n°1 – 21 01 02 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI

21 01 02 NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ ESTERO ED ALTRE COMUNICAZIONI.

A TUTTI I NOSTRI LETTORI TANTI AUGURI DI BUON ANNO.

01 – Agenda EUROPA, 2021. Il Portogallo ha assunto la presidenza di turno dell’Ue, indicando come priorità l’entrata in vigore del quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e l’attuazione del Recovery, oltre alla lotta al coronavirus (Euronews).
2 – Legge di Bilancio 2021 approvata: le misure e il decreto correttivo. Legge di Bilancio 2021 approvata in via definitiva in Senato: confermate le misure, un decreto correttivo per garantire il taglio del cuneo fiscale.
03 – A. Grandi – Sulla legge elettorale le colpe sono tutte della maggioranza. Paolo Mieli sul Corriere evidenzia il rischio che si arrivi ad una crisi politica del governo prima del semestre in cui il Presidente della Repubblica non potrà più sciogliere le Camere
04 – USA: Dorothy Day, quell’inquieto amore per i diseredati. RITRATTI. «Una lunga solitudine», l’autobiografia firmata dall’attivista statunitense. Cronista e infermiera, radicale e anarchica.
05 – Brevi dal mondo: Cina 2028, Alibaba, bombe di Natale su Gaza, Turchia-Libia.
06 – Next generation africa. Parlare di Africa in questo momento, alla fine di un anno orribile, può sembrare un’eccentricità ma non lo è.
07 – ALIAS DOMENICA. Venticinque civiltà cancellate dalla storia. Archeologia e antropologia. L’«Homo heidelbergensis», il sito mesolitico di Göbekli Tepe, l’«Europa antica» danubiana: «Culture dimenticate»,
08 – La lunga marcia dei diritti delle donne nel mondo. Avevamo bisogno di una buona notizia per concludere questo difficile 2020,
09 – Le voci della rivoluzione .
10 – In Cile le donne guidano il cambiamento.
11 – Matteo Bortolon*: Post-Covid, chiediamoci se nulla sarà più come prima. Le vecchie idee di base della cultura neoliberista – autosufficienza del mercato, interventismo pubblico come fattore residuale, capacità della mera dinamica di offerta e domanda di fare fronte a «shock» come quello attuale – hanno definitivamente mostrato la propria insensatezza


01 – AGENDA EUROPA, 2021. IL PORTOGALLO HA ASSUNTO LA PRESIDENZA DI TURNO DELL’UE, INDICANDO COME PRIORITÀ L’ENTRATA IN VIGORE DEL QUADRO FINANZIARIO PLURIENNALE 2021-2027 E L’ATTUAZIONE DEL RECOVERY, OLTRE ALLA LOTTA AL CORONAVIRUS (Euronews).
Il Paese prende il testimone dalla Germania della cancelliera Angela Merkel, che nell’ultimo discorso di Capodanno ha confermato la sua intenzione di non ricandidarsi, dopo quattro mandati, alle elezioni federali di settembre (Dw).
Arrivederci? “La Scozia tornerà presto, Europa”, ha scritto la premier Nicola Sturgeon su Twitter (Sky News). La sfida con il governo di Londra è destinata a consumarsi già alla tornata di amministrative di maggio, quando verrà rinnovato il Parlamento di Edimburgo (Politico).
B-day L’esordio dei controlli al confine con il Regno Unito dall’effettiva entrata in vigore di Brexit, non ha fatto registrare disagi (Ap). Tra i primi provvedimenti di Londra c’è l’abolizione dell’Iva su assorbenti e altri prodotti igienici destinati alle donne. Le norme comunitarie prevedono che la tassa possa scendere non oltre il 5% (Ansa).
OSSERVATI SPECIALI
Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha scritto ai Paesi membri per chiedere di nominare gli osservatori che faranno parte di una missione internazionale in Libia. Gli obiettivi sono il monitoraggio della tregua concordata a ottobre e dell’embargo sulle armi, oggi quasi ignorato (Repubblica).
Scomode eredità L’Iran teme che Donald Trump ordini un nuovo raid prima della fine del suo mandato, scrive il Guardian, e minaccia ritorsioni sulle basi americane in Medio Oriente.
TRANSIZIONE AMERICANA
Il Congresso ha annullato per la prima volta un veto del presidente Trump, dando il via libera alla legge sul bilancio da 740 miliardi di dollari per la Difesa (Reuters). Il Senato a maggioranza repubblicana ha approvato il provvedimento con oltre due terzi dei voti (Wp+).
Ultimi assalti Due deputati hanno confermato alla Cnn che 140 repubblicani vogliono contestare l’elezione di Joe Biden nella seduta del 6 gennaio. Ma il leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell scoraggia i colleghi (Axios). Gli avvocati di Mike Pence chiedono di respingere un’istanza che vorrebbe riconoscere al vicepresidente il potere di ribaltare il verdetto delle urne (Ap).
America first Trump ha esteso fino a marzo il blocco delle Green Card per lavoratori stranieri. La scadenza era fissata per il 31 dicembre e diverse associazioni di imprenditori contestano la proroga (Reuters).

I RITARDI DEL VACCINO
L’azienda tedesca BioNTech lancia un allarme sul vaccino anti Covid: se non arriverà l’autorizzazione per altri sieri non si riuscirà a coprire il fabbisogno (La Stampa). L’Oms ha autorizzato l’uso delle dosi Pfizer in tutti Paesi (Fanpage). Il ministro tedesco della Salute Jens Spahn ha esortato l’Ema ad approvare il vaccino AstraZeneca, ma i tempi restano incerti (Dw).
Chi va avanti L’India è il terzo Paese dopo Regno Unito e Argentina ad approvare l’utilizzo del vaccino Oxford-AstraZeneca. La somministrazione potrebbe iniziare mercoledì (Sky TG24). Israele ha il primato di immunizzati: oltre un milione in 20 giorni, più di un decimo della popolazione (Il Fatto Quotidiano).
Terza ondata Gli Usa hanno superato i 20 milioni di casi Covid e 346mila vittime (Nyt+). Il Regno Unito venerdì ha registrato altri 53.285 casi: Londra terrà chiuse la scuole primarie per due settimane (Reuters). Coprifuoco anticipato alle 18 in 15 dipartimenti della Francia (France 24).
Bollettino Sono 22.211 i nuovi contagi in Italia, con un rapporto positivi-tamponi che sale al 14,1% e 462 vittime (Ansa). In vista del ritorno alle fasce di rischio, il 7 gennaio, le Regioni chiedono una modifica dei criteri per il conteggio dei tamponi (Ansa) e di ripartire con la scuola in presenza al 50%.

CANTIERE ITALIA
L’elogio dei “costruttori” in politica da parte del Capo dello Stato nel discorso di fine anno riscuote il plauso unanime delle forze politiche. È tempo “di ricostruire”, è il commento di Nicola Zingaretti. “Parole sante”, osserva Matteo Salvini; “Nessuno è più costruttore di noi” dice Italia Viva (Corriere). Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni si dichiarano in sintonia con il presidente, che ha ribadito che il 2021 sarà il suo ultimo anno di mandato (Formiche).
Dopo i buoni propositi La possibile crisi di governo rimane il nodo politico dei primi giorni dell’anno: il premier Giuseppe Conte cerca dei “responsabili” in Aula per misurarsi e sfidare Italia Viva, scrive Repubblica+. Il presidente della Camera, Roberto Fico, definisce “disastrosa” l’ipotesi di una crisi di governo (La Stampa+)
Conte non ha più in mano la sua maggioranza, definisca gli obiettivi del suo programma e ritrovi la fiducia dei partiti, scrive il direttore del Corriere, Luciano Fontana
Anno elettorale Roberto Rasia dal Polo, direttore della comunicazione del gruppo Pellegrini, ha dato la disponibilità a candidarsi a sindaco di Milano, smuovendo le acque del centrodestra. La Lega si dice “possibilista”; più fredda la reazione di Forza Italia e Fratelli d’Italia (Repubblica).

ORIZZONTI
Sempre più ricchi In base alla classifica Bloomberg i top 20 più ricchi al mondo hanno incrementato la loro fortuna in media del 24% nel 2020. In cima alla classifica rimane Jeff Bezos, con un patrimonio netto di 193,7 miliardi di dollari, seguito da Elon Musk e Bill Gates.
Lenta risalita Secondo uno studio di Intesa Sanpaolo, l’Italia non tornerà a livelli di crescita pre Covid fino al 2025. La ripresa nel secondo semestre 2021 farà segnare al Paese il +4,7% del Pil dopo aver perso il 9 nel 2020, ma il debito resterà a lungo oltre il 160% (La Stampa).

MONDO REALE.
Fisco incombente Circa 35 milioni tra cartelle, ipoteche e fermi amministrativi sospesi nel 2020 potrebbero ripartire, in mancanza di un rapido intervento dell’esecutivo. Il governo ha annunciato che lavora a una nuova rottamazione e al saldo e stralcio (Ansa).

