo ha promesso di «utilizzare anche il 7,5% delle risorse delle politiche di coesione 2021-2027, già destinate a obiettivi assimilabili a quelli del RePowerEu».
Dalle opposizioni sono volate ieri parole grosse. «Fallimento», «governo incapace», «disastro», «danno». Come se questa vicenda la cui storia va ancora scritta non rivelasse la straordinaria mancanza di un confronto politico mai avvenuto anche quando erano loro a governare, e ad avere concepito il piano neoliberale maestosamente farraginoso con il governo «Conte 2» e quello di Draghi.
*( Roberto Ciccarelli, di Redazione Contropiano )

 

04 – Enrico Tomaselli *: DUE GUERRE – GUERRA GUERREGGIATA E GUERRA COGNITIVA SONO DUE ASPETTI DELLA GUERRA IBRIDA IN CORSO, CHE NON SEMPRE SEMBRANO IN CONNESSIONE TRA LORO. MA LA GRANDE PARTITA A SCACCHI CHE SI STA GIOCANDO RIDISEGNERÀ IL MONDO ED I SUOI EQUILIBRI DI POTENZA. OGNI MOSSA FALSA PUÒ CONTRIBUIRE A FAR CAMBIARE TEMPI E MODI DELLO SCACCO MATTO.

LA PERCEZIONE OCCIDENTALE DEL CONFLITTO
Apparentemente, sono in atto due guerre: una guerreggiata che si combatte sul campo di battaglia, l’altra cognitiva, destinata alle menti di ogni angolo del mondo. In un contesto in cui tutti i soggetti convengono sul fatto che quella in atto è a tutti gli effetti una guerra ibrida e che, quindi, queste due guerre sono in realtà solo due facce della stessa medaglia, potrà forse suonare strano leggere che esistono due guerre distinte.
È interessante notare che l’Occidente parla di guerra dell’informazione e lo fa nella convinzione che la stia vincendo (il direttore della CIA William Burns si è rivolto al Senato degli Stati Uniti dichiarando che “la Russia sta perdendo la guerra dell’informazione sull’Ucraina”). Sul versante opposto, Andrei Ilnitsky, un importante stratega consigliere del Ministero della Difesa russo, parla invece di guerra cognitiva (mental’naya voina). Ad un primo sguardo, può sembrare che dicano la stessa cosa, solo con termini diversi, ma non è esattamente così.
Burns pone infatti il focus sul come tale battaglia viene portata avanti, che è appunto – e ben lo sappiamo – un esercizio totalizzante di propaganda: censura delle fonti nemiche, criminalizzazione del dissenso, costruzione di una narrativa distorta. Dal canto suo, Ilnitsky si focalizza invece sul cosa, sull’obiettivo che si vuole conseguire, ovvero la capacità di distinguere e comprendere.

