n°25 – 24 giugno 2023 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Carlo Lucchesi *: Lotta alla precarietà del lavoro, snodo decisivo per sinistra politica e sindacato
02 – Paolo Vittoria*: la guerra, Assange, i migranti respinti… è un Lula «INDIGNATO» Roma. Il presidente brasiliano chiude la sua visita italiana incontrando la stampa. «nel mondo l’investimento più sacro è sull’educazione»
03 – Massimo Franchi*. Landini: «Parte una nuova mobilitazione». LA CURA. Il segretario della Cgil in assemblea con i lavoratori della sanità: domani in piazza contro il governo taglia e privatizza.
04 – Samuele Cafasso *:Un modello di famiglia che discrimina i figli delle coppie omosessuali. In assenza di una legge nazionale, il governo blocca i sindaci che riconoscono le famiglie omo-genitoriali. Che così sono costrette a lunghe trafile burocratiche per adottare i loro figli.
05 – Giovanni De Mauro*: Indelebile – Era il 28 luglio 1951 quando a Ginevra una conferenza speciale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione relativa allo status dei rifugiati.
06 – Santanchè traballa e minaccia querele – GOVERNO. Dopo le accuse di Report sulle malefatte dell’azienda della ministra del turismo, la presidente del Consiglio Meloni non la difende e le opposizioni la chiamano in aula: non si salverà con l’oblio. Lei replica annunciando azioni legali,
Minaccia querele, ma non spiega nulla e non risponde alle accuse dei suoi dipendenti raccolte e raccontate lunedì in tv da Report.
07 – La missione di pace africana seppellita sotto le bombe dei media di Piccole Note:*

 

01 – Carlo Lucchesi *: LOTTA ALLA PRECARIETÀ DEL LAVORO, SNODO DECISIVO PER SINISTRA POLITICA E SINDACATO – LE PIÙ IMPORTANTI E PROFONDE RIFORME DEL DOPOGUERRA SI SONO FATTE IN ITALIA NEGLI ANNI ‘60 E ‘70 DEL SECOLO SCORSO QUANDO AL GOVERNO DEL PAESE C’ERA UNA COALIZIONE DI CENTRO-SINISTRA NELLA QUALE LA PARTE MODERATA ERA NETTAMENTE MAGGIORITARIA.
Fu possibile essenzialmente grazie all’iniziativa del movimento sindacale capace di elaborare proposte unitarie sui grandi temi del welfare e deciso a sostenerle con la lotta dei lavoratori tanto da conquistarsi il consenso di gran parte del Paese. Si trattò dello sviluppo e della proiezione nei territori e nell’intera società nazionale delle lotte di fabbrica, che già avevano raggiunto un’estensione straordinaria. L’organizzazione tayloristica del lavoro aveva sì enormemente incrementato la produttività, ma aveva consegnato ai lavoratori un potere di interdizione sul processo produttivo che, una volta tradotto dai Consigli dei delegati in capacità e potere negoziale, aveva fatto compiere un grande salto in avanti non solo al salario, ma all’intera condizione di lavoro. Lo slogan “dalla fabbrica al territorio” segnalava appunto l’esigenza e la volontà di consolidare quelle conquiste tanto come difesa del potere d’acquisto, quanto come spostamento nei rapporti di potere fra le classi. Sul piano politico, il PCI dall’opposizione e il PSI dal governo fecero in modo che sul terreno legislativo si realizzassero mediazioni di alto contenuto alle quali dettero un notevole contributo l’area socialmente progressista della DC e parti consistenti dell’associazionismo cattolico.

Niente del genere è accaduto da allora, neppure quando al governo si sono trovate coalizioni di centro-sinistra formalmente assai più sbilanciate a sinistra di quanto fossero i governi degli anni ‘60 e ‘70.
Questa storia offre degli insegnamenti che sembrano essere stati del tutto dimenticati dalla sinistra italiana. Il primo è che si possono raggiungere importanti risultati politici e sociali anche quando si è collocati all’opposizione. Il secondo è che essere al governo non garantisce affatto di per sé lo sviluppo di politiche di sinistra, neppure se esse fossero state correttamente delineate nel programma alla base del successo elettorale. Il terzo, ancora più negletto, è che a dare la direzione di marcia ai processi sono sempre e comunque i rapporti di forza fra i contendenti. La sinistra è stata vincente quando ha saputo mettere il lavoro al centro della scena e costruire attorno ad esso un movimento di popolo e un’aggregazione più ampia di forze e di interessi.

2. Dopo quell’esperienza, nella cultura della sinistra si produce, gradualmente ma rapidamente, una cesura fra lotte sociali e politica. Nasce da quella frattura il mito del governo, ovvero il travisamento del giusto obiettivo di governare. Se prevale la convinzione che ciò che più conta è la conquista della maggioranza parlamentare e che a quell’obiettivo tutto può e deve essere sacrificato, e se allo stesso tempo si è convinti che le elezioni si vincono conquistando il centro, come dice la vulgata politologica, ne deriva necessariamente che le lotte sociali non saranno più il motore e l’essenza della battaglia politica, e gli stessi programmi elettorali si faranno più sfumati, più rassicuranti, più ambigui. Fino al punto che matureranno le condizioni perché sinistra e centro diano vita a una sola formazione politica la quale, però, dopo una simile metamorfosi, avrà come propria identità solo quella di proporsi come alternativa alla destra. Il governismo diventa in poco tempo la malattia cronica della sinistra post PCI e di tutte le sue derivate.

Sulle origini di questa malattia si può discutere all’infinito. Molti politologi, fra cui tanti esponenti della sinistra anch’essi oramai più professionisti di questa disciplina che dirigenti di partito, in verità non la considerano una malattia e sostengono che in un sistema elettorale maggioritario dove si confrontano coalizioni, tendenzialmente due, delle quali per un’intera legislatura una soltanto avrà il diritto-dovere di governare, l’aspirazione alla conquista del governo è necessariamente il fine ultimo della politica. Sarebbe facile replicare che, visti i guasti congeniti al sistema maggioritario, dalla crisi della partecipazione popolare alla vita dei partiti, alla personalizzazione della politica, dalla trasformazione delle ideologie e dei progetti politici che dovrebbero sostanziarli a vaghi ed elastici programmi acchiappavoti, per arrivare a livelli impensabili di astensionismo, forse sarebbe il caso di battersi per ripristinate un sistema sostanzialmente proporzionale di sicuro più congeniale, come bene avevano compreso i costituenti, a restituire una vera identità politica e ideale ai partiti, facendoli così tornare ad essere insostituibili soggetti della rappresentanza democratica.

In realtà la propensione al governismo nasce dalla lettura che gli epigoni del PCI hanno fatta del cambiamento di fase storica seguito alla grande ristrutturazione capitalistica avviatasi negli anni ‘70. Una ristrutturazione che, anche grazie alla rivoluzione tecnologica, ha rapidamente rovesciato i rapporti di forza fra capitale e lavoro ma, quel che è peggio, ha cambiato la struttura stessa di questo rapporto polverizzando la grande fabbrica, scomponendo le forme dello sfruttamento, individualizzando il lavoro, in ultimo facendo della precarietà l’essenza della condizione lavorativa. A sinistra si è inteso questo processo come inarrestabile e definitivo, di tale portata da seppellire nelle dinamiche sociali e di potere la centralità del conflitto fra capitale e lavoro oramai giunto al suo esito finale. La deriva che ne è seguita anche sul piano della forma partito è stata nient’altro che la conseguenza ineluttabile di quella lettura. Avendo dati per morti i lavoratori in quanto classe e persino come soggetto sociale definibile e identificabile, la sinistra politica, che già con l’ultimo PCI aveva rimosso l’obiettivo socialista dell’emancipazione del lavoro, ha accantonato anche l’aspirazione socialdemocratica alla trasformazione della società nel senso dell’eguaglianza e della solidarietà. Dopo aver attraversato una fase in cui ha cercato vanamente di conciliare l’adesione al liberismo, assecondando il primato del mercato nell’economia, con la conservazione di un welfare non residuale, ha finito per ripiegare sul terreno ancor più trasversale e socialmente neutro dei diritti civili arricchiti da una vena, non sempre coerente, di ambientalismo. Un terreno che non rappresenta un’evoluzione “moderna” del conflitto di classe e neppure un avanzamento rispetto a quello sui diritti sociali, ma è proprio un altro campo di battaglia, avulso da qualunque idea che possa evocare il rapporto e il conflitto capitale-lavoro. In questo nuovo campo si fronteggiano fra destra e sinistra, divenute non a caso centro-destra e centro-sinistra, due concezioni della società, delle sue componenti e delle sue relazioni interne, che attraversano orizzontalmente i gruppi sociali perché trascendono gli interessi che questi incorporano, più o meno consapevolmente, e fanno invece riferimento a valori etici assimilando il confronto politico ad un confronto di dottrine. La nuova strada intrapresa dal PD, centrata sui diritti civili ai quali quelli sociali vengono ora aggiunti come esigenza palesemente contingente e solo sul terreno dell’equità, è destinata a restare subalterna e perciò inerte. Anche l’ambientalismo e il femminismo, di cui si vorrebbe raccogliere la spinta, pur essendo assolutamente centrali in un progetto di trasformazione, sono tuttavia socialmente trasversali. Una volta scissi dal conflitto capitale-lavoro, non producono cambiamenti nei rapporti di potere e quindi negli assetti complessivi della società e nelle sue dinamiche determinanti.

3. All’ombra di quel nuovo campo di battaglia la “vecchia” lotta di classe, anche se non più nominata, ha continuato a svolgersi, ma con la non piccola anomalia che mentre il capitale, e quanti aderiscono al suo primato, ha avuto nella destra una solida rappresentanza, il lavoro non ne ha avuta alcuna sul piano politico istituzionale, e la sua rappresentanza sociale, il sindacato, è stata enormemente indebolita dalle trasformazioni del lavoro, resa di fatto inoffensiva e messa nell’angolo. In questa nuova fase della lotta di classe sapientemente dissimulata dai grandi media in modo da far apparire naturali, e perciò in fin dei conti giusti, gli scempi che vi si consumavano, al punto di classificare come riforme nient’altro che vere e proprie controriforme di segno reazionario, si è determinata la sistematica erosione delle conquiste realizzate dal mondo dal lavoro e dall’intera società nei venti anni di lotte della seconda metà del secolo scorso. Si spiegano così lo spaventoso arretramento del mondo del lavoro nella distribuzione del reddito, nelle condizioni materiali della prestazione lavorativa, nei diritti e nelle tutele, nelle prospettive di vita. Anche la demolizione del welfare, il dilagare della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici, l’asservimento delle istituzioni alla volontà dei poteri forti e, inevitabilmente, il degrado della politica e la disaffezione della società alle sue vicende, trovano qui le loro vere radici.

Il filo del discorso, a sinistra, andrebbe ripreso nel punto in cui è stato spezzato, ovvero là dove una parte consistente della sua dirigenza ha ritenuto decadute non solo le condizioni, ma persino le ragioni del conflitto capitale-lavoro. Come si è visto dal persistere di quel conflitto, anche se del tutto sbilanciato a favore del capitale, quella insussistenza, cui fece seguito una dichiarazione di resa tacita, ma proprio per questo ancor più colpevole, non aveva fondamenta né sul piano teorico, né su quello pratico.

4. Non si può dunque ricostruire una strategia di trasformazione sociale senza che al suo centro vi sia il conflitto capitale-lavoro. Le domande conseguenti sono: alla luce della storica sconfitta subita e alla luce della frantumazione capillare del mondo del lavoro che l’ha caratterizzata, è possibile avviare un processo inverso di ricomposizione del lavoro e della sua identità di classe? Oppure avevano ragione quei dirigenti provenienti dalle file del PCI che dopo l’’89 decretarono che quella strada era irrimediabilmente chiusa e che bisognava adattarsi al liberismo vittorioso e, al più, attutirne gli effetti?

Che la via della ricomposizione sia quanto di più complesso e difficile si possa mettere all’ordine del giorno è fuori discussione. Il lavoro oggi non è solo privo di una qualunque attendibile rappresentanza politica. Osservandolo dal lato della rappresentanza sociale, al di là di quanti sono ancora, e sono molti, gli iscritti ai sindacati, non esprime, meglio sarebbe dire non può esprimere, alcun potere negoziale. Alla concentrazione del capitale e dei centri decisionali si è giustapposta la massima polverizzazione dei luoghi della produzione e delle attività, all’interno di ogni impresa di un qualsiasi settore si è realizzato un processo di ghettizzazione dei lavoratori in veri e propri comparti stagno di cui la coesistenza delle più diverse forme contrattuali è una visibile testimonianza, il dominio unilaterale delle tecnologie, soprattutto di quelle informatiche, e la loro presunta oggettività tolgono al lavoratore non solo la possibilità di contrasto, ma spesso persino quella di comprendere il senso del processo di cui è parte, e così via.

Eppure, nella miriade delle modalità che connotano lo sfruttamento del lavoro vi è un denominatore comune, un dato di realtà che appartiene alla quasi totalità di questi lavoratori, la precarietà. Era ed è esattamente questo l’obiettivo perseguito dalla ristrutturazione capitalistica. La tanto sbandierata flessibilità, contrabbandata come il rimedio necessario per aumentare la produttività, a questo serviva e continua a servire. Non averlo capito, essersi illusi di poterla controllare, o addirittura di volgerla dalla propria parte, è stato l’errore più grande del sindacato. Della parte più rappresentativa della sinistra politica non tiene conto parlare perché, come detto, aveva già dato per persa la partita. Il lavoratore è precario perché assunto con uno dei tanti rapporti di lavoro precari a disposizione dell’impresa. Quando il contratto è a tempo indeterminato, con la soppressione dell’articolo 18 dello Statuto, il lavoratore sa di poter essere licenziato in qualunque momento con un costo irrisorio per l’impresa. L’estrema frammentazione dei processi di lavoro è la condizione oggettiva in cui il lavoratore si trova ad operare, l’isolamento e la precarietà sono i tratti dominanti della sua condizione soggettiva. Non c’è motivo di stupirsi se i salari sono fermi da trent’anni, se da tante parti si lavora anche a meno di cinque euro l’ora, se la sicurezza è sempre più labile, se le lotte sono solo quelle difensive contro le chiusure, se non si fa contrattazione acquisitiva e si dirotta, dove si può, la contrattazione aziendale sui campi minati, non a caso graditi alle imprese, della sanità e della previdenza integrative. E non c’è motivo di stupirsi se il sindacato e le sue rivendicazioni sui grandi temi economici e sociali continuano ad essere ignorati dalla politica.

5. In questi anni, settori della sinistra politica, associazioni, intellettuali di varie discipline, hanno compiuto molti tentativi sia sul piano organizzativo che su quello della elaborazione programmatica per provare ad uscire da questo cul de sac. Opera meritevole che, speriamo presto, potrà dimostrarsi utilissima. Ma riproporre gli obiettivi imprescindibili di una vera trasformazione, tanto per citare alcuni titoli, dal ruolo della mano pubblica nell’economia, a una riforma fiscale fortemente progressiva, dalla universalità dei diritti fondamentali, liberati perciò dalle logiche di mercato, alle politiche economiche alternative al liberismo e all’austerità, per arrivare, come suggerisce qualcuno, alla contrattazione degli algoritmi che già stanno pervadendo i processi di lavoro, non lo si può fare credibilmente se non si affronta la questione dei rapporti di forza e del loro attuale livello nel conflitto fra capitale e lavoro perché se non si passa di qui ogni proposta, per quanto ragionevole e ben argomentata, resta una pura e vana petizione di principio.

