n° 8 – 20 13 Feb. 2021 RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO ED ALTRE COMUNICAZIONI

(A cura di Mimmo Zanetta)

 

01 – Schirò (Pd): le agevolazioni per gli impatriati che rientrano dopo il distacco all’estero,
02 – Schirò (Pd): pensionati in Bulgaria, le mie richieste all’agenzia delle entrate (dopo mef e governo).
03 – La Marca (Pd): auguri di buon lavoro al governo draghi. Inserire gli italiani all’estero nei programmi di ripresa del paese
04 – Giulio Cavalli*: Un governo per niente impolitico. IL governo Draghi, quello che fa sognare i portatori d’acqua delle élite e i nuovi feticisti del merito usati come termometro personale per poter giudicare il mondo, ha già fissato un nuovo record: i suoi ministri hanno cominciato a litigare tra di loro quarantotto ore dopo il giuramento, due giorni prima addirittura di ottenere la fiducia, nemmeno il tempo di tornare a casa e svestirsi dei vestiti di ordinanza che erano serviti per apparire sobri.
05 – Raul Mordent* : L’incubo e le responsabilità: unità a sinistra oggi, non domani.
06 – Alfiero Grandi. Non parlate al manovratore stava scritto. Al contrario, bisogna farsi sentire da Draghi.
07 – Giulia Ronchi * Tramandare il passato: a Genova sorgerà il Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana (MEI).
08 – Enrico Letta: “Lo strappo, follia di una sola persona”. L’ex premier su Renzi: oggi è il capo di una cosa che è più piccola del Psdi. “Ci fa fare nel mondo la figura del solito Paese inaffidabile, pizza, spaghetti, mandolino. Conte ha fatto bene a sfidarlo””
09 – Parlamento, questione donne.
10 – Filippo Barbera*: Un governo senza colore politico, è la politica senza il consenso. Nuovo governo. Di centrosinistra, giallo-rosso o giallo-verde, arcobaleno, millefiori o incolore: il Governo Draghi nasce e prospera in un mondo dove i colori non fanno differenza, nella notte dove tutti i gatti sono grigi
11 – AMERICA CENTRALE. Da cosa fuggono i migranti delle carovane? Era la vigilia di Natale del 2008 quando il sacerdote statunitense Jon Pops rivolse una preghiera al suo dio, chiedendo, se possibile, un po’ di misericordia per il suo gregge in ginocchio: “Che il Signore, dio dei migranti, li renda invisibili”.
12 – USA. Amanda Mull*: la pandemia ha cambiato anche l’amicizia. Qualche mese fa, mentre milioni di statunitensi guardavano su Netflix la serie Emily in Paris, ho messo su il primo episodio.
13 – Chi sono i ministri del governo Draghi Entrano nell’esecutivo alcune delle figure principali dei partiti, dalle conferme di Di Maio (Esteri) e Speranza (Salute), a Giorgetti (Sviluppo economico) e Brunetta (Pubblica amministrazione). Ma ci sono anche “tecnici”
14 – Natale Cuccurese *: Secessione dei ricchi, ora purtroppo diventa realtà. La missione affidata a Mario Draghi è evidente: guidare un governo che mantenga lo status quo e che risponda agli interessi dei potentati economici del Nord.

 

01 – Schirò (Pd): LE AGEVOLAZIONI PER I RIMPATRIATI CHE RIENTRANO DOPO IL DISTACCO ALL’ESTERO, 16 febbraio 2021
Diritti – Per i lavoratori italiani distaccati all’estero che rientrano in Italia e si chiedono se possono beneficiare delle agevolazioni fiscali previste per i lavoratori “impatriati”, sono arrivati i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate con la risposta all’interpello n. 42 del 18 gennaio 2021.
Il quesito riguardava un cittadino italiano, laureato, che dopo aver lavorato in Italia dal 2013 al 14 febbraio 2016 alle dipendenze di una società italiana, con contratto a tempo indeterminato, a decorrere dal 15 febbraio 2016 veniva distaccato presso una società del gruppo internazionale, con sede nella Repubblica Popolare Cinese, in virtù di contratto di lavoro locale, regolamentato dalla legislazione del Paese estero.
Il cittadino italiano aveva quindi riferito all’ADE che a decorrere dal 1° gennaio 2021, sarebbe stato assunto “nuovamente” in Italia dalla medesima società italiana, che lo aveva distaccato, con un nuovo contratto a tempo indeterminato; di essersi iscritto all’AIRE nel giugno 2016 (fino al 31 dicembre 2020) e che per il periodo trascorso nella RPC ivi concentrava il proprio centro degli interessi personali ed economici insieme alla moglie.
Il nostro connazionale ha chiesto quindi se avrebbe potuto usufruire del regime speciale dei lavoratori rimpatriati a decorrere dal periodo di imposta 2021.
Come è oramai noto il regime speciale per i lavoratori rimpatriati introdotto dal Decreto Legislativo n. 147 del 2015 – disposizione oggetto di numerose successive modifiche normative – ha previsto una tassazione agevolata (nella misura del 70% del reddito imponibile).
L’Agenzia delle Entrate ha risposto che il nostro connazionale può accedere al beneficio fiscale se ovviamente rispetta i requisiti richiesti dalla normativa in vigore (che hanno a che fare con vincoli di residenza, lavoro e studio), precisando però che il beneficio fiscale nell’ipotesi di distacco all’estero con successivo rientro NON SPETTA in presenza del medesimo contratto e presso il medesimo datore di lavoro. Diversamente, nell’ipotesi in cui l’attività lavorativa svolta dall’impatriato, ancorché con lo stesso datore di lavoro, costituisca una “nuova” attività lavorativa, in virtù della sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro, diverso dal contratto in essere in Italia prima del distacco, e quindi l’impatriato assuma un ruolo aziendale differente rispetto a quello originario, lo stesso potrà accedere al beneficio a decorrere dal periodo di imposta in cui ha trasferito la residenza fiscale in Italia.
Inoltre l’Agenzia ha precisato che l’agevolazione non è applicabile nelle ipotesi in cui il soggetto, pur in presenza di un “nuovo” contratto per l’assunzione di un “nuovo” ruolo aziendale al momento dell’impatrio, rientri in una situazione di “continuità” con la precedente posizione lavorativa svolta nel territorio dello Stato prima dell’espatrio.
Angela Schirò – Deputata PD – Rip. Europa – – Camera dei Deputati

 

02 – Schirò (Pd): PENSIONATI IN BULGARIA, LE MIE RICHIESTE ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE (DOPO MEF E GOVERNO). PER CORREGGERE L’ANOMALIA DELLA CONVENZIONE CONTRO LE DOPPIE IMPOSIZIONI FISCALI TRA ITALIA E BULGARIA SONO INTERVENUTA, NEL CORSO DEL 2020, CON UNA INTERROGAZIONE PARLAMENTARE AL GOVERNO (HA RISPOSTO IL MINISTERO DEL LAVORO) E CON INTERVENTI POLITICI PRESSO IL DIPARTIMENTO DELLE FINANZE DEL MEF. 18 febbraio 2021

Tuttavia la situazione – almeno per ora – non è mutata: i nostri connazionali residenti in Bulgaria e titolari di una pensione dell’Inps continuano ad essere tassati in Italia.
L’anomalia sta nel fatto che mentre quasi tutte le convenzioni fiscali stipulate dall’Italia prevedano – come prescritto dall’OCSE – la tassazione delle pensioni delle gestioni private (tipo Inps) nel Paese di residenza, quella con la Bulgaria, a causa di una misteriosa clausola della convenzione di cui non né si conosce né si capisce il motivo, prevede la tassazione in Italia a meno che non si possegga la nazionalità bulgara.
Questa situazione ha determinato notevoli disagi amministrativi ed economici ai nostri connazionali pensionati dell’Inps residenti nel Paese dell’Est Europa.
Sono quindi intervenuta nuovamente in questi giorni presso l’Agenzia delle Entrate, con una lettera al Direttore Ernesto Maria Ruffini sollecitando un suo interessamento.
Nella lunga e dettagliata lettera ho descritto il problema, ho cercato di spiegare le ragioni dei nostri connazionali e ho suggerito una possibile soluzione amministrativa da applicare ancor prima di provare a modificare la convenzione stessa (opzione, quest’ultima, proposta dallo stesso MEF ma che richiede tempi lunghi).
Come quasi tutte le convenzioni fiscali stipulate dall’Italia anche quella con la Bulgaria prevede (art. 16), sulla scorta del modello standard convenzionale OCSE mutuato da tutti i Paesi appartenenti all’Organizzazione mondiale per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che “le pensioni e le altre remunerazioni analoghe pagate ad un residente di uno Stato contraente in relazione ad un cessato impiego, sono imponibili soltanto in questo Stato”.
In parole povere le pensioni dell’Inps pagate ad un residente della Bulgaria devono essere tassate dalla Bulgaria (fanno eccezione le pensioni dei dipendenti pubblici che vengono tassate invece dallo Stato che le eroga). Nello specifico caso della Bulgaria le autorità fiscali di questo Paese non utilizzano, ai fini dei rapporti con l’Italia e della detassazione, il Modulo “EP-I” dell’Inps ma predispongono l’attestazione adoperando la propria modulistica.
Le autorità fiscali bulgare rilasciano due tipologie di certificati di residenza fiscale: 1. certificato attestante la qualità di “residente fiscale”, ai sensi della convenzione per evitare la doppia imposizione fiscale in vigore tra la Repubblica di Bulgaria e uno Stato straniero; 2. certificato attestante la qualità di “residente fiscale”, ai sensi della legge interna bulgara sui redditi delle persone fisiche.
L’Inps ha deciso di considerare utile ai fini del buon esito delle domande di esenzione dall’imposizione in Italia delle pensioni delle gestioni previdenziali dei lavoratori privati soltanto le certificazioni attestanti espressamente la qualità di residente fiscale ai sensi della convenzione per evitare la doppia imposizione in vigore tra l’Italia e la Repubblica di Bulgaria. Per poter ottenere tale certificato, TUTTAVIA, il pensionato interessato deve avere la NAZIONALITÀ BULGARA. Lo stabilisce, ed è qui L’ANOMALIA, l’articolo 1 della Convenzione che statuisce al paragrafo 2, lettera b, che una persona fisica per essere considerata residente fiscale della Bulgaria deve possedere la nazionalità bulgara! E per questo motivo i pensionati italiani Inps residenti in Bulgaria, che non hanno la cittadinanza bulgara e cioè la quasi totalità, invece di essere detassati vengono tassati alla fonte dall’Inps, pagando così una aliquota fiscale più elevata e andando inoltre incontro ovviamente al rischio di essere nuovamente tassati in Bulgaria e sottoposti quindi a doppia tassazione.
Ora, alla luce di questa situazione penalizzante e ingiusta per i nostri pensionati residenti in Bulgaria, e considerata realisticamente l’impraticabilità di una pronta modifica del succitato articolo 1, comma 2, lettera b, della convenzione, ho chiesto al Direttore dell’Agenzia delle Entrate se non ritenga giusto ed opportuno dare disposizioni all’Inps, e alle sue strutture territoriali, di considerare utile al buon esito delle domande di esenzione dall’imposizione in Italia di pensione delle gestioni previdenziali dei lavoratori privati la certificazione attestante la qualità di residente fiscale in Bulgaria rilasciata dalle competenti autorità fiscali bulgare anche se essa non contiene il riferimento alla convenzione per evitare la doppia imposizione in vigore tra l’Italia e la Repubblica di Bulgaria. In questo modo l’Inps sarà in grado di detassare la pensione degli italiani residenti in Bulgaria, così come d’altronde praticamente previsto dalla convenzione contro le doppie imposizione fiscali, venendo incontro alle pressanti e legittime richieste dei nostri pensionati residenti in Bulgaria, considerato che sia il Governo nella risposta alla mia interrogazione, sia il Dipartimento delle Finanze del MEF in risposta ad una mia richiesta, avevano manifestato la loro disponibilità ad una soluzione amministrativa della controversia. Rimaniamo ora in fiduciosa attesa di una risposta positiva dell’ADE.