SPORT – Sprint di fondo Federico Pellegrino ha vinto la terza gara su quattro sprint stagionali di sci di fondo al Tour de Ski in Svizzera, raggiungendo il primo posto in classifica di Coppa del Mondo di specialità (Repubblica).
Classica al via La pandemia non ferma la Dakar, che si corre da oggi nel deserto dell’Arabia Saudita. Al via ci saranno 17 donne (Ansa). Il favorito è Carlos Sainz, papà del pilota ferrarista (Gazzetta).
( da Internazionale )


2 – LEGGE DI BILANCIO 2021 APPROVATA: LE MISURE E IL DECRETO CORRETTIVO. LEGGE DI BILANCIO 2021 APPROVATA IN VIA DEFINITIVA IN SENATO: CONFERMATE LE MISURE, UN DECRETO CORRETTIVO PER GARANTIRE IL TAGLIO DEL CUNEO FISCALE.
PIOGGIA DI INCENTIVI E BONUS NEL 2021
Confermata in Senato la fiducia al disegno di legge della Manovra 2021 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023), che incassa anche il parere positivo dell’Aula (153 voti favorevoli e 118 contrari): il testo della Legge di Bilancio a questo punto è definitivo.
Confermate tutte le principali misure, che nel loro insieme valgono circa 40 miliardi. Un decreto correttivo dovrà invece intervenire per correggere un errore nello stanziamento delle risorse destinate al taglio del cuneo fiscale in bista paga fino a 1200 l’anno. Il provvedimento è atteso a brevissimo, così da partire a gennaio con le “carte in regola”.
Nella Manovra trovano posto moltissimi aiuti pensati per sostenere da un lato le attività produttive e dall’altro le famiglie e l’economia reale, per sostenere anche i consumi. Per il 2021 ci sono dunque specifici pacchetti di misure per imprese e lavoro, fisco e famiglie, credito agevolato.
Tra le altre importanti misure ricordiamo l’anno bianco per le Partite IVA (esonero contributivo per autonomi e professionisti in albo che hanno gravi subito perdite), il rinnovo della cassa Covid (altre 12 settimane di CIG, senza contributivo addizionale da parte dei datori di lavoro) e l’istituzione del sussidio ISCRO anche per gli autonomi in gestione separata, il blocco dei licenziamenti fino al 31 marzo, il contratto di espansione per le medie aziende che riorganizzano (con incentivi all’esodo pensione e staffetta generazionale).
E poi ancora l’estensione per un altro anno di APe Social e Opzione Donna, da luglio prossimo l’assegno unico per i figli (che per il 2021 si accompagna al bonus bebè senza ancora sostituirlo), la proroga del Superbonus al 110% fino al 2022.
Il commento del Ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, a margine dell’approvazione in Senato della Legge di Bilancio.
Sono molto soddisfatto. Si conclude un iter in tempi rapidi, ringrazio il Parlamento, che consente l’approvazione di una legge di bilancio ambiziosa, fortemente espansiva, orientata alla crescita, al lavoro, alla coesione. Ci sono misure di carattere storico, come le risorse per il varo dell’assegno unico per i figli, per l’avvio della riforma fiscale. Misure non solo per uscire dalla crisi, ma per rilanciare la crescita.
La Manovra, lo ricordiamo, entra il vigore il primo gennaio 2021.
(da Redazione PMI.It)


03 – A. GRANDI – SULLA LEGGE ELETTORALE LE COLPE SONO TUTTE DELLA MAGGIORANZA. PAOLO MIELI SUL CORRIERE EVIDENZIA IL RISCHIO CHE SI ARRIVI AD UNA CRISI POLITICA DEL GOVERNO PRIMA DEL SEMESTRE IN CUI IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA NON POTRÀ PIÙ SCIOGLIERE LE CAMERE. In sostanza un incidente di percorso potrebbe costringerci a votare con la legge elettorale in vigore: il Rosatellum rimaneggiato dalla Lega. Presto entrerà in vigore il decreto del governo che ridefinisce collegi e circoscrizioni sulla base del taglio dei parlamentari, presentato come un atto dovuto, ma non è così.
Non è una “stranezza del destino” che questo decreto, che applica il taglio dei parlamentari, sia in arrivo, come scrive Mieli. La responsabilità è della maggioranza che ha rinunciato ad approvare una nuova legge elettorale, come si era impegnata a fare durante la campagna elettorale referendaria. Questo è il risultato dell’incoscienza di una maggioranza che così rischia di regalare la vittoria alle destre perchè incapace di approvare una nuova legge elettorale proporzionale, tale da aprire una dialettica anche nell’opposizione.
Governo e maggioranza sono attraversati da crescenti tensioni. Il governo tende a rinviare, mentre le destre più aggressive sono all’attacco per ottenere nuove elezioni ad ogni costo.
Le difficoltà e le incertezze su un contrasto efficace alla pandemia, a partire dai vaccini. Le decisioni da prendere a breve sulla destinazione delle imponenti risorse messe a disposizione dall’Europa per reagire alla crisi sociale ed economica. Sono tutte ragioni che spingono settori politici e sociali a puntare ad elezioni anticipate prima possibile. Renzi fa incursioni in questo contesto.
Senza una nuova legge elettorale ci troveremmo a votare con regole più maggioritarie del Rosatellum, perchè la Lega nel maggio 2019 ha ottenuto che il maggioritario fosse prevalente in modo da obbligare il centro destra ad un fronte unico e tentare di ottenere già con il 35%, o poco più, la maggioranza in parlamento.
Con questa legge elettorale, se si votasse prima del semestre bianco, il centro destra a trazione leghista potrebbe eleggere da solo il Presidente della Repubblica, ottenere una maggioranza parlamentare tale da modificare la Costituzione, con l’obiettivo di realizzare un’autonomia per le regioni sul modello di quelle a statuto speciale e il Presidenzialismo. Obiettivi scritti nel programma elettorale delle destre nel 2018.
La maggioranza aveva promesso pochi mesi fa una nuova legge elettorale per correggere almeno le peggiori storture derivanti dalla riduzione dei parlamentari, per migliorare la rappresentanza territoriale e per una rappresentanza politica proporzionale.
Questa situazione di stallo è grave e pericolosa. La maggioranza sembra non avvertire la gravità delle conseguenze del blocco della discussione parlamentare.
E’ urgente l’approvazione di una nuova legge elettorale per arrivare ad un impianto proporzionale e per consentire ai cittadini di scegliere direttamente i loro rappresentanti, superando finalmente le liste bloccate dei nominati dall’alto. Le modalità per consentire agli elettori di decidere direttamente i loro rappresentanti possono essere diverse, ma al di là della modalità questo è un punto di fondo.
Mieli non resiste alla tentazione di insistere per una legge elettorale maggioritaria, discutibile sempre, ma che in questa fase taglierebbe di netto la rappresentanza di una parte del paese, che non si sentirebbe rappresentata. Eppure è evidente che il nostro paese è percorso da pulsioni antipolitiche che possono essere recuperate solo riconoscendo il valore di rappresentare il più possibile le diverse posizioni politiche e sociali, le originalità territoriali.
Il nostro paese ha bisogno di una sorta di nuova fase fondativa delle modalità con cui si prendono le decisioni, lavorando per coinvolgere nelle decisioni la grande maggioranza dei cittadini. Esattamente il contrario dell’indicazione del futuro Presidente del Consiglio nella scheda, cosa che con troppa leggerezza è stata fatta passare sotto la fattispecie di capo della coalizione, malgrado sia in evidente contrasto con la Costituzione.
Una legge elettorale maggioritaria sancirebbe l’imposizione di una parte sull’altra e questo potrebbe avvenire senza neppure avere la rappresentanza di una maggioranza dei cittadini.
Così si rischia di consegnare l’Italia alle destre per responsabilità della confusione nella maggioranza sulla legge elettorale.
Alfiero Grandi


04 – Alessandra Pigliaru*. CULTURA: DOROTHY DAY, QUELL’INQUIETO AMORE PER I DISEREDATI. RITRATTI. «UNA LUNGA SOLITUDINE», L’AUTOBIOGRAFIA FIRMATA DALL’ATTIVISTA STATUNITENSE. Cronista e infermiera, radicale e anarchica. Nel 1933 fonda il giornale «CATHOLIC WORKER», poi divenuto un movimento mondiale, e le case di ospitalità. Sessant’anni di storia americana raccontati da una protagonista del Novecento
«Una cosa era scrivere di vicende altrui, avere una conoscenza teorica dello sfruttamento di manodopera, delle ingiustizie e della fame; ben altro era sperimentarlo sulla propria pelle». Quando nel 1952 Dorothy Day consegna questo pensiero si riferisce alla sua prigionia, raccontata nell’autobiografia The Long Loneliness insieme a quasi sessant’anni di storia americana. Tradotta per Jaca
Book poco dopo la morte di Day (29 novembre 1980) ora viene ripubblicata perché da qualche tempo non più disponibile in commercio. Una lunga solitudine (pp. 263, euro 20, traduzione di Marilina Degli Alberti) racconta la storia di una protagonista straordinaria del Novecento.
ATTIVISTA RADICALE per i diritti sociali, anarchica e pioniera del femminismo, in seguito cattolica militante, Dorothy Day viene arrestata per la prima volta ventenne nel 1917 insieme ad altre 34 suffragiste in seguito a una manifestazione non autorizzata davanti alla Casa Bianca per chiedere il voto alle donne. In quel momento era già cronista del Call di New York e impegnata nella rivista The Masses, la sua vicinanza era agli ambienti anarchici e agli scioperi, operai ma anche studenteschi, nelle fabbriche e nelle strade. La disperazione attonita l’aveva provata in quelle prime notti in cella, uno smarrimento trasformatosi in vergogna irrimediabile quando due anni più tardi è vittima delle «Palmer Red Raids» che la sorprendono nel dormitorio dell’Industrial Workers of the World, scambiato per postribolo.
Nella prima esperienza della privazione di libertà scopre la solidarietà tra compagne, legge i Salmi e osserva la protesta del digiuno. Cosa avrebbe significato la parabola della fame per Day bisogna intercettarlo nella filigrana biografica che le ha fatto amare da sempre gli ultimi, i senza casa, i senza diritti, gli oppressi. E che l’ha resa prossima alle idee socialiste e alla lotta di classe. La fame è l’altro volto del freddo maleodorante che le punge le ossa nella prima camera in affitto a New York dove non riesce a tirare via dalle pareti e dal materasso i parassiti né a far tacere i gatti che nel pianerottolo miagolano fino quasi a spossessarle il sonno.

FIGLIA DI UN GIORNALISTA sportivo e una protestante, Dorothy Day ha il suo apprendistato di inquieta allerta fin dall’infanzia, quando nella baia di Oakland sua madre andava ad assistere i sopravvissuti del terremoto che nel 1906 aveva devastato San Francisco. In quella circostanza aveva potuto constatare quanto una sciagura così repentina riesca a trovare una risposta altrettanto solida: la condivisione, la spartizione generosa con chi non ha più niente, da un momento all’altro.
Un sentimento che pervade quella bambina, lo stesso covato mentre cercherà di adattarsi alla pratica metodista quando già si è trasferita con la famiglia a Chicago, sia pure senza allegria, o quando si interrogherà sull’attrazione definitiva per autori che mai più la abbandoneranno: Dostoevskij, Tolstoj, Cechov ma anche Dickens, Jack London o Ignazio Silone. È in particolare nei russi che, fin da piccola, intravvede la domanda sull’umano e su Dio, le stesse contraddizioni la seguiranno anche negli anni universitari quando Marx le sembrerà più rispondente della Bibbia e comincerà a riflettere sui «tiepidi» materialisti contro quelli invece «radicali» implorando Dio di amare questi ultimi, perché pur rinnegando entità soprannaturali scelgono qui e ora di lottare in nome di chi non possiede se non le proprie catene di cui liberarsi.

UTOPISTA, ammirata dal creato, vive in comune con immigrati ungheresi e clandestini ex domatori di leoni, innamorata del mare comincia a pregare con disciplina. Non può inginocchiarsi perché teme di farsi troppe domande su quella vecchia questione dell’oppio dei popoli, così ogni giorno sceglie di pregare mentre cammina, non perché povera bensì per gratitudine dei privilegi che non tutti avevano: «una tranquilla bellezza e felicità».
Con una tale consapevolezza, nell’avanzare della Grande Depressione, da giovane donna comprende già molte cose: per esempio che fare la giornalista somiglia al lavoro dell’infermiera, lo diventa per un anno quando tra il 1918 e il 1919 anche negli Stati Uniti imperversa l’epidemia dell’influenza spagnola. Arriva al King’s County Hospital per scelta, accanto a chi si ammala, talvolta scappa sovrastata dalla deiezione dei corpi eppure la vicinanza tra giornalismo e professione sanitaria è interessante in particolare a rileggerla adesso, come risposta ideale a chi ancora costruisce fantasie sull’eroismo pandemico vocazionale, espungendo che si tratti di lavoro: «era impossibile commuoversi a lungo delle sofferenze perché le tragedie si susseguivano. E si era troppo in contatto di esse per avere la prospettiva. Succedevano troppo spesso. Ci pesavano addosso, dandoci una sensazione di immobilità e pacatezza; e poi il continuo daffare non lasciava spazio per pensare». Talmente tanti erano i cadaveri che dovevano avvolgere nelle lenzuola che nemmeno si accorgono, le infermiere e lei compresa, dell’armistizio.

CON UN SOPRAVVISSUTO alla epidemia, Forster, comincia una relazione d’amore e ha una figlia, Tamar Teresa – la perfetta congiunzione di una «piccola palma» (in ebraico) e il nome scintillante di Teresa D’Avila di cui divora la biografia condividendone l’essenza stessa del vivere: «una notte passata in una scomoda locanda»; il giorno del parto scrive un articolo per la rivista operaia New Masses proprio sull’aver messo al mondo una bambina; il plauso, soprattutto tra i marxisti, è così grande che il pezzo rimbalza da un capo all’altro del pianeta.

Dopo la separazione dal suo compagno che non era d’accordo sulla sua adesione al cattolicesimo, l’identità di Dorothy Day comincia a delinearsi meglio. Spirito tanto indomito quanto tormentato, l’apertura a quella esperienza non si scollerà mai alla puntigliosità politica acquisita; non a caso scrive della sua decisione di capire «la dottrina del corpo mistico di Gesù secondo il quale ognuno è partecipe dell’altro», evocando la solidarietà verso chi viene schiacciato, nella fattispecie era il 1927 e la vicenda quella dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti, lo stesso periodo in cui Day lavora per la Lega anti-imperialista che sosteneva il progetto sandinista in Nicaragua.
Anticapitalista, scrive, riconosceva già nella posizione della chiesa di stare dalla parte sbagliata. Lei invece, seguendo anche le posizioni critiche di Romano Guardini, voleva la chiesa di Cristo, perché sapeva che «c’era abbondanza di carità, ma poca giustizia».

SENZA QUESTA COSCIENZA radicale non sarebbe arrivata allo stesso modo alla ulteriore impresa della sua vita, quella seguente l’incontro cruciale con Peter Maurin cui viene indicata da George Shuster, allora direttore di The Commonweal con cui Day collaborava. È con Maurin «l’agitatore» (così amava sentirsi definito questo contadino francese il cui vero nome era Aristide) che nel maggio 1933 a New York comincia a pubblicare un nuovo giornale, The Catholik Worker; nell’anno in cui i disoccupati erano arrivati a 13 milioni, la prima tiratura è di 2500 copie, nel 1936 arrivano a 150mila. Si vendeva per le strade a un cent, le copie non acquistate venivano lasciate gratis su tram, autobus, treni, dal barbiere e dal dentista e in qualunque angolo.

Il successo era ascrivibile certo alla precisa collocazione che lo faceva arrivare nelle reti parrocchiali ma chi lo leggeva era un popolo più vasto che poteva riconoscervi la stessa presa sulla realtà che Dorothy Day aveva sempre mantenuto: il primo numero dedicato ai lavoratori neri sfruttati nelle dighe del sud, il secondo agli scioperi agricoli del Midwest, poi quello dei tessili e del lavoro minorile, i minatori e via così tra le categorie più colpite dalla crisi fino ad arrivare a temi come l’antisemitismo.

L’ESPERIMENTO delle case di ospitalità, ricoveri, fattorie e ripari notturni, poi diventato un movimento mondiale, per chi non aveva niente, dove poter vivere dignitosamente, è stato una diretta conseguenza. Molte ne sono state fondate, oltre che a New York, a Chicago e Detroit, Baltimora, Pittsburg, Buffalo, Los Angeles, Houma e in decine di altre città, sempre squattrinate ma essenziali. In questa liturgia di una comunità umana poggia la libera militanza di Dorothy Day.
Gli unici maestri, lo dice lei stessa in una conversazione con Robert Coles quando era già anziana, sono stati quelli e quelle da cui ha desiderato guadagnare rispetto mentre preparava loro una tazza di caffè o una minestra, i dimenticati di cui non importa niente a nessuno e cui aveva fatto spazio durante tutta la sua vita, viandanti che le hanno concesso il dono più grande, quello di ascoltare in silenzio la propria storia mettendo fine a una lunghissima solitudine.
( da Il Manifesto del 28.12.2020 di Alessandra Pigliaru )


05 – BREVI DAL MONDO: CINA 2028, ALIBABA, BOMBE DI NATALE SU GAZA, TURCHIA-LIBIA. RED. ESTERI NEL 2028 LA CINA PRIMA ECONOMIA
Secondo uno studio del Centre for Economics and Business Research (CEBR) con sede nel Regno Unito, la Cina supererà gli Stati Uniti e diventerà la più grande economia del mondo entro il 2028, cinque anni prima rispetto alle previsioni precedenti. Secondo gli studiosi, sebbene la Cina sia stata il primo paese colpito dal Covid-19, Pechino ha controllato la malattia attraverso un’azione rapida ed estremamente rigorosa, senza bisogno di ripetere blocchi economicamente paralizzanti come hanno fatto i paesi europei. Di conseguenza, «a differenza di altre grandi economie, ha evitato una recessione economica nel 2020 e si stima infatti che vedrà una crescita del 2% quest’anno».

APERTA UN’INCHIESTA SU JACK MA E ALIBABA
Dopo le minacce a seguito del blocco della quotazione di Ant Financiale e dopo la bozza di una legge anti monopolio, le autorità cinesi sono passate all’azione, aprendo un’inchiesta contro la società di e-commerce Alibaba Group Holding. Gli inquirenti cinesi hanno anche convocato i dirigenti della sua filiale finanziaria di Ant Group per colloqui, segno che Pechino – secondo Asia Nikkei Review – «sta intensificando la repressione degli interessi commerciali di Jack Ma e del potere dei giganti della tecnologia». Il primo risultato di quest’azione giudiziaria è stato il crollo delle azioni della società a Hong Kong.

LE BOMBE NATALIZIE DI ISRAELE SU GAZA
Una bambina di sei anni e un uomo di venti, sono rimasti feriti dal lancio di missili da parte di Israele su Gaza. Secondo Al Jazeera gli attacchi hanno provocato l’interruzione della corrente in gran parte della zona est della Striscia e «hanno causato alcuni danni a un ospedale pediatrico, un centro per disabili», frantumando le finestre di alcuni edifici residenziali. Secondo Tel Aviv l’azione sarebbe stata la risposta al lancio di alcuni missili – intercettati dalla difesa israeliana – da parte di Hamas (che ha smentito).

DIFESA, IL MINISTRO TURCO VOLA IN LIBIA
Visita non annunciata in Libia per il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, giunto ieri a Tripoli a capo di una delegazione di alti ufficiali dell’esercito di Ankara. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa libica Lana, sono previsti incontri con il capo del Consiglio supremo di Stato, Khalid al-Mishri, con il ministro della Difesa del Governo di accordo nazionale libico (Gna) Salah al-Din al-Nimroush e il ministro degli Interni Fathi Bashagha.