Si torna, perciò, alla centralità e alla priorità della lotta contro la precarietà, vera e propria pre-condizione di ogni avanzamento. Questa è la battaglia sulla quale dovrebbero concentrarsi tutte le forze. Dal punto di vista normativo gli obiettivi sono di facile individuazione. Da un lato, va ripristinato l’articolo 18 dello Statuto, vale a dire il principio che non si può essere licenziati se non per giusta causa o giustificato motivo, estendendolo nelle forme più opportune anche alle imprese di minore dimensione dove non veniva applicato. Con questo scudo protettivo il lavoratore tornerà ad essere libero di esprimersi, di organizzarsi, di far valere le proprie ragioni. Uscirà dal ricatto permanente, che lo priva di qualunque libertà, della perdita del posto. Dall’altro, va riconquistato il diritto a un reddito garantito, di entità sufficiente per una vita dignitosa, per tutto il tempo in cui il lavoratore si trova senza lavoro. La soluzione migliore sarebbe quella di distinguere due modalità di reddito garantito, una espressamente finalizzata a contrastare la povertà, l’altra dedicata al mondo del lavoro. In questo secondo caso, la funzione essenziale dello strumento deve essere quella di non lasciare chi si colloca nel mercato del lavoro nell’obbligo di accettare una qualunque offerta di lavoro, magari precaria e sottoretribuita. Non è certo un caso che il governo di centro-destra ne abbia subito fatto il bersaglio della sua polemica e lo abbia smantellato in poche battute. Lo scopo era esattamente quello di obbligare il lavoratore a entrare nel mercato del lavoro nella condizione di massima debolezza. Gli equivoci e le manipolazioni che hanno accompagnato la discussione sul reddito di cittadinanza consigliano alcuni accorgimenti che tolgano di mezzo il pretesto di favorire l’ignavia dei suoi fruitori e consentano di ottenere la più vasta adesione. A questo scopo è sufficiente, ad esempio, prevedere la possibilità per il lavoratore di rifiutare, pena la decadenza di quel reddito, non più di due proposte di lavoro provenienti dai Centri per l’impiego, sempre comunque alla condizione che in tali proposte la qualifica sia congrua con il curriculum e che la sede di lavoro sia raggiungibile con mezzi pubblici in un tempo ragionevole, ad esempio attorno ai sessanta minuti. In tal modo si riaffermerebbero i principi costituzionali del diritto al lavoro e dell’impegno attivo dello Stato al suo effettivo esercizio.

La diffusione di retribuzioni ben al di sotto dei minimi contrattuali suggerisce di unire a questi due obiettivi la richiesta del salario minimo. Ad esserne coinvolti è un grande e crescente numero di lavoratori, in maggioranza immigrati, oggi retribuiti ad un livello ben al di sotto dei minimi contrattuali, vera e propria testimonianza di quale sia il punto di costrizione cui è giunto il ricatto “o lavori a queste condizioni, o te ne stai a casa”.

6. La battaglia contro la precarietà ha il merito, come nessun’altra, di rispondere a un’esigenza primaria avvertita da tutti i lavoratori, qualunque sia la posizione che occupano nel processo di lavoro. Persino quelli dotati di una professionalità elevata, di regola portati a esercitare una contrattazione diretta e individuale col datore di lavoro, sanno di non essere esenti dal rischio di trovarsi improvvisamente disoccupati. Come il capitale ha riconquistato il dominio sul lavoro facendo leva sulla precarietà, così il lavoro può riappropriarsi della sua dignità, della sua forza negoziale, della sua coscienza collettiva, e riaprire la partita della trasformazione della società, fuoriuscendo dalla precarietà.

Questa è la posta in gioco. Come in ogni vera battaglia, il successo passa dai rapporti di forza e quindi dalla più vasta mobilitazione del mondo del lavoro e dalla progressiva conquista del consenso di altre parti della società. Si pensi, in primo luogo, alle famiglie di quanti si trovano costretti in una condizione di precarietà, e al multiforme mondo dell’associazionismo e del volontariato, cattolico e laico, normalmente attento e sensibile verso i temi dello sfruttamento e verso i principi della solidarietà.

A prendere l’iniziativa non può essere che il sindacato, auspicabilmente l’intero sindacato confederale. Ma se ciò non fosse possibile, quello o quelli dei grandi sindacati confederali che volessero farlo avrebbero comunque le carte in regola per progettare e avviare una grande campagna di mobilitazione. La scelta da compiere, difficile ma necessaria, è quella di concentrarsi sull’obiettivo. Il documento rivendicativo di carattere generale di cui il sindacato si è giustamente dotato e che sta tentando di discutere col Governo, a dire il vero vanamente, non va certamente accantonato, ma occorre estrapolare da esso una mini piattaforma sulla precarietà facendone una grande vertenza. Una piattaforma che divenga il vero centro di aggregazione del movimento dei lavoratori, di forze politiche e di associazioni che possono finalmente far sorgere e rendere visibile un fronte comune in cui le energie di cui ognuno dispone convergono verso l’obiettivo condiviso.

Come sempre, sarà la partecipazione a decidere l’esito della battaglia. Ciò significa anzitutto informazione, e perciò assemblee ovunque, nei luoghi di lavoro, nei territori, nelle università e nelle scuole superiori, volantini e manifesti, prender parola nelle emittenti nazionali e locali, portare il confronto nei social. Ma significa anche rimettere in moto processi decisionali collettivi, partecipare per co-decidere, cogliere l’occasione di un movimento che scuote l’abulia e il senso di impotenza oggi così diffusi per riproporre forme attive di democrazia al posto della delega incondizionata al leader di turno.

Un processo come questo una volta avviato, assai prima di giungere al traguardo, costringerebbe le formazioni della sinistra e del centro-sinistra a riflettere autocriticamente sulla propria crisi e a tentare di costruire nuove identità ideali e programmatiche, imporrebbe al sindacato di progettare la propria autoriforma nel vivo di una lotta di massa di cui sarebbe artefice e protagonista principale, chiederebbe agli intellettuali di schierarsi. Nel rispetto rigoroso dell’autonomia di ciascuno, probabilmente si creerebbero le condizioni per un confronto collettivo sulle prospettive che si possono riaprire per il lavoro e per l’intera sinistra, prospettive che non possono eludere il discrimine rappresentato dalla guerra.

Nelle terapie suggerite dalle più diverse parti per fronteggiare l’aggressività della destra al governo e per immaginare un futuro successo del centro-sinistra, non mancano certo consigli ragionevoli che spesso comprendono anche l’esigenza di tutelare meglio i lavoratori. Ma hanno l’insormontabile difetto di ignorare il nesso inderogabile fra conquiste sociali, rapporti di forza fra le classi, compattezza del mondo del lavoro. Pensare che le cose cambino sul serio per la lungimiranza, vera o presunta, di qualche dirigente più o meno illuminato è una pura mistificazione. Il centro-sinistra ha già governato ma, fermandosi soltanto ai temi del lavoro e del welfare, ha dato un buon contributo al disastro in cui siamo. La strada è molto più complicata. Non si può mai essere sicuri di arrivare in fondo, ma la prima cosa che conta è imboccarla dalla parte giusta.
*( Fonte: Sinistrainrete. Carlo Lucchesi, dirigente sindacale della Cgil e giornalista, )


02 – Paolo Vittoria*: LA GUERRA, ASSANGE, I MIGRANTI RESPINTI… È UN LULA «INDIGNATO» ROMA. IL PRESIDENTE BRASILIANO CHIUDE LA SUA VISITA ITALIANA INCONTRANDO LA STAMPA. «NEL MONDO L’INVESTIMENTO PIÙ SACRO È SULL’EDUCAZIONE»

Il modo migliore per aprire un racconto a volte è iniziare proprio dalla fine: così potrebbe essere per la conferenza stampa di Lula ieri a Roma, quando il presidente del Brasile, senza che ci sia stata nessuna domanda al riguardo e in modo del tutto inatteso, denuncia il caso di Julian Assange e cerca di scuotere la stampa ad essere solidale e a richiederne finalmente la liberazione.

«Mi sento indignato con i presunti difensori della libertà di stampa nel mondo – afferma Lula – non è possibile che stia accadendo quello che vediamo: Julian Assange è in carcere perché ha denunciato lo spionaggio americano. Sarà mandato negli Stati uniti dove è probabile che prenderà l’ergastolo, neanche il giornale che ha pubblicato i suoi articoli lo difende, e questo si chiama codardia. Il lavoro che ha fatto meriterebbe rispetto ed elogio da parte di qualsiasi giornalista. Lui ha avuto il coraggio di divulgare e denunciare lo spionaggio Usa, perfino sulla presidente Dilma, come Kirschner in Argentina o Angela Merkel in Germania… E perché la stampa resta così tranquilla mentre questo cittadino è in carcere e sarà estradato? È importante che ci uniamo per dire che bisogna liberare Julian Assange e che ci dicano qual è il crimine che ha commesso. Quindi, voglio esprimere tutta l’indignazione per la mancanza di solidarietà con un giornalista che ha denunciato quello che tutti i giornalisti dovrebbero denunciare».

L’INDIGNAZIONE è un leitmotiv del suo discorso e del dialogo con la stampa presente: indignazione per la guerra, per le diseguaglianze, per i fiumi di soldi spesi in armi, piuttosto che per combattere la fame, ma per fermare questa guerra, non è possibile che le condizioni vengano solo da una parte, come vorrebbero Usa e Ue: «Un accordo di pace non è una resa, ma vuol dire che entrambe le parti debbano ottenere qualcosa, altrimenti è un’imposizione. Chi sa cosa è necessario per arrivare a un accordo sono gli ucraini e i russi. Il Brasile ha condannato l’occupazione territoriale dell’Ucraina, che sta portando morte e distruzione, ma la Russia non è certamente l’unico Paese ad essere invasore… pensiamo agli Usa in Iraq o Inghilterra e Francia con la Libia». Tra l’altro tutti membri del consiglio di sicurezza dell’Onu, che abusano del loro potere ed esautorano lo stesso consiglio.

«Prima fermare la guerra e poi sedersi per parlare fino a trovare un denominatore comune». Un processo lento ma urgente, secondo Lula, che prosegue. «L’Unione europea avrebbe le condizioni per impegnarsi per la pace, ma è totalmente coinvolta nella guerra… Deve arrivare il momento in cui la ragione prevarrà».

Il presidente brasiliano crede in un terzo fronte non allineato che pur riconoscendo il crimine dell’invasione Russa, possa farsi portatore di un processo diplomatico per la pace: Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Argentina, insieme ad alcuni paesi dell’Africa, con il sostegno fondamentale del papa e della sua personalità autonoma, dal forte spessore giuridico-morale.

NON INVESTIRE IN ARMI E GUERRA, quindi, ma sulla pace e l’educazione, come accaduto in Brasile per l’università nei suoi governi precedenti: «Per quanto non abbia un diploma universitario, sono il presidente del Brasile che ha maggiormente investito nell’università, abbiamo costruito più campus, investito nell’estensione universitaria (terza missione), scuole tecniche e istituti federali… Ora investiamo su un Centro nazionale di ricerca, stiamo facendo scuole a tempo pieno per garantire che i giovani restino il giorno intero, vogliamo alfabetizzare gli studenti nei giusti tempi, visto che dopo la pandemia abbiamo un’enorme quantità di bambini e ragazzi che non sanno né leggere né scrivere… Nel mio governo è proibito utilizzare la parola “peso” quando si tratta di investimenti nell’educazione, il più sacro investimento che possiamo fare in Brasile, come in qualsiasi Paese del mondo, perché così si formano persone qualificate che possono aiutare il Paese ad essere più competitivo. Non esiste nessun modello di Paese che si sia sviluppato senza fare prima investimenti nell’educazione, una priorità insieme al lavoro e alla lotta alla fame».

QUANTO ALLA SINISTRA, in Europa e America latina, deve avere più coraggio nel contrapporsi ai settori conservatori, in particolare sul tema dell’immigrazione: «Dobbiamo costruire un’utopia in grado di sconfiggere l’utopia della destra secondo cui lo Stato non vale niente, lo Stato deve essere debole e l’iniziativa privata risolve tutto. Bisogna fare in modo che il transito delle persone sia tanto libero quanto quello economico. Il denaro circola tra tutti i Paesi senza mostrare il passaporto, ci vuole, quindi, più pazienza, più maturità per difendere i migranti. Persone che fuggono perché non sanno come sopravvivere. L’essere umano è per natura nomade. Alla ricerca di cosa mangiare e come lavorare». Ma precisa che «le differenze ideologiche con Meloni non riguardano la costruzione di relazioni diplomatiche, come in qualsiasi altro Paese del mondo». Completamente assente dal suo discorso invece qualsiasi riferimento a Bolsonaro.

Insomma, un Lula che non nomina l’innominabile e che di fronte a guerre, ad accordi sul clima non rispettati da nessuno, neanche da chi li ha congeniati e stipulati, alla relazione molto tesa tra il presidente del Nicaragua Daniel Ortega, e la chiesa cattolica, a una transizione ecologica sempre più intransitiva, ai problemi con la Francia per l’accordo Ue-Mercosur, veste i panni del mediatore a 360 gradi. E annuncia l’appuntamento in Amazzonia, per la cop – convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – 2025 – perché è lì, con la preservazione della foresta e la valorizzazione della biodiversità, che si possono creare le possibilità affinché la barca del pianeta Terra non affondi sotto i suoi stessi colpi.
*(Paolo Vittoria. Professore Associato di Pedagogia Generale e Sociale presso l’Università degli studi di Napoli Federico II. Dipartimento di Studi Umanistici)

 

03 – Massimo Franchi*. LANDINI: «PARTE UNA NUOVA MOBILITAZIONE». LA CURA. IL SEGRETARIO DELLA CGIL IN ASSEMBLEA CON I LAVORATORI DELLA SANITÀ: DOMANI IN PIAZZA CONTRO IL GOVERNO TAGLIA E PRIVATIZZA. CON LE 60 ASSOCIAZIONI DI «INSIEME PER LA COSTITUZIONE» DIFENDIAMO IL DIRITTO ALLA SALUTE«INIZIA UNA NUOVA MOBILITAZIONE E PARTE DAL RILANCIO DELLA SANITÀ PUBBLICA».
Al ritmo di tre assemblee al giorno, Maurizio Landini prepara la manifestazione di domani di «Insieme per la Costituzione», la sessantina di associazioni laiche e cattoliche guidate dalla Cgil. Una mobilitazione che porterà all’altra manifestazione del 30 settembre «contro precarietà e autonomia differenziata» e a ottobre allo «sciopero» contro la manovra del governo.

Landini è partito in mattinata dall’Enel di Civitavecchia – la manifestazione mette al centro anche la sicurezza sul lavoro – spostandosi poi all’Ifo di Roma, uno dei più grossi centri di trattamento di tumori dermatologici, e infine allo Spresal (prevenzione infortuni sul lavoro) dell’Asl Roma 3 con «24 operatori sui 77 previsti».

«Tutte assemblee fatte in queste settimane servono a noi soprattutto per ascoltare – esordisce Landini – . Sono state tutte molto partecipate e in tutte è emersa la condivisione sulla nostra scelta di scendere in piazza, sia fra chi lavora nella sanità sia fra chi è cittadino utente perché solo unendoli possiamo ottenere risultati. Siamo davanti alla messa in discussione di un diritto costituzionale», sottolinea il segretario della Cgil.

Dopo le manifestazioni di maggio, inizia una nuova mobilitazione. Non escludiamo nulla sulla legge di Bilancio: se necessario arriveremo allo sciopero. È bene dircelo subito
La «piattaforma» della manifestazione è chiara: «Chiediamo di aumentare i fondi per la sanità pubblica, di assumere medici e infermieri (nel solo Lazio la Cgil chiede 10 mila assunzioni), di aumentare i salari dei lavoratori del settore, di diminuire la precarietà – dice con davanti Laura, precaria da 22 anni in una società che lavora in appalto con la Asl – e di bloccare il processo di progressiva privatizzazione».

«LA MANIFESTAZIONE DI SABATO non è solo contro il governo: punta a creare vertenze con le imprese e sul territorio con gli enti locali che, a causa della riforma del titolo quinto che come Cgil abbiamo contrastato, ha portato a 20 sistemi sanitari diversi».

Per fare tutto questo, Landini sa bene che servono risorse ingenti e quindi chiede «che la riforma Fiscale delegata al governo le individui anche tramite tassazione degli extraprofitti e lotta all’evasione».

LA POSIZIONE DEL GOVERNO Meloni però è totalmente opposta. «Nel Def il governo ha messo nero su bianco che la spesa sanitaria rispetto al Pil calerà nel triennio dal 7 al 6,2% del Pil; un valore molto inferiore a paesi come la Germania e la Francia che spendono il 9% in sanità». Il tutto mentre «4 milioni di italiani rinunciano a curarsi perché non hanno i soldi per farlo, le liste d’attesa per esami fondamentali sono di anni e non c’è un euro per rinnovare i contratti del settore pubblico».

E se Landini riconosce che «i tagli alla sanità pubblica, con la sola parentesi della pandemia, vanno avanti da 20 anni con qualsiasi governo», i rapporti con l’attuale esecutivo nelle ultime settimane hanno virato pesantemente in negativo.

«ABBIAMO INCONTRATO il ministro Schillaci che alle nostre richieste ha risposto con l’annuncio di tavoli a luglio e che con questa proposta: “Non possiamo aumentare i salari ma se i lavoratori fanno ore in più, lo potranno fare e saranno pagati”. Una vera presa in giro: voleva anche non pagarli?», scherza Landini. «Nel frattempo il governo non riesce a spendere i miliardi per la sanità del Pnrr e rischia di far costruire le Case della comunità che, senza assumere medici e infermieri che ci operano, saranno regalate alla sanità privata», attacca Landini.

IN CONTEMPORANEA con le assemblee ieri si è tenuto un altro incontro. «Il governo ha saputo che sabato manifestavamo anche per la sicurezza sul lavoro e allora ci ha riconvocato in fretta e furia sul tema. Invece di destinare nuove risorse, il ministero del Lavoro ha annunciato di voler “semplificare la legge 81” sulla sicurezza aumentando il ruolo dei Consulenti del lavoro che sono, come noto, consulenti delle imprese: un altro colpo di mano», denuncia Landini.

Accompagnato dalla segretaria generale della Funzione pubblica (Fp) Serena Sorrentino che negli scorsi mesi ha portato medici e infermieri a un’assemblea in una fabbrica metalmeccanica a parlare di sanità, Landini detta la linea: «Deve diventare una pratica della Cgil quella di mischiare i lavoratori e far parlare chi conosce meglio l’argomento: se la sanità va male deve dirlo chi ci lavora».

SONO MOLTI E IMPORTANTI gli annunci fatti dal segretario Cgil. «Dopo le manifestazioni di maggio, sabato inizia una nuova mobilitazione. Come Cgil la cominciamo senza escludere nulla in vista della legge di Bilancio del governo: se necessario arriveremo allo sciopero. È bene dircelo subito», rimarca Landini «anche perché non ci basterà rendere strutturale il taglio del 5% del cuneo fiscale perché con un’inflazione che il governo stima del 18% su base biennale, il solo taglio del cuneo equivale alla riduzione programmata dei salari».
«Non posso promettervi che otterremo risultati – ammette – ma la nostra storia ci insegna che solo con la lotta abbiamo conquistato diritti e salario, nessuno ti regala niente. E allora solo allargando la mobilitazione e la partecipazione possiamo ottenere qualcosa».

IL CALENDARIO DELLA «NUOVA mobilitazione» è già molto fitto. Oltre alla manifestazione del 30 settembre, «nella settimana dell’8 ottobre ripartirà la mobilitazione per la pace e sempre a ottobre dovrebbe tenersi la mobilitazione sindacale comune europea decisa dal congresso della Ces su nostra proposta: proprio nei prossimi giorni si terrà la riunione per fissarla», annuncia Landini. «Ai primi di settembre» invece «terremo l’assemblea di tutte le categorie della Cgil sui rinnovi contrattuali».
*(Fonte: Il Manifesto. Massimo Franco è un giornalista e saggista italiano)

 

04 – Samuele Cafasso *:UN MODELLO DI FAMIGLIA CHE DISCRIMINA I FIGLI DELLE COPPIE OMOSESSUALI. IN ASSENZA DI UNA LEGGE NAZIONALE, IL GOVERNO BLOCCA I SINDACI CHE RICONOSCONO LE FAMIGLIE OMO-GENITORIALI. CHE COSÌ SONO COSTRETTE A LUNGHE TRAFILE BUROCRATICHE PER ADOTTARE I LORO FIGLI.

Daniela Laudicina e Giuliana Sarli sono due donne che vivono a Roma, hanno contratto un’unione civile e hanno una figlia di otto anni concepita con una fecondazione eterologa eseguita all’estero. Nel settembre del 2017 Daniela Laudicina, la madre che non ha partorito, d’accordo con sua moglie ha contattato l’avvocata Susanna Lollini per adottare quella che era già – a tutti gli effetti, ma non secondo la legge – sua figlia.

È ricorsa a una procedura per adozione in casi particolari, che riguarda per esempio le adozioni in cui sono coinvolti parenti o persone che hanno bisogno di cure speciali per disabilità o altri casi. Gli effetti sono assimilabili a quelli che regolano l’adozione del figlio del partner, o stepchild adoption, e per questo viene a volte definita così. Ci è riuscita solo dopo due anni, una spesa di qualche migliaia di euro e una procedura legale che, come ogni percorso di adozione, prevede visite a casa, lunghi colloqui con psicologi e assistenti sociali, ma che loro hanno vissuto come “un’intromissione nella nostra vita privata”.

“Mi ricordo la prima telefonata dello psicologo a mia moglie”, racconta Daniela Laudicina. “Le diceva: ‘signora Giuliana, lei è al corrente del fatto che la signora Laudicina vuole adottare sua figlia?’”. In seguito, le due donne hanno dovuto spiegare a psicologi e assistenti sociali come hanno scoperto di essere omosessuali, è stato chiesto loro se hanno mai avuto rapporti con uomini, che costi avevano sostenuto per la fecondazione eterologa all’estero e altre domande “che nulla avevano a che fare con la nostra genitorialità”, continua Laudicina. “La giudice, prima di emettere la sentenza, ci ha detto: comunque questa bambina crescerà senza un padre. Ci siamo girate verso l’avvocata, che ci ha fatto segno di non rispondere”.

Il caso di Laudicina e Sarli non è raro: in assenza di una legge nazionale che riconosca i figli delle coppie omogenitoriali, migliaia di omosessuali hanno intrapreso lo stesso percorso per dare ai loro figli gli stessi diritti dei bambini nati da coppie eterosessuali. Altre famiglie, facendo ricorso in tribunale oppure con l’appoggio delle loro amministrazioni comunali, hanno invece potuto riconoscere i loro figli direttamente alla nascita, ottenendo da subito la registrazione all’anagrafe di entrambi i genitori, secondo il principio del prevalente interesse del bambino rispetto alla mancanza di una legge.

Discriminare sulla base di un modello etico di famiglia è in effetti quello che sta facendo il governo italiano

Sono queste le famiglie che il governo italiano adesso ha preso di mira: i prefetti – ha fatto sapere il sindaco di Milano Giuseppe Sala – hanno l’indicazione di sbarrare la strada ai comuni che trascrivono i certificati di nascita, e parallelamente l’avvocatura di stato impugna le sentenze favorevoli alle famiglie. Secondo il governo l’unica strada percorribile per il riconoscimento deve essere quella delle adozioni in casi particolari , una pratica che ritiene sufficiente a tutelare i bambini. Ma non è così: è una strada difettosa, che spesso fallisce nel garantire rapidamente una vita serena a queste famiglie e che ha costi economici – stiamo parlando di oltre tremila euro di parcelle per gli avvocati – ed emotivi rilevanti.

In un’intervista al Corriere della Sera dello scorso 16 marzo, la ministra per la famiglia Eugenia Roccella ha dichiarato che la scelta di governo e maggioranza di attivare i prefetti è stata fatta “per un problema solo”, ovvero impedire il ricorso alla gestazione per altri alle coppie di uomini gay, anche se in realtà a essere colpite sono soprattutto coppie di donne. I casi di coppie eterosessuali che fanno ricorso alla gestazione per altri all’estero (perché, a differenza della fecondazione eterologa, in Italia è vietata) invece non vengono toccati.

Con la stessa motivazione è stata bocciata in parlamento la proposta di un regolamento europeo sul certificato di filiazione, che vorrebbe permettere ai figli di famiglie omogenitoriali riconosciuti all’estero di muoversi liberamente all’interno dell’Unione europea, anche nei paesi dove i loro diritti non sono riconosciuti, ovvero l’Italia e alcuni paesi dell’Europa dell’est, il cosiddetto blocco di Visegrád.

In un’altra dichiarazione rilasciata alla trasmissione tv Mezz’ora in più di Lucia Annunziata, Roccella ha in seguito precisato che “noi abbiamo un modello che prevede una mamma e un papà”. Discriminare sulla base di un modello etico di famiglia è in effetti quello che sta facendo il governo italiano. L’Italia, peraltro, ha una lunga tradizione in materia di discriminazione dei minori sulla base delle condizioni della loro nascita: le ultime differenze tra figli legittimi, cioè nati da persone sposate, e figli naturali, cioè nati fuori dal matrimonio, sono state cancellate solo nel 2013, con un decreto del governo allora presieduto da Enrico Letta. Le discriminazioni nei confronti dei figli di omosessuali invece non sono mai state cancellate, nemmeno con l’approvazione della legge sulle unioni civili del 2016; e in materia di procreazione medicalmente assistita la fecondazione eterologa, a cui possono accedere coppie eterosessuali sposate o anche di fatto, è invece preclusa a single e coppie lesbiche.

“Dovrei essere felice per la mole di lavoro che questo governo ci porta, ma ovviamente non è così”, prova a scherzare Michele Giarratano, avvocato, attivista di Famiglie Arcobaleno. “L’adozione non tutela sufficientemente questi bambini e, oltre ai tempi e le lunghe procedure, ha un problema di fondo: richiede, pena l’inammissibilità, il consenso di chi esercita la responsabilità genitoriale, ovvero il genitore biologico”. Quindi, per esempio, se durante il procedimento avviene una separazione conflittuale, il minore perde uno dei due genitori perché il primo può negare all’altro di vederlo. Lo stesso succede in caso di morte o malattia grave del genitore biologico, se questi non ha fatto in tempo a rilasciare la sua dichiarazione davanti a un giudice.

Luca Possenti, insieme a suo marito Francescopaolo Di Mille padre di una ragazzina di 12 anni, nata in Canada attraverso una gestazione per altri, ha ottenuto solo lo scorso gennaio l’adozione di sua figlia. Negli anni precedenti i due padri avevano tentato la strada del riconoscimento alla nascita, ricevendo però un diniego dai giudici. “A un certo punto ci siamo trovati in una situazione famigliare che ci ha spaventati e per cui era urgente che anche io avessi il riconoscimento come padre, per questo abbiamo chiesto l’adozione”. Il tribunale dei minori di Roma, riconoscendo questa urgenza, ha accelerato la procedura, che è stata chiusa dopo meno di un anno. Rimane il fatto che una famiglia deve confidare nella comprensione delle persone che incontra, raccontare aspetti molti intimi e personali della propria vita, per essere riconosciuta dalla legge. “L’assistente sociale e la psicologa della Asl sono state molto comprensive, ma tu devi stare lì, essere scrutato, valutato, giudicato, è qualcosa che gli altri genitori non devono vivere. Il giudice potrebbe essere contrario, omofobo, fino all’ultimo hai paura. Tua figlia deve passare attraverso psicologi e assistenti sociali: per quale motivo?”.

Uno degli altri paradossi è che obbligare tutte le famiglie omogenitoriali a passare attraverso l’adozione in casi particolari aggrava di molto il lavoro di assistenti sociali, psicologi, tribunali dei minori: la destra italiana, che ha sempre lamentato il fatto che i problemi del paese erano troppo gravi per occuparsi dei diritti delle persone lgbt+ in via prioritaria, sta gettando le basi per ingolfare il sistema che dovrebbe presiedere alle adozioni e alle azioni a tutela dei minori in stato di difficoltà.

“Un anno e qualche mese è il tempo medio per ottenere l’adozione, ma non ci sono standard e tutto cambia di città in città: a Brescia vanno rapidi, a Milano si rischia di rimanere bloccati per anni”, spiega l’avvocato Giarratano. “Ci sono tribunali dove correttamente l’adozione viene valutata come un’adozione intrafamiliare, e prevede quindi un tipo di esame diverso rispetto all’adozione di un estraneo, altri invece no. A Brescia, per fare un altro esempio, chiedono analisi e certificati medici. A parte che è discriminante in ogni caso, ma viene da chiedersi: un omosessuale con una malattia cronica non può adottare suo figlio?”.

Ilaria Rossi è una delle madri che, insieme a sua moglie, ha dovuto fornire al tribunale di Brescia i documenti sanitari perché la loro figlia fosse registrata sui documenti con entrambi i genitori. La sua esperienza con assistenti sociali e psicologi è stata positiva, “abbiamo trovato persone pronte all’ascolto”, ma allo stesso tempo spesso non preparate ad affrontare temi che sono fuori dalle loro usuali competenze. In un colloquio, la loro scelta di affidarsi in Danimarca a un donatore aperto, ovvero che sarà conoscibile dalla bambina quando questa sarà grande, è stata paragonata all’esigenza di un bambino in adozione di mantenere i contatti con la famiglia d’origine, due casi completamente diversi che mischiano e confondono una donazione di materiale genetico con il trauma di un abbandono.

Ma il caso di Ilaria Rossi è interessante anche per un altro aspetto: questa famiglia, infatti, ha scelto di intraprendere la strada dell’adozione alla fine di un lungo percorso che ha visto la doppia genitorialità inizialmente negata alla nascita dal comune di Brescia, poi concessa dopo un ricorso al tribunale, quindi di nuovo negata dopo ulteriore ricorso in appello della avvocatura di stato. In assenza di una legge, bambini con documenti già emessi e diritti riconosciuti, vengono rigettati nel limbo da ricorsi e nuove sentenze, mentre avvocatura di stato e prefetti si muovono per ribadire la superiorità di “un modello di famiglia che prevede una mamma e un papà”, discriminando tutte le altre.

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*( Samuele Cafasso. Giornalista. Ha lavorato per il Secolo XIX come viceresponsabile del settore economia dal 2005 al 2015)

 

05 – Giovanni De Mauro*: Indelebile – Era il 28 luglio 1951 quando a Ginevra una conferenza speciale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione relativa allo status dei rifugiati.

L’articolo 1 della Convenzione dice che il rifugiato è chi “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese”.
All’epoca era la risposta concreta a una questione urgente: lo spostamento di massa di milioni di persone dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Il principio fondamentale della Convenzione, spiega l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, è quello del non-refoulement, secondo cui “nessun rifugiato può essere respinto verso un paese in cui la propria vita o libertà potrebbero essere seriamente minacciate. Oggi è ormai considerato una norma di diritto internazionale consuetudinario”.
Di rifugiati si è occupato [uno degli ultimi numeri](https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(23)01239-4/fulltext) della rivista medica The Lancet, notando come in molti paesi ad alto reddito, di cui molti europei, le politiche sui rifugiati non sono ispirate a princìpi di accoglienza e inclusività, ma basate su esternalizzazione, deterrenza, contenimento e rimpatrio.
Invece, scrive The Lancet, dovremmo cominciare con una verità: “La migrazione è una caratteristica dell’esistenza umana da millenni. Tra i settanta e i centomila anni fa, l’Homo sapiens cominciò a migrare dall’Africa e a popolare parti dell’Europa e dell’Asia. Da allora gli spostamenti umani non si sono mai fermati. Le condizioni che costringono le persone a diventare rifugiati sono cariche di ingiustizia e crudeltà. Richiedono prevenzione, mitigazione, risoluzione e riparazione. Ma il movimento stesso delle persone, volontario o forzato, è una parte indelebile della nostra storia e del nostro futuro”.
*(05 – Giovanni De Mauro direttore di Internazionale)

 

06 – SANTANCHÈ TRABALLA E MINACCIA QUERELE – GOVERNO. DOPO LE ACCUSE DI REPORT SULLE MALEFATTE DELL’AZIENDA DELLA MINISTRA DEL TURISMO, LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO MELONI NON LA DIFENDE E LE OPPOSIZIONI LA CHIAMANO IN AULA: NON SI SALVERÀ CON L’OBLIO. LEI REPLICA ANNUNCIANDO AZIONI LEGALI,
MINACCIA QUERELE, MA NON SPIEGA NULLA E NON RISPONDE ALLE ACCUSE DEI SUOI DIPENDENTI RACCOLTE E RACCONTATE LUNEDÌ IN TV DA REPORT.

Daniela Santanchè prova a cavarsela definendo quelle della trasmissione «notizie prive di corrispondenza con la verità storica». Ma le opposizioni, almeno Pd, M5S e Sinistra-Verdi, chiamano a risponderne anche Meloni, chiedendo alla camera che la presidente del Consiglio spieghi in aula.
La posizione della ministra del turismo si complica con il passare delle ore. Meloni è molto riluttante a fare un passo per difenderla, anche perché di argomenti a discapito non pare ce ne siano, come dimostra la nota di ieri della ministra. Report ha raccontato di fornitori della sua azienda, Visibilia editore, non pagati, ha raccolto le testimonianze di dipendenti che aspettano ancora il versamento del tfr, di licenziamenti illegittimi, Cassa integrazione Covid usata senza diritto, operazione finanziarie con fondi stranieri che – denunciano i piccoli azionisti della società – hanno creato un danno alle aziende prima floride poi ridotte sul lastrico, e tutto questo mentre gli amministratori ricevevano compensi altissimi.
Vicende che, secondo Santanchè, «sono state rappresentate in forma del tutto suggestiva e unilaterale per fornire una ricostruzione dei fatti che risulta radicalmente non corrispondente al vero». Da qui l’annuncio: «Ho dato mandato ai legali di fiducia per le necessarie iniziative nelle opportune sedi giudiziarie». Una minaccia di querela tutta da verificare. Che provoca la risposta del deputato di Sinistra/Verdi Angelo Bonelli, per il quale visto che la ministra «invece di rispondere nel merito alle documentate contestazioni minaccia azioni giudiziarie senza chiarire alcunché», allora «è opportuno verificare l’accordo di tutte le opposizioni per presentare una mozione di sfiducia nei suoi confronti per chiarire in modo inequivocabile l’argomento in parlamento».
Prima ancora, però, il Pd chiama in aula direttamente la presidente del Consiglio. Lo fanno diversi esponenti del partito di Schlein, per primo in aula il deputato Toni Ricciardi: «Noi pensiamo che la ministra debba dimettersi, Meloni venga a dirci se ritiene che possa continuare a stare al suo posto».
Intanto il vicepresidente del Movimento 5 Stelle Michele Gubitosa racconta di quando «una sera, nel momento più buio della pandemia, ero ospite insieme a lei nello stesso studio televisivo. Santanchè attaccava me, in quanto componente della commissione bilancio, e tutto il governo per i ritardi della cassa integrazione, vantandosi di averla anticipata ai suoi dipendenti. Se quanto evidenziato da Report (cioè che sarebbero stati costretti a lavorare senza stipendi e senza cassa, ndr) corrispondesse al vero, vorrebbe dire che la ministra ha mentito agli italiani in diretta tv». Il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Fratoianni, dice che mentre «eri sera era annunciata un’intervista alla ministra su una rete tv Mediaset» poi non è andata in onda, ma «se spera che la via d’uscita sia l’oblio si sbaglia di grosso». All’attacco, ma senza chiedere che Meloni riferisca in aula, anche Calenda: «Le questioni sollevate necessitano una risposta puntuale, non sono accuse che possono essere lasciate cadere nel vuoto da parte di un ministro. Aspettiamo chiarimenti».

06 – VERGOGNA.(ndr) Red. Pol.*Santanchè traballa e minaccia querele. GOVERNO. Dopo le accuse di Report sulle malefatte dell’azienda della ministra del turismo, la presidente del Consiglio Meloni non la difende e le opposizioni la chiamano in aula: non si salverà con l’oblio. Lei replica annunciando azioni legali
Minaccia querele, ma non spiega nulla e non risponde alle accuse dei suoi dipendenti raccolte e raccontate lunedì in tv da Report. Daniela Santanchè prova a cavarsela definendo quelle della trasmissione «notizie prive di corrispondenza con la verità storica». Ma le opposizioni, almeno Pd, M5S e Sinistra-Verdi, chiamano a risponderne anche Meloni, chiedendo alla camera che la presidente del Consiglio spieghi in aula.
La posizione della ministra del turismo si complica con il passare delle ore. Meloni è molto riluttante a fare un passo per difenderla, anche perché di argomenti a discapito non pare ce ne siano, come dimostra la nota di ieri della ministra. Report ha raccontato di fornitori della sua azienda, Visibilia editore, non pagati, ha raccolto le testimonianze di dipendenti che aspettano ancora il versamento del tfr, di licenziamenti illegittimi, Cassa integrazione Covid usata senza diritto, operazione finanziarie con fondi stranieri che – denunciano i piccoli azionisti della società – hanno creato un danno alle aziende prima floride poi ridotte sul lastrico, e tutto questo mentre gli amministratori ricevevano compensi altissimi.
Vicende che, secondo Santanchè, «sono state rappresentate in forma del tutto suggestiva e unilaterale per fornire una ricostruzione dei fatti che risulta radicalmente non corrispondente al vero». Da qui l’annuncio: «Ho dato mandato ai legali di fiducia per le necessarie iniziative nelle opportune sedi giudiziarie». Una minaccia di querela tutta da verificare. Che provoca la risposta del deputato di Sinistra/Verdi Angelo Bonelli, per il quale visto che la ministra «invece di rispondere nel merito alle documentate contestazioni minaccia azioni giudiziarie senza chiarire alcunché», allora «è opportuno verificare l’accordo di tutte le opposizioni per presentare una mozione di sfiducia nei suoi confronti per chiarire in modo inequivocabile l’argomento in parlamento».
Prima ancora, però, il Pd chiama in aula direttamente la presidente del Consiglio. Lo fanno diversi esponenti del partito di Schlein, per primo in aula il deputato Toni Ricciardi: «Noi pensiamo che la ministra debba dimettersi, Meloni venga a dirci se ritiene che possa continuare a stare al suo posto».