 

03 – La Marca (Pd): AUGURI DI BUON LAVORO AL GOVERNO DRAGHI. INSERIRE GLI ITALIANI ALL’ESTERO NEI PROGRAMMI DI RIPRESA DEL PAESE , 19 febbraio 2021
Ho votato con spirito di responsabilità la fiducia al Governo presieduto dal Prof. Mario Draghi, accogliendo l’appello del Presidente Mattarella a unire le forze in questo momento di grave difficoltà e a impegnare ogni energia per la salvezza dei cittadini e la ripresa economica e sociale del Paese.
Una personalità come quella di Draghi, per le sue riconosciute competenze e per la sua valenza internazionale, è certamente la più adatta ad assolvere a questo compito, sicuramente difficile e pur necessario, guidando una coalizione ampia ed eterogenea.
Auguri di buon lavoro, dunque, al Governo Draghi e a tutti noi che siamo chiamati a sostenerlo e a collaborare con le nostre idee e le nostre proposte.
Quando si passerà alla realizzazione del programma, certo non mancheranno motivi di confronto e forse tensioni tra le diverse sensibilità e le diverse proposte. L’essenziale è che, come all’atto della fiducia, prevalgano il senso di responsabilità e il rispetto del bene comune.
Così come sarà necessario recuperare con i fatti e nelle azioni di governo la limitata rappresentanza delle donne e delle figure più legate al Mezzogiorno, l’aspetto meno convincente del profilo di questo governo.
Sarà necessario, poi, inquadrare nelle coordinate programmatiche del governo i problemi, il ruolo e le proposte degli italiani all’estero, che del rilancio dell’Italia sono un fattore indispensabile. Draghi è una figura di spessore internazionale, sono sicura che saprà rendersi conto di questa necessità. Lo stesso mi auguro che facciano i ministri, ognuno nel proprio campo di responsabilità e di iniziativa. E, comunque, questo sarà il nostro impegno di eletti all’estero fin dai prossimi giorni.
On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D.
Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America

 

04 – Giulio Cavalli*: UN GOVERNO PER NIENTE IMPOLITICO. IL GOVERNO DRAGHI, QUELLO CHE FA SOGNARE I PORTATORI D’ACQUA DELLE ÉLITE E I NUOVI FETICISTI DEL MERITO USATÌ COME TERMOMETRO PERSONALE PER POTER GIUDICARE IL MONDO, HA GIÀ FISSATO UN NUOVO RECORD: I SUOI MINISTRI HANNO COMINCIATO A LITIGARE TRA DI LORO QUARANTOTTO ORE DOPO IL GIURAMENTO, DUE GIORNI PRIMA ADDIRITTURA DI OTTENERE LA FIDUCIA, NEMMENO IL TEMPO DI TORNARE A CASA E SVESTIRSI DEI VESTITI DI ORDINANZA CHE ERANO SERVITI PER APPARIRE SOBRI.
Tolti i vestiti, tolta la sobrietà. Il punto dirimente è stata la chiusura all’ultimo momento delle piste da sci alla luce dei nuovi dati sanitari (tra l’altro l’ennesimo colpo a un’economia che prova faticosamente e costosamente a rialzarsi e poi si ritrova con le gambe spezzate dal virus) ma non preoccupatevi perché sarebbe potuto accadere su un tema qualsiasi e accadrà, vedrete, su un altro milione di punti. Comunque è bastato il decreto firmato dal ministro Speranza (che mica per niente fino all’altro ieri era il capo della “dittatura sanitaria” strillata da destra) per accendere le voci di chi ha corso per scrollarsi di dosso la responsabilità e per apparire critico del governo per sembrare dalla parte dei lavoratori. In prima fila, ovviamente, ci sono stati i leghisti che sono quelli che più di tutti hanno meno da perdere nel fare gli sfascisti dall’interno e continuare a ondeggiare tra l’essere critici e responsabili, sovranisti e europeisti, patrioti e cosmopoliti.
Le bordate di Salvini, dei presidenti di regione e dello stato maggiore del partito avevano un unico obiettivo: scaricare su Speranza tutta la responsabilità, promettere che con loro queste cose non sarebbero mai più accadute e lanciare a Draghi il chiaro messaggio che loro no, non staranno tranquilli. Tant’è che proprio Palazzo Chigi (e hanno scritto tutti “Palazzo Chigi” perché gli tremano le dita a scrivere “Draghi”) ha dovuto smentire la fiumana critica che stava montando chiarendo che la decisione era stata condivisa in Consiglio dei ministri. Ovvero: questi fanno finta di non sapere e invece sono responsabili durante le riunioni con la maggioranza e poi si fanno esplodere appena gli capita davanti un microfono. E sarà così, sarà sempre così, sarà sempre di più così.
Spiace anche vedere in giro gente che esulta confidando veramente sul fatto che Draghi riesca a tenere a bada i suoi ministri e i suoi sottosegretari: potrà anche accadere (sarà ben difficile, secondo me nemmeno questo accadrà) ma Draghi non potrà mai permettersi di zittire i partiti e sarà proprio dai partiti che arriveranno le bordate e non è un caso che i leader di partito si siano tenuti ben attenti tutti le mani libere.
Ora da questo piccolo ma significativo episodio si può subito capire una cosa ben chiara: siamo di fronte a un governo con una connotazione fortemente politica (il “governo di quasi tutti i partiti”, altro che il governo dei tecnici) e noi dobbiamo valutarlo per questo.
E allora che governo è il governo Draghi? La squadra di governo statisticamente disegna l’identikit di un maschio 55enne lombardo¬veneto con 6 ministri di centrodestra (3 ciascuno per Lega e Forza Italia), 4 del M5s, 3 del Pd, 1 di Leu e 1 di Italia viva. Bastano le statistiche per capire di cosa stiamo parlando? Siamo di fronte a un governo con una maggioranza di ministeri dati al centrodestra (i numeri parlano) con il più promettente partito di destra, Fratelli d’Italia che presto volerà nei sondaggi, a capo dell’opposizione, con tecnici che provengono da una cultura bancaria a occupare le altre caselle, con una forte impronta cattolica (se non addirittura omofobi di derivazione delfina) e con idee tutte’altro che progressiste in tema di diritti civili. Un governo, per intendersi, che dalle urne sarebbe uscito se la coalizione di Salvini e Berlusconi e Meloni avesse ottenuto la maggioranza dei voti e avesse potuto godere dell’appoggio esterno del presunto centrosinistra. Questa è l’impronta, questa è la storia delle persone che sono al comando e non si capisce per quale ragione da un composto del genere dovrebbero uscire idee totalmente opposte ai loro curriculum.
Allora forse conviene fare un patto, almeno con i lettori, e decidere che sia subito il caso di uscire da questo messianismo che ha immobilizzato un bel pezzo dell’opinione pubblica e che si cominci da subito a valutare il governo Draghi con lo stesso occhio clinico e attento che si userebbe per un governo di cui temiamo le mosse. Questo non per un miope pregiudizio di ideali (chi non si augurerebbe di vivere in un Paese che abbia la fortuna di trovare un ottimo governo?). Ma perché se continuiamo a rimanere imbrigliati nel tranello di considerare questo esecutivo “impolitico” allora saremo sempre pronti a digerire qualsiasi sua azione come “la meno peggio delle mediazioni possibili”. È un governo larghissimo? Sì, è vero, ma la responsabilità di tutta questa ampiezza se la sono presa Draghi e il presidente della Repubblica e se davvero siamo nell’epoca del “merito” allora se ne assumeranno tutte le responsabilità.
*(Giulio Cavalli, editoriale da LEFT 20 feb 2021)

 

05 – Raul Mordent *: L’INCUBO E LE RESPONSABILITÀ: UNITÀ A SINISTRA OGGI, NON DOMANI. Sinistra . Cosa aspettiamo, dopo aver vissuto la vergognosa vicenda di Renzi, a lanciare oggi e subito una grande campagna unitaria, estesa a tutti i democratici e ai veri liberali (se ce ne sono), per riconquistare la proporzionale?
Che un Governo espressione diretta della Banca e della Confindustria, condito da ministri di Berlusconi e della Lega, per giunta espressione della volontà del Presidente della Repubblica e non del Parlamento, rappresenti per qualsiasi persona di sinistra la realizzazione del peggiore incubo, non dovrebbero esserci dubbi.
Così come poche volte si è verificata nel Paese una unanime collera, condita da disprezzo, come quella che ha accompagnato il killeraggio, compiuto su commissione, dal leccapiedi dello Sceicco tagliagole.
Ma se non vogliamo ridurci al mormorìo impotente riservato ai sudditi occorre porsi una domanda: come è stato possibile tutto questo? La risposta a questa domanda ha due livelli, uno istituzionale e uno direttamente politico.

Il primo livello riguarda la legge elettorale vigente: poiché i parlamentari sono nominati, cioè la loro elezione dipende dall’ordine di presentazione nelle liste da parte delle segreterie di partito, è possibile fare eleggere senatore anche il proprio cavallo, come si dice facesse l’imperatore Caligola. Così Renzi, da segretario del Pd, ha potuto far eleggere i “suoi”, decine di parlamentari che lo hanno seguìto obbedendo perinde ac cadaver a lui, non al loro elettorato.

Che a sostegno di questa operazione di bassa politica ci sia stato un enorme sostegno mediatico, senza precedenti (decine di ore di presenza in tv e dozzine di interviste sui giornaloni al pinocchio di Rignano), dimostra chi sia stato il vero mandante: la Confindustria e la Banca che non potevano tollerare in alcun modo che a gestire i 209 miliardi di euro fosse qualcun altro, dato che quei miliardi debbono andare tutti e solo a lorsignori.

Il secondo livello – strettamente legato al primo – riguarda i comportamenti elettorali del “popolo della sinistra”. Poiché il premio di maggioranza del “rosatellum” (anticostituzionale, ma tuttora vigente) prometteva di dare tutto il potere a chi arrivava primo, una marea di “bravi compagni”, hanno scelto di votare non per le proprie idealità e i propri interessi (cioè non per il proprio partito) ma per il Pd, in base al “sennò viene Salvini” o al “sennò viene Berlusconi” (e alle mille varianti dello stesso pseudo-concetto a livello regionale e comunale).

Così questa grande astuzia di tanti “bravi compagni” ha fatto sì che ora ci ritroviamo con un Governo che comprende, tutti insieme, il Pd, Salvini e Berlusconi. Un bel risultato di quell’astuzia. Ma c’è di più, e di peggio: il combinato disposto di questo terribile effetto distorsivo del voto indotto dal maggioritario con l’assurdo sbarramento (non si capisce perché mai alcuni milioni di voti non debbano avere diritto alla rappresentanza parlamentare) ha escluso la sinistra di opposizione dal Parlamento.
Cosa deve ancora succedere per convincerci che una legge elettorale proporzionale (che significa semplicemente: tanti seggi quanti sono i voti), con una preferenza nominativa e nessuno sbarramento, è una condizione necessaria per la democrazia? Cosa aspettiamo, dopo aver vissuto la vergognosa vicenda di Renzi, a lanciare oggi e subito una grande campagna unitaria, estesa a tutti i democratici e ai veri liberali (se ce ne sono), per riconquistare la proporzionale?

Soprattutto cosa aspettiamo per riproporre oggi e subito il problema di una nuova unità a sinistra, dato che oggi i confini sono chiari come non mai (confini che escludono solo chi guarda ancora al Governo e a Draghi e chi risponde alla PS o ai servizi), mentre fra tutti gli altri, partiti sindacati movimenti riviste giornali associazioni etc., occorre unirsi.
Una unità senza prevaricazioni o forzature, unità subito e non alla vigilia di elezioni, unità vera e sincera, unità – come si diceva una volta – “dall’alto” e “dal basso”, reticolare e non centralistica, libera e non costrittiva, orizzontale e non verticale, insomma tutta da inventare nelle sue inedite forme, che però ci serve oggi, non domani.
*(Raul Mordent da Il Manifesto)

 

06 – Alfiero Grandi. NON PARLATE AL MANOVRATORE STAVA SCRITTO. AL CONTRARIO, BISOGNA FARSI SENTIRE DA DRAGHI. RICOSTRUIRE UNA MAGGIORANZA POLITICA DOPO LA CRISI DI GOVERNO PROVOCATA IRRESPONSABILMENTE DA ITALIA VIVA È RISULTATO IMPOSSIBILE.
Proseguire nella ricerca di una nuova componente della maggioranza del governo Conte 2 si è rivelato impercorribile e un errore. Una diversa maggioranza politica non esisteva, come ha accertato con l’incarico esplorativo il Presidente della Camera.
Il Presidente della Repubblica non poteva che trarne le conseguenze, per questo ha spiegato con nettezza che non ci sono oggi le condizioni per convocare elezioni anticipate, perché la pandemia non è sotto controllo (quasi 93.000 morti), perché è in atto una crisi sociale ed economica devastante che drammatizza le disuguaglianze, perché c’è l’urgenza di decidere sull’impiego delle imponenti risorse europee previste per sostenere la ripresa dell’Italia, garantendone l’impiego migliore.
Per evitare il voto anticipato e uscire dallo stallo politico il Presidente della Repubblica ha incaricato Draghi di formare un governo per affrontare questi compiti impegnativi, senza dimenticare la fine del blocco dei licenziamenti a marzo, che rischia di aprire una fase di crescita drammatica della disoccupazione, e la chiusura di tante attività economiche. Perfino decreti del Governo precedente per interventi urgenti sono a rischio decadenza.
Il governo Draghi è conseguenza dell’assenza di soluzioni politiche. Renzi ha provocato la crisi del Conte 2 senza porsi il problema di un’alternativa possibile, ora cerca di mettere il cappello sul governo Draghi. Lui ha certamente destabilizzato, ma altri hanno dovuto risolvere la crisi che ha provocato per evitare il crollo di credibilità delle istituzioni e il rischio di una crisi senza precedenti della nostra democrazia. Questa è la critica più forte e feroce agli irresponsabili destabilizzatori che hanno provocato scientemente la crisi della maggioranza politica precedente, costringendo a scelte di emergenza democratica, senza alternative se non le elezioni anticipate, finendo per favorire l’entrata nel governo di Forza Italia e della Lega. Non a caso la richiesta di elezioni anticipate è scomparsa tranne la flebile richiesta di Fratelli d’Italia.
Certo il governo Conte 2 era in evidente affanno da tempo, prigioniero dei veti di Italia Viva e di suoi limiti politici.
Le difficoltà del governo Conte 2 si sono manifestate con il taglio del parlamento, che ha trovato purtroppo il consenso parlamentare di tutta la maggioranza, malgrado i 3 voti contrari dati in precedenza dal Pd e Leu a questa modifica della Costituzione, voluta dalla precedente maggioranza giallo-verde. Il taglio è stato un colpo pesante al ruolo e alla credibilità del parlamento, al suo ruolo di rappresentante dei cittadini, a cui avevano già pesantemente contribuito l’abuso dei decreti legge, dei voti di fiducia e dei maxi emendamenti, usati a raffica per costringere il parlamento ad approvare i provvedimenti del governo. Quando i governi comprimono il ruolo del parlamento in realtà prenotano una loro crisi politica e di credibilità, perché la loro forza e legittimazione viene proprio dalla fiducia di chi è stato chiamato a rappresentare il paese.

