n° 35 del 28/8/2021 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Giuseppe Cassini*: Più che la democrazia, abbiamo esportato inflazione e rancore. La resa dei conti.

02 – Francesca De Benedetti*: Invece di accogliere le afghane in fuga le manderemo nei paesi che odiano le donne.

03 – Claudia Fanti*: Brasile. Bolsonaro festeggerebbe l’indipendenza con un golpe. Crisi istituzionale senza precedenti: in calo nei sondaggi e in guerra con i giudici, il presidente chiede mani libere  alla piazza. Mentre Covid, fame e danni ambientali affondano il Paese.

04 – Alfiero Grandi. Nebbia sulla transizione ecologica, governo e imprese tentati dal rinvio delle scelte.

05 – Jason Burke – Rahmat Gul*:  AFGHANISTAN La galassia islamista che contende il potere ai taliban. Taliban pattugliano il quartiere di Wazir Akbar Khan a Kabul, Afghanistan

 

 

01 – Giuseppe Cassini*: PIÙ CHE LA DEMOCRAZIA, ABBIAMO ESPORTATO INFLAZIONE E RANCORE. LA RESA DEI CONTI. INVESTITO IN SVILUPPO UN 20° DI QUANTO SPESO PER GUERREGGIARE. E SOLO UN DECIMO DI QUEL 20° È FINITO IN PROGETTI AGRICOLI, PER UN POPOLO A CUI NON RESTAVA ALTRO CHE COLTIVARE OPPIO. A CHI PRESENTARE IL CONTO DELLA DISFATTA? I PAESI NATO POTREBBERO ALMENO ACCOLLARSI, IN PROPORZIONE AL PIL, L’IMPEGNO DI DARE OSPITARE LE MIGLIAIA DI PROFUGHI IN FUGA.

Riavvolgiamo il filo della matassa dall’inizio.

Andammo in Afghanistan nel 2001 per aiutare gli Usa, in base all’art. 5 del Patto Atlantico, ad inseguire a caldo i mandanti degli attacchi dell’11 settembre. In diritto internazionale si chiama hot pursuit e l’inseguimento è legittimo finché è “caldo”, non se dura vent’anni. Venuti meno gli obblighi difensivi si doveva tornare a casa. Invece no. Si decise di “adottare” quel Paese lanciando un’ambiziosa operazione di nation building. Per farlo si ricorse alla Nato (North Atlantic Treaty Org.), istituita nel 1949 in funzione anti-Urss. Che c’entrava con l’Afghanistan, distante 5000 km dall’Atlantico?

Parte della verità è che, scomparsa l’Urss, la Nato non sapeva come riciclarsi e volentieri accettò il nuovo ruolo affidatogli da Washington: esportare la democrazia. Un compito non proprio adatto per un organismo militare. Se è vero che la funzione crea l’organo, qui è stato l’organo a creare la funzione, nella peggior logica delle burocrazie. Risultato? In Afghanistan il divario tra spese militari e civili è stato di 20 a 1.

I governi donatori hanno investito per lo sviluppo del Paese un ventesimo di quanto speso per guerreggiare (e di quel ventesimo un buon terzo è tornato indietro per acquisti all’estero, stipendi ai cooperanti e commissioni varie). Infine, solo un decimo di quel ventesimo è stato investito in progetti agricoli, in un Paese popolato in maggioranza da contadini a cui non restava altro che coltivare oppio.

Esportare la democrazia? Finora si era esportata soprattutto inflazione. L’afflusso di cooperanti, consulenti, militari e uomini d’affari – tutti remunerati tra 10 e 50 volte più del salario medio di un afgano – alimentava un’inflazione devastante per i salari dei poveracci. Non si era mai visto tanto denaro nelle città, e solo nelle città. La corruzione era inevitabile, il rancore della massa di esclusi pure.

Organizzare libere elezioni? Il modello occidentale si è frantumato all’impatto con le tradizioni locali. Famose le elezioni presidenziali del 2009 che riportarono Karzai alla vittoria. In provincia di Kandahar, governata da un fratello di Karzai, i capi-clan del distretto di Shorbak avevano deciso di votare per il suo avversario; arrivò la polizia, sigillò tutti i seggi, impossibile votare, e a Kabul pervennero 23.900 schede riempite col nome di Karzai. La Commissione istituita dall’Onu registrò circa 3000 brogli con “prove chiare e convincenti di frode elettorale”.