Ma, ben più importante, è qualcosa che ancora sfugge a questa, pur diversa, lettura. Ed è la dimensione spaziale. Il conflitto in atto, infatti, non è una questione che riguarda soltanto i diretti contendenti; è una prova di forza, il cui valore (ed il cui esito) non stabilisce meramente i rapporti tra gli schieramenti ostili, ma tra questi ed il mondo intero. Se, dunque, il campo di battaglia della guerra guerreggiata è limitato all’est europeo, quello della guerra cognitiva non ha limiti.
Come in ogni conflitto, c’è ovviamente un intreccio tra le due guerre. La propaganda serve fondamentalmente ad ottenere il sostegno (politico, materiale, morale) alle proprie forze in campo. Ed è quindi rivolta essenzialmente al proprio fronte interno. Ma serve anche a creare un clima internazionale ostile all’avversario. Se guardiamo a questi due aspetti, l’affermazione di Burns risulta totalmente fallace.
Per quanto riguarda il fronte interno occidentale (USA, Europa, Ucraina), nonostante un uso spregiudicatamente violento della propaganda, risulta abbastanza evidente che il sostegno alla guerra (ed a chi l’alimenta e la vuole) è a dir poco scarso. La popolarità dei leader occidentali è pressoché ovunque assai bassa, a partire da quella di Biden. Viceversa, per quanto il fronte interno russo non sia ovviamente graniticamente compatto, è altrettanto evidente che il sostegno alla guerra, ed ancor più alla leadership, è molto più alto che in Occidente.
Quanto alla dimensione internazionale, l’accelerazione di innumerevoli processi di smottamento geopolitico rende plasticamente evidente che la guerra cognitiva occidentale ha fallito.
Come ho avuto modo di sostenere precedentemente, uno dei grandi problemi con cui deve fare i conti l’Occidente, in questo frangente storico, è la propria straordinaria supponenza. È ovviamente qualcosa che ha a che vedere con la storia, con la narrazione storica che l’Occidente si è costruito nei secoli e di cui il suprematismo americano non è che l’ultima manifestazione.
Nonostante un certo dilagare di pensiero autocritico (sul colonialismo, sul razzismo ad esso connesso ecc.), si tratta comunque di una manifestazione di superiorità (se lo diciamo noi che il colonialismo è cattivo, allora è così…), che peraltro lascia inalterati i reali rapporti presenti tra Occidente e resto del mondo. La frase di Borrell sul giardino e la giungla, voce dal sen sfuggita, è chiaramente paradigmatica del pensiero profondo delle classi dirigenti occidentali.
Questo enorme problema cognitivo si traduce non soltanto nella convinzione della propria superiorità – morale, politica, tecnologica – ma, conseguentemente, anche in una pericolosa distorsione percettiva.
Durante la golden age del dominio occidentale, ed ancor più dopo la caduta dell’URSS, il cuore dell’Occidente – ovvero l’impero statunitense – ha esercitato il suo potere globale attraverso una proiezione militare mai vista nella storia, attraverso un esercizio ricattatorio dell’economia e della finanza e, non ultimo, attraverso il soft power della sua gigantesca industria della comunicazione (1). Attraverso quest’ultimo, ha diffuso la propria filosofia di vita, il proprio modello culturale e politico, facendone – appunto – il modello cui tendere, universalmente.
Lo scoppio del conflitto ucraino – che è assai più di una delle tante guerre occidentali, ma un passaggio cruciale della storia – ha cambiato radicalmente le cose. E, poiché la posta in gioco è elevatissima, si è reso necessario passare dal soft power all’harsh power: censura delle fonti nemiche, criminalizzazione del dissenso, costruzione di una narrativa distorta.
Ma questa operazione era possibile soltanto all’interno dell’Occidente. E la sua leadership non si è resa conto né di questo scarto, né delle sue conseguenze.
In un certo senso, è come se l’Occidente, avvertendo la minaccia del proprio declino, avesse indossato l’armatura approntandosi alla guerra. Ma l’armatura non è solo uno strumento di difesa: è anche qualcosa che condiziona la postura – non solo fisica – di chi la indossa; e la visuale attraverso la celata dell’elmo risulta limitata.
Fuor di metafora, la scelta bellicista dell’Occidente, il suo rinchiudersi in una prospettiva militare (la NATO-armatura), con la conseguente militarizzazione di ogni ambito civile (l’UE, l’universo mediatico ecc.), hanno dato vita e forma alla sua stessa distorsione percettiva. Il cui apice si raggiunge nel momento in cui la narrazione propagandistica – elaborata in funzione del consenso interno – si insinua nella percezione delle leadership, mischiandosi e confondendosi con la realtà fattuale.
Questa percezione falsata crea un pericoloso meccanismo di autoinganno, i cui minacciosi riflessi riverberano sulla condotta della guerra, e possono tradursi non soltanto in un tracollo dell’occidente stesso, ma in una disastrosa deriva che dilata la guerra nel tempo e nello spazio.
Tra tali riflessi possiamo sicuramente annoverare quelli che spingono a mettere in atto disegni tattici e strategici privi di fondamento reale. Tale, ad esempio, è stata la convinzione di poter mettere in ginocchio la Russia in breve tempo e, quindi, di non aver completamente considerato che – qualora questa ipotesi si fosse rivelata infondata – sarebbe stato necessario essere in grado di reggere uno scontro prolungato. La realtà dei fatti si è incaricata di distruggere questa convinzione, con il risultato che la Russia vede crescere rapidamente la propria produzione industriale militare (oltre a poter contare su sterminati arsenali sovietici), mentre l’Occidente ha esaurito le sue disponibilità ed è in forte affanno.
Lo stesso vale per le pressioni a cui sono stati e sono sottoposti gli ucraini affinché sferrassero un’offensiva in grado di cambiare il quadro generale, nonostante fosse ben nota la schiacciante superiorità difensiva russa e la mancanza dei presupposti tattici per il successo (artiglieria insufficiente, assenza di copertura aerea). Pressioni dovute ad esigenze politiche occidentali e cinicamente indifferenti al massacro degli ucraini, ma anche determinate dalla (solita) convinzione che armi e tattiche occidentali avrebbero assicurato il successo di per sé.