Per questo le sfide da affrontare sono paragonabili alla ricostruzione postbellica.

La risposta a questa fase richiede non solo un sussulto di responsabilità del parlamento ma un protagonismo dei soggetti sociali, delle associazioni, delle persone che debbono con proposte e con la critica contribuire in modo non subalterno a costruire la nuova fase. Non è il momento di deleghe, occorre rivendicare un protagonismo della società che le rappresentanze politiche oggi non sono in grado di raccogliere. Alla luce dell’emergenza democratica e degli effetti nefasti del taglio del parlamento, è urgente anzitutto approvare una nuova legge elettorale proporzionale, senza soglie di sbarramento, senza liste bloccate decise dall’alto, con un collegio unico nazionale per garantire la massima proporzionalità, garantendo alle elettrici e agli elettori di poter scegliere direttamente i loro rappresentanti, ricostruendo anche per questa via un rapporto di fiducia tra eletti ed elettori. In più per il Senato occorre garantire la massima proporzionalità, dopo il taglio del parlamento, superando il vincolo costituzionale delle circoscrizioni regionali. Il compito di approvare una nuova legge elettorale, urgente ed indispensabile, è compito del parlamento. Votare con quella attuale vorrebbe dire mantenere in vigore una legge non costituzionale. Il governo non può sostituirsi al parlamento, come fece Renzi con l’Italicum imponendolo con voti di fiducia, ma può aiutarne il lavoro favorendo un’intesa sulla rappresentanza proporzionale e sul diritto dei cittadini di scegliere gli eletti.

IL GOVERNO CONTE 2 PURTROPPO NON HA CAPITO L’URGENZA DI UNA NUOVA LEGGE ELETTORALE.
Certo la legge elettorale non basta, per ridare credibilità alla politica occorre anche regolare la vita democratica dei partiti, interrompendo la sciagura dei capipartito che decidono chi verrà eletto, e i partiti debbono ritrovare una capacità di progetto, mentre oggi sono ridotti a comitati elettorali. Occorre bloccare l’avventura politica ed istituzionale dell’autonomia differenziata tra regioni, chiesta da alcune regioni forzando la Costituzione e gli stessi referendum regionali, che finirebbe con l’indebolire l’unità nazionale e minacciare la parità di diritti previsti all’articolo 3 della Costituzione per tutti i cittadini italiani, a partire da settori fondamentali come il sistema sanitario nazionale e il sistema scolastico nazionale.

IL GOVERNO PUÒ E DEVE FARE UNA SCELTA, RESPINGENDO QUESTE ISTANZE AL LIMITE DELLA SECESSIONE.
La nostra Costituzione ha già subito fin troppi stravolgimenti che hanno peggiorato la funzionalità delle istituzioni italiane, per questo non deve essere al riparo da ulteriori modifiche, intervenendo solo quando è indispensabile correggere gravi errori compiuti con modifiche costituzionali precedenti. Ad esempio introducendo una norma costituzionale che garantisca l’interesse nazionale e obblighi il governo ad intervenire per farla rispettare in tutti i campi ritenuti essenziali, anche con poteri sostitutivi. Per il resto sarebbe meglio blindare la Costituzione contro ulteriori modifiche stravolgenti, ad esempio alzando la soglia necessaria per modificarla.
La lotta alla pandemia in questa fase ha bisogno di vaccinazioni di massa, di riconoscimento delle variazioni del Covid 19, di sperimentazione di cure di avanguardia per salvare al massimo possibile le vite umane, prevedendo investimenti massicci nella medicina territoriale, per alleggerire il carico di malati degli ospedali e per evitare il taglio di altri interventi. La sanità è un campo che richiede una chiara, forte inversione di tendenza con investimenti massicci dopo anni di tagli nel settore pubblico. Il sistema sanitario è una risorsa pubblica al servizio della salute di tutti, il suo funzionamento deve tornare ai livelli più alti nel mondo, come in passato, organizzando il personale sanitario e para sanitario come una risorsa permanente del sistema, finendola con la precarietà del personale e con un piano per riportare in Italia e in Europa la produzione di tutti i presidi sanitari considerati indispensabili per garantire la disponibilità delle risorse necessarie.
Per quanto riguarda il PNRR finalizzato all’uso delle risorse messe a disposizione dall’Europa, è indispensabile che l’utilizzo delle risorse europee avvenga in tempi rapidi fino all’ultimo euro, in aggiunta alle risorse nazionali, affidando alla maggior crescita del Pil il risanamento delle finanze pubbliche, escludendo in radice futuri interventi socialmente inaccettabili e lavorando per superare definitivamente in Europa le regole dell’austerità. Le finalità di fondo del PNRR dovranno essere ben chiare, a partire da una scelta sull’ambiente e sulla tutela del territorio come cifra di tutto il progetto, prevedendo l’uscita dall’uso delle risorse fossili nel più breve tempo possibile, compiendo scelte radicali come la diffusione a tappeto di tutte le energie rinnovabili. Scelte radicali, insieme ad altri paesi europei, possono collocare l’Italia all’avanguardia nella ricerca, nell’innovazione tecnologica, nell’occupazione di qualità, offrendo ai giovani una prospettiva occupazionale di grande valore per il futuro. Gestire la transizione dalla dismissione di tecnologie nemiche dell’ambiente e della salute a quelle green, innovative, rispettose dell’ambiente e del recupero del degrado, in grado di finalizzare l’istruzione e la diffusione dell’innovazione digitale, è la scelta più impegnativa per il governo, per il parlamento, per i partiti, per le associazioni, per i cittadini che vogliono contribuire a costruire l’Italia del futuro.
Più partecipazione, più democrazia, più coraggio su ambiente e sviluppo green, sono le sfide davanti a tutti noi. Se il governo ascolterà le istanze più innovative darà un quadro di riferimento e di sviluppo alle energie migliori del nostro paese. Altrimenti verrà perduta un’occasione.
Alfiero Grandi

 

07 – (Giulia Ronchi *) – TRAMANDARE IL PASSATO: A GENOVA SORGERÀ IL MUSEO NAZIONALE DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA (MEI). IL NUOVO MUSEO RACCONTERÀ LE STORIE DEGLI EMIGRATI ITALIANI DI OGNI EPOCA ATTRAVERSO UN PERCORSO PERSONALIZZATO E INTERATTIVO. I LAVORI DURERANNO CIRCA UN ANNO, PER LA SPESA COMPLESSIVA DI 5,3 MILIONI DI EURO.
Il tema della migrazione è al centro del nuovo museo in preparazione a Genova. Si chiamerà MEI, Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana e sorgerà nello storico edificio della Commenda di San Giovanni di Prè, luogo strettamente legato a storie di viaggi e migrazioni. La Commenda, infatti, è stata edificata nel 1180 dai Cavalieri Gerosolomitani, l’ordine religioso militare che aveva il compito di accogliere e offrire riparo a pellegrini, viandanti, cavalieri e mercanti diretti in Terrasanta, che all’epoca era teatro della III Crociata. Sono già stati avviati lavori per l’adeguamento funzionale e tecnologico dell’antica struttura; dureranno circa un anno per un costo complessivo di 5,3 milioni di euro, diviso tra Fondazione San Paolo (che sostiene il progetto con 300 mila euro), il programma Grandi Progetti Beni Culturali del MIBACT (con 3 milioni di euro) e infine il Patto per Genova, siglato tra Comune e Governo, con un contributo di 2 milioni.

MUSEO NAZIONALE DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA DI GENOVA: COSA CI SARÀ
Le autobiografie, i diari, le lettere, le fotografie, i giornali, i canti e le musiche: una moltitudine di oggetti e testimonianze serviranno per ricostruire la vita e l’identità degli emigranti nella storia, con materiale proveniente da enti, istituzioni statali e locali, archivi, musei, associazioni, musei, centri di studio e ricerca sparsi sul territorio. L’obiettivo è quello di restituire al grande pubblico la narrazione di un patrimonio vastissimo e diversificato come quello legato alla storia dell’emigrazione italiana, parte integrante delle radici culturali della nazione. I dati sulle partenze, i ritorni, le destinazioni, il lavoro, la salute, l’alimentazione, il razzismo, l’accoglienza e le tante motivazioni per lasciare l’Italia saranno i temi su cui si svilupperà l’apparato didattico del museo. L’intento è anche quello di dar vita a una realtà interattiva e mutevole, capace di accogliere e dialogare con ogni tipo di pubblico, comprese scuole e famiglie: anche per questo, saranno predisposti dei percorsi individuali che cambieranno a seconda dei dati del singolo visitatore. Questo grazie a un meccanismo di registrazione all’ingresso che permetterà di calibrare lingue, storie e documenti in base alla specifica persona che sta compiendo il percorso.

MEI: UNA STORIA CONTEMPORANEA
Oltre alla lunga storia di emigrazione che ha interessato il popolo italiano, il MEI si focalizzerà anche sul presente, raccontando il momento in cui l’Italia, da terra di emigrazione, è diventata meta dei migranti provenienti da differenti paesi e continenti. “Si tratterà di una grande operazione di memoria popolare e collettiva del nostro Paese”, commenta Paolo Masini, presidente del Comitato di indirizzo per la realizzazione del MEI. “Partendo dalle singole storie personali si arriva a ricostruire un fenomeno che è nell’anima stessa delle radici dell’umanità. Donne e uomini con le storie più diverse, che spesso hanno saputo trasformarsi in semi preziosi piantati in terre generose”.

MEI: POSIZIONE STRATEGICA NEL TESSUTO ATTRATTIVO DI GENOVA
“Un progetto importante per storia, cultura e turismo che oggi arriva alla fase esecutiva”, ha affermato il sindaco di Genova Marco Bucci. “Sappiamo che Genova ha avuto un ruolo strategico nella storia dell’emigrazione italiana grazie al suo porto, crocevia di persone, merci, culture. ‘Dovve i Zeneixi vàn, ‘n’atra Zena fan’ (i Genovesi dove vanno creano un’altra Genova, ndr) diceva, secondo la tradizione, l’Anonimo Genovese: una testimonianza della nostra storia da migranti del mondo. Storia che troverà spazio qui, in locali ristrutturati e ripensati per questo scopo”. E conclude, “il MEI godrà inoltre di una posizione strategica: con l’Acquario e il Museo del Mare a due passi, il Museo dell’emigrazione completerà un’offerta museale e turistica di primo livello. Grazie a tutti i soggetti che hanno collaborato alla realizzazione del museo”.

*(Giulia Ronchi è nata a Pesaro nel 1991. È laureata in Scienze dei Beni Culturali all’Università Cattolica di Milano e in Visual Cultures e Pratiche curatoriali presso l’Accademia di Brera. È stata tra i fondatori del gruppo curatoriale OUT44, organizzando mostre e workshop con artisti emergenti del panorama milanese. Ha curato il progetto Dissuasori Mobili, presso il festival di video arte “XXX Fuori Festival” di Pesaro. Ha collaborato con le riviste Exibart e Artslife, recensendo mostre e intervistando personalità di spicco dell’arte. Attualmente collabora con le testate femminili Elle, Elle Decor, Marie Claire e il maschile Esquire scrivendo di arte, cultura, lifestyle, femminismo e storie di donne. Cura la rubrica “Le curatrici donne più influenti nel mondo” per Marie Claire e “Storie d’amore nella storia dell’arte” per Elle.)

 

08 – Enrico Letta: “LO STRAPPO, FOLLIA DI UNA SOLA PERSONA”. L’EX PREMIER SU RENZI: OGGI È IL CAPO DI UNA COSA CHE È PIÙ PICCOLA DEL PSDI. “CI FA FARE NEL MONDO LA FIGURA DEL SOLITO PAESE INAFFIDABILE, PIZZA, SPAGHETTI, MANDOLINO. CONTE HA FATTO BENE A SFIDARLO””
“Follia pura”. Così Enrico Letta, ex premier, definisce la crisi di governo aperta da Matteo Renzi. Intervistato dal Corriere della Sera l’ex premier tuona: “Trovo incomprensibile e incredibile che l’Italia e in parte anche l’Europa debbano andare dietro le follie di una sola persona. Ma la situazione oggi è molto diversa, lui allora era il segretario del Pd, oggi è il capo di una cosa che è più piccola del Psdi”. Per Letta, l’ex segretario del Pd è riuscito a innescare la crisi “Perché nelle elezioni del 2018 ha fatto lui le liste elettorali del Pd. Si tratta di un potere inerziale di interdizione, con il quale ha messo in ginocchio la politica italiana e ci fa fare nel mondo la figura del solito Paese inaffidabile, pizza, spaghetti, mandolino”. Le critiche di Renzi al Recovery Plain, sottolinea “sono strumentali” perché la vera volontà è quella “di cambiare il quadro politico e provare ad avere un ruolo che gli consenta di resistere. Per farlo ha bisogno di uscire da una logica di centrosinistra. Una follia. Da parte di chi è stato premier c’è bisogno di un senso di responsabilità doppio, invece qui siamo all’opposto. Parlo da semplice cittadino, senza interessi in gioco, ma sento di dover uscire dal mio abituale riserbo perché i danni all’Italia sono enormi”.

Secondo Letta Conte “ha fatto molto bene a sfidare Renzi, perché la sua strategia non è un rimpasto di governo, ma far saltare il banco. Conte lo ha capito e ha detto ‘o dentro, o fuori’. Ora non può che esserci un passaggio alle Camere, il Parlamento è sovrano e deciderà”. “Mi sembra che Renzi si sia chiamato fuori definitivamente e poi la politica non è una sceneggiata napoletana. Nel momento in cui decidi di rompere è finita. Dovrebbe interrogarsi, chiedersi perché non ci sia un leader o un giornale straniero che gli dia ragione e perché solo il 10% degli italiani pensa stia facendo una cosa intelligente. Dovrebbe ricordarsi della drammatica barzelletta del tizio contromano in autostrada”, aggiunge. “Conte è il capo del governo e non può che essere lui a guidare l’Italia in questo anno, non vedo come possa essergli impedito. Non dico che questo governo è stato perfetto, ma la questione principale ora è come gestire la pandemia, la crisi economica, le vaccinazioni, il Recovery. Un governo in crisi fa l’ordinaria amministrazione, mentre oggi c’è bisogno di un governo di straordinario impegno e penso sia interesse anche delle opposizioni. Chi può essere interessato alla deriva, al fallimento del Recovery?”, prosegue. Ma sull’ipotesi di un governo di unità nazionale Letta taglia corto: “Non mi impicco alle soluzioni. La crisi va risolta il più rapidamente possibile e la cosa più semplice è che Conte vada in Aula a verificare se c’è una maggioranza. I giochetti politici devono essere messi da parte. Quello che sta facendo Renzi è solo il frutto di interesse politico, come sostiene il 73% degli italiani. Serve un chiarimento subito e non può che guidarlo Conte

 

09 – QUESTIONE DONNE/GOVERNO.
A – Cristiana Alicata*: Le donne escano dal gruppo Pd. Tutte insieme, per andare a prendersi le nomine ancora in ballo. E come si diceva tempo fa, aprire le finestre,
B – Federica Fantozzi*: Ai Ministeri 8 donne e 15 uomini. La prima “stecca” del Governo Draghi. Un terzo, il 32% a essere precisi. Con la maglia nera per i partiti progressisti
C – Marianna Madia (Pd): Il problema è la leadership, non le quote rosa.
D – Roberto Morassut (PD) Il problema del Pd con le donne dipende dalla sua stessa natura.
E – Loredana Taddei *: gli uomini nominati a prescindere. Avere vice ministre e sottosegretarie non sarà una buona sanatoria. È solo una pezza malamente aggiunta.

 

A – LE DONNE ESCANO DAL GRUPPO PD. TUTTE INSIEME, PER ANDARE A PRENDERSI LE NOMINE ANCORA IN BALLO. E COME SI DICEVA TEMPO FA, APRIRE LE FINESTRE.
Ha ragione Marianna Madia a dire che il tema delle donne e del PD non è un tema di quote, ma è un tema di leadership e diciamocelo chiaramente: in un partito che avesse avuto una forte leadership femminile, candidate ed elette autorevoli in città e regioni di peso, nessuno avrebbe fatto caso alla nomina di tre uomini ai Ministeri toccati al Partito Democratico. Soprattutto se fossero stati scelti per merito e non per corrente perché un’altra cosa dobbiamo dircela ad occupare i tre ministeri sono i 3 maggiori azionisti del Pd, anche detti capocorrente.
La verità è che oggi il Pd non solo non è un partito per donne, ma non lo è nemmeno per maschi perché non può essere esercitata la dialettica se non quella delle correnti. L’ultima ed unica candidata donna al congresso, se non erro, fu Rosy Bindi.
Niente donne di potere, solo luogotenenti e vale per tutti e con quella quota occupano lo spazio nella Conferenza delle donne. Come i giovani di corrente occupano la giovanile. Al tempo i primi a capire che dietro questi tavoli c’era la fregatura (starsene a giocare lontano mentre i maschi vecchi decidevano) fummo noi gay e lesbiche che decidemmo di sederci al tavolo vero e qualcosa la portammo a casa, vedi alla voce unioni civili. Chiedemmo una legge, chiedemmo pratiche, non chiedemmo rappresentanza in quanto gay. E questo è quello che le donne nel Pd devono cominciare a cambiare.
Come ho detto tutto questo vale anche per i maschi, non pensate che la catena del potere non valga per tutti. Si aspetta il proprio turno, si distribuisce per fedeltà. L’ho ha scritto bene Giulia Siviero, giornalista de Il Post: “Il femminismo di Stato mette al centro la pratica della spartizione e della rivendicazione di quote, nient’altro. Tutto molto poco trasformativo e intrinsecamente subalterno. La naturale conseguenza è l’indignazione, una postura che di nuovo lascia esattamente tutto com’è”. La battaglia per la parità in politica non può esaurirsi chiedendo posti ai maschi, anche se io penso che le donne del Pd oggi debbano prendersi le nomine ancora in ballo senza fare troppe storie e senza badare se questo altera gli equilibri di corrente già decisi.
COSA FARE? POCHE COSE.
Abolire la consulta delle donne e sedersi al tavolo coi maschi. Le donne non sono un tema delle donne, sono un tema di tutti, se ne parli su un unico tavolo (così come non si capisce perché c’è un Ministero dei giovani, dei disabili, delle pari opportunità e non unico Ministero del welfare e delle politiche sociali). Candidarsi al congresso con una visione di paese completa. È pieno di donne in gamba e preparate e che hanno fatto anche una signora gavetta nelle istituzioni. Faccio anche dei nomi: Debora Serracchiani, Lia Quartapelle, Simona Bonafè. Ce ne sono tantissime altre, ma il tema delle donne, soprattutto quelle in gamba, è di non sentirsi mai all’altezza. È stato studiato. È ufficiale: abbiamo un problema che gli inglesi chiamano self-confidence. Le donne fanno sempre un passo indietro, pensano sempre ci sia qualcuno più bravo di loro. Forse c’è, ma non è possibile sia sempre e solo maschio! Ed infine, ad avere un po’ di coraggio, uscire tutte dai gruppi parlamentari Pd in modo simbolico ed entrare nel gruppo Misto, tutte insieme, per definire nuove pratiche politiche e liberarsi dalle correnti. Come si diceva tempo fa: aprire le finestre
*(Cristiana Alicata* Manager, scrittrice, attivista diritti civili)

 

B – Federica Fantozzi*: AI MINISTERI 8 DONNE E 15 UOMINI. LA PRIMA “STECCA” DEL GOVERNO DRAGHI. UN TERZO, IL 32% A ESSERE PRECISI. CON LA MAGLIA NERA PER I PARTITI PROGRESSISTI
L’unica che ha detto di No a Draghi è una donna, ripetono in queste ore gli ammiratori di Giorgia Meloni. In compenso, lui ha detto di No a diverse donne. O forse lo hanno fatto loro: i partiti. Il governo Draghi, alla fine, nasce con 23 ministri (più il premier 24) di cui 8 donne. Un terzo, il 32% a essere precisi. Ben al di sotto della “squadra in rosa” di cui si favoleggiava nei giorni scorsi, sull’onda delle abitudini dell’ex presidente della Bce di valorizzare la competenza professionale femminile. E invece, per questa volta il titolo “Tutte le donne del presidente” non si farà.
Sono state rispettate le indiscrezioni sul mix tra tecnici e politici, sul “manuale Cencelli” dell’operazione e sull’assenza dei leader. Ma quella sul 50% di donne è naufragata. Con una subordinata ancora peggiore: delle 8 ministre nessuna è espressa né dal Pd (su tre) né da Leu (che ha il solo Roberto Speranza), una soltanto (Fabiana Dadone, ex titolare under 40 della Pubblica Istruzione migrata alle Politiche Giovanili). Una specie di maglia nera in Europa per i partiti progressisti. Con buona pace della senatrice Julia Unterberger della Svp (collocata nel centrosinistra) che alle consultazioni aveva posto esplicitamente il problema: “Ho chiesto al premier incaricato che ci sia un’adeguata rappresentanza di donne”.
La Lega ne esprime una, Erika Stefani alla Disabilità: un dicastero importante il cui ritorno è stato chiesto proprio da Matteo Salvini; quelli con portafoglio, però – Turismo e Mise – vanno a Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia. Migliore il ranking di Forza Italia, con due donne su tre ministri – Mara Carfagna al Mezzogiorno e Mariastella Gelmini agli Affari Regionali e Autonomie – in una squadra tutta senza portafoglio. Mentre Italia Viva esprime un solo ministro, ed è donna: Elena Bonetti alle Pari Opportunità. Applauso, sebbene avendone fatte dimettere due (con Bonetti, Teresa Bellanova), resta in debito formativo. Le ultime tre ministre dell’esecutivo sono “tecniche”: Luciana Lamorgese resta al Viminale, l’ex presidente della consulta Marta Cartabia sostituisce Bonafede alla Giustizia, Maria Cristina Messa prende l’Università. E sono anche quelle con il portafoglio. Possibile conclusione: nel bilancino governativo i due presidenti – Mattarella e Draghi – sono stati più femministi dei leader di partito.
Pur avendo portato a casa tre dicasteri di peso (Cultura, Lavoro, Difesa) nel rispetto certosino del bilanciamento tra correnti, il Pd è in comprensibile imbarazzo. “Non riesco a capacitarmi! – scrive con tanto di punto esclamativo Valeria Fedeli – Neanche una donna del mio partito nell’elenco”. Twitta l’ex leader della Cgil Susanna Camusso: “Bon lavoro al governo dove le donne sono un terzo, per giunta in maggioranza tra i ministeri senza portafoglio… Non un cambio di paradigma”. Valeria Valente: “Assenza che lascia sconcertati e delusi”. Michela Marzano: “Nessuna donna tra i ministri politici di sinistra e una M5S la dice lunga sul progressismo del nostro Paese”.
Nicola Zingaretti prova a mettere le mani avanti: “In questi mesi, nel lavoro di ricostruzione del partito, abbiamo scommesso molto sulla valorizzazione della forza e della risorsa delle donne e, in questi giorni, nella centralità del tema della differenza di genere come cuore del programma. Nella selezione della componente del Pd nel governo questo nostro impegno non ha trovato rappresentanza – ammette il segretario Dem – Pur rispettando i criteri di autonomia dei ruoli faro’ di tutto perché questo si realizzi nel completamento della squadra di governo”. Insomma, si attendono compensazioni nei ruoli di viceministro o sottosegretario. Ironia della sorte, mentre i telefonini squillavano a vuoto per complimentarsi con la sua riconferma, Lamorgese interveniva a un convegno sull’uguaglianza femminile: “E’ il tempo delle donne, nella società, nel lavoro, nella vita”. Si spera che sarà il titolo per il prossimo governo.
(Federica Fantozzi* Huffpost)

 

C – Marianna Madia (Pd): IL PROBLEMA È LA LEADERSHIP, NON LE QUOTE ROSA. NEL PD CORRENTISMO ESASPERATO CHE RIDUCE ANCHE IL DISCORSO SULLE DONNE IN NOME DELLA FAMOSA “UNITÀ”
La questione delle donne nel Partito Democratico è un problema di leadership, non di “riconoscimento” di ruoli o incarichi. E non è un problema di “competenze” specifiche non valorizzate. Questa lettura sconta un principio di subalternità. Il problema del Partito Democratico è un correntismo esasperato che condiziona le scelte e riduce ogni passaggio alla ricerca di un equilibrio burocratico in nome della famosa “unità”. L’assenza di battaglie di idee libere, oltre a rappresentare un male in sé, contribuisce al pregiudizio per le donne.
Se penso al nostro ruolo oggi, nel tempo che viviamo, all’interno del PD non vedo la rivendicazione di uno spazio di tribuna. Se vogliamo davvero contare e dare un contributo al cuore del problema occorre uno scarto. Serve leadership politica.