L’obiettivo dichiarato della strategia Nato era quello di svuotare il bacino di consenso degli insorti a suon di denaro e di operazioni militari, in modo da indurli ad arruolarsi nelle forze governative. E’ successo proprio il contrario tra lo stupore generale. Eppure, si doveva sapere che già da anni i talebani avevano installato “governi ombra” in ognuna delle 34 province del Paese. Così si spiega anche la rapidità del cambio di governo: è bastato un solo giorno, senza sangue, neppure fossimo a Westminster nell’alternanza fra Labour e Tories…

Da tempo i veri esperti, naturalmente inascoltati, ammonivano che l’occupazione straniera era il problema, non la soluzione. Tra questi l’ex-ambasciatore russo a Kabul, Zamir Kabulov, che già dieci anni fa ammoniva: «Non c’è errore commesso dall’occupazione sovietica che non venga ripetuto ora… I militari della Nato si sono alienati le simpatie della popolazione, con cui comunicano dalle canne dei mitra protetti dalle corazze degli Humvee. La Nato sta vincendo le battaglie ma perdendo la guerra». Gli esperti come lui vedevano la Nato impelagarsi in un’avventura destinata a finire dentro le sabbie mobili: dove più ti agiti più affondi.

A chi presentare ora il conto economico della disfatta? Impossibile riuscirci. Ma i membri della Nato potrebbero almeno accollarsi, in proporzione al rispettivo Pil, l’impegno doveroso di dare ospitalità alle migliaia di profughi in fuga dall’Afghanistan verso occidente. Senza dimenticare che il primo Paese confinante a ovest dell’Afghanistan è l’Iran, già costretto ad ospitare alcuni milioni di profughi, soprattutto sciiti. E se Biden avesse a cuore la stabilità della regione, dovrebbe alleviare il disastro umanitario in corso revocando subito le vergognose sanzioni volute da Trump contro il popolo iraniano.

*( Giuseppe Cassini ha ricoperto incarichi diplomatici in Belgio, Algeria, Cuba, Somalia, Stati Uniti, Nazioni Unite e Libano, dove è stato ambasciatore dal 1998 al 2002.)

 

02 – Francesca De Benedetti*: INVECE DI ACCOGLIERE LE AFGHANE IN FUGA LE MANDEREMO NEI PAESI CHE ODIANO LE DONNE.

BERLINO E PARIGI SPINGONO L’UE VERSO UNA REPLICA DEL MODELLO TURCHIA: SOLDI PER ESTERNALIZZARE RIFUGIATI. MA L’ESITO SARÀ CHE LE AFGHANE CHE FUGGONO DAI TALEBANI FINIRANNO IN STATI NEMICI DELLA LIBERTÀ FEMMINILE COME TURCHIA, PAKISTAN E IRAN

Berlino e Parigi spingono l’Europa verso una replica del modello Turchia: soldi per esternalizzare rifugiati. Ma l’esito sarà che le afghane che fuggono dai Talebani finiranno in stati nemici della libertà femminile come Turchia, Pakistan e Iran.

L’Ue sta per indirizzare altri soldi dei contribuenti europei verso le tasche di Erdogan, lo stesso presidente turco che ha sfilato il suo paese dalla convenzione di Istanbul, oltre a sfilare la poltrona a Ursula von der Leyen.

ANCOR PIÙ SURREALE PER LE SORTI DELLE AFGHANE È CHE PAKISTAN E IRAN SIANO INCLUSI NELLA LISTA DI PAESI DA AIUTARE PERCHÉ LE ACCOLGANO.

Quante volte ancora saranno le donne a pagare il conto di scelte altrui? «Questo è stato un tradimento, non un ritiro responsabile», dice una donna afghana intervistata a Kabul da una tv occidentale. Quella donna non sa che a un tradimento sta per seguirne un altro.

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A parole, l’Europa e i suoi leader non fanno che dire che le donne vanno tratte in salvo dal regime repressivo dei Talebani. Il nostro stesso governo, ieri al G20 sulle donne, lo ha confermato. Ma per ora il piano, più che accogliere nell’Unione tutte le afghane, è quello di esternalizzare il più possibile chi cerca rifugio, per di più verso paesi tutt’altro che amici dell’emancipazione femminile.