LA GRANDE SCACCHIERA
Ma è l’intero sguardo occidentale al conflitto, ad essere falsato. Sia in ordine alle aspettative che in ordine alla valutazione complessiva della situazione sul campo.
Al di là degli esiti disastrosi degli ultimi due momenti rilevanti della guerra (caduta di Bakhmut, 50 giorni di controffensiva), permane l’idea dello stallo, ovvero che la spinta di entrambe le forze sul campo di battaglia sia in esaurimento, e che vi sia un sostanziale bilanciamento, tale da determinare appunto una condizione di stasi sostanziale. Idea sulla cui base da tempo si accarezza l’idea del congelamento coreano, ovvero la trasformazione dello stallo bellico in sospensione delle ostilità.
Ma, ancora una volta, siamo anche qui in presenza di una distorsione percettiva. Si potrebbe quasi dire di una sovrapposizione della propria immaginazione sulla realtà. Realtà che infatti ci dice non esserci alcuno stallo, e che – conseguentemente – non vi è spazio per alcun congelamento.
All’origine di questa percezione di stasi, c’è da un lato un portato culturale, che ha appunto a che vedere col nostro immaginario (la guerra come movimento), e dall’altro una visione decisamente antica della guerra stessa, come se fosse incentrata sulle conquiste territoriali (o, per usare un’espressione dell’ex-diplomatico indiano M.K. Bhadrakumar (2), su “Westphalian principle” (3)). Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con ciò che sta realmente accadendo in Ucraina.
Innanzitutto, il fatto che la linea del fronte non abbia subito mutamenti radicali negli ultimi mesi, non significa che vi sia un equilibrio delle forze. Questa lettura, infatti, adotta una chiave interpretativa basata sulle variazioni chilometriche, ignorando quelle assai più sostanziali.
Una lettura complessiva non può non tener conto del fatto che le perdite (umane e materiali) di parte ucraina sono spaventose, così come del fatto che questa è sotto attacco non soltanto lungo la linea di contatto, ma sull’intero paese.
Inoltre, a limitare l’iniziativa offensiva russa non è tanto una questione di equilibrio delle forze (che non esiste, sotto alcun profilo), quanto una scelta strategica: non offrire agli ucraini il vantaggio derivante da una grande offensiva (che implicherebbe grandi perdite), e sfruttare appieno la totale superiorità aerea.
Contrariamente alla narrazione corrente nel NATOstan occidentale, non c’è dunque alcuno stallo nei combattimenti. Questo misunderstanding rischia però di riverberarsi anche su un possibile percorso che cerchi una via d’uscita al conflitto. Va da sé, infatti, che non è possibile avviare un qualsiasi negoziato, se una delle due parti ignora sia l’effettiva situazione sul campo, sia gli obiettivi della controparte. Perché ovviamente se si guarda alla guerra in corso come una mera questione territoriale, ne discende che gli interessi russi possano essere abbastanza soddisfatti da quanto già ottenuto, e ciò può quindi essere posto a base di un negoziato.
Al tempo stesso, e per converso, la medesima chiave di lettura può indurre a ritenere che lo stallo sia dovuto all’incapacità russa di fare di più, e che quindi sia in realtà ancora possibile ribaltare la situazione in favore di Kiev, attraverso un intervento diretto della legione baltico-polacca (effettivamente in via di costituzione). Questa è ovviamente l’ipotesi prediletta dalle frange ultrà dei neocon statunitensi.
Sostanzialmente dismessa, per quanto malvolentieri, l’ipotesi della vittoria ucraina, e di fronte alla necessità di porre fine al conflitto prima che l’esaurimento delle risorse belliche occidentali superi il livello di guardia, per le leadership occidentali – o per meglio dire, per quelle anglosassoni, le uniche che contano – la questione si pone nei termini di riduzione del danno. Come uscire dal cul de sac, salvando il salvabile – ovvero, in ultima analisi, la faccia.
Le uniche due opzioni attualmente prese in considerazione sono, appunto, quella (irrealistica) del congelamento coreano, e quella del rilancio bellico, attraverso l’intervento diretto polacco.
Questa ipotesi è ovviamente vista come il fumo negli occhi a Mosca, in quanto avvicina pericolosamente il rischio di un confronto diretto con la NATO. Se pure inizialmente questa legione si limitasse a presidiare l’Ucraina occidentale, ovviamente quel territorio (formalmente ucraino, ma sotto controllo di truppe NATO, aviazione e sistemi di difesa antiaerea compresi) diventerebbe una retrovia intoccabile, di fatto sottratta alla possibilità di essere colpita dalle forze aerospaziali russa. A meno che queste non accettassero il rischio che Varsavia o Vilnius si appellino all’art.5 dell’Alleanza Atlantica.
E che tutto sommato questa sia ritenuta la scelta più probabile, sembrerebbe confermato sia dallo spostamento della PMC Wagner in Bielorussia, sia dal vertice pubblico tra Lukashenko e Putin, sia dalle dichiarazioni rilasciate dai due.
Che in effetti, al di là della concordia di facciata, potrebbero però avere visioni diverse in materia. Se infatti per Minsk un rafforzamento baltico-polacco più ampiamente vicino ai propri confini viene percepito come minaccioso, per Mosca l’ipotesi di uno smembramento ulteriore dell’Ucraina potrebbe alla fin fine non essere il peggiore dei mali. Qualora la presenza militare polacca non sfociasse infatti in conflitto aperto e diretto, un’ulteriore divisione del paese non sarebbe solo negativa. Potrebbe infatti diventare la base realistica per una ipotesi negoziale, che veda la regione occidentale della Galizia inglobata de facto nella Polonia (quindi nella NATO), ma che lascerebbe tutti i territori tra qui ed il Donbass (ad est) e la riva sinistra del Dniepr (a sud), come stato ucraino sovrano e neutrale.
Venticinque anni dopo, si sta insomma ancora giocando la partita descritta (ed in fondo aperta) da Zbigniew Brzeziński nel suo “The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives”, ma le possibili mosse sulla scacchiera si fanno sempre meno, e quindi sempre più nervose.