06 – NEXT GENERATION AFRICA. PARLARE DI AFRICA IN QUESTO MOMENTO, ALLA FINE DI UN ANNO ORRIBILE, PUÒ SEMBRARE UN’ECCENTRICITÀ MA NON LO È.
a – Simona Maggiorelli* – NEXT GENERATION AFRICA. L COVID-19 HA SEGNATO DURAMENTE IL 2020 PRENDENDOCI ALLE SPALLE. Per lunghi mesi i media mainstream hanno concentrato l’attenzione quasi esclusivamente sul ricco occidente, dove la pandemia ha mietuto più vittime e dove maggiori sono stati gli investimenti in ricerca per terapie e vaccini. Ma Left non ha mai perso il suo sguardo internazionalista e, in questo fine anno, augurando a tutti un 2021 di ripresa e rinascita, abbiamo voluto puntare il cannocchiale sul continente più giovane: quella sterminata MOTHER AFRICA (splendidamente rappresentata dall’artista Alexis Peskine in copertina) che forse anche per la bassa età media dei suoi abitanti sembra aver reagito meglio al Covid.
Con una serie di reportage e approfondimenti vi invitiamo a esplorare un continente vitale, ricchissimo di cultura, ma ancora pesantemente depredato dall’Occidente (anche per quando riguarda l’arte nonostante le pinocchiesche promesse di restituzioni); un continente in cui le conseguenze della pandemia si fanno sentire soprattutto dal punto di vista economico. Malnutrizione e rete sanitaria estremamente fragile, in molte aree, hanno determinato una drammatica crescita della mortalità infantile. Ebola e malaria non sono state ancora debellate. In questo 2020 il divario fra Sud e Nord del mondo si è ampliato, la disuguaglianza si è fatta più feroce.
Secondo le stime della Banca mondiale 10 milioni di africani si trovano in una condizione di estrema povertà proprio a causa delle conseguenze della pandemia.
E questa è una questione che ci tocca tutti, non solo sul piano etico e morale. Il mondo è sempre più interconnesso e da questa crisi, non si esce da soli. Con sguardo lucido il demografo Livi Bacci analizza qui quali sono stati gli effetti del necessario lockdown, che alcune forze politiche di destra vorrebbero trasformare in misure permanenti per blindare le frontiere. Se da un lato hanno limitato la circolazione del virus, dall’altro hanno bloccato i flussi migratori. Il risultato è una drastica riduzione delle rimesse che gli emigrati mandavano nel Paese d’origine. E gli effetti negativi si fanno sentire anche nei Paesi occidentali che hanno bisogno del lavoro dei migranti in una prospettiva di sviluppo. Ma non solo. Non
potersi spostare ha reso ancor più insostenibili le condizioni di vita di chi in Africa è minacciato da guerre e repressione. Purtroppo le aree di crisi e di tensione sono moltissime. E nuovi conflitti si sono aperti anche nei mesi scorsi. Pensiamo per esempio all’Etiopia dove il governo centrale è intervenuto contro il Fronte di liberazione del popolo del Tigrè. Coautrice de L’Atlante dei conflitti, Alice Pistoiesi traccia per Lefi una mappa delle aree più a rischio, mentre Chiara Cruciati accende i riflettori sui diritti negati al popolo Saharawi dal Marocco con la complicità degli Usa (un colpo di coda di Trump).
Impossibilità di fuggire dalla guerra, impossibilità di fuggire dalla miseria. Oltre che ingiusta e inumana è una prospettiva che ci condanna tutti alla stagnazione. «Già nelle più antiche narrazioni, dall’epopea di Gil- games all’Odissea, l’uomo si confronta con l’alterità, da terre lontane e inesplorate, dallo straniero. L’alterità è il motore del processo creativo generativo, ciò che dà vita. L’altro è il motore del senso, l’alterità è il motore dell’umanità», scrivono Moni Ovadia e Caterina di Fazio di Agora Europe che tornano ad approfondire un tema cardine: il fondamentale diritto umano a potersi spostare, senza dover rischiare la vita dovendosi imbarcare su mezzi di fortuna.
Le politiche anti immigrazione peraltro non ci mettono al riparo dal Covid-19. Il fatto che siano diminuiti gli spostamenti non basta a fermare il contagio (come sappiamo dovuto più che altro ad assembramenti vacanzieri e sui mezzi di trasporto per andare al lavoro). Nessun Paese sarà al sicuro senza che tutti siano protetti. L’auto-isolamento non basta. Per arrivare alla cosiddetta immunità di gregge almeno il 60% della popolazione deve essere vaccinata. I vaccini del Covid- 19 saranno distribuiti in modo veloce ed equo tra i vari Paesi, sia ad alto che a basso reddito? Per quanto 180 nazioni abbiano aderito al programma Covax, dicendosi pronte a contribuire per coprire il costo dei vaccini per i Paesi poveri, fin qui sono stati raccolti solo 2 miliardi di dollari. Intanto sono 9,8 miliardi le dosi prenotate per i Paesi ricchi.
L’Africa rischia di rimanere indietro. «È una storia, questa, già vista. I farmaci antiretrovirali, per esempio, per curare l’hiv/aids, sono entrati nel mercato a metà degli anni 90. I prezzi fissati dalle aziende erano fuori dalla portata degli Stati africani», denuncia Medici con l’Africa Cuamm. «Con il risultato che mentre nei Paesi ricchi si è assistito a un crollo dei decessi, in Africa la gente era “lasciata morire”». Tra il 1997 e il 2007, 12 milioni di africani sono morti in attesa che i farmaci salvavita venissero distribuiti nel continente. «La diffusione e la distribuzione del vaccino – e delle migliori cure che la scienza va elaborando – richiedono alleanze globali, non egoismi, esigono politiche che realizzino l’accesso equo e tempestivo ai farmaci, basato sulla condivisione e non guidato da logiche di profitto», ha detto il presidente Mattarella in occasione dei tradizionali auguri per le feste. Facciamo nostre le sue parole: «La ricerca scientifica, gli straordinari progressi della tecnica permettono di continuare a guardare con ottimismo a un futuro ricco di opportunità a beneficio di tutti, purché si coltivi comune senso di responsabilità».
Simona Maggiorelli*, Direttore di LEFT


b – Stefano GALIENI* : IL GIOVANE CONTINENTE. PARLARE DI AFRICA IN QUESTO MOMENTO, ALLA FINE DI UN ANNO ORRIBILE, PUÒ SEMBRARE UN’ECCENTRICITÀ MA NON LO È.
Non solo nel 2020 sono trascorsi 60 anni da quell’anno in cui 17 Paesi ottennero quasi contemporaneamente l’indipendenza e iniziò una fase contraddittoria ma significativa, di profondo cambiamento tuttora in atto. Sessanta anni dopo i 54 Stati riconosciuti dall’Onu, in cui è diviso questo mondo diversificato, complesso e articolato, rappresentano, per il continente europeo, il contesto a cui guardare per pensare ad un futuro globale e ad una strategia di lungo corso. Le ragioni sono in parte oggettive.
L’età media nell’intera Africa è di 19,4 anni, che scende a 18 in quella sub sahariana (World population data); in 40 anni c’è stata una crescita esponenziale della popolazione, che ha superato il miliardo e 300 milioni e in molti Stati la metà della popolazione non ha ancora raggiunto i 25 anni. Questo mentre l’aspettativa di vita media è di 58 anni: è quindi cresciuta negli ultimi anni ma non si avvicina agli 80 dell’Europa. Contemporaneamente in Europa l’età media ha superato i 43 anni (45,2 in Italia), il continente invecchia rapidamente e presto non sarà in grado di garantire neanche il proprio apparato produttivo come sottolinea il demografo Livi Bacci in queste pagine. I tanti giovani che arrivano da Paesi africani e asiatici, con immensa difficoltà e sempre meno da
quando è scoppiata la pandemia da Covid-19, non coprono tale fabbisogno – altro che invasione -. Peraltro data la crisi socio-economica che si vive in Europa hanno da tempo ripreso percorsi di
ritorno o comunque di immissione in percorsi di circolarità che li fa diventare attori economici e politici in entrambi i continenti, pur godendo in Europa di scarsi diritti. E se l’Europa vive la più
grave e grande crisi forse della sua storia, con la pandemia, con una economia rattrappita, con la difficoltà di pensarsi nel futuro, dall’Africa potrebbero giungere grandi ed inaspettate risposte e
proposte. Come ci racconta la vice ministra degli Affari esteri, Emanuela Del Re, malgrado i tanti conflitti non sopiti, malgrado le immense difficoltà, i danni prodotti dai cambiamenti climatici,
dalla corruzione, da un colonialismo mai radicalmente rimosso, in quei contesti si intravede una reazione forte. Un continente giovane, in cui crescono aspettative da soddisfare senza dover ricorrere all’emigrazione, in cui si prende parola. Un continente spesso scosso da tentativi di dominio culturale – si veda il ruolo dei fondamentalismi religiosi – in cui giganti come la Cina hanno realizzato infrastrutture e creato occupazione ma intanto hanno imposto monoculture a danno dell’agricoltura “TRADIZIONALE”. Una potenza enorme che da una parte, in piena pandemia, taglia il debito ma contemporaneamente ignora l’importanza della salvaguardia ambientale, della difesa della biodiversità, della garanzia di accesso alle fonti idriche. L’anno che arriva sarà l’anno del G20 e del Cop26 in cui queste questioni saranno di prioritaria importanza. Dobbiamo fare in modo che il nostro sguardo esca da un miope provincialismo e provi a cercare risposte anche immaginando un grande corridoio, economico, sociale, culturale e di circolazione di saperi e competenze capace di congiungere Capo Horn con Capo Nord, attraversando migliaia di chilometri, di persone e di mondi. E che tutto ciò non rappresenti soltanto un’utopia.
*Stefano GALIENI da 8 LEFT 23 dicembre 2020.