L’Ue sta per indirizzare altri soldi dei contribuenti europei verso le tasche di Recep Tayyp Erdogan, lo stesso presidente turco che ha sfilato il suo paese dalla convenzione di Istanbul, oltre a sfilare la poltrona a Ursula von der Leyen. Si vuole «assicurare il necessario sostegno», per usare le parole di Luigi Di Maio, «ai partner della regione». Quali siano questi partner era già stato deciso di concerto da Angela Merkel ed Emmanuel Macron ancor prima che i ministri degli Esteri Ue si riunissero: Turchia, Pakistan e Iran. Spargi la voce

MODELLO ERDOGAN

In Turchia solo tre donne su dieci lavorano, l’83 per cento di seggi in parlamento è occupato da maschi. Nel giro di un decennio i femminicidi sono quadruplicati. Ma invece di contrastare il fenomeno, il presidente Erdogan ha deciso di sganciare Ankara dalla convenzione internazionale contro la violenza sulle donne. Nel 2011 la Turchia fu la prima a sottoscriverla; dieci anni dopo, e assai meno laica di prima, la nazione sotto la guida di Erdogan asseconda le pulsioni integraliste: da luglio, l’uscita dalla convenzione di Istanbul è effettiva.

Alle massicce proteste da parte delle donne, il presidente sta replicando con la repressione. Un esempio: martedì un giudice ha avallato la richiesta di carcere per le donne, di cui alcune minorenni, che l’8 marzo alla manifestazione per i diritti delle donne hanno urlato «Corri, Tayyp: le donne stanno arrivando». Insultare il presidente può costare fino a dieci anni di galera.

SPARGI LA VOCE

Il divario di genere si riflette anche nella condizione riservata a chi cerca asilo. «Abbiamo già visto nel caso dei rifugiati siriani arrivati in Turchia che i servizi a loro rivolti sono gender-blind», dice chi è sul campo come Yelda Sahin Akilli della Foundation for women’s solidarity: «Per le donne che hanno subìto violenza di genere, stupri, per chi fra loro ha rischiato la vita, mancano servizi dedicati».

L’Ue accordò nel 2016 a Erdogan sei miliardi perché trattenesse sul suo territorio i rifugiati siriani. Lo scorso aprile, mentre il presidente del Consiglio europeo Charles Michel sedeva al fianco del presidente turco e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen veniva invece messa a margine su un sofà, Bruxelles nondimeno ha accordato ad Ankara un nuovo stanziamento, 3,5 miliardi. Ora sia Merkel che Macron invocano l’aiuto turco anche nell’accoglienza di afghane e afghani.

Il commissario europeo Paolo Gentiloni conferma l’intenzione della Commissione di andare avanti con un “Modello Turchia bis” anche per l’esodo dall’Afghanistan, «è certo che la Commissione aiuterà economicamente paesi come quello» dice, anche se esprime i suoi personali dubbi sull’idea di replicare questo schema.

In tutto questo Erdogan dice di «non poter gestire un ulteriore fardello migratorio», rivendicazione che ha una funzione ricattatoria e per tirare sul prezzo: l’esecutivo tedesco ne ha già sondato la disponibilità da settimane. Gli altri governi vanno al traino.

Spargi la voce Spargi la voce

PAKISTAN E IRAN

Ancor più surreale per le sorti delle afghane è che Berlino e Parigi includano Pakistan e Iran nella lista di paesi da aiutare perché le accolgano. Il ministro degli Esteri pachistano da giorni interloquisce con il suo omologo tedesco e con l’alto rappresentante Ue. Il capo di governo, Imran Khan, si è fatto notare quest’estate per aver detto, mentre il paese assisteva a un picco di violenze sessuali, che «la colpa è delle donne che si coprono poco». Due anni fa un amministratore locale del suo stesso partito distribuì burqa alle studentesse: «Così saranno più sicure».

Parole che evocano quelle dei Talebani: «Meglio che ora rimaniate a casa, per sicurezza». Che le capitali europee ragionino su aiuti economici a Islamabad per tenere fuori dall’Ue il flusso migratorio colpisce ancor più alla luce delle complicità tra Pakistan e Talebani. Nel Global gender gap report del 2021, il Pakistan è 153esimo su 156, dove in fondo – 156esimo – c’è l’Afghanistan già prima della exit Usa.