 

Note

1 – Dell’importanza di questo fattore sembra essersi resa conto anche Mosca, che dalla fine dell’era sovietica (e quindi della esportazione del comunismo) non si era mai posto il problema. Al recente Russia-Africa Economic and Humantarian Forum di San Pietroburgo, invece, si sono fatti passi da gigante in tal senso. Nel suo discorso ai partecipanti, Putin ha sostenuto che la Russia e l’Africa dovrebbero creare uno spazio informativo comune, e che “si sta già lavorando per aprire uffici dei principali media russi in Africa: L’agenzia di stampa TASS, Rossiya Segodnya [gruppo mediatico che comprende RIA Novosti e Sputnik], il canale televisivo RT, l’emittente radiotelevisiva di Stato russa, Rossiyskaya Gazeta [giornale]“. Dichiarazione accolta con favore dai convenuti; Gregoire Ndjaka, capo dell’Unione africana delle radiodiffusioni (AUB), ha infatti dichiarato che “siamo aperti alla cooperazione con tutti i media russi. Siamo pronti ad accoglierli in Africa”. Tra l’altro, nel Forum è stato detto che la Russia prevede di aprire filiali delle sue principali università nei Paesi africani.
2 – Cfr. “Glimpses of an endgame in Ukraine”, M.K. Bhadrakumar, Indian Punchline
3 – Il riferimento è alla Pace di Westfalia (1648), che pose fine alla Guerra dei Trent’anni ed a quella tra Spagna e province dei Paesi Bassi. Il senso è che i principi ispiratori dei tre trattati stipulati in quella occasione si fondavano, a conti fatti, su una profonda ridefinizione dei confini tra gli stati. Cfr. Pace di Westfalia, Wikipedia.
*(Enrico Tomaselli: Giornalista Curatore Webmaster Grafico)

 

05 – Nel mondo

Stati Uniti
Il 1 agosto l’ex presidente Donald Trump è stato incriminato con l’accusa di avere provato a sovvertire il risultato elettorale delle elezioni presidenziali del 2020. È l’accusa più grave nei confronti dell’ex presidente e candidato alle primarie del 2024, che è in tribunale per altre due indagini a suo carico. Trump, grande favorito alle primarie repubblicane per le elezioni del 2024, è accusato di “cospirazione contro lo stato americano” e cospirazione contro i diritti dei cittadini. L’indagine riguarda i fatti che portarono all’assalto al congresso del 6 gennaio 2021 da parte dei sostenitori di Trump ed è coordinata dal procuratore speciale Jack Smith, esperto di lotta alla corruzione.

Russia-Ucraina
Diversi droni russi hanno attaccato la capitale ucraina Kiev il 2 agosto provocando dei danni agli edifici, ma nessuna vittima. Lo ha annunciato il sindaco della capitale Vitalij Klyčko. Un altro attacco con i droni è avvenuto a Odessa, nel sud del paese. Sono state danneggiate alcune strutture portuali. Il 1 agosto la Russia ha affermato di aver sventato un’ondata di attacchi di droni aerei e marittimi contro Mosca, la Crimea e la flotta russa nel mar Nero. Un grattacielo nel quartiere finanziario della capitale è stato colpito per la seconda volta in pochi giorni. Mosca ha annunciato che intensificherà i suoi attacchi contro le infrastrutture militari ucraine, in risposta a quelli dei droni sul suo territorio.

El Salvador
Il 2 agosto settemila soldati e mille poliziotti hanno circondato l’intero dipartimento centrale di Cabanas. L’obiettivo è impedire di lasciare la zona ai gruppi mafiosi e ai loro affiliati e interrompere le loro catene di approvvigionamento. Più di 70mila persone accusate di essere parte di gruppi criminali sono state arrestate dal marzo 2022, quando è stato dichiarato lo stato di emergenza, dopo che è stato registrato un picco di violenze e omicidi commessi dalla criminalità organizzata. Il governo ha annunciato che condurrà dei processi di massa, ma si teme che molte persone coinvolte negli arresti siano innocenti.

Niger
La Francia ha cominciato a evacuare i suoi cittadini dal Niger: le prime 262 persone sono arrivate a Parigi il 2 agosto. La Germania ha chiesto ai suoi cittadini di accettare l’offerta francese di tornare in Europa attraverso questi trasferimenti. Anche l’Italia ha organizzato un volo, arrivato a Roma il 2 agosto alle 3 di notte, con 87 persone a bordo. L’aereo trasportava 36 italiani, 21 americani e un britannico.

Israele-Palestina
Un palestinese è stato colpito e ucciso da un poliziotto israeliano fuori servizio, dopo aver presumibilmente aperto il fuoco in un insediamento israeliano irregolare, ferendo almeno sei persone. La sparatoria è avvenuta il 1 agosto fuori da un centro commerciale nel vasto insediamento israeliano di Maale Adumim, nella Cisgiordania occupata.

Canada
Il 2 agosto Meta ha cominciato a bloccare l’accesso dei canadesi alle notizie su Facebook e Instagram in risposta a una nuova legge che impone alle grandi aziende digitali di pagare gli editori per questo tipo di contenuti. Google ha dichiarato che sta valutando una decisione simile, nell’ambito di un dibattito globale in cui sempre più governi cercano di far pagare alle aziende tecnologiche le notizie e i contenuti.

Liberia
Monrovia concederà l’esclusiva su un milione di ettari di foresta (circa il 10 per cento della superficie del paese africano) a un’azienda privata degli Emirati Arabi Uniti che dovrà commercializzare i crediti di anidride carbonica ottenuti da progetti di conservazione o riforestazione. Nel mese di marzo è stato concluso un memorandum d’intesa tra il ministero delle finanze liberiano e l’impresa Blue carbon ed è in corso di firma il contratto definitivo della durata di trent’anni.

 

06 – Giorgia Audiello (*): PONTE SULLO STRETTO E INTERESSI MILITARI – ANCHE LA NATO PREME PER COSTRUIRE IL PONTE SULLO STRETTO, L’INFRASTRUTTURA SERVIRÀ A COLLEGARE LE BASI DI SIGONELLA E NAPOLI

A chi serve davvero il ponte sullo stretto di Messina? Il tema è tornato al centro dell’attenzione dopo che il governo ha deciso di riprendere il progetto infrastrutturale per collegare la Sicilia alla Calabria e sono emerse le forti pressioni dell’ambito militare – in particolare della Nato – per la realizzazione dell’opera.
Più che attuare la costruzione dell’infrastruttura per migliorare la mobilità civile, infatti, l’investimento – lievitato oggi a 13,5 miliardi dai cinque del 2001 – servirebbe a migliorare la mobilità e i collegamenti delle basi militari del sud Italia, dove l’Alleanza atlantica gestisce le principali operazioni americane nel Mediterraneo.
Per questo, l’opera è richiesta a gran voce dall’UE e dalla Nato, ossia da organizzazioni extranazionali che detengono cospicui interessi nel Paese e che – di fatto – decidono la linea da seguire grazie all’influenza determinante che esercitano sul governo di Roma.
Nello specifico, l’opera dovrebbe rientrare nel Trans-European Transport Network, progetto europeo nato per migliorare la mobilità all’interno dell’Unione anche in un’ottica militare e di cui in Italia fa parte anche la Tav Torino-Lione.
A fugare ogni dubbio circa l’impiego e l’ottica prevalentemente militare del progetto, c’è una relazione presentata il 31 marzo dal governo Meloni – smaccatamente europeista e filo-Nato – in cui si specifica che il ponte sullo stretto rappresenta «un’infrastruttura fondamentale rispetto alla mobilità militare, tenuto conto della presenza di basi militari Nato nell’Italia meridionale».

Da tempo, l’Alleanza atlantica evidenzia le lacune delle infrastrutture italiane: ponti che non reggono il peso dei mezzi militari, paesi con scarsi collegamenti interni, opere obsolete e scartamenti delle linee ferroviarie diversi rallentano il dispiegamento di mezzi e truppe in tempi rapidi. Nasce da queste esigenze la vera motivazione dietro al progetto del ponte sullo stretto, non certo dai bisogni della popolazione civile. Le necessità di ammodernamento ed efficientamento delle infrastrutture a scopi militari sono state naturalmente amplificate dai recenti avvenimenti in Ucraina.

Le aziende coinvolte nel progetto

Anche le aziende coinvolte nella costruzione del ponte hanno stretti legami col mondo bellico, a cominciare da WeBuild, società a cui già vent’anni fa lo Stato italiano aveva affidato l’esecuzione dell’opera e che ora chiede alla presidenza del Consiglio danni per 700 milioni di euro.

L’azienda, oltre ad essere azionista per il 45% di Eurolink – consorzio a cui il governo vuole riaffidare l’incarico per la realizzazione del ponte – ha anche al suo attivo importanti lavori per il riammodernamento di infrastrutture militari: dall’aeroporto militare di Capodichino alla costruzione della tratta dell’alta velocità Novara-Milano al passante autostradale di Mestre. Questi ultimi due lavori sono volti a migliorare i collegamenti delle basi americane nel nord est italiano.