c – Stefano Galieni:* IL PREZZODELL’INDIPENDENZA – BEN 17 PAESI AFRICANI NELL’ARCO DI UNO STORICO ANNO, IL 1960, RICONQUISTARONO, ALCUNI DOPO SE COLI DI OPPRESSIONE, LA PROPRIA AUTONOMIA. FU L’INIZIO DELLA FINE DEL COLONIALISMO OCCIDENTALE MA ANCHE DI UN PERCORSO SPESSO TORTUOSO E PIENO DI INSIDIE. ECCONE UN BILANCIO, PER GUARDARE AL FUTURO. SESSANTA ANNI FA IL MONDO SCOPRÌ CHE L’AFRICA NON ERA UNA ENTITÀ INDISTINTA MA UN COMPLESSO MOSAICO POLITICO, CULTURALE, ECONOMICO.
Nel 1960 diciassette Paesi acquisirono l’indipendenza e iniziarono travagliati percorsi.
Cambiarono le carte geografiche di un continente e per un breve lasso di tempo si pensò che da quegli Stati, i cui confini erano stati tracciati dalle potenze coloniali, potesse nascere un mondo nuovo. Ancora oggi, nell’immaginario eurocentrico, si confondono popoli e Paesi in un unico oscuro calderone.
Proprio il 1 gennaio di quell’anno fatidico si rese indipendente il Camerun, con il presidente AHMADOU AHIDJO che provò a ricomporre il Paese. Con le dominazioni passate, si era creata una maggioranza francofona e una minoranza anglofona, permanendo poi ulteriori divisioni interne. Non riuscì nel compito, dovendo affrontare anche una guerra civile, ma il Camerun conobbe un periodo di relativa prosperità. Si dimise nel 1982 per lasciare posto a Paul Biya ancora oggi al potere con un regime autoritario.
Il 27 aprile nacque il TOGO di cui divenne presidente Sylvanus Olympio legato alla Francia. Gli succedette Nicolas Grunitzky, che favorì il multipartitismo e portò il Paese nel blocco dei “Non allineati”. Con un colpo di Stato quattro anni dopo salì al potere il generale Gnassingbé Eyadéma, il cui posto venne preso nel 2005 dal figlio Faure. Le forze di opposizione oggi si sono unite ma le interferenze francesi, anche attraverso l’ottenimento di concessioni a grandi imprese, sono ostacolo ad ogni cambiamento.
Il MADAGASCAR divenne libero il 26 giugno. Il presidente, Philibert Tsiranana, si presentò come liberal socialista ma impose un regime autoritario che resse fino alla rivoluzione del 1975 guidata da Didier Ratsiraka che portò il Paese nell’orbita sovietica. Alla fine dell’Urss, ci fu un decennio caotico. Nel gennaio 2019 è stato eletto presidente Andry Rajoelina. Sono diminuite le tensioni ma povertà, catastrofi dovute al cambiamento climatico e persino una epidemia di peste polmonare hanno messo in ginocchio il Paese.
La REPUBBLICA DEMOCRATICA del CONGO vide la luce il 30 giugno con la presidenza di un eroe anticoloniale, Patrice Lumumba, che affrontò subito le secessioni, sponsorizzate dal Belgio, del Kasai e del Katanga. Nel settembre Lumumba venne ucciso e salì al potere il colonnello Sese Mobutu che ribattezzò il paese Zaire.
Un nazionalismo di facciata per poi svendere le risorse del Paese in una corruzione generalizzata al punto di parlare di “cleptocrazia”. Nel 1997 entrò nella capitale Kinshasa l’esercito guidato da Laurent Désiré Kabila.
Il CONGO non ha mai conosciuto pace. A Kabila padre è succeduto il figlio e solo dal 2018 con le elezioni è divenuto presidente Felix Tshisekedi.
La SOMALIA, prima colonia italiana poi protettorato britannico, divenne indipendente il primo luglio. Alla presidenza di Abdirashid Ali Sharmarke fece seguito nel 1969 quella di Mohammed Siad Barre che tentò di applicare un “socialismo scientifico”. La caduta di Barre (1991) portò ad una interminabile guerra civile solo in parte sedata. La Somalia odierna è una Repubblica federale presieduta da Mohamed Abdullahi Mohamed.
Agosto fu un mese formidabile. Iniziò il Benin (Dahomey fino al 1975). Nei primi anni ci furono cinque costituzioni e dieci presidenti, Mathieu Ahmed Kérékou nel 1972 impresse una linea marxista presto abbandonata. Ora è presidente Patrice Talon e negli ultimi anni la situazione è relativamente migliorata.
Il NIGER è indipendente dal 3 agosto avendo come presidente Flamani Diori. Per anni si susseguono golpe e, nonostante tentativi di applicazione della Costituzione, sono continuati i conflitti. Le elezioni nel 2011 si sono svolte in un clima pacifico e hanno confermato alla presidenza Mamadou Issoufou.
Una storia a sé quella del BURKINA FASO (Alto Volta fino al 1980), indipendente dal 5 agosto che nel 1966 subì un golpe militare guidato da Sangoulé Lamizana. Nel 1980 il nuovo nome (“Paese degli uomini integri”) e una vera profonda rivoluzione guidata da una delle figure più interessanti del secolo passato, Thomas Sankara, destituito e ucciso nel 1987 con un golpe sostenuto dalla Francia che portò al potere il capitano Blaise Compaoré. Oggi c’è maggiore democrazia, il presidente è Christian Kaboré ma enorme è la povertà. (Dopo le dimissioni di Blaise Compaoré, in Burkina Faso c’è più democrazia, ma resta il peso dell’enorme povertà)
Il 7 agosto fu il turno della COSTA D’AVORIO. Félix Houphouèt-Boigny garantì stabilità per 30 anni, da allora numerose tensioni fino al terzo contestato mandato presidenziale per Alassane Dramane Ouattara. Seguì il Ciad l’ 11 agosto con la presidenza di Francois Tombalbaye. Ma si scatenò subito una guerra fra province del Nord e del Sud. Oggi è guidato da Idriss Déby che si ritrova ad affrontare i problemi connessi alla desertificazione.
Travagliata la vicenda della REPUBBLICA CENTRAFRICANA nata il 13 agosto grazie all’eroe nazionale morto nel 1959, Barthélemy Boganda. Per cinque anni fu al governo David Dacko, nel 1965 il colonnello Jean Bedel Bokassa si impadronì del potere ed instaurò una scellerata dittatura che lo portò a dichiararsi imperatore. Nel settembre 1979 con un colpo di stato David Dacko lo ridestituì e restaurò la Repubblica, ma nel settembre 1981 il generale André Kolingba si impadronì del potere fino al 1986, quando fu approvata una nuova Costituzione.
L’indipendenza della REPUBBLICA del CONGO (Brazzaville) si realizzò il 15 agosto con la presidenza di Alfonse Massamba-Débat. Nel 1970 il capitano Marien Ngouabi prese il potere e proclamò la nascita della Repubblica popolare del Congo, con un’impronta marxista leninista. Nel 1997, quando l’esperienza rivoluzionaria era conclusa, andò al potere, sempre con un golpe, Deniss Sassou-Nguesso, ancora oggi in carica.
Il 17 agosto fu il giorno del GABON di Léon M’Ba, che nel 1946 aveva fondato il Blocco democratico. Nel 1967 il potere venne preso dal vicepresidente Omar Bongo, oggi governa il figlio, Ali Ben Bongo senza alcuna transizione democratica.
E poi il SENEGAL, indipendente dal 20 agosto sotto la guida di Léopold Sédar Senghor che propose un socialismo moderato ma fu travolto nel 1980 dalla corruzione. Seguì una fase complessa aperta dal presidente Abdou Diouf. Ora, con la presidenza di Macky Sali il Paese conosce un periodo di relativa pacificazione.
La REPUBBLICA DEL MALI nasce il 22 settembre con la secessione dal Senegal. Fino al 1968 è al governo Modibo Keita (socialista panafricano) poi subentra con un golpe Moussa Traoré che inaugura un periodo di guerre con l’obiettivo di far rinascere l’antico impero. Nel 2002 ci furono le elezioni che portarono al potere Amadou Toumani Touré. Siccità, conflitti interni, influenze jihadiste e interferenze francesi (il sottosuolo è ricchissimo) lasciano problemi ancora aperti.
La NIGERIA, immensa colonia inglese in cui convivono centinaia di popolazioni diverse che vennero unificate dall’inglese come lingua comune, nacque come Repubblica federale il primo ottobre. Fu eletto presidente Abubakar Tafawa Balewa. Un Paese pieno di contraddizioni, da una parte la terza industria cinematografica del mondo, dall’altra conflitti che riemergono in diverse regioni. Muhammadu Buhari è l’attuale presidente.
Corruzione, emigrazione povertà per molti, immense ricchezze per pochi, rendono alta la tensione.
Il 1960 si concluse con la nascita della MAURITANIA, il 28 novembre. Moktar Ould Daddah, il presidente che rimase al potere fino al 1978 in politica interna cercò di modernizzare il Paese, in politica estera sposò dapprima posizioni moderate filofrancesi, poi si avvicinò al blocco socialista. Seguì anche in questo Paese una fase di conflitti e di golpe. Dal 2019 è al potere ancora un militare, Mohamed Ould Ghazouani, impegnato contro le milizie jihadiste in un Paese in cui, malgrado gli impegni presi nel 1991, sopravvive la schiavitù ereditaria esercitata verso le persone considerate “nere”.
*Stefano Galieni da LEFT 23 dicembre 2020.