Il PD ha bisogno di rilanciare la sua vocazione maggioritaria, la voglia di lottare per cambiare la società nel suo insieme, aumentare il benessere collettivo, i diritti, le opportunità di tutti. Connettersi con la società, essere rappresentativi di posizioni riconoscibili e coraggiose sui temi del nostro tempo. Tornare a essere la casa dei riformisti, di chi crede nella transizione ecologica, di chi ritiene che la trasformazione digitale debba essere messa al servizio della crescita ma anche della riduzione delle disuguaglianze, di chi ritiene che la protezione sociale non sia assistenzialismo senza però cedere a vezzi liberisti sconfitti dalla storia.
Appaltare il green ai Cinque stelle, la protezione sociale a Leu, i temi dell’economia e della crescita a Carlo Calenda o Italia Viva, ci riduce al partito della responsabilità degli equilibri generali, troppo lontano, troppo al di sotto della missione storica per cui siamo nati.
A ben vedere, questo scivolamento, dato per scontato, verso lo schema proporzionale ora inspiegabilmente dato per assunto, è emblematico. Stiamo rinunciando a rappresentare la società nella sua complessità, ci accontentiamo di rappresentarne una porzione che diventa sempre più piccola. Come la nostra rappresentazione solo al maschile.
Per queste ragioni ritengo che il tema delle donne sia dentro i tratti fondanti del nostro partito e non certo una pur importante rivendicazione di genere.
Il nuovo Governo ha giurato e avrà bisogno di sostegno e lealtà. È doveroso rivolgere un grazie a Mario Draghi per l’impegno che si è assunto nell’interesse di tutti.
Da domani il PD farà la su parte ma avrà veramente molto su cui riflettere e il tempo giusto per farlo. Su questo dobbiamo misurarci. Del resto la leadership non si ottiene per concessione, si esercita con battaglie sulla linea politica.
(Marianna Madia Parlamentare Partito democratico)

 

D – Roberto Morassut (Pd) IL PROBLEMA DEL PD CON LE DONNE DIPENDE DALLA SUA STESSA NATURA. IL PROBLEMA DEL PD CON LE DONNE DIPENDE DALLA SUA STESSA
Il problema è il Partito, ovvero che cosa è il Pd e la natura della sua vita interna. Nel 2016, dopo la sconfitta al referendum costituzionale, dissi in più occasioni che era giunto il momento di aprire una “Costituente” per un nuovo soggetto politico “democratico” con caratteristiche più di movimento aperto che di partito. Non era “svoltismo”, come qualcuno mi contestò, ma la semplice considerazione che si era conclusa una fase politica, un ciclo politico, durante il quale il Pd aveva provato a condurre a termine un progetto strategico di riforma generale della politica e delle istituzioni.
Bisognava ripartire dalle fondamenta culturali del Pd (che a mio modo di vedere restano valide) ma con nuove forme partecipative più mobili che mettessero in discussione certi stilemi partitici che avevano già allora soffocato la creatività del Partito attraverso un correntismo di quasi esclusiva cooptazione di gruppo che rendeva sempre più arido il confronto culturale, diffondeva un grigio conformismo e gli impediva di svilupparsi facendo avanzare forze valide e selezionate sul merito.
L’analisi, a parole, è stata condivisa oggi come allora. Nei fatti non siamo stati conseguenti. Il problema delle donne nel Pd e nelle rappresentanze elettive o di governo va legato e valutato alla luce di questa condizione generale del Pd: non mi pare sia un tema incidentale di oggi tantomeno una responsabilità del segretario. Mettiamoci un po’ tutti sotto esame. Il problema principale è che tipo di pluralismo vogliamo coltivare; un pluralismo di idee o di correnti? Nel primo caso la presenza delle donne, non solo come rappresentanza di genere ma come punto di vista sulla società e la politica, potrà meglio esprimersi. Nel secondo caso potrà ottenere dei posti. E non sempre.
Un’ultima considerazione. La necessità di tentare oggi un processo “costituente” per un soggetto politico democratico ma costruito su basi associative diverse da quelle attuali si rende necessario anche alla luce della nuova fase politica che segna, secondo me, un declino (forse momentaneo) dei populismi e un ritorno alla politica e alla egemonia sui contenuti e sulle scelte. Ci sarà una sfida tra riformismi. Per superare la pandemia e far ripartire l’economia la sfida sarà su questo e l’ingresso della Lega nel governo segnala questa nuova situazione generale.
Allora servono idee, serve far crescere persone intelligenti e creative, dirigenti politici culturalmente attrezzati e (non di meno) eticamente adatti alla nuova fase, intendendo per etica non un astratta morale.
Sulla natura di questa ipotesi di “costituente” non spendo molte parole perché come la intendo l’ho detto e scritto in tante occasioni. Penso che quanto stia accadendo oggi nel Pd anche a seguito della nascita del governo Draghi (dove ci sono tutti e quindi si rischia oggettivamente un’ulteriore opacizzazione del Pd) ci metta difronte alla necessità di un’iniziativa politica identitaria sul nostro soggetto e sulla nostra comunità politica, laddove per “identitaria” non va intesa una accentuazione ideologica o propagandistica, ma un’iniziativa costruttiva e strutturale di posizionamento nella società e di modalità partecipative che tenga conto di un mondo mobile, liquido, mutevole nel quale ci è imposto di navigare mantenendo alti e visibili i nostri valori. Forme mutanti e valori costanti.

 

E – Loredana Taddei *: GLI UOMINI NOMINATI A PRESCINDERE. AVERE VICE MINISTRE E SOTTOSEGRETARIE NON SARÀ UNA BUONA SANATORIA. È SOLO UNA PEZZA MALAMENTE AGGIUNTA
PERCHÉ A SINISTRA SOLO MINISTRI UOMINI? Di sicuro non perché siano più bravi e più competenti. Ma semplicemente perché le leve del comando sono in mano loro. E perché le donne non giocano fino in fondo la partita, come dovrebbero.
Ogni volta che si denuncia la mancanza di donne in organi politici o istituzionali, negli incarichi dirigenziali come negli incontri pubblici, puntualmente arriva il lamento di qualche pappagallo (ma anche papagalla) che reclama come prioritaria la meritocrazia e ci ricorda che le donne non possono essere nominate o elette a prescindere.
Gli uomini invece sì. È successo anche con il governo Draghi appena formato: 8 donne, di cui la metà senza portafoglio, su 23 ministri.
Hanno brillato in particolare i partiti di sinistra (Pd e LEU) che non hanno portato neanche una donna al governo, nonostante il Partito Democratico avesse scommesso “sulla valorizzazione della forza e della risorsa delle donne”.
Avere vice ministre e sottosegretarie non sarà una buona sanatoria. È solo una pezza malamente aggiunta che non da soluzione al problema e che conferma le donne al “secondo giro”, alla serie b, nella vecchia logica della subalternità. La verità è che ha prevalso la logica di potere a conferma che il Pd è una federazione di correnti. E non è una giustificazione nemmeno dire che alle donne non sarebbero comunque andati ministeri “pesanti”, che invece il neo governo ha assegnato alle ministre Cartabia, Messa e Lamorgese.
Perché c’è la sgradevole sensazione di essere prese in giro? Forse è arrivato il momento di reagire con maggiore determinazione e incisività rispetto al passato, forse dovremmo smetterla di scrivere garbate letterine di natale al presidente del consiglio di turno in cui “chiediamo” qualcosa. Forse dovremmo unire le forze anziché dare vita a mille associazioni per combattere le discriminazioni e le disuguaglianze sempre più vistose tra uomini e donne. Che non è affatto una questione secondaria nel tragico momento che stiamo vivendo, dove anche la pandemia è una questione di genere.
A dicembre il 98% di chi ha perso il lavoro è donna, su un totale di 101mila occupati in meno. Un numero impressionante, ancora di più se il crollo è quasi esclusivamente femminile, con quasi 100mila donne finite disoccupate.
Il covid sta dando il colpo di grazia alla (mancata) parità di genere nel mondo del lavoro, che già prima dell’emergenza sanitaria vedeva solo la metà delle donne italiane occupate, perlopiù in lavori precari e mal pagati.
Non è un caso che alcune associazioni di donne abbiano rivendicato in queste settimane un ministero delle Pari Opportunità con portafoglio, guidato da una femminista, per dare voce e sostanza ad un necessario e urgente riequilibrio tra i generi. Invece abbiamo visto il ritorno della ministra ex scout al ministero per la Famiglia e le Pari Opportunità. In continuità con l’accorpamento medievale donne e famiglia insieme alla confusione, voluta, tra politiche di genere e politiche per la famiglia.
L’intera vicenda ci dice che è arrivata l’ora di dare un segnale forte e chiaro, partendo dalla modifica all’art.92 della Costituzione nel quale andrebbe previsto che il 50% dei ministri scelti di concerto dal presidente del Consiglio incaricato e dal presidente della Repubblica siano donne. Solo così si garantisce la parità di genere.
*(Loredana Taddei Cofondatrice “Se non ora quando?”)

 

10 – Filippo Barbera*: UN GOVERNO SENZA COLORE POLITICO, È LA POLITICA SENZA IL CONSENSO. NUOVO GOVERNO. DI CENTROSINISTRA, GIALLO-ROSSO O GIALLO-VERDE, ARCOBALENO, MILLEFIORI O INCOLORE: IL GOVERNO DRAGHI NASCE E PROSPERA IN UN MONDO DOVE I COLORI NON FANNO DIFFERENZA, NELLA NOTTE DOVE TUTTI I GATTI SONO GRIGI.
L’appello di Mattarella “a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica» è stato interpretato come un richiamo all’indifferenza politico-cromatica della maggioranza parlamentare che deve concedere la fiducia all’esecutivo.
Di centrosinistra, giallo-rosso o giallo-verde, arcobaleno, millefiori o incolore: il Governo Draghi nasce e prospera in un mondo dove i colori non fanno differenza, nella notte dove tutti i gatti sono grigi. Dove il Partito Democratico, Forza Italia e la Lega staranno dalla stessa parte. Ne ha scritto anche Alberto Leiss su questo giornale il 9 Febbraio https://ilmanifesto.it/ma-dove-e-finita-la-politica/ .
Ma è davvero questo il significato del richiamo di Mattarella?
Il Presidente della Repubblica è uomo di studi e dottrina: è stato giudice Costituzionale, docente di diritto costituzionale e di diritto parlamentare, tre volte Ministro della Repubblica. Il ricorso alla locuzione “formula politica” non è causale. Sergio Mattarella soppesa con il bilancino ogni parola, a maggior ragione in un’occasione così solenne.
Una “formula politica”, secondo la definizione di Gaetano Mosca – uno dei padri fondatori dell’elitismo, anche lui palermitano e docente presso l’Università siciliana, come Sergio Mattarella – indica la dottrina o le credenze che forniscono una base morale al potere della classe dirigente. Nella “Teoria della classi politiche” Mosca sostiene che alla modifica della “formula politica” – quindi del consenso – segue una modifica dell’organizzazione della classe politica.
Il sistema politico si basa su un consenso di fondo e il suo cambiamento richiede una diversa “formula politica”, che è appunto la fonte morale del consenso. L’indicazione di Mattarella era quindi molto precisa: non tanto l’indifferenza politico-cromatica, ma l’indipendenza del Governo Draghi dal consenso e dalle sue basi morali. Non quindi un governo tecnico (Mattarella non utilizza mai questo termine, così come non richiama mai il concetto di “governo istituzionale”), ma un Governo politico non basato sul consenso. Un ossimoro democratico. Il cui effetto sui partiti è stato… il consenso. Immediato, senza pudore e memoria.
Totalizzante, senza se e senza ma. Non solo nei partiti e nei loro leader, pronti a rimangiarsi dichiarazioni anti-euro e pro flat-tax. Svelti a tacitare le opposizioni interne, sdraiati dinanzi alla figura del salvatore e disponibili a sostenere un Governo con i nemici giurati. Ma anche nell’elettorato, finalmente sollevato dinanzi alla possibilità di godere di un Governo sostenuto da un’ampia maggioranza, senza per questo dover subire una sfibrante campagna elettorale. Un elettorato libero dall’obbligo di credere a proclami che non si realizzeranno mai e, finalmente, non destinato alla delusione perché privo di un patto elettorale costruito su false promesse.
Il Governo Draghi nasce nell’assenza del consenso come vincolo politico tra eletti ed elettori, nel vuoto della “formula politica”, che genera il suo opposto: l’apparente “pieno” del consenso. È questa la surreale situazione che il Paese sta vivendo. Degna del realismo magico di Jorge Louis Borges. Un paese e la sua classe politica prostrati nell’attesa messianica di un Recovery Plan e di un vaccino che riportino le lancette indietro, prima che la pandemia irrompesse nella quotidianità. Ma qui è il punto. Le scelte del Governo nato dall’assenza della “formula politica” saranno dolorose e selettive.
I fondi promessi, se arriveranno, non saranno sufficienti a coprire che una parte delle esigenze e dei bisogni che si sono creati in questi lunghi mesi. La lotta contro il virus sarà lunga e costellata di passi falsi, sorprese e imprevisti. Allora il consenso nato per magia, sparirà nello spazio di un mattino. Le destre torneranno agli schemi originari, l’antieuropeismo, l’antielitismo e il nativismo identitario.
La paura, la rabbia e il risentimento riprenderanno vigore e forza. A favore di chi è rimasto alla finestra, aspettando il momento propizio per tornare a reclamare un Governo basato su una “formula politica”. Se il tempo che ci separa dalle prossime elezioni non sarà utilizzato dalle forze di centro-sinistra per ricostruire le basi sociali del consenso popolare, per ripensare l’organizzazione dei partiti, per intercettare nuove forme di mobilitazione e selezione della classe dirigente, per disegnare un nuovo radicamento della politica nella vita quotidiana, l’esito sarà drammatico.
Se, durante il Governo Draghi, non si troverà la forza di muovere nell’unica direzione possibile – la riapertura degli spazi democratici – il Paese si sposterà massicciamente a destra. E questa classe politica sarà ricordata come quella che – abbagliata dal mito della competenza – si è incamminata a testa bassa lungo la strada dell’ignavia.
*(Filippo Barbera da Il Manifesto)

 

11 – AMERICA CENTRALE. DA COSA FUGGONO I MIGRANTI DELLE CAROVANE? ERA LA VIGILIA DI NATALE DEL 2008 QUANDO IL SACERDOTE STATUNITENSE JON POPS RIVOLSE UNA PREGHIERA AL SUO DIO, CHIEDENDO, SE POSSIBILE, UN PO’ DI MISERICORDIA PER IL SUO GREGGE IN GINOCCHIO: “CHE IL SIGNORE, DIO DEI MIGRANTI, LI RENDA INVISIBILI”. 8 febbraio 2021
Era quello il miglior auspicio che poteva formulare quel prete benefattore: che i centroamericani senza documenti in regola, per cui invocava la benedizione divina, diventassero trasparenti come l’aria, che nessuno li notasse al loro passaggio in Messico diretti verso gli Stati Uniti, che i loro passi non fossero sentiti, che le loro sagome non potessero essere viste mentre salivano sul treno della morte. Jon Pops credeva – e io credevo con lui – che la cosa migliore che poteva succedere a quelle persone fosse essere nulla.
All’epoca gli Zetas erano il principale motivo di terrore: avevano scoperto un filone molto redditizio nel sequestro dei migranti centroamericani. Andavano a caccia di migranti in Chiapas, nello stato di Oaxaca, di Veracruz, seguendo i binari del treno, e li sequestravano in massa, a centinaia, con la complicità di tutte le forze di polizia messicane e dei tre livelli di governo. Obbligavano le migranti a prostituirsi, le stupravano, le torturavano, le schiavizzavano, le separavano dai figli, le uccidevano. Obbligavano i migranti a vedere come erano sfruttate le figlie o le nipoti, li mutilavano, li derubavano, li vendevano, scioglievano i loro cadaveri nell’acido, li seppellivano in fosse comuni, li bruciavano. Tutti i migranti, le centinaia di migranti che passavano dal centro di accoglienza dove Jon Pops invocava miracoli, nel sud dello stato di Oaxaca, sapevano che quelle cose sarebbero successe. Ed erano comunque lì, pronti a proseguire il loro viaggio. Tutti, o quasi tutti, erano già stati vittime di un assalto, molte donne erano già state stuprate, avevano già visto cosa faceva il treno alle persone che si addormentavano incautamente, che non erano riuscite ad afferrarsi bene a una scala, che avevano esitato. Avevano visto la cattiveria con i loro stessi occhi: contadini messicani trasformati in assalitori; poliziotti, tassisti, conducenti di autobus, di barche a motore, di tricicli, venditori di tacos, che all’improvviso diventavano dei mostri.
E nonostante tutto non smettevano di presentarsi al centro Hermanos en el camino, fondato da un altro sacerdote: un uomo di mezza età, combattivo, incrollabile, il cui nome all’epoca stava diventando sinonimo di difesa dei diritti dei migranti senza documenti: Alejandro Solalinde.
Vedendoli arrivare macilenti e sfiniti dopo i primi giorni di viaggio, e vedendoli ripartire consapevoli degli orrori che li aspettavano, Jon Pops si era fatto, secondo me, l’unica domanda possibile, una domanda che nella sua ovvietà è profonda e totale: “Vorrei capire”, mi aveva detto quel sacerdote altissimo, con i suoi occhi azzurri di yankee anziano. “Se qui soffrono così tanto, da cosa fuggono?”

ALTRI TEMPI
Sono passati più di dodici anni e le cose sono molto cambiate, o piuttosto è l’apparenza delle cose a essere molto cambiata: nessuno rivolge più al cielo la preghiera che i migranti senza documenti siano invisibili, e loro stessi sono arrivati alla conclusione che per loro è meglio attraversare il Messico in massa, facendo quanto più rumore possibile e camminando lungo le grandi arterie piuttosto che passare da sentieri sperduti. Stanno provando un nuovo modo di viaggiare, in quelle che sono state chiamate carovane, e hanno notato che insieme diventano un evento politico, un conflitto diplomatico che occupa – per fortuna – più di una prima pagina dei quotidiani, e allora i politici non possono più negarne l’esistenza e devono quantomeno fare l’esercizio di parlarne, di dirsi contrari pubblicamente, di fare equilibrismi per spiegare perché i manganelli e i gas lacrimogeni e la polizia e le botte sono strumenti del bene.
Gli Zetas non sono più il pesce più grosso; alcuni boss sono caduti, ne sono arrivati altri, i sequestri non sono più safari di massa. La rotta dei migranti è cambiata di mano e la nuova dirigenza lucra sui migranti privi di documenti in maniera diversa. Il treno della morte ha aumentato la sua velocità nella maggior parte dei punti in cui salivano i migranti. Ci sono più vigilanti armati nelle stazioni ferroviarie. Jon Pops, se è vivo, non abita più a Ixtepec per essere un balsamo per i migranti. Il centro di accoglienza Hermanos en el camino non è più un umile appezzamento di terra, ma uno spazio ben organizzato, con un edificio con tutti i crismi e portoni di accesso. Solalinde ora è fianco a fianco con il potere, ha una guardia del corpo e un autista, e ha puntato tutto il suo capitale morale su un politico. Difende le azioni della polizia contro i migranti, accusa i difensori dei diritti umani delle stesse cose di cui dieci anni fa il potere accusava lui e dice che, sebbene i migranti centroamericani siano importanti, “prima viene il Messico”.
Quando le cose cambiano così tanto in apparenza, di solito è perché in fondo non sono cambiate molto o per niente. La domanda che Jon Pops si è fatto più di dieci anni fa (“da cosa fuggono?”) continua a essere tanto ovvia quanto priva di risposta.
Mentre scrivo queste cose, un contingente di centinaia di agenti della guardia nazionale messicana è stato spiegato alla frontiera sud, pronto a respingere la carovana di honduregni bloccata a più di quattrocento chilometri dalla frontiera messicana, nel sud del Guatemala.
Circa novemila honduregni sono partiti di nuovo dal terminal degli autobus di San Pedro Sula, in direzione (secondo loro) degli Stati Uniti. Sono arrivati di nuovo alla frontiera del loro paese con il Guatemala e sono entrati come una valanga, senza chiedere permesso, con la sicurezza di chi sente di avere il diritto di camminare sulla terra che ha davanti. Poi l’esercito guatemalteco, insieme alla polizia, li ha presi a manganellate e gli ha fatto provare cosa si sente quando non si può respirare per i gas lacrimogeni. L’idea sembra quella di picchiare duro fino a convincerli a tornare da dove sono venuti, o fino a farli disintegrare in mille pezzi. Nel frattempo la frontiera naturale del fiume Suchiate sembra già un campo da guerra, con le forze dell’ordine messicane pronte a portare avanti il lavoro se gli honduregni riescono ad aggirare gli ostacoli guatemaltechi e non ne hanno ancora avuto abbastanza.Ma non sarà mai abbastanza. Continueranno ad arrivare, in carovane pacifiche o meno, in treno, a piedi, in un mese o in sei mesi, e questo sarebbe chiaro a tutti se qualcuno avesse cercato di rispondere alla domanda di Jon Pops.
La maggior parte delle persone che fanno parte delle carovane arriva dall’Honduras, e quest’ultima carovana non è l’eccezione. Se restringiamo ancora di più l’obiettivo, tra gli honduregni prevalgono quelli che arrivano dall’enorme e fertile valle di Sula. L’Honduras continua a pagare il suo passato da repubblica delle banane, un cancro che ha quasi trasformato diversi paesi centroamericani in repubbliche schiaviste. Oggi è sul podio della classifica dei paesi più ingiusti dell’America Latina, nonostante la durissima concorrenza: dopo il Brasile, è il paese con più disuguaglianze della regione, che a sua volta è quella con le maggiori disuguaglianze al mondo. Insomma, in Honduras convivono opulenza e miseria. Sei persone su dieci vivono sotto la soglia della povertà, e quattro su dieci non hanno abbastanza denaro per comprare da mangiare: “povertà estrema”, dicono gli studiosi, tanto per dare un nome alla sopravvivenza.
Il 70 per cento dell’economia honduregna è informale: venditori di cibo per strada, di cd pirata, di vestiti, di verdure, che dipendono dal fatto che altri honduregni abbiano soldi in tasca per comprare qualcosa. L’Honduras è anche uno dei paesi più violenti della regione, e San Pedro Sula occupa sempre i primi posti nell’infame classifica delle città più violente al mondo.
Tutto questo accadeva prima della pandemia di covid-19, che ha fatto sprofondare quasi un milione di persone nella miseria. Secondo il Consiglio honduregno delle imprese private, più della metà delle aziende registrate (il 51 per cento) sono chiuse o stanno per chiudere. Il 30 per cento di tutti i lavoratori delle maquilas sono rimasti senza lavoro dall’oggi al domani. Il paese ha perso circa il 12 per cento del suo pil, e poi è arrivato l’uragano Eta, che ha letteralmente inondato la valle di Sula, ha fatto marcire le piantagioni di banane e di canna da zucchero e ha fatto sprofondare nell’indigenza tutte quelle persone che già prima sopravvivevano a stento grazie all’agricoltura. Intere comunità sono state travolte dal fango. Tutti gli abitanti del comune di La Lima, per esempio, sono stati evacuati; 90mila persone sono rimaste senza una casa. I quartieri emarginati, come El Rivera Hernández, La Planeta, la Canaán o i ventiquattro villaggi rurali di Bajos de Choloma non sono più agibili. Centinaia di famiglie hanno costruito baracche di plastica e cartone sul ciglio della strada, si sono rifugiate sotto i ponti o si sono ammassate nelle scuole trasformate in rifugi, senza ricevere nessun aiuto, e dico nessuno, da parte del governo. Su alcuni tratti della strada che collega San Pedro Sula e Tegucigalpa sono sorti enormi campi di rifugiati. Poi è arrivato l’uragano Iota.
La devastazione lasciata al loro passaggio da questi uragani, che si sono abbattuti sul nord del paese a una settimana di distanza l’uno dall’altro, non ha precedenti vicini nel tempo: bisogna risalire a 22 anni fa per poter trovare qualche termine di paragone, con il selvaggio uragano Mitch, che nel 1998 ha cambiato le dinamiche migratorie nella regione.
A queste calamità si aggiunge la corruzione dilagante del governo, il cui presidente, Juan Orlando Hernández, sta pensando di farsi rieleggere una terza volta, anche se la costituzione dell’Honduras vieta esplicitamente e tassativamente che un presidente si ripresenti alle elezioni. Il responsabile della Copeco, la commissione permanente per gestire la pandemia e gli effetti degli uragani, è un cantante di reggaetón, con tutta l’esperienza istituzionale che un cantante di reggaetón può avere su questi temi, cioè nessuna. I due responsabili che l’hanno preceduto alla Copeco sono stati allontanati dal presidente in meno di un anno e hanno lasciato il posto tra enormi scandali di corruzione.
Novemila persone sono uscite dalle loro baracche sul ciglio della strada, dall’ombra di un ponte o da quello che restava delle loro case e hanno cercato di fuggire verso nord. A queste persone il governo guatemalteco, che ha firmato di nascosto con gli Stati Uniti un accordo di paese terzo sicuro, ha chiesto di presentare un tampone per certificare di non essere affetti da coronavirus, quando in Honduras le prove nei laboratori privati costano più di cento dollari e nel sistema pubblico ci sono liste di attesa infinite. Se si ha fortuna e si riesce ad avere un appuntamento per fare il test, la risposta impiega circa quindici giorni per arrivare, rendendola del tutto inutile. Insomma, il Guatemala chiedeva compostezza e una bella fila per ricevere timbri e firme. L’unica alternativa fornita sono stati manganelli e gas. Nel dubbio, anche il Messico ha preparato una sua dose della stessa soluzione. Manganelli e gas lacrimogeni per chi fugge.
Alla domanda fondamentale che si faceva Jon Pops (“da cosa fuggono?”) bisogna aggiungerne altre che potrebbero finire di tratteggiare il panorama: come si minacciano persone che non hanno nulla? Come si spaventa una carovana di persone che hanno più paura di quello che si sono lasciate alle spalle? Con manganelli e gas lacrimogeni?
Finora, la polizia e l’esercito del Guatemala sono riusciti a far ripiegare la prima carovana di migranti del 2021, ma ne è stata convocata un’altra, che si è riunita, tanto per cambiare, alla stazione degli autobus di San Pedro Sula, perfettamente consapevole del fatto di non essere benvenuta da nessuna parte, ma con la certezza della fame e della paura.
L’America Centrale, Guatemala incluso, ha sofferto molto durante la pandemia: le economie della regione sono scialuppe fragili, propense al naufragio, in balia degli spropositi di caudillos populisti o dei patti rapaci delle loro élite. La miseria, la pazzia istituzionale, l’instabilità dei governi, sono terreno fertile per l’insorgere di mafie e gang che riempiono il vuoto lasciato dallo stato. Insomma, tutto sembra indicare che non ci saranno gas lacrimogeni o manganelli a sufficienza per contenere tutta questa disperazione.
Busseranno senza stancarsi alle porte delle frontiere, in massa o a piccoli gruppi, sopporteranno percosse, sequestri, torture, treni, cartelli, respingimenti e leggi, saranno trattati come orde selvagge pronte a infrangere la legge, fino a quando non si capirà l’importanza radicale di rispondere alla domanda fatta da quello yankee, che chiedeva al cielo il dono dell’invisibilità per i migranti.
(Traduzione di Francesca Rossetti – L’originale di questo articolo è stato pubblicato sulla Révista de universidad di Mexico di Carlos Martínez.)

 

12 – USA. Amanda Mull*: LA PANDEMIA HA CAMBIATO ANCHE L’AMICIZIA. QUALCHE MESE FA, MENTRE MILIONI DI STATUNITENSI GUARDAVANO SU NETFLIX LA SERIE EMILY IN PARIS, HO MESSO SU IL PRIMO EPISODIO.
Quasi immediatamente sono stata assalita da un forte desiderio: non di viaggiare o di avere l’occasione per indossare un bel vestito (i due punti di forza di una serie per il resto scialba), ma di sport. Nello specifico mi è venuta voglia di guardare un evento sportivo in un bar pieno di gente, proprio quello che il fidanzato della ragazza del titolo sta facendo quando gli spettatori lo incontrano per la prima volta.
La scena è fugace e abbastanza brutta, perché non trasmette nemmeno lontanamente la sudata intensità di un’orda di tifosi nervosi, sempre sul punto di abbracciarsi in un impeto di gioia collettiva o di disperazione. Lo so bene perché ho passato buona parte della mia vita sociale adulta guardando eventi sportivi in un bar, con i miei amici stretti e con mezzo migliaio di altre persone, nel locale di New York che accoglie gli studenti espatriati dell’università della Georgia durante la stagione del football universitario.

UN’OPPORTUNITÀ
Grazie a una tv posizionata all’aperto, durante la pandemia ho mantenuto l’abitudine di guardare una partita in compagnia di un paio di amici, un vero balsamo per il mio umore. Ma l’altra esperienza, quella che Emily in Paris cerca invano di raccontare, è completamente perduta. Notando tutti i modi in cui la serie ne fraintendeva le gioie, ho capito quanto mi mancava quel tipo di serata, e soprattutto tutte le persone che conoscevo di vista o poco più. Delle decine di tifosi e dipendenti del bar, solo pochi sono sui social network. Degli altri conosco solo il nome, a volte neanche quello. Eppure quelle persone mi hanno consolata in momenti di profonda e condivisa delusione o mi hanno spruzzato addosso dello champagne in attimi di esaltazione.
Nelle settimane successive a quel primo approccio con Emily in Paris ho pensato spesso alle persone che mi mancavano anche se non me ne accorgevo a pieno: amici con cui facevo cose che non erano più possibili, come provare un nuovo ristorante; i colleghi che non conoscevo bene ma con cui chiacchieravo nella cucina comune, i lavoratori del bar o del negozio di panini che non potevano più attaccare bottone. La profondità e l’intensità di queste relazioni variava, ma in un modo o nell’altro tutti erano miei amici e ora non c’era niente che potesse sostituirli. Zoom o FaceTime, utili per mantenere i rapporti più stretti, non ricreavano la leggerezza della casualità, né permettevano di svolgere le attività che ci legavano.

Comprensibilmente durante la pandemia gran parte dell’energia spesa per i problemi della vita sociale è stata usata per mantenere il legame con le famiglie e gli amici stretti. Le altre relazioni sono svanite nel silenzio quando i luoghi che le rendevano possibili hanno chiuso. La pandemia ha fatto evaporare intere categorie di amicizie, cancellando i piaceri che compongono la vita umana e rafforzano la salute. Tutto questo, però, offre anche un’opportunità: nei prossimi mesi, quando cominceremo a riportare alcune persone nella nostra vita, sapremo cosa significa vivere senza di loro.

LA PANDEMIA HA FATTO EVAPORARE INTERE CATEGORIE DI AMICIZIE, CANCELLANDO I PIACERI CHE COMPONGONO LA VITA UMANA
La cultura statunitense non ha molte parole per descrivere i diversi livelli e tipi di amicizia, ma per quello che ci serve la sociologia fornisce un concetto utile: legami deboli. Il termine fu coniato nel 1973 dal sociologo di Stanford Mark Granovetter, e include conoscenze, persone che vediamo saltuariamente e semi estranei con cui manteniamo una certa familiarità. Sono le persone alla periferia della nostra vita: il tizio che sta sempre in palestra quando ci andiamo noi, il barista che comincia a prepararci “il solito” mentre siamo ancora in fila, il collega di un altro ufficio con cui chiacchieriamo in ascensore. Sono le persone a cui magari non ci siamo mai presentati, ma con cui abbiamo in comune qualcosa di importante: andiamo agli stessi concerti, viviamo nello stesso quartiere o frequentiamo gli stessi locali. Forse non consideriamo “amici” tutti questi legami deboli, almeno nel senso comune del termine, ma spesso con queste persone abbiamo un rapporto amichevole. La maggior parte di noi conosce il concetto di “cerchia ristretta”, ma Granovetter sostiene che abbiamo anche una “cerchia allargata”, altrettanto fondamentale per la nostra salute sociale.

PAROLA PROMISCUA
Durante l’ultimo anno ho avuto spesso la sensazione che la pandemia si fosse portata via tutti tranne i miei affetti più cari. Alla periferia della mia vita ci sono persone per cui il concetto di “tenersi in contatto” non avrebbe molto senso, ma ci sono anche amici e conoscenti, persone con cui teoricamente potrei intrattenermi all’aperto o chiacchierare in chat, ma con cui questi strumenti non sembrano adeguati. Nel mio caso questa percezione sembra reciproca: non ho mai ricevuto inviti da queste persone per vederci su Zoom o fare una passeggiata al parco. Il nostro affetto vive un periodo di animazione sospesa, insieme alle cene al ristorante e ai viaggi all’estero.
Nessuno degli esperti con cui ho parlato mi ha proposto un’espressione soddisfacente per questa specie di via di mezzo che comprende gli elementi più deboli della cerchia ristretta e i più forti della cerchia allargata, fatta eccezione per il classico “amici”. “‘Amico’ è una parola molto promiscua”, mi ha detto William Rawlins, un professore di comunicazione all’università dell’Ohio che studia l’amicizia. “Abbiamo una parola per definire gli amici che non sono stretti? Non credo, e non sono sicuro che serva”.
L’entità della separazione dai legami moderati e deboli durante la pandemia varia in base alla posizione geografica, al tipo di lavoro e alla volontà di mettere a repentaglio se stessi e gli altri. Ma anche nei posti dov’è possibile andare in palestra o al ristorante, le persone che svolgono queste attività sono molte di meno del passato, e questo cambia l’esperienza sociale sia per gli avventori sia per i dipendenti. Anche per chi frequenta il luogo di lavoro è probabile che tra colleghi si rispetti un dato protocollo per ridurre le interazioni. Le mascherine, per quanto necessaire, impediscono di capire quando qualcuno ci sta sorridendo.
A volte gli amici sono definiti dal modo in cui li incontriamo o dalle cose che facciamo insieme (amici del lavoro, vecchi amici dell’università, compagni di squadra nelle nostre discutibili avventure sportive). Ma sono tutti “amici”, e secondo Rawlins è meglio così. “Una vita piacevole non equivale a un isolamento con un gruppo di conoscenti stretti”, mi ha spiegato. “I mondi vengono creati dalle persone che condividono le esperienze e si riconoscono tra loro”. È importante avere diversi tipi di rapporti, sottolinea Rawlins, perché gli esseri umani non prosperano affidandosi solo all’amicizia stretta.

Questa consapevolezza, che in passato non avevo, è nuova anche nell’analisi generale del comportamento umano. A lungo le relazioni strette sono state considerate la componente essenziale del benessere sociale. Tuttavia la ricerca di Granovetter lo ha portato a una conclusione sorprendente e allo stesso tempo controintuitiva per molte persone: gli amici casuali e le conoscenze possono essere importanti per il benessere individuale tanto quanto la famiglia, le relazioni amorose e i rapporti più stretti. Nel suo studio iniziale, Granovetter ha scoperto che la maggior parte di chi ha ottenuto un nuovo impiego attraverso i contatti sociali lo ha fatto grazie a persone che erano alla periferia della loro vita, non agli amici stretti.

PROBLEMI SUL LAVORO
Alcune conseguenze della nostra pausa sociale prolungata potrebbero verificarsi nel campo professionale. Ho cominciato a sentir parlare di queste preoccupazioni qualche mese fa, mentre scrivevo un articolo sugli effetti del lavoro da casa sulla carriera delle persone. Secondo gli esperti con cui ho parlato, senza le interazioni sociali casuali e ripetute tipiche dei luoghi fisici di lavoro, una giovane o una nuova assunta può incontrare grandi difficoltà a inserirsi nella complessa gerarchia sociale di un ambiente lavorativo. Perdere questi rapporti può ostacolare l’avanzamento nel lavoro, l’accesso alle nuove opportunità e il riconoscimento del proprio contributo (anche perché nessuno può vederti o vedere cosa stai facendo). Nella prima fase della vita professionale questo tipo di inconvenienti può avere conseguenze devastanti: chi resta indietro all’inizio tende a restarci anche in seguito.
La scomparsa di queste interazioni può anche rendere più frustrante la quotidianità del lavoro, danneggiando rapporti che prima erano piacevoli. In uno studio recente Andrew Guydish, dottorando in psicologia della UC Santa Cruz, in California, ha analizzato gli effetti di quella che ha definito “reciprocità colloquiale”, ovvero quanta conversazione fa ognuna delle due persone mentre una sta istruendo l’altra su una mansione da svolgere. Guydish ha scoperto che in queste situazioni, che spesso si verificano tra dirigenti e dipendenti sul luogo di lavoro, le due persone usavano il tempo libero, se disponibile, per equilibrare l’interazione. Quando succedeva, entrambe raccontavano in seguito di sentirsi più felici e soddisfatte.
Guydish teme che questa reciprocità si sia persa. “Le chiamate su Zoom hanno uno scopo molto definito con aspettative altrettanto definite in chi ha la parola”, mi ha spiegato. “Gli altri stanno seduti e non hanno l’occasione di dire la loro. Questo tipo di conversazione fa sì che ognuno resti con il suo senso opprimente di semi isolamento”.
La perdita di reciprocità si è allargata anche alla vita non digitale. Per esempio le chiacchierate amichevoli tra clienti e fattorini, baristi o altri lavoratori sono diventate più rare. In tempi normali quei brevi incontri generano mance e recensioni positive, e danno a interazioni altrimenti meccaniche più piacevolezza e umanità. Eliminando quest’umanità resta solo la transazione.
Gli effetti psicologici della perdita dei legami meno stretti possono essere profondi. I contatti periferici ci collegano con il mondo esterno. Senza di loro le persone sprofondano nella ripetitività delle reti chiuse. Le interazioni regolari con persone estranee alla nostra cerchia ristretta “ci fanno sentire parte di una comunità o di qualcosa di più grande”, mi ha spiegato Gillian Sandstrom, psicologa sociale dell’università dell’Essex. Chi è alla periferia della nostra vita ci fa scoprire idee, informazioni, opportunità e persone nuove.

I CONTATTI PERIFERICI CI COLLEGANO CON IL MONDO ESTERNO. SENZA DI LORO LE PERSONE SPROFONDANO NELLA RIPETITIVITÀ DELLE RETI CHIUSE
La perdita di queste relazioni potrebbe essere uno dei motivi dietro la proliferazione delle teorie del complotto dell’ultimo anno, come QAnon. Anche se le comunità online possono portare alcuni dei benefici psicologici delle nuove amicizie nel mondo reale, la camera dell’eco del complottismo è una fonte ulteriore d’isolamento. “Molte ricerche indicano che se parliamo solo con le persone simili a noi, le nostre opinioni si allontanano ancora di più da quelle degli altri gruppi”, spiega Sandstrom. “È così che funzionano le sette e i gruppi terroristi”.