L’Iran, che è 150esimo, è l’altro paese citato da Merkel e Macron per dialogare e da supportare per l’esodo. Qui 7 donne su 10 hanno subito violenza di genere, la loro rappresentanza politica è quasi nulla, meno di una su cinque lavora e se lo fa guadagna meno di un quinto di un uomo. «I matrimoni di bambine tra 10 e 14 anni sono migliaia all’anno, le violenze diffuse, la discriminazione è sia nelle regole che nella prassi». Le donne in Iran, dice l’Onu, “sono cittadine di serie b”

*( Francesca De Benedetti, lavora come redattrice agli Esteri, Domani e  come deskista al Venerdì di Repubblica)

  

03 – Claudia Fanti*: BRASILE. BOLSONARO FESTEGGEREBBE L’INDIPENDENZA CON UN GOLPE. CRISI ISTITUZIONALE SENZA PRECEDENTI: IN CALO NEI SONDAGGI E IN GUERRA CON I GIUDICI, IL PRESIDENTE CHIEDE MANI LIBERE  ALLA PIAZZA. MENTRE COVID, FAME E DANNI AMBIENTALI AFFONDANO IL PAESE.

Che sia per negarne la possibilità o per evidenziarne il pericolo, in Brasile non si fa che parlare di golpe. E c’è pure chi lo annuncia, indicando persino la data: il 7 settembre, festa dell’indipendenza.

È stato lo stesso Bolsonaro, il 14 agosto, a inviare su Whatsapp, a una lista di ministri, simpatizzanti e amici, un messaggio, di cui non si conosce l’autore, in cui si invitano i sostenitori del presidente ad appoggiare l’esecuzione di un «assai probabile e necessario contro-golpe da realizzare in breve», essendo il vero golpe quello perpetrato già da tempo, ma oggi «in maniera molto più aggressiva, dal potere giudiziario, dalla sinistra e da interessi occulti, anche internazionali».

OGGI, RECITA IL MESSAGGIO, «realizzare un contro-golpe è molto più difficile e delicato» rispetto al 1964, a causa di «una costituzione comunista che ha in gran parte sottratto i poteri al presidente della Repubblica».

Ed è per questo che «il presidente Bolsonaro, all’inizio di agosto, in un video registrato, ha chiesto al popolo brasiliano di scendere nuovamente in strada, il 7 settembre, per lanciare l’ultimo avvertimento». E di farlo con una manifestazione «gigantesca», «la più grande nella storia del paese», in maniera da autorizzare il presidente e le forze armate ad adottare «le decisioni adeguate affinché venga ristabilito lo Stato di diritto, salvaguardato l’equilibrio tra i poteri e assicurato il rispetto della costituzione». Tanto più che Bolsonaro e i militari avrebbero tentato in ogni modo di evitare una «rottura istituzionale», consapevoli del problema che «inizialmente» rappresenterebbe per tutti.

Un problema, intanto, è dato dalla sempre più grave crisi istituzionale in corso, benché una sua evoluzione in senso golpista sia per Bolsonaro tutt’altro che agevole.

IL GIORNO PRIMA dell’allarmante messaggio, non a caso, il presidente del Partito del lavoro brasiliano, il bolsonarista Roberto Jefferson, era stato arrestato dalla polizia federale, su richiesta del giudice del Supremo tribunale federale (Stf) Alexandre de Moraes, per la sua presunta partecipazione alle cosiddette «milizie digitali», impegnate a diffondere sul web «discorsi criminali di odio contro le istituzioni democratiche e le elezioni».

E una settimana più tardi, il 20 agosto, la polizia federale ha fatto irruzione nelle residenze e negli uffici di altri due simpatizzanti di Bolsonaro, il cantante Sergio Reis e il deputato Otoni de Paula, entrambi accusati di incoraggiare atti di violenza «contro la democrazia, lo Stato di diritto e le sue istituzioni».

NON È ANDATA MEGLIO neppure al colonnello Aleksander Lacerda, comandante della polizia militare della regione di Sorocaba, nello stato di São Paulo, destituito dal governatore João Doria per indisciplina, dopo il suo appello a partecipare alla manifestazione pro-golpe del 7 settembre nell’Avenida Paulista, in cui sarà presente lo stesso Bolsonaro.

Lacerda però non è certo una voce isolata. Un altro colonnello, Homero Cerqueira, ex presidente della IMCBio (Istituto Chico Mendes per la Conservazione della Biodiversità), ha divulgato video a favore del golpe, definendo come «spazzatura» la Corte suprema. Senza contare che circolano in gruppi di Whatsapp della polizia militare messaggi che esortano a prendere il potere, lottare contro il comunismo e destituire i giudici della Corte Suprema.

Quanto a Bolsonaro, ha pensato bene di gettare benzina sul fuoco presentando il 20 agosto alla presidenza del Senato una richiesta di impeachment nei confronti di Alexandre de Moraes, accusato di «aver superato le prerogative costituzionali». Un’iniziativa definita una «follia» da parlamentari di vari schieramenti, mentre la magistratura al completo si è schierata a fianco di de Moraes, colpevole di aver incluso il nome di Bolsonaro nell’inchiesta sulle fake news aperta nel 2019, ritenendo infondate le sue denunce sulle presunte frodi elettorali legate al voto elettronico.

ANCHE SU QUESTO FRONTE, tuttavia, le possibilità di successo di Bolsonaro sono minime, avendo il presidente del Senato Rodrigo Pacheco immediatamente escluso la possibilità di dare seguito alla richiesta del presidente.

Sono peraltro gli stessi sondaggi a dargli torto. In base a quello condotto dalla società di consulenza Ipespe, in vista delle elezioni presidenziali del 2022, l’ex presidente Lula registra il 40% delle intenzioni di voto, contro appena il 24% di Bolsonaro. Ma mentre la popolarità di quest’ultimo, anche se lentamente, continua a scendere, il Brasile rischia di affondare: 575mila le vittime del Covid, 800mila le imprese che hanno chiuso durante la pandemia, 15 milioni i disoccupati, 19 milioni i brasiliani che soffrono la fame e un’inflazione fuori controllo che spinge alle stelle il prezzo dei beni di uso quotidiano.

UN QUADRO reso ancora più drammatico da una crisi climatica e ambientale di fronte a cui nessuno prende provvedimenti, con il risultato che, secondo uno studio comparso recentemente sulla rivista Nature, la foresta amazzonica emette ora più anidride carbonica di quanto riesca ad assorbirne e, in base a un altro studio pubblicato lunedì dalla Mapbiomas Initiative, è andato perso in Brasile, dove si registra la peggiore crisi idrica degli ultimi decenni, un sesto delle sue aree coperte di acqua dolce in 30 anni.

Colpa del cambiamento climatico, della deforestazione, delle centrali idroelettriche e dell’agribusiness.

*(Claudia Fanti, Esperta di movimenti ecclesiali e sociali dell’America Latina e di ecoteologia, è co-fondatrice dell’Associazione Amig@s Movimento Senza Terra Italia e corrispondente del Il Manifesto)

 

04 – ALFIERO GRANDI*: NEBBIA SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA, GOVERNO E IMPRESE TENTATI DAL RINVIO DELLE SCELTE. GLI SCIENZIATI DELL’ONU HANNO STILATO UN DOCUMENTO IMPRESSIONANTE SULLA CRISI CLIMATICA DEL NOSTRO PIANETA, APPROVATO DAI RAPPRESENTANTI DI 195 PAESI, DOPO AVERE STUDIATO UN NUMERO INCREDIBILE DI DOCUMENTI E DI DATI.

Questa forte denuncia arriva in tempo per il vertice sul clima che verrà presieduto a novembre dall’Italia e dal Regno Unito e pretende decisioni coraggiose sulle politiche per il clima, anzitutto da parte dell’Unione Europea, che ha presentato un pacchetto di proposte sotto il titolo Fit for 55 che premono l’acceleratore sulle misure per l’ambiente.

Il clima sta cambiando in modo impressionante sotto i nostri occhi. Ne stiamo vedendo gli effetti ogni giorno. La pioggia in Groenlandia, caduta dove cadeva neve, ne è un episodio impressionante. Se non verrà fermata la deriva clima-alterante provocata dall’aumento della CO2 e da altre cause concorrenti come l’aumento del metano in atmosfera, la situazione – già grave – peggiorerà drasticamente. Non occorre esagerare dipingendo un futuro apocalittico, il rischio concreto è che la vita degli esseri viventi, a partire dagli umani, sulla terra cambi in modo irreversibile e il pianeta diventi sempre più inospitale. Per questo occorre il coraggio di prendere le iniziative necessarie in tempi rapidi per bloccare l’alterazione del clima, a partire dalla temperatura.

Per raggiungere questi risultati occorrono scadenze precise e impegni concreti.

Invece, malgrado l’allarme sia forte e chiaro, le reazioni alle recenti proposte di interventi ulteriori della Commissione europea sono preoccupanti. Partendo da una preoccupazione di facciata per i costi sociali degli interventi si vogliono nascondere i costi enormi, non solo economici, senza forti interventi correttivi. Esponenti importanti del mondo delle imprese e del governo pur partendo da un omaggio formale agli obiettivi contenuti nel PNRR in realtà hanno l’obiettivo di usare le risorse del PNRR ma di rinviare il più possibile le innovazioni a cui quei finanziamenti dovrebbero essere legati, con il rischio concreto che l’Italia non rispetti i target previsti. Nelle settimane trascorse il partito del rinvio si è manifestato con chiarezza. Economisti, imprenditori – anche di aziende partecipate dallo Stato -, ministri del governo Draghi hanno messo piombo nelle ali dell’innovazione e della transizione ecologica, ad esempio sulla produzione energetica, sulla mobilità sostenibile.