d – Federico Tulli*: L’AFRICA ALLA PROVA DEL COVID-19 LA PANDEMIA HA COLPITO MENO CHE ALTROVE MA HA COMUNQUE UN IMPATTO IMPORTANTE SU SISTEMI SANITARI E SCOLASTICI GIÀ FRAGILI.
Dopo aver superato la soglia dei due milioni di casi il 19 novembre scorso il coronavirus in Africa ha impiegato solo 30 giorni per colpire un altro mezzo milione di persone. Stando ai dati del Centro africano per il controllo delle malattie (Africa Cdc) al 18 dicembre sono circa 2.450.000 coloro che hanno contratto il Covid-19 nei 54 Paesi del continente. Questo vuol dire che nonostante il picco di contagi l’Africa rappresenta solo il 3,25% dei casi confermati nel mondo. Sembrerebbe una buona notizia se non fosse che, come rilevano gli esperti del Cdc, molti contagi e decessi correlati al Covid-19 potrebbero non essere stati registrati perché il numero dei test è tra i più bassi al mondo su una popolazione di circa 1,3 miliardi di persone. Entrando più nel dettaglio da sempre al 18 dicembre il Cdc segnala 57.817 decessi e oltre due milioni di persone ricoverate. Il Sudafrica è la nazione più colpita con 892.813 casi (erano 757.144 un mese fa) e 24.011 decessi (20.556 il 19 novembre); segue il Marocco, molto distanziato, con 409mila casi e 6.800 decessi. Il colpo d’occhio della mappa elaborata da Cdc che registra la diffusione del coronavirus dice che l’epidemia è presente oltre che nell’estremo meridione, soprattutto nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, nel Corno d’Africa e, sull’Atlantico, in Nigeria e Ghana. Altrove non si arriva a 25mila casi registrati per ciascun Paese. Óltre a una sottostima, il minor numero di infezioni e morti rispetto a Europa, Sud America e Stati Uniti si può attribuire a diversi fattori. Il virus in Africa è arrivato più tardi dando al personale medico il tempo di prepararsi. Inoltre c’è da considerare il fattore demografico: l’età media della popolazione africana è 19,4 anni (Fonte Ispi); in Europa, per dire, è 43 anni. Infine, diversi governi africani hanno esperienza nella lotta contro malattie infettive letali come ad esempio Ebola oppure la malaria che nel 2019 in questo continente ha rappresentato l’80% dei casi totali nel mondo (229mln) e il 90% dei decessi (370mila). L’esperien- za però alla lunga potrebbe non essere sufficiente per fronteggiare l’impatto del Covidl9 sui sistemi sanitari e sui programmi di prevenzione contro la malaria. Secondo un recente rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, una diminuzione del 10% dell’accesso ai trattamenti contro la malaria nell’Africa sub sahariana può portare a 19mila morti addizionali, mentre se si arriverà al 50% delle terapie in meno i morti in “eccesso” saranno 100mila.
Come nel resto del mondo gli effetti “collaterali” del Covidl9 riguardano anche l’istruzione. Il Rapporto Unicef uscito a inizio dicembre ha rilevato che in Africa sub sahariana 9 bambini su 10 in età scolare – tra i 3 e i 17 anni – non hanno la connessione internet a casa e questo limita l’accesso all’istruzione laddove a causa dell’epidemia non avviene in presenza. Secondo il rapporto, il divario digitale sta perpetrando disuguaglianze che già dividono Paesi e comunità. I bambini e i ragazzi delle famiglie più povere, delle zone rurali e degli Stati a basso reddito sono ancora più indietro rispetto ai loro coetanei e hanno pochissime possibilità di recuperare il ritardo.
Chiudiamo con una good news. Il sito della rivista Science ha riportato la notizia secondo cui anche in Africa, precisamente in Ghana, sono in corso ricerche e test per realizzare farmaci anti-Covid. Si tratta della prima sperimentazione farmaceutica nell’intero continente. L’obiettivo è trovare un farmaco in grado di dimezzare il rischio che la malattia da lieve diventi grave. Per farlo si metterà alla prova una lunga lista di farmaci, tra cui il sofosbuvir per l’epatite C, gli antiparassitari nitazonaxide e ivermectina, e la colchicina usata contro la gotta. Finora solo la Repubblica Democratica del Congo e il Kenya hanno iniziato la sperimentazione. Nei prossimi mesi dovrebbero partire altri 12 Paesi, tra cui Sudan, Uganda e Mozambico, mentre il Ghana aprirà il 2021.
*Federico Tulli da LEFT 23 dicembre 2020.

 


07 – ALIAS DOMENICA. VENTICINQUE CIVILTÀ CANCELLATE DALLA STORIA. ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA. L’«HOMO HEIDELBERGENSIS», IL SITO MESOLITICO DI GÖBEKLI TEPE, L’«EUROPA ANTICA» DANUBIANA: «CULTURE DIMENTICATE», da Bollati Boringhieri di Lucio Biasiori*
«Era dunque già la Toscana potente, piena di religione e di virtù, aveva i suoi costumi e la sua lingua patria: il che tutto è suto spento dalla potenza romana. Talché, come si è detto, di lei ne rimane solo la memoria del nome». Così Machiavelli sulla fine della civiltà etrusca, scomparsa nel nulla da cui era venuta. Negli stessi anni in cui Machiavelli faceva la spola tra Firenze e la corte papale di Roma e stava ancora lavorando a quei Discorsi su Livio che non avrebbe mai pubblicato in vita, un altro uomo rifletteva sullo stesso problema: perché delle civiltà, nel suo caso quelle dell’Africa, spariscono senza lasciare traccia? «Non è da dubitar – questa la sua risposta – che quando i Romani, che fur loro nimici, dominarono quei luoghi essi, come è costume dei vincitori e per maggior loro disprezzo, levassero tutti i loro titoli e le lor lettere e vi mettessero i loro, per levar insieme con la dignità degli africani ogni memoria e sola vi rimanesse quella del romano popolo».
Quell’uomo era, come Machiavelli, un diplomatico, non però della Repubblica fiorentina, ma del sultano wattaside del Marocco. Il suo nome era al-Hasan ibn Muhammad al-Wazzan al-Fasi, ma da quando dei pirati cristiani lo avevano catturato e offerto in regalo a papa Leone X, aveva preso il nome del suo nuovo padrone e padrino di battesimo. Non sappiamo se Leone l’Africano e Machiavelli, che frequentarono gli stessi ambienti negli stessi anni e avevano molte conoscenze in comune (come il grande Paolo Giovio), si siano mai parlati; né se il primo abbia intercettato il manoscritto dei Discorsi e il secondo quello della Descrittione dell’Africa. Di sicuro, avrebbero entrambi letto con curiosità un libro come questo del linguista tedesco Harald Haarmann, Culture dimenticate Venticinque sentieri smarriti dell’umanità (Bollati Boringhieri, pp. 290, e 22,00).
Culture dimenticate non è una versione riveduta e corretta del vecchio e ristampatissimo Civiltà sepolte di Ceram, quel «romanzo dell’archeologia» che raccontava le straordinarie scoperte di Troia e della Valle dei Re, di Pompei e Tenochtitlan. Mentre infatti le civiltà raccontate da Ceram, una volta riportate alla luce, erano piano piano divenute patrimonio comune, quelle descritte da Haarmann non sono mai entrate nella nostra memoria culturale, nemmeno nel caso di civiltà ancora oggi in vita. Molti di noi hanno sentito nominare la regina di Saba, o i moai dell’Isola di Pasqua (capitoli 19-20), ma chi sapeva dell’esistenza dei chachapoyas (cap. 17), peruviani biondi e con gli occhi azzurri, che stupirono già i conquistadores per quei tratti somatici così familiari e frutto della loro discendenza da popolazioni europee (forse celtiche) arrivate in Sudamerica molto prima degli spagnoli? E, ora che siamo al corrente della loro esistenza, come e dove inseriamo questi gringuitos – come li chiamano spregiativamente i peruviani – nella storia delle civiltà?
Combinando archeologia e linguistica, antropologia e genetica, Haarmann ci aiuta a rispondere a queste domande, accompagnandoci in un percorso lungo più di trecentomila anni, segnato da venticinque culture cancellate dalla storia. Dieci pagine per civiltà: poco, anche per gli amanti delle sintesi stringate, ma tutto spiegato con fiuto per i dettagli veramente rivelatòri di ognuno di questi piccoli mondi.
Culture dimenticate è una lettura salutare per gli studiosi di qualunque periodo storico, perché ci mostra come la necessità di adottare un approccio meno eurocentrico e lineare non valga solo per i periodi più vicini a noi, come la storia della prima età moderna, ormai vista non più come la marcia trionfale dell’Europa, bensì come momento di confronto paritario con imperi che avrebbero capitolato sì, ma solo tre secoli dopo, con la Rivoluzione industriale. Ecco, lo stesso vale anche per la preistoria: «Le storie d’Europa o del mondo partono spesso dall’Egitto e dalla Mesopotamia, perché da lì provengono invenzioni importanti come lo stato e la scrittura. Il minuscolo Israele non viene mai omesso perché vi si fondano le radici della cristianità europea, e anche alla piccola Grecia viene dedicato ampio spazio per via della democrazia, della filosofia e del teatro». Isolare queste, e non altre, radici della nostra storia comune ha avuto però ragioni e conseguenze ben precise: le nostre società, organizzate secondo una più o meno rigida gerarchia di ruoli e generi, inquadrate in stati-nazione, burocratici ma caratterizzati da un più o meno marcato pluralismo democratico, sono il frutto di quel passato lì, e non di altri.
Come ogni buon libro di storia, quello di Haarmann parla insomma anche, se non soprattutto, dell’uomo presente, perfino quando, come nel primo capitolo, il discorso è sull’Homo heidelbergensis, una delle tre specie che vivevano in Europa prima dell’arrivo del sapiens. Nel 1994 vennero ritrovate alcune lance appartenenti a individui di quella specie (a tutti gli effetti le più antiche armi da caccia mai rinvenute). Queste lance erano posizionate non in un luogo casuale, come dimenticate, ma accanto a dei crani di cavallo molto probabilmente sacrificati ritualmente. «In questo modo – commenta Haarmann – gli inizi della religiosità si spostano molto indietro nella storia dell’evoluzione, molto prima della nostra specie». Una rivincita di Vico su Darwin? Di certo un notevole spostamento all’indietro delle prime tracce di contatto con il soprannaturale, anche quando il sentimento religioso si estrinseca nei primi templi: non quelli urbani della Mesopotamia e dell’Egitto, ma quelli – risalenti al decimo millennio avanti Cristo – rinvenuti nel sito mesolitico di Göbekli Tepe, in Anatolia (cap. 4).
Le culture dimenticate di Haarmann non riservano però piacevoli sorprese solo agli assetati di sacro, ma anche a chi crede in una società più egualitaria nell’aldiquà. È il caso della cosiddetta civiltà danubiana (o «Europa antica»), scoperta negli anni settanta dell’Ottocento dalla baronessa ungherese Zsófia Torma (a cui nessuno all’epoca diede il minimo credito, se non un altro dilettante di genio come un certo Heinrich Schliemann), e da un’altra donna, l’archeologa lituana Maria Gimbutas, portata all’attenzione dei colleghi. Con l’Europa antica – una civiltà di alto livello economico e culturale, sviluppatasi tra il VI e il III millennio a.C. – ci troviamo di fronte non a una società patriarcale e neanche matriarcale (come pure ce ne furono), bensì a una in cui «i rapporti di genere erano bilanciati» e che «ci regala un sapere molto importante: è possibile raggiungere alti standard socioeconomici e tecnologici, anche se la società non è organizzata in maniera gerarchica». Perché, allora, continuiamo a considerare i modelli di civiltà del Vicino Oriente e dell’antico Egitto come la via maestra che ha portato alle società complesse che conosciamo e in cui viviamo? Può darsi che il motivo sia – seppure nella forma più dolce della rimozione che in quella violenta della distruzione – lo stesso che ha portato il leader dei salafiti del Bahrain a cementare le rovine di Dilmun, una metropoli cosmopolitica nel Golfo Persico del III millennio a.C., per costruirvi squallide case per famiglie di probi musulmani (cap. 10); oppure lo stesso motivo che ha spinto i funzionari (e gli archeologi) cinesi a occultare il ritrovamento di mummie dai capelli biondi nello Xinjiang per frenarne la riappropriazione ideologica da parte degli uighuri (cap. 10). Il libro di Harald Haarmann ci invita a mettere in discussione questa rimozione e a immaginare un futuro diverso per il nostro passato, e quindi anche per il nostro presente.
* Lucio Biasiori da ALIAS DOMENICA