La maggior parte degli statunitensi era impreparata all’improvvisa scomparsa dei legami più deboli. Anche perché l’importanza dell’amicizia, in particolare quella con le persone meno strette, è generalmente sottovalutata nella cultura del paese, mentre i familiari e i partner sono considerati l’unica necessità sociale.
Le ramificazioni fisiche dell’isolamento sono altrettanto documentate. Julianne Holt-Lunstad, psicologa e neuroscienziata dell’università Brigham Young, negli Stati Uniti, ha scoperto che l’isolamento sociale aumenta quasi del 30 per cento il rischio di morte prematura per qualsiasi causa. “Le prove scientifiche indicano che abbiamo bisogno di una varietà di rapporti nella nostra vita, e che diversi tipi di relazioni o ruoli sociali possono appagare necessità diverse”. Le persone assumono farmaci, curano la propria igiene e cercano di tirarsi su anche perché questi comportamenti sono socialmente necessari, e la loro ripetizione è premiata. Rimuovendo questi incentivi qualcuno cade in depressione, incapace di eseguire alcuni dei compiti fondamentali della sopravvivenza. In persone che rischiano di contrarre malattie la mancanza di interazione può far sì che i sintomi passino inosservati e non si prendano le necessarie contromisure mediche. Gli esseri umani sono fatti per stare insieme. Se questo non succede, il declino si manifesta anche nel corpo.

OTTIMISMO
Piccoli piaceri come incontrare un vecchio collega o chiacchierare con il barista del nostro locale preferito non sono in cima ai nostri pensieri quando pensiamo al valore dell’amicizia, al contrario di ricorrenze e incontri organizzati come i compleanni o le serate al cinema. Ma secondo Rawlins i due tipi di interazione rispondono al nostro desiderio fondamentale di essere conosciuti e percepiti, di vedere riflessa negli altri la nostra umanità. “Una cultura è umana solo se i suoi componenti si confermano a vicenda”, spiega Rawlins parafrasando il filosofo Martin Buber.
Rawlins descrive lo stato della vita sociale statunitense come un barometro per tutto ciò che sta succedendo nel paese. “La nostra capacità (e possibilità) di coltivare le amicizie è una misura della reale libertà che abbiamo nelle nostre vite in un dato momento”. L’amicizia, secondo Rawlins, è basata sulla scelta e sull’accordo reciproco. La possibilità di perseguire e navigare questi rapporti come meglio crediamo è un indicatore della capacità di autodeterminarsi. Invece la solitudine diffusa e l’isolamento sociale di solito sono indice di malessere della società. Negli Stati Uniti l’isolamento ha colpito molte persone molto prima della pandemia, che ha solo aggravato ed evidenziato un malessere già esistente. In un certo senso questo significa che possiamo essere ottimisti.
Nei prossimi mesi un numero sempre maggiore di persone si vaccinerà e tornerà ad avere diversi tipi di relazione. Se il parallelo più adatto con la pandemia attuale è l’epidemia di influenza del 1918, i ruggenti anni venti suggeriscono che in futuro ci lasceremo andare a feste sfrenate. In ogni caso Rawlins dubita che i legami moderati e deboli che abbiamo perso nell’ultimo anno risulteranno compromessi se non ci siamo scambiati messaggi di testo per tenerci in contatto. Al contrario, la sua previsione è che le persone saranno semplicemente felici di vedersi di nuovo.
Tutti i ricercatori con cui ho parlato sperano che questa pausa prolungata permetta alle persone di capire meglio l’importanza di ogni tipo di amicizia. “La mia speranza è che la gente si accorga che nella sua rete di contatti ci sono molte persone importanti, non solo quelle con cui passano il tempo insieme e con cui hanno mantenuto un rapporto durante la pandemia”, sottolinea Sandstrom. Anche prima della crisi sanitaria gli Stati Uniti erano un paese solitario. Ma non dev’essere per forza così. La fine del nostro isolamento potrebbe essere l’inizio di una grande varietà di belle amicizie.
*(Amanda Mull, The Atlantic, Stati Uniti – Traduzione di Andrea Sparacino. L’originale di questo articolo è stato pubblicato da The Atlantic.)

 

13 – Kevin Carboni:CHI SONO I MINISTRI DEL GOVERNO DRAGHI ENTRANO NELL’ESECUTIVO ALCUNE DELLE FIGURE PRINCIPALI DEI PARTITI, DALLE CONFERME DI DI MAIO (ESTERI) E SPERANZA (SALUTE), A GIORGETTI (SVILUPPO ECONOMICO) E BRUNETTA (PUBBLICA AMMINISTRAZIONE). MA CI SONO ANCHE “TECNICI” .
Dopo consultazioni a oltranza, silenzi e ipotesi, il presidente incaricato Mario Draghi ha finalmente svelato i nomi della sua squadra di governo. Ci sono volute settimane di crisi di governo e forse la scissione del principale partito di maggioranza per mettere d’accordo tutte le forze politiche. Draghi ha quindi sciolto positivamente la riserva, salendo al Quirinale alle 19 del 12 febbraio. Le anticipazioni giornalistiche davano ormai per certo un governo misto tecnico-politico e così è stato, con la presenza nella squadra dell’esecutivo di alcune delle principali figure delle forze politiche che gli voteranno la fiducia.
Il giuramento del governo Draghi avverrà sabato 13 febbraio alle ore 12.
Ecco l’elenco dei nuovi ministri, partendo da quelli senza portafoglio, nell’ordine in cui sono stati annunciati da Draghi:
Federico d’Incà (Rapporti con il parlamento); Vittorio Colao (Innovazione tecnologica e transizione digitale)
Renato Brunetta (Pubblica amministrazione); Maria Stella Gelmini (Affari generali e autonomie); Mara Carfagna (Sud e coesione territoriale); Fabiana Dadone (Politiche giovanili); Elena Bonetti (Pari opportunità e famiglia); Erika Stefani (Disabilità); Luigi Di Maio (Esteri); Luciana Lamorgese (Interni); Marta Cartabia (Giustizia); Lorenzo Guerini (Difesa); Daniele Franco (Economia); Giancarlo Giorgetti (Sviluppo economico)
Stefano Patuanelli (Agricoltura); Roberto Cingolani (Transizione ecologica); Enrico Giovannini (Infrastrutture e trasporti); Andrea Orlando (Lavoro politiche sociali); Patrizio Bianchi (Istruzione), Maria Cristina Messa (Università); Dario Franceschini (Cultura); Roberto Speranza (Salute); Massimo Garavaglia (Turismo); Roberto Garofoli sarà il sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

 

14 – Natale Cuccurese *: SECESSIONE DEI RICCHI, ORA PURTROPPO DIVENTA REALTÀ. LA MISSIONE AFFIDATA A MARIO DRAGHI È EVIDENTE: GUIDARE UN GOVERNO CHE MANTENGA LO STATUS QUO E CHE RISPONDA AGLI INTERESSI DEI POTENTATI ECONOMICI DEL NORD. Non solo. Adesso la strada verso l’autonomia differenziata con la ministra Gelmini è tutta in discesa.
LA DECISIONE DI AFFIDARE IL MINISTERO DEL SUD A FORZA ITALIA NON RENDE POSSIBILE NESSUNA EQUA RIPARTIZIONE.
IL CAPOGRUPPO LEGHISTA ALLA CAMERA MOLINARI È ESPLICITO: «NESSUNA PEREQUAZIONE TERRITORIALE NEL PIANO DI RILANCIO»

ll re taumaturgo è nudo. Dopo le tante lodi incondizionate della stampa mainstrem il governo “dei migliori” propone una compagine di ministri fatta di politici e tecnici di una stagione che speravamo passata e consegna al Nord tutti i ministeri importanti.
Questa era evidentemente la vera missione affidata a Mario Draghi: comporre una task force di mandarini a difesa dello status quo, utile ad emanare “riforme” a vantaggio dei soliti potentati economici padani. I 209 miliardi del Recovery devono andare principalmente al Nord, il Sud non può illudersi di uscire dallo stato storico di subalternità.
Il capogruppo leghista alla Camera Riccardo Molinari addirittura lo dichiara in una intervista; con la
Lega al governo «nessuna perequazione territoriale nel Piano di Rilancio». Più chiaro di così!
Ricorderemo il Recovery come l’ennesima occasione sprecata per il Paese e per il Sud, visto che parametri europei fissati per la ripartizione di fondi dicono di destinare maggiori risorse a quei territori «con più residenti, maggiore disoccupazione e prodotto loro interno inferiore».
Non a caso il nuovo ministro allo Sviluppo economico è Giancarlo Giorgetti, messo a guardia degli interessi dell’imprenditoria del Nord, così come richiesto da Confindustria.
E il leghista che fece secretare nel 2015, durante una audizione alla Commissione bicamerale federalismo da lui presieduta, i dati sulla perequazione e i motivi per quali i Lep non sono mai stati determinati, creando così un enorme danno economico alle Regioni del Sud. La decisione poi di affidare il ministero del Sud a Forza Italia e alle sue clientele sprofonda il Mezzogiorno nei suoi 160 anni di solitudine: nessuna equa ripartizione è più possibile. Mara Carfagna, ministra del Sud, è una foglia di fico, non essendo mai stata attiva sui temi della questione meridionale. Il Sud così scompare dalla compagine governativa, non solo come dato anagrafico, ma politico, perché gli enormi divari da colmare non sono rappresentati in alcuno modo e i settori produttivi e le risorse in arrivo saranno gestite da uomini di partiti e lobby a trazione nordista. Ben 9 sono infatti i ministri lombardi in questa compagine, solo 4 del Sud nessuno delle Isole. In tutto 23 ministri, di cui 15 politici e 8 tecnici. Tre su quattro vengono dal Nord. Solo 8 le donne.

CHE SUCCEDERÀ ORA ALL’ITALIA CON L’AVVENTO DEL GOVERNO DRAGHI?
Un rilancio della richiesta di autonomia differenziata è scontato. La Lega di Salvini entra nel governo anche per passare all’incasso sul tema, dopo tanta attesa. Anche il Pd nel documento presentato a Draghi durante le consultazioni a pagina 26 dà il via libera alla autonomia differenziata, nell’ultima riga, dissimulata dalla richiesta di una «clausola di supremazia». In realtà è risaputo che il governo nazionale può da sempre sostituirsi agli organi delle Regioni o degli enti locali nel caso, fra l’altro, di «pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica» (articolo 120 della Costituzione).
Saranno contenti i governatori leghisti del Nord, Zaia e Fontana, cosi come Bonaccini e chi coraggiosamente lo sostiene. Ora la strada per l’autonomia differenziata è tutta in discesa, visto che si dovranno confrontare con la ministra lombarda Mariastella Gelmini, agli Affari Regionali, appassionata sostenitrice della autonomia differenziata, che considera addirittura “un bene anche per il Mezzogiorno”.
La prevedibile ed ennesima sottrazione di risorse che si profila ai danni di un Mezzogiorno già boccheggiante, con Sicilia e Campania regioni più povere dell’Unione europea, con la percentuale di rischio di indigenza più alta del Vecchio continente, come certificato da Eurostat, unito alla assenza di prospettive di lavoro e alla avanzante regionalizzazione, potrebbero portare alla balcanizzazione del Paese. L’autonomia differenziata, progetto che discende dall’Europa e a cui Draghi molto difficilmente si opporrà, è eversiva dell’unità nazionale. Inoltre lo spostamento del quadro politico verso destra, unito alla riduzione dei parlamentari grazie al recente referendum costituzionale dello scorso settembre potrebbero aprire la porta ad una deriva ungherese. Ricordo che simulazioni fatte dall’Istituto Cattaneo, ancor prima del referendum, cosi come nello stesso periodo dalla Fondazione Einaudi, evidenziano come, dopo la vittoria del Sì al referendum, con soli 267 deputati e 134 senatori (che la destra otterrebbe dai sondaggi attuali) si potrebbe «cambiare la Costituzione in ogni sua parte, senza possibilità per i cittadini di esprimersi con un successivo referendum».
Se le cose andranno come tutto lascia presagire lo sfascio del Paese è dietro l’angolo.
Contro questo governo della restaurazione, il governo della parte più ricca del Paese che riporta nei ministeri i campioni della diseguaglianza, l’unica scelta possibile è l’opposizione sociale e politica. Il campo della Sinistra va ricostruito rapidamente per formare un fronte popolare utile a dotare il Paese di una alternativa reale a forze che fanno della discriminazione, anche territoriale, il loro collante. Una rinascita della Sinistra è oggi più che mai in-dispensabile. Una rinascita che deve partire necessariamente dal Mezzogiorno, mai come oggi sotto attacco.
Se non ora quando?
*(da LEFT. L’autore Natale Cuccurese è presidente del Partito del Sud. Il 20 febbraio alle 10 tavola rotonda “Il Sud con II cappello In testa dice no al governo Draghi” sulla pagina fb del laboratorio Sud.

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