20 11 28 NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL ESTERO ED ALTRE COMUNICAZIONI.

01 – La Marca (Pd) – audizione del ministro degli esteri, luigi di Maio: rifinanziato il fondo cultura e consolidate le risorse per i corsi di lingua e cultura, Roma, 26 novembre 2020
02 – La Marca (Pd) – SI faccia chiarezza e si faccia presto per le domande di cittadinanza presentate dai trentini,
03 – La riforma del Mes, una gabbia in contrasto con il nuovo corso Ue . Economia. Il Mes come «risolutore» di ultima istanza. Un paracadute per gli speculatori. Dopo il 2008, non si è fatto nulla per frenare la libidine del fare soldi a mezzo dei soldi.
04 – GIAPPONE, ITALIA e GERMANIA e il significato di rifiutare la guerra. Scaffale. «Le tre costituzioni pacifiste», un saggio del filosofo del diritto Mario G. Losano
05 – Cinzia Longo. Riforme: un cambiamento radicale non le misure di Berlusconi e Renzi. La destra negli anni ci ha rubato tantissimo. I contratti a tempo indeterminato, i diritti, il futuro. Ora perfino le parole. Riprendiamocele.
06 – È ora che paghino i ricchi. Nuova Finanza Pubblica. Governare significa scegliere da quale punto osservare il mondo, e la pandemia obbliga a decidere se questo modello economico-sociale deve proseguire.


01 – LA MARCA (PD) – AUDIZIONE DEL MINISTRO DEGLI ESTERI, LUIGI DI MAIO: RIFINANZIATO IL FONDO CULTURA E CONSOLIDATE LE RISORSE PER I CORSI DI LINGUA E CULTURA, ROMA, 26 NOVEMBRE 2020
“Nel corso dell’audizione presso la Commissione Esteri della Camera, ho posto al Ministro Di Maio due questioni cruciali riguardanti la promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo.
Poiché la legge di bilancio in discussione alla Camera prevede il rinnovo del Fondo per la promozione della lingua e la cultura italiana, in scadenza nel 2020, ma con una dotazione finanziaria per il 2021 più bassa (31,2 milioni rispetto a 50 milioni), ho chiesto se si prevede anche per questo nuovo ciclo la divisione tra MAECI, Ministero per i beni culturali e Ministero per l’istruzione o se l’intera somma sia nella disponibilità degli Esteri.
In ogni caso – e questa è la seconda domanda – se si pensa che la dotazione del capitolo 3153, destinata ai corsi di lingua e cultura promossi dagli enti gestori, possa scendere al di sotto della spesa consolidata negli ultimi anni, di poco superiore ai 14 milioni di euro.
Nella sua replica, il Ministro ha confermato che i fondi saranno ripartiti tra i vari ministeri, ma che in ogni caso non diminuirà il livello dei contributi per i corsi di lingua e cultura italiana.
E QUESTA MI SEMBRA UNA GRAN BUONA NOTIZIA.
Per quanto mi riguarda, seguirò l’evoluzione dei temi toccati nell’audizione nel corso dei lavori sulla legge di bilancio e la successiva esecuzione di quanto si deciderà, in modo che alle parole seguano fatti coerenti.
On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D.
Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America
Electoral College of North and Central America

 

02 – LA MARCA (PD) – SI FACCIA CHIAREZZA E SI FACCIA PRESTO PER LE DOMANDE DI CITTADINANZA PRESENTATE DAI TRENTINI, 27 NOVEMBRE 2020
Sono numerose e continue le segnalazioni di ritardo e di irreperibilità di molte richieste di cittadinanza presentate dai discendenti degli abitanti nati e già residenti nei territori appartenenti all’ex Impero Austro-ungarico, in sostanza in Trentino.

Dopo diverse sollecitazioni e una lettera da me scritta direttamente alla Ministra Lamorgese, devo quindi tornare sulla questione per chiedere di fare chiarezza e cercare di portare finalmente a conclusione a una vicenda che perdura nonostante siano passati dieci anni dalla chiusura dei termini delle domande.
Già dai dati ufficialmente forniti, ad esempio relativamente al Brasile, uno dei Paesi dove più alto è il numero delle domande, delle 15.500 pratiche pervenute dai consolati al Ministero degli Interni ce ