Ucraina: A Kharchiv è nato mio figlio, risiedono i miei amici, ci sono andata19 volte

di Francesca Fornario

A Kharchiv è nato mio figlio, risiedono i miei amici, ci sono andata – vedo dai timbri sul passaporto – 19 volte, per settimane.

Una volta, un operaio che come molti aveva perso il posto con la dismissione dell’industria di stato mi ha confidato: “Tutti noi, da ragazzi, volevamo che l’Unione Sovietica cambiasse, ma un pochino! (“ciù-ciù”), non così! Prima noi avevamo la casa, il lavoro, la scuola, ora ci hanno tolto tutto!”.
In ospedale, se non ti porti i cerotti da casa, ti mettono il nastro adesivo.
Ora è tappato in cantina con la sua famiglia: “Stanno bombardando a pochi chilometri da qui!”.

Un’altra volta discutevamo della corruzione negli uffici pubblici, degli avvocati ai quali in Ucraina devi rivolgerti per ottenere il rispetto dei diritti, di quella che aveva fatto carriera e si era comprata la villa facendo l’avvocato. L’anziana madre ha scosso la testa sconsolata: “Ai miei tempi nessuno voleva fare l’avvocato. Gli avvocati li disprezzavamo. I mestieri che tutti volevamo fare erano l’insegnante, il dottore: questi erano i lavori più belli! Adesso una che fa l’avvocato è più importante di una che fa la maestra?! Ti rendi conto!”. Che paese è quello dove la giustizia l’assicurano gli avvocati e i soldi per pagarli?
È in cantina pure lei, con il nipote che piange per la paura dei missili. “Non sappiamo bene chi spara” e non fa più differenza: se i missili li spara Mosca o se invece li spara kiev e ti cadono in testa tu muori uguale.

Un’altra volta eravamo in un bar. Un giovane e ricco architetto spiegava a una ragazza cresciuta in orfanatrofio che “Quando c’era il comunismo non c’era libertà”: “Se volevi portare la tua famiglia al ristorante non potevi scegliere, c’era solo un ristorante. Se volevi regalare una tazza a una tua amica potevi scegliere solo tra quella con il bordo blu e quella con il bordo rosso”. E lei: “Ma potevi andare al ristorante. Potevi comprare la tazza. Io oggi non ho i soldi per andare al ristorante e nemmeno quelli per comprare la tazza”.

In pochi anni ho visto la storia ucraina cambiare sotto i miei occhi, nelle vetrine e nelle didascalie del museo di storia, dove la memoria dell’Unione Sovietica è stata rimossa e sostituita con l’esaltazione dell’oligarchia (“l’Ucraina diventata grande sul finire dell’Ottocento grazie alla concentrazione della richezza e del potere nelle mani di poche famiglie illuminate”), delle gesta di Stepan Bandera, l’alleato di Hitler responsabile dell’eccidio degli ebrei ucraini e del genocidio di decine di migliaia di polacchi (ora il giorno della sua nascita è festa nazionale), Dei distintivi delle milizie che fanno propri i simboli nazisti e dopo Maidan sono state accorpate nell’esercito regolare ucraino.

La storia la scrivono i ricchi perché la vincono loro. Cancellare la memoria della rivoluzione bolscevica e del ruolo dell’Armata Rossa nella lotta contro il nazifascismo è servito a un miliardario ebreo come Kolomoisky, l’editore del comico Zelensky, a finanziare da Israele le incursioni armate in Donbass dei miliziani neofascisti con la svastica cucita sulla mimetica che da anni scatenano in Ucraina la guerra che solo oggi che la scatena Putin fa notizia: da anni uccidono i civili, bombardano scuole e ospedali.

“Sei contro la guerra perché sei buonista”, mi ha detto uno che o stai con Putin o stai con la Nato, come se fossero quelli gli schieramenti, come se non fossero entrambi prodotti dell’imperialismo che ha scatenato ogni conflitto, entrambi maestri nella propaganda e nella censura che lo ha alimentato.

«No, sono contro la guerra perché sono realista». E la realtà è che la guerra il mio schieramento – la sterminata moltitudine di poveri cristi – non la vince mai.
Non vince mai la guerra e nemmeno la pace.
Da nessuna parte e tantomeno in Ucraina. Durante la guerra – una guerra che in Ucraina si combatte da 8 anni, con 14mila morti sotto i bombardamenti ucraini, contando soli quelli certificati dall’Ocse – cercano riparo in cantina, durante la pace è stata loro imposta un’altra lingua a scuola e negli uffici pubblici, una lingua molto diversa dalla sola che mio figlio e tutti gli ucraini dell’est parlano (essendo il russo e l’ucraino diversi come l’italiano e lo spagnolo). Durante la pace hanno perso il lavoro, il potere d’acquisto di stipendi sempre più miseri, il diritto alla pensione che si allontana nel tempo, hanno patito la censura, subito minacce, perso l’accesdo al social network – vk – che per loro era parte del quotidiano come per noi fb. E non sono supporter del governo che li ha impoveriti e bombardati nemmeno di Putin che li bombarda adesso e vorrebbero solo lavorare, mandare i figli a scuola, parlare la loro lingua, professare ciascuno la propria religione o nessuna, vivere in pace.

La guerra la vincono solo gli oligarchi di ogni latitudine, anche quando la perdono. La vincono moltiplicando l’export delle armi che producono, passando in pochi anni da una quota del 32 per cento del mercato mondiale al 37, come hanno fatto gli Stati Uniti a forza di scatenare conflitti armati e imporre di spendere una quota di pil superiore a quella investita nella ricerca e negli asili nido per acquistare armi da guerra ai paesi alleati che la guerra la ripudiano. La vincono imponendo sanzioni che si traducono in vantaggi economici per i pochi molto ricchi di quel paese e in perdite per i poveri cristi che pagano le bollette.

La vince Putin riconoscendo l’indipendenza del Donbass con otto anni di ritardo, premurandosi che le repubbliche popolari di Lugansk e Donetsk passassero nelle mani di affaristi vicini al Cremlino e usando la protezione di un popolo che per otto anni ha lasciato massacrare a pretesto per invadere militarmente l’Ucraina e sistemare i conti con gli Stati Uniti, con l’Europa nel ruolo della torta da spartire.

La vincono i potenti affaristi che stabiliscono quali popoli hanno il diritto di autodeterminarsi e quali no, quali profughi vanno accolti e quali no, quali conflitti fanno notizia e quali no, quali cacciabombardieri bombardano gli inermi e quali invece esportano la democrazia, quali paesi vanno sanzionati perché violano il diritto internazionale e quali hanno il diritto di violare il diritto internazionale, quali rivoluzioni popolari sono un colpo di stato e quali colpi di stato sono una rivoluzione popolare, quali basi militari e alleanze militari servono a difendersi e quali sono una minaccia per la pace.

Lo fanno con la complicità dei giornalisti che si tolgono la mascherina FFP2 e si mettono l’elmetto per raccontare in diretta dall’hotel quello che succede in un paese dove non avevano mai messo piede o non tornavano dai tempi di quella che avevano raccontato come una rivoluzione di popolo e invece era un cambio della guardia al potere, i giornalisti – non tutti, eh, grazie ai colleghi onesti e coraggiosi che si sottraggono alle opposte propagande di un paese la cui intellighenzia, per colpire Putin, chiede a Paolo Nori di cancellare il corso dì letteratura su Dostoevskij alla Bicocca – che mostrano le immagini del tank russo che investe di proposito un’auto ucraina e poi si scopre che era un mezzo ucraino e non russo il cui autista – un giovane mandato al massacro come tutti i soldati ucraini e russi e di ogni paese – ha perso il controllo. I giornalisti che trasmettono le immagini di un videogame e dei botti a Napoli l’ultimo dell’anno e dicono che sono le immagini della guerra on Ucraina e che si stupiscono di non riuscire a trovare a est un solo ucraino che parli ucraino.

La guerra la perdono i popoli tutti alla fame, da un lato dell’oceano a indebitarsi per pagare le tasse universitarie e le cure mediche, dall’altro a lavorare per salari più bassi di quelli di 30 anni fa, di giù a sfuggire dai regimi che delle guerre imperialiste sono il prodotto, di su a respingere chi fugge dalle guerre e dare a lui la colpa del nostro impoverirci.

La guerra dobbiamo ripudiarla come chiede la nostra Costituzione antifascista, disinnescarla con la cooperazione, la diplomazia, i trattati di pace che il governo di Kiev non ha rispettato in Donbass, non con le armi imbracciate dai poveri cristi per ammazzare altri poveri cristi.

“La guerra che verrà non è la prima.
Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente faceva la fame.
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”.

Bertold Brecht.

Sabato saremo migliaia in piazza per chiedere di battersi per la pace a un governo che farnetica di un’Europa che non conosceva la guerra da 80 anni ignorando il conflitto nei balcani, quello in Donbass, le molte guerre che i nostri soldati sono stati spediti a combattere. A Roma ci vediamo alle 13.30 a Piazza della Repubblica per partire in corteo verso Piazza San Giovanni.

 

Nella foto, il museo di storia di Kharchiv (o Kharkov, come la chiamo i suoi abitanti, in russo), oggi.

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