È chiaro che occorre cambiare profondamente il modello di sviluppo economico attuale, altrimenti il clima arriverà ad un punto di non ritorno. È chiaro che per realizzare gli obiettivi occorre che i soggetti più sensibili e convinti si debbono impegnare fortemente per superare le resistenze evidenti all’innovazione. Questo non vuol dire che non ci siano problemi da affrontare. Ad esempio sono necessarie politiche di occupazione che accompagnino il passaggio dal sistema economico oggi prevalente a quello futuro. Un conto è prepararsi al cambiamento e pretendere le innovazioni conseguenti, altro è cercare di frenare, pur sapendo che il tempo stringe, senza lasciare spazio a rinvii. C’è perfino chi si appresta a sostenere che occorre rinviare la scadenza del 2025 per chiudere le centrali a carbone. Il PNRR ha cercato di declinare le novità della transizione ecologica sotto forma di bandi e finanziamenti, ma le resistenze al cambiamento sono forti e possono essere vinte solo con una chiara e forte battaglia di scelte politiche indicate con chiarezza per innovare lavoro, investimenti, ricerca, istruzione, welfare.

Questa chiarezza non c’è e lascia spazio all’emergere delle resistenze conservatrici, alla politica dei rinvii, a quelli che del PNRR vogliono i quattrini senza impegnarsi ai cambiamenti imposti dalla crisi climatica. Il ministro Cingolani è sembrato sensibile alle resistenze e all’invito a rallentare, quasi fossimo già su un treno ad alta velocità, mentre in realtà siamo ancora in attesa di decidere l’inizio del viaggio. Il ministro Giorgetti dipinge scenari a tinte fosche che sembrano avere l’unico obiettivo di rallentare le innovazioni, di cui per ora si parla soltanto. Né il governo chiede a Stellantis quali scelte intende compiere per radicare il cambiamento e prepararsi al superamento della mobilità fondata sui motori tradizionali. Naturalmente tutti i frenatori dichiarano di essere preoccupati per le conseguenze occupazionali e sociali. Fanno bene ad essere preoccupati, ma potrebbero iniziare dall’autocritica sul frettoloso sblocco dei licenziamenti e soprattutto studiare con i sindacati come minimizzare i rischi e chiedere le innovazioni necessarie di accompagnamento al cambiamento.

Colpisce che nessuno proponga di avere in Italia un nucleo forte di innovazione, in grado di essere esempio per altri paesi. I confronti internazionali servono solo per giustificare rinvii e ritardi. Il governo sembra in difficoltà. Certo ha ottenuto un primo finanziamento europeo sul conto PNRR. Questo va bene, ma ora occorre entrare nel merito delle scelte e iniziare ad attuarle, altrimenti anche i finanziamenti si fermeranno, altrimenti la cabina di regia del PNRR a cosa serve? L’energia è un primo decisivo banco di prova. Se ascoltiamo Eni non arriveremo mai a una scelta di fondo sulle rinnovabili. Basta dire che con questo ritmo ci metteremo tutto il secolo ad avere l’energia necessaria prodotta dalle rinnovabili, mentre nel 2035 dobbiamo avere un abbattimento di CO2 del 55% e nel 2050 non produrne più. Eni continua a fare contratti per forniture di gas, non si impegna nelle rinnovabili e si fa pubblicità sulle maree come fonte di produzione energetica, che sembra un parlare di altro.  Occorre un piano organico, per fotovoltaico, eolico in particolare off shore, per altre fonti rinnovabili, per l’uso dell’idroelettrico per stabilizzare la rete elettrica con i pompaggi, senza trascurare possibili miglioramenti produttivi. Senza un progetto con date e quantità e soldi anche le dichiarazioni altisonanti sono solo tigri di carta. Invece abbiamo in concreto le aste del capacity market, promosse da Terna, un bengodi per le aziende energetiche partecipanti, pagate dalle bollette dei cittadini, per produrre poco ma con il rinvio inevitabile del raggiungimento degli obiettivi di riduzione della CO2, visto che anche il gas ne produce. Meno del carbone, ma ne produce.

Qual è la vera politica del Governo? Cosa propone alle aziende a partecipazione pubblica per garantirsi il loro contributo nella realizzazione degli obiettivi?