Altra azienda coinvolta nel consorzio è la Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna (CMC) che si è occupata già, tra le altre cose, del potenziamento infrastrutturale di Sigonella e delle strutture per ospitare i militari americani nell’aeroporto Dal Molin di Vicenza. Anche la Società Italiana Condotte d’Acqua è parte del progetto e ha anch’essa esperienze pregresse nel settore militare, tra cui la realizzazione di un hangar e fabbricati nella base elicotteri dell’Aviazione dell’esercito di Lamezia Terme.

Il caso Eurolink e la debolezza italiana

Un altro aspetto che lega il ponte alla Difesa è la nomina, da parte di WeBuild, di Gianni De Gennaro a presidente di Eurolink.

De Gennaro è ex capo della Polizia [durante il G8 di Genova, NdR] e direttore della Direzione investigativa antimafia, nonché ex presidente della maggiore azienda attiva nei settori della difesa a compartecipazione statale, Leonardo.

La sua nomina a capo del consorzio indica la natura prettamente militare del progetto nonché la volontà di mettere in sicurezza i cantieri oltre che di gestire i movimenti di protesta contro l’infrastruttura. Il movimento “No ponte”, ad esempio – che aveva ottenuto una vittoria nel 2012, quando il governo aveva predisposto lo stop al progetto, dopo una partecipatissima mobilitazione popolare – è tornato a far sentire la sua voce per impedirne o ritardarne la costruzione. Eventuali ritardi danneggerebbero non solo gli interessi delle aziende e del governo, ma della stessa Nato.

A ciò si aggiunge l’importante tema della “sovranità nazionale” rivendicata proprio dai partiti di centrodestra che in realtà sono stati i primi a tradirla accettando pesanti ingerenze negli affari interni, a partire proprio dall’esecuzione delle direttive Nato sul territorio nazionale. Un caso emblematico è quello del ministro dei Trasporti Matteo Salvini che, contrario all’opera fino a pochi anni fa, ha compiuto una giravolta politica in grande stile, pur di allinearsi al volere dominante degli enti sovranazionali che di fatto governano la penisola. Così, lo scorso maggio, Camera e Senato hanno dato il via libera a quella che viene considerata “la madre di tutte le grandi opere in Italia”.

L’INSOSTENIBILITÀ E I RISCHI DELL’OPERA
Secondo diversi esperti, tra cui il giornalista antimilitarista Antonio Mazzeo, l’opera non solo è irrealizzabile dal punto di vista ingegneristico ed economico, ma comporterebbe gravi rischi per l’Italia meridionale, tra cui una maggiore militarizzazione del territorio, il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose e la sottrazione di fondi dai bisogni reali del territorio. «Il Ponte sullo Stretto è irrealizzabile come lo era dieci anni fa ma questa volta ci sono alcuni attori che stanno spingendo per avviare quest’opera. […] Un’opera di questa rilevanza non potrà non richiedere – e lo dicono le forze armate – una serie di interventi: batterie missilistiche (una sola batteria costa 800 milioni di euro, ndr), cacciabombardieri, il pattugliamento costante dei sottomarini.
Questa è ovviamente un’ulteriore militarizzazione dei territori», ha spiegato Mazzeo. Per quanto riguarda il pericolo di infiltrazioni mafiose, invece, il giornalista ha asserito che «Il rischio è che oggi, di fronte agli anticorpi di una cultura mafiosa, chi si promuove come realizzatore del ponte, fosse anche un mafioso, dovrebbe guadagnare una legittimità. Le grandi organizzazioni mafiose potrebbero legittimarsi come un grande elemento: prima abbiamo messo le bombe e fatto le stragi oggi facciamo il ponte e ci perdonate».
Ne emerge, dunque, un quadro dove intorno alla costruzione dell’infrastruttura orbita una rete di interessi che coinvolge diversi ambiti, da quello politico-militare a quello mafioso, e che va a scapito non solo delle esigenze del territorio locale, ma di tutta la nazione, sottomessa ai voleri di Nato, Ue e Stati Uniti e destinata ad essere sempre più militarizzata e subordinata al volere di organizzazioni e stati stranieri.
*( Giorgia Audiello, giornalista dalla redazione di Kultur Am)

 

 

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