08 – LA LUNGA MARCIA DEI DIRITTI DELLE DONNE NEL MONDO. AVEVAMO BISOGNO DI UNA BUONA NOTIZIA PER CONCLUDERE QUESTO DIFFICILE 2020, di Pierre Haski, France Inter, Francia
È arrivata dall’Argentina, dove il senato ha sancito con un’abbondante maggioranza il diritto all’aborto libero e gratuito. La notizia è stata accolta con gioia dalle militanti che si battono da quindici anni.
L’Argentina cattolica è soltanto il quarto paese dell’America Latina a garantire il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Questo voto storico incoraggia tutte le donne che dal Cile al Messico, passando soprattutto per il Brasile, sperano di mettere fine alla crudeltà degli aborti clandestini. Una parte della popolazione continua a opporsi all’aborto, e la speranza è che l’Argentina sappia superare queste divisioni.
L’Argentina entra a far parte dell’elenco dei paesi che autorizzano l’aborto ponendo come unico limite il numero di settimane di gravidanza. Ma esistono ancora 26 paesi in cui l’aborto è vietato, mentre altri, come la Polonia, stanno cercando di cancellare le limitate possibilità attualmente concesse. Si tratta, insomma, di una battaglia senza fine. Le argentine, però, hanno dimostrato che può essere vinta.
CAMBIARE LE MENTI
È il caso di tutte le cause delle donne, che si tratti dell’aborto, della parità salariale, del ruolo nella vita politica o nei consigli d’amministrazione, degli abusi sessuali o delle violenze: questi temi sono al centro del dibattito pubblico e si evolvono nella giusta direzione. Ma il progresso, spesso, è troppo lento, anche perché non basta cambiare una legge per modificare la mentalità e i comportamenti. Per non parlare del fatto che la decisione finale è in molti casi affidata agli uomini.
In ogni caso il 2021 comincerà con una donna alla vicepresidenza degli Stati Uniti, Kamala Harris. Non era mai accaduto. Per tutta la vita, ogni volta che diventava la prima donna a ricoprire un incarico importante, Harris ha cercato di sostenere le giovani donne per far loro capire che tutto è possibile.
All’altro capo del mondo, la prima ministra della Nuova Zelanda Jacinda Ardern ha mostrato un modello di leadership al femminile che le ha permesso di essere rieletta con percentuali da record.
La moltiplicazione dei role model è la garanzia del progresso tra una generazione e l’altra, anche in ambiti dominati dagli uomini come la tecnologia. Di recente ho visto un’intervista ad Aurélie Jean, giovane specialista francese di algoritmi, le formule matematiche che regolano sempre più spesso le nostre vite. Ricercatrice all’Mit, Jean si pone la seguente domanda: “L’algoritmo ha un genere? È colpevole di quella discriminazione razziale o sessuale di cui lo si accusa regolarmente?”. Spingere un numero maggiore di donne a intraprendere studi scientifici è il modo migliore per combattere contro i pregiudizi.
Con questo non voglio sostenere che viviamo in un mondo ideale. Recentemente ho parlato del destino della ragazza saudita incarcerata per aver chiesto il diritto di guidare, e oggi milioni di giovani donne sono private del diritto allo studio e costrette a sposarsi troppo presto. Ma è altrettanto vero che la persistenza dei problemi non deve farci perdere di vista le tendenze incoraggianti, che devono spingerci a fare di più e più rapidamente.
(Traduzione di Andrea Sparacino)


09 – LE VOCI DELLA RIVOLUZIONE . Paul B. Preciado, Libération, Francia
In questi ultimi giorni, per proteggermi dall’intrusione delle videoconferenze nella stanza tutta per me, ho deciso di limitarmi ai soli messaggi vocali. La cultura ci ha insegnato a usare gli occhi per criticare e giudicare, consumare visivamente e desiderare. Eppure, l’udito, relegato a una posizione subalterna nelle nostre società tecnovisive, possiede una raffinata capacità d’interpretazione e di conoscenza. Una volta che avete chiuso lo schermo la connessione visiva vi lascia ancora più soli e vuoti, mentre le voci si attorcigliano su di voi, avvolgendovi.
La voce è il suono prodotto dal corpo umano quando l’aria proveniente dai polmoni passa dai bronchi e dalla trachea, raggiunge la laringe e fa vibrare le corde vocali. Questa sottile vibrazione usa la faringe, la bocca e il naso come casse di risonanza e d’amplificazione del suono. La frequenza della voce umana va dai sessanta ai settemila hertz, con un’enorme variazione di toni e consistenze.
La voce precede la parola. Diventa parola quando le vibrazioni delle corde vocali sono modulate dai movimenti rapidi della lingua, della glottide e delle labbra, attraverso l’interruzione del flusso d’aria che esce dai polmoni e la frequenza con la quale l’aria scivola lungo il palato o entra in collisione con i denti. L’articolazione della voce è una delle tecniche fisiche più sofisticate mai inventate storicamente dagli esseri umani e, essendo diversa in ciascuno di noi, presenta una gamma di articolazioni unica.

VOCI NORMALIZZATE
I discorsi dominanti in occidente, tanto in ambito medico che nella storia della musica, distinguevano fino a poco tempo fa tre tipi di voce umana, ciascuno con diverse sfumature, a secondo del sesso e dell’età: maschile, femminile e infantile. In questa tradizione le voci acute erano dette femminili e le voci gravi maschili. Nel linguaggio del canto, era chiamata “estensione” la gamma di note che una persona può raggiungere modulando la sua voce. Secondo le considerazioni normative relative alle diverse estensioni della voce, le voci maschili possono essere da basso, baritono o tenore; quelle femminili da controtenore, mezzosoprano o soprano. Ma alcuni uomini hanno una voce da soprano e alcune donne una da basso.
L’erotizzazione delle voci acute dei castrati come ideale della musica barocca incarna i paradossi del desiderio misogino nel patriarcato. Le voci leggere, chiare e molto acute dei controtenori e le voci profonde dei contralti sono quelle che trasgrediscono i limiti normativi del genere, come nel caso di Philippe Jaroussky nell’opera contemporanea o, in passato, nel caso dell’immensa cantante egiziana Umm Kulthum.
In passato, alle distinzioni delle voci in categorie di genere si aggiungevano le divisioni razziali. Fino alla metà degli anni ottanta i commentatori musicali parlavano di “voce nera”, razzializzando tanto le voci quanto gli stili musicali. Le voci del blues potevano essere nere, ma quelle d’opera dovevano essere bianche. Nel 1939 la cantante nera Marian Anderson cantò per la prima volta alla Metropolitan opera house, dopo che l’associazione Figlie della rivoluzione americana (Dar) le aveva impedito di esibirsi alla Dar constitution hall perché non era bianca.

Una parola contiene in modo misterioso la memoria di tutti i corpi che l’hanno pronunciata in passato

Di fronte alle categorie sessuali o razziali normative, gli studi contemporanei sulla voce, influenzati dalla critica degli studi di genere e anticoloniali e dal numero sempre più importante di persone trans e non binarie, propongono d’intendere la voce come un organo che cambia durante tutto il corso di una vita.
Più che di voci di uomini, di donne o di bambini, bianche o nere, sarebbe più appropriato dire che esistono voci basse, acute, spesse, lisce, gorgoglianti, secche, nasali, gutturali, occlusive, sibilanti, rocciose, eteree, liquide, granulose, pastose, stridule, flautate, chiare, cupe, luminose, opache, saltellanti, martellanti, vellutate e così via.
Se all’inizio del ventesimo secolo si pensava che la fotografia rubasse l’anima, le registrazioni sonore sono forse il mezzo più appropriato per preservarla. Gli archivi della Bbc e della radio francese, con centinaia di migliaia di registrazioni, sono depositi infiniti di anime. Ascolto l’unica registrazione esistente di Virginia Woolf, una dichiarazione alla Bbc del 1937. La sua voce fine, eterea e intelligente lascia trasparire il suo carattere malinconico, la sua difficoltà ad ancorarsi pienamente nel mondo che la circonda. La voce è come un filo prezioso con cui Virginia Woolf cerca di collegare incessantemente il suo corpo alla vita. Ha appena 55 anni, ma sembra di ascoltare una persona centenaria o addirittura millenaria; la voce di qualcuno che, come il personaggio di Orlando, ha attraversato i secoli. Quattro anni dopo, questa voce si annegherà nel fiume Ouse, a qualche metro dalla sua abitazione.
In questa breve registrazione Virginia Woolf parla della relazione tra la voce e il linguaggio. Le parole che usiamo sono piene di echi, dice Woolf, di ricordi, di associazioni, perché sono salite alle labbra delle persone. Una parola non è solo un’entità linguistica distinta, ma contiene in modo misterioso la memoria di tutti i corpi che l’hanno pronunciata in passato. È così che Virginia Woolf intende le parole: come delle voci d’occasione che lo scrittore decide o meno di pronunciare. “Ogni volta che inventiamo una nuova parola”, dice Virginia Woolf, “questa vuole salire alle labbra e trovare una voce”.
È forse per questo che le rivoluzioni cominciano in punta di labbra, lì dove il linguaggio storico incontra il corpo politico. #MeToo, NiUnaMenos, Black Lives Matter, Black Trans Lives Matter, il movimento per la libertà sessuale in Polonia, sono tutti cominciati come rivoluzioni della voce: nuove parole un tempo impronunciabili sono salite alle labbra delle persone e non vogliono più andarsene.
(Traduzione di Federico Ferrone dall’ INTERNAZIONALE)


10 – IN CILE LE DONNE GUIDANO IL CAMBIAMENTO, di Carol Pires, giornalista.
Il 25 ottobre il Cile ha deciso di sostituire la sua costituzione, ultima eredità della dittatura del generale Augusto Pinochet, con la prima costituzione al mondo che sarà scritta in forma paritaria, cioè da un’assemblea costituente formata per metà da uomini e per metà da donne. La nuova assemblea, composta da 155 persone, sarà eletta l’11 aprile 2021 e avrà un anno per presentare il nuovo testo. Sembra assurdo che nel 2020 non ci sia una costituzione paritaria al mondo. Per questo motivo è un passo avanti enorme per le cilene, che oggi rappresentano solo il 20 per cento del parlamento, e per le donne di tutto il mondo.
In Cile l’aborto terapeutico (in caso di stupro, rischio di morte della madre e d’impossibilità di sopravvivenza del feto) è stato introdotto solo nel 2017. Fino a poche settimane fa le donne non potevano sposarsi prima che fossero passati almeno 270 giorni dal divorzio o dalla morte del marito, per evitare dubbi sulla paternità dei figli. L’intenzione del movimento femminista è quella di avere una costituzione che preveda l’uguaglianza totale tra uomini e donne e corregga alcune ingiustizie storiche.
La vittoria del movimento femminista nel referendum sulla nuova costituzione è la chiusura perfetta di un ciclo cominciato negli anni ottanta, quando le donne di varie correnti si opposero al regime di Pinochet e si unirono in un movimento chiamato Mujeres por la democracia, manifestando nelle piazze in silenzio e sfidando gli idranti della polizia. Sono state le donne a riaccendere le proteste alla fine del 2019, quando il collettivo Las Tesis ha messo i loro diritti al centro del dibattito.
Quando queste proteste erano ormai deboli e fiaccate dalla violenza, un gruppo di donne ha interrotto il traffico in piazza Anibal Pinto, a Valparaíso, e ha cantato Un violador en tu camino: “Il patriarcato punta il dito e ci giudica impunito. Il nostro castigo è la violenza che ora vivo. Femminicidio. Impunità per l’assassino. È l’abuso, è lo stupro. E la colpa non è la mia, né dentro casa, né per la via. L’assassino sei tu, lo stupratore sei tu”. Con il volto dipinto di nero, le donne hanno trasformato il ritornello in un inno mondiale: “E la colpa non era mia né di dove stavo né di come vestivo. Lo stupratore eri tu”. La performance ha denunciato non solo un’ingiustizia sociale ma anche la repressione della polizia. In trenta giorni di manifestazioni, Human rights watch ha registrato 71 denunce di abusi sessuali. A Santiago molte donne più anziane si sono unite alle più giovani. E questo ha fatto scendere il popolo nelle strade, costringendo il presidente cileno Sebastián Piñera a proporre un nuovo patto sociale.

IL PASSATO ALLE SPALLE
La costituzione attualmente in vigore fu imposta nel 1980 da un regime militare che torturava, uccideva o faceva sparire gli oppositori. Durante il periodo democratico, in cui i cileni hanno votato presidenti di sinistra e di destra, la costituzione è stata emendata e riformata. Oggi il Cile è una delle democrazie più solide dell’America Latina, ma la riscrittura della carta fondamentale ha comunque un valore simbolico, perché porterà alla firma di un nuovo contratto sociale. Questo forse non comporterà un cambiamento immediato, ma sancisce la volontà della maggioranza di combattere le discriminazioni.
La conquista delle cilene ha il sapore del successo anche per il movimento transnazionale nato nel 2015 in Argentina con Ni una menos (Non una di meno), collettivo che ha attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione sul femminicidio. L’omicidio delle donne, un tempo chiamato “delitto passionale”, è un problema endemico nella regione, e finalmente ha cominciato a essere trattato per quello che è: un crimine d’odio, non di passione. In vari paesi sudamericani il movimento delle donne ha tratto forza dalle proteste dell’8 marzo, la giornata internazionale della donna.
In Brasile le manifestazioni hanno raggiunto l’apice nel 2018 con #EleNão, la protesta contro l’elezione di Jair Bolsonaro. Le contestazioni inoltre hanno trasformato le stesse partecipanti: le donne si sono accorte che i problemi vissuti in casa erano condivisi. Quando sono tornate a casa erano diverse, hanno discusso questi temi con i mariti, i fratelli, i padri e i nonni.
Un altro effetto delle proteste femministe (dove c’è rabbia, ma ci sono anche cuore, danza e lustrini) è che più persone partecipano al dibattito e scoprono che per fare politica non è indispensabile essere un deputato incravattato. Questa consapevolezza rafforza la presenza delle donne, della comunità lgbt, dei giovani, dei neri e degli abitanti delle periferie nella politica istituzionale e contribuisce a risolvere la crisi della rappresentanza. Come dice l’ex presidente cilena Michelle Bachelet, “quando una donna fa politica, cambia la donna. Ma quando tante donne fanno politica, cambia la politica”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul numero 1383 di Internazionale.


11 – Matteo Bortolon*: POST-COVID, CHIEDIAMOCI SE NULLA SARÀ PIÙ COME PRIMA. LE VECCHIE IDEE DI BASE DELLA CULTURA NEOLIBERISTA – AUTOSUFFICIENZA DEL MERCATO, INTERVENTISMO PUBBLICO COME FATTORE RESIDUALE, CAPACITÀ DELLA MERA DINAMICA DI OFFERTA E DOMANDA DI FARE FRONTE A «SHOCK» COME QUELLO ATTUALE – HANNO DEFINITIVAMENTE MOSTRATO LA PROPRIA INSENSATEZZA
L’anno che appena comincia – anche grazie agli elementi che hanno caratterizzato l’anno che ci stiamo lasciando alle spalle – vedrà aumentare il debito pubblico a livello mondiale in modo rilevante.
Il Fondo monetario calcola per i paesi avanzati un salto dal 104% rispetto al Pil del 2019 al 124%. Cifra vertiginosa che già da sé indica la misura dei cambiamenti dovuti alla crisi sanitaria che si fa politica, sociale e democratica.

MA QUALI SCENARI PRESENTA LA POST-EMERGENZA? SARÀ PROPRIO VERO CHE NULLA SARÀ COME PRIMA?
A questi interrogativi tenta di dare risposta un insieme di autori che contribuiscono a una nuova iniziativa editoriale, la rivista La Fionda 1/2020 «Nulla sarà come prima?», Rogas Edizioni, di cui compare attualmente il primo numero, sotto la direzione di Geminello Preterossi e del giurista Alessandro Somma.
I vari contributi prendono in considerazione gli scenari sanitari, politico, geopolitici, economici ed europei che si stagliano di fronte a noi, chiudendo con la traduzione di due inediti del sociologo Wolfgang Streeck e di Álvaro García Linera, ex vicepresidente della Bolivia sotto il Mas di Evo Morales, considerato fra i massimi intellettuali latinoamericani viventi.
Fra i contributi che riguardano più direttamente i temi economico-finanziari cogliamo un aspetto importante segnalato tanto da quello di Vladimiro Giacché che dai giovani Alessadro Bonetti e Andrea Muratore: le vecchie idee di base della cultura neoliberista – autosufficienza del mercato, interventismo pubblico come fattore residuale, capacità della mera dinamica di offerta e domanda di fare fronte a «shock» come quello attuale hanno definitivamente mostrato la propria insensatezza.
E non si tratta solo dell’analisi delle dinamiche attuali che lo rivela, aggiungiamo noi, ma gli stessi personaggi che fino a poco tempo prima si sono distinti per le invocazioni di «fare largo al privato» oggi gareggiano per chiedere un sostegno dello Stato.
Se questo assunto ha una evidenza palpabile resta il quesito sull’assetto istituzionale europeo.
Se il sistema abbandona la vecchia dogmatica liberista, anche la struttura della governance mercatista viene abbandonata in modo da evitare che il rigetto dell’ortodossia economica sia un mero espediente tattico volto a gettare il peso della crisi sulle spalle dei cittadini?
Nella miglior tradizione del fertile dibattito politico non c’è una unanimità nei contributi: più ottimista Laura Pennacchi, meno speranzoso Mimmo Porcaro, per il quale la svolta del «Next Generation» è reale e non contingente ma trova un limite invalicabile nella impossibilità di mettere effettivamente in comune i debiti europei, stante la divergenza fra gli stati e le retoriche contro le «cicale del sud» tanto in voga nei paesi autodefinitisi «frugali».
Merita anche citare il saggio di Pino Arlacchi, noto sociologo già collaboratore di Giovanni Falcone ed ex vicesegretario delle Nazioni unite, che prevede l’avvento di un mondo multipolare più pacifico in seguito al declino dell’egemonia degli Stati uniti.
Una posizione che rispecchia il pensiero di due sue recenti opere: una appena edita, Contro la paura, in cui mostra il declino delle forme di violenza collettiva nel mondo attuale, argomentando che l’insistenza a rappresentarlo come posto pericoloso e imbarbarito è funzionale invece a nascondere la consistenza della maggiore minaccia esistente al benessere collettivo; il dominio del capitalismo finanziario, da lui analizzato ne I padroni della finanza mondiale.

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