Ora l’assetto di guida del PNRR sulla transizione ecologica – bene o male – è definito, le risorse sono ingenti, manca un chiarimento politico del governo e in particolare del presidente del Consiglio che ha il compito di guidare la squadra. Le risorse del PNRR servono a cambiare o a richiamare in vita il gattopardo che come è noto in Italia ha quasi sempre prevalso? Qual è il progetto-paese? Altrimenti le risorse ingenti a disposizione faranno la fine dell’acqua sulla sabbia e i poteri che non vogliono cambiare prevarranno. Per una volta che la Commissione europea ha avuto coraggio, sarebbe bene che anziché svolgere un compito di conservazione l’Italia mettesse le sue energie migliori sul versante dell’innovazione e del coraggio e questo nelle condizioni attuali è un compito che tocca anzitutto al governo e a chi lo guida: sono stati chiesti poteri e risorse, ora li hanno, se la transizione fallirà il governo non potrà chiamarsi fuori.

*(Alfiero Grandi)

 

05 – Jason Burke – Rahmat Gul*:  AFGHANISTAN LA GALASSIA ISLAMISTA CHE CONTENDE IL POTERE AI TALIBAN. TALIBAN PATTUGLIANO IL QUARTIERE DI WAZIR AKBAR KHAN A KABUL, AFGHANISTAN.

Il presidente statunitense Joe Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti manterranno “a lungo termine” la propria capacità antiterroristica di neutralizzare la minaccia posta dai gruppi di estremisti islamici in Afghanistan. 18 agosto 2021

Senza truppe sul campo, senza operazioni di raccolta d’intelligence nel paese e senza un solo alleato con confini condivisi, questo ambizioso sforzo volto a fermare i piani che prendono di mira l’occidente non avrà vita facile. E lo renderà molto più difficile la presenza diffusa delle organizzazioni che operano nel territorio oggi ufficialmente controllato dai taliban.

Ciò di cui un gruppo estremista ha più bisogno è un luogo sicuro dove poter pianificare, organizzarsi, reclutare, elaborare una strategia e raccogliere risorse. Senza di esso pochi ribelli e terroristi sopravvivono, e tantomeno hanno successo. Il Pakistan ha offerto una cosa simile ai taliban, aiutando in maniera decisiva il loro sforzo ventennale, coronato dal successo questa settimana. Anche Al Qaeda ne ha avuto uno tra il 1996 e il 2001, e fu la prospettiva di perdere il rifugio sicuro offerto dall’Afghanistan che spinse molti dei suoi dirigenti più esperti a opporsi al progetto di Osama bin Laden di lanciare gli attentati dell’11 settembre contro gli Stati Uniti.

CONTROLLO LOCALE

Al Qaeda era stata costretta a lasciare l’Afghanistan dopo la guerra del 2001 ma è lentamente tornata nel paese. Oggi non può neanche lontanamente contare sull’ampia infrastruttura di vent’anni fa, quando gestiva una decina di campi d’addestramento. I suoi combattenti, tra i duecento e i cinquecento, sono invece dispersi in tutto il paese. Molti provengono da Al Qaeda in Asia del sud, un gruppo affiliato formato nel 2014 da reclute provenienti da Pakistan, India e Bangladesh per rafforzare le attività del gruppo nella regione. Altri hanno combattuto con i taliban, con i quali hanno “relazioni strette”, a quanto hanno riferito alle Nazioni Unite i servizi d’intelligence.

Ayman al Zawahiri, l’attuale leader dell’organizzazione, ha evitato gli attacchi a lunga distanza contro l’occidente da quando ha assunto i poteri nel 2011, preferendo concentrarsi sulla creazione di una presenza sul territorio in luoghi come il Sahel, la Somalia, lo Yemen e, con un successo ridotto, in Siria. Ma le cose potrebbero cambiare.

A DIFFERENZA DI AL QAEDA, L’ISKP CONTINUA A CONCENTRARSI SU ATTACCHI A LUNGO RAGGIO CONTRO IL “NEMICO LONTANO” IN OCCIDENTE

Forse l’attore più inquietante del tripudio di estremismo che è ormai diventato l’Afghanistan è il gruppo Stato islamico Khorasan (Iskp), una fazione che si richiama al nome storico di una porzione di territorio che si estende dall’Iran all’Himalaya occidentale. L’Iskp è stato fondato nel 2015, quando il gruppo Stato islamico voleva estendersi territorialmente dalla sua roccaforte di Iraq e Siria verso oriente. Il tentativo non è andato a buon fine. I taliban si sono opposti all’espansione dell’Iskp. E lo stesso hanno fatto Al Qaeda, le forze del governo afgano e gli Stati Uniti. Come prevedibile, il gruppo si era piegato alla potenza di fuoco incrociato di cui era oggetto, e le sue precoci avanzate erano state rapidamente vanificate.