Intanto il vicepresidente del Movimento 5 Stelle Michele Gubitosa racconta di quando «una sera, nel momento più buio della pandemia, ero ospite insieme a lei nello stesso studio televisivo. Santanchè attaccava me, in quanto componente della commissione bilancio, e tutto il governo per i ritardi della cassa integrazione, vantandosi di averla anticipata ai suoi dipendenti. Se quanto evidenziato da Report (cioè che sarebbero stati costretti a lavorare senza stipendi e senza cassa, ndr) corrispondesse al vero, vorrebbe dire che la ministra ha mentito agli italiani in diretta tv». Il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Fratoianni, dice che mentre «eri sera era annunciata un’intervista alla ministra su una rete tv Mediaset» poi non è andata in onda, ma «se spera che la via d’uscita sia l’oblio si sbaglia di grosso». All’attacco, ma senza chiedere che Meloni riferisca in aula, anche Calenda: «Le questioni sollevate necessitano una risposta puntuale, non sono accuse che possono essere lasciate cadere nel vuoto da parte di un ministro. Aspettiamo chiarimenti».
*(Fonte Il Manifesto, Red. Pol.)

 

07 – LA MISSIONE DI PACE AFRICANA SEPPELLITA SOTTO LE BOMBE DEI MEDIA , di piccole note:*

La missione di pace africana guidata dal presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa non ha avuto una bella accoglienza a Kiev, nonostante fosse animata da buone intenzioni. Zelensky ha detto che non capiva quale fosse il loro piano per mettere fine alla guerra e che, in realtà, era semplicemente irrealistico.
Insomma, ha fatto capire chiaramente che Ramaphosa e i leader africani che si erano associati alla missione (il presidente dello Zambia Hakainde Hichilema e quello del Senegal Macky Sall) non erano i benvenuti, nonostante li abbia incontrati (non poteva evitarlo…).

D’altronde, che la missione di pace africana non fosse ben vista in Occidente, da cui la reazione stizzosa di Zelensky, lo si era capito fin dall’inizio. Il giornale sudafricano Daily Maverick riferisce che il viaggio ha subito contrattempi inusitati, tanto che Il capitano della South African Airways Mpho Mamashela ha dichiarato che “qualcuno dovrebbe prenderne nota e inserirlo nel guinness dei primati”.

Infatti, il velivolo, nonostante avesse tutte le carte in regola per il volo, ha dovuto girare a vuoto a lungo prima di ottenere il permesso per sorvolare i cieli italiani.

Quindi, giunto a Varsavia, dove ha fatto tappa prima di ripartire per Kiev, un altro e più fastidioso contrattempo. Atterrato, infatti, le forze dell’ordine polacche hanno letteralmente impedito alla sicurezza e ai giornalisti al seguito della delegazione di Stato di scendere dal velivolo per più di 24 ore, adducendo motivazioni del tutto pretestuose. Tra i fermati anche la sicurezza personale del presidente sudafricano, che ha reagito in maniera dura alla prepotenza (incidente poi rientrato).

Non solo, dopo che Ramaphosa ha terminato la visita di Stato a Varsavia, nel corso della quale ha incontrato il presidente Duda, l’aereo doveva ripartire alla volta di Kiev, per raggiungere il presidente che vi sarebbe giunto in treno. Ma le autorità polacche, dopo aver dato il via libera, hanno nuovamente bloccato l’aereo a terra, autorizzando però i suoi occupanti a scendere dopo più di 24 ore di sequestro.

LE BOMBE MEDIATICHE SU KIEV
Anche la visita a Kiev di Ramaphosa ha avuto i suoi inconvenienti, almeno mediatici. Infatti, i media d’Occidente hanno raccontato che, giunta a Kiev, la delegazione è stata accolta dalle bombe, avendo i russi scelto proprio quelle ore per lanciare missili sulla città, nonostante la visita fosse stata comunicata anche ai russi, dal momento che, dopo Zelensky la delegazione doveva incontrare Putin.

Non sfugge che tale rappresentazione dei fatti serve a rendere l’idea che Mosca sia talmente ostile a una prospettiva di pace che ha voluto intimidire la delegazione africana o, in subordine, gli sia così indifferente da ritenere non necessario evitare di lanciare missili sulla capitale ucraina nel corso della visita.

A tale proposito la CNN riporta un post su Telegram di Andriy Yermak, capo dell’ufficio del presidente dell’Ucraina: “Putin vuole dimostrare di essere pronto a ignorare la sicurezza dei leader stranieri, non gli importa davvero, perché sente di avere una totale impunità. E chiunque altro può essere al posto dei leader africani”.

“Ricordiamo che i missili volavano anche quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres sono arrivati in Ucraina”, ha aggiunto Yermak in un post su Telegram, invitando il mondo ad assumere “la posizione più dura possibile contro la Russia”.
LA SMENTITA DEL PORTAVOCE DI RAMAPHOSA
Proprio il cenno sull’analogia con la visita di Biden suscita qualche sospetto. In realtà, nonostante tutti i media occidentali abbiano riportato che durante la visita del presidente Usa i russi abbiano bombardato Kiev, la notizia era falsa, come ha poi dichiarato, anche se non esplicitamente, il Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan. Solo il suono delle sirene dell’allarme antiaereo era vero, ma era tutto uno show a uso e consumo dei media.
Così riportiamo quanto riferito dal portavoce del presidente sudafricano, Vincent Magwenya, come riportato da Azerbaican24: “In realtà non si sono sentite sirene o esplosioni, ha detto Magwenya. ‘Non abbiamo sentito alcuna esplosione’, ha twittato. ‘Invece, abbiamo visto persone che con calma continuavano le loro occupazioni giornaliere’”.
D’altronde sarebbe davvero strano che Putin tiri bombe contro Ramaphosa, essendo il Sudafrica un Paese membro dei Brics – tra l’altro guardato con ostilità dagli Usa che l’accusano di inviare armi alla Russia (!) – e in rapporti più che proficui con Mosca.
Peraltro Putin aveva telefonato al presidente sudafricano pochi giorni prima, l’8 giugno, al quale aveva detto di aver “accolto con favore l’iniziativa dei leader africani ed aveva espresso il desiderio di riceverli” (Daily Maverick).
Ma la missione di pace africana sembra ormai seppellita sotto le bombe mediatiche, nonostante avesse una rilevanza non secondaria. Infatti, Ramaphosa, prima di partire aveva chiamato Xi Jinping, con il quale evidentemente si era coordinato, avendo la Cina messo in campo un piano di pace solido (come da valutazione di Henry Kissinger). Proprio la sua rilevanza spiega i tanti inquietanti incidenti di percorso.
*(Fonte: Sinistrainrete, piccole note)

 

 

 

 

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