Ma negli ultimi mesi l’Iskp sembra godere di nuovo slancio, avendo effettuato una serie di operazioni letali con la sua caratteristica brutalità. Nei primi quattro mesi del 2021 la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) ha registrato 77 attentati rivendicati dall’Iskp o attribuiti al gruppo, che ha preso di mira i suoi classici obiettivi: musulmani sciiti, donne e stranieri, oltre che personale militare o addetto alle infrastrutture civili.

A differenza di Al Qaeda, l’Iskp continua a concentrarsi su attacchi a lungo raggio contro il “nemico lontano” in occidente, ed è probabile che la cosa diventi una priorità più urgente adesso che i suoi “nemici vicini” più immediati – il governo di Kabul e i suoi protettori statunitensi – se ne sono andati. È molto probabile che i taliban cerchino di evitare tali operazioni ma non potranno sorvegliare ogni angolo di un paese così aspro ed esteso, soprattutto dato che in buona parte è effettivamente governato da intermediari del gruppo che decidono autonomamente chi fa cosa e dove.

I COMBATTENTI STRANIERI

Esiste poi un’ampia gamma di gruppi islamisti militanti, nessuno dei quali pone una grande minaccia da solo, ma le cui attività potrebbero destabilizzare ulteriormente la regione, o perlomeno facilitare l’attacco di un altro gruppo o addirittura di un individuo isolato. Le Nazioni Unite ritengono che ci siano tra gli ottomila e i diecimila stranieri attualmente attivi nei gruppi armati in Afghanistan.

Molti autori di attentati terroristici in Europa e altrove, negli ultimi decenni, sono stati in Pakistan per ricevere un addestramento. Si è trattato spesso di un passaggio decisivo, non tanto per le conoscenze impartite quanto per il rafforzamento del radicalismo prodotto da tale esperienza. I taliban hanno cercato perlomeno di regolamentare, se non di limitare, la presenza dei cosiddetti combattenti stranieri (foreign fighters). Ma è improbabile che riescano a evitare simili viaggi in futuro.

I taliban hanno riportato sotto la propria ala quanto resta della maggior parte dei gruppi islamisti radicali d’Asia centrale di stanza nel nord dell’Afghanistan, a quanto pare inviando addirittura del personale per sorvegliare i valichi di frontiera. Ma il Movimento islamico del Turkestan orientale, composto da uiguri in fuga dalla Cina sudorientale e determinati a combattere con violenza la repressione della loro fede e cultura da parte di Pechino, appare più esperto e attivo.

Molto preoccupante appare poi la complessa combinazione di gruppi pachistani con base in Afghanistan orientale. Questi sono occupati quasi interamente nel combattere battaglie locali ma i taliban pachistani, o Ttp, hanno un lungo passato di brutale violenza. E lo stesso vale per altri gruppi estremisti che hanno varcato il confine afgano dal Pakistan.

Tutti questi gruppi seguono l’ideologia estremista nota agli analisti come “salafismo jihadista”, una fusione tra versioni ultraconservatrici dell’islam sunnita praticate nel golfo Persico e una conversione più recente e radicale, secondo la quale è dovere di ogni musulmano combattere individualmente e collettivamente contro la “tirannia”, ovunque essa si trovi. Questo genere di pensiero contrasta con le antiche tradizioni popolari del credo islamico in Afghanistan e persino con le correnti reazionarie seguite dai taliban.

Gli osservatori sostengono che il successo del gruppo Stato islamico in Siria e in Iraq, anche se l’esperienza del califfato si è conclusa nel sangue e nel fallimento, abbia ispirato alcuni giovani afgani, diffondendo ulteriormente il salafismo.

Se così fosse i taliban, giunti al potere, rischiano di dover fare i conti a loro volta con dei ribelli, di cui fanno parte non solo i fedeli all’ex governo sostenuto dagli Stati Uniti, ma anche quanti ritengono i loro nuovi governanti dei venduti.

*( Jason Burke ,The Guardian, Regno Unito – Rahmat Gul, Ap/LaPresse Traduzione di Federico Ferrone, Questo articolo è stato pubblicato dal Guardian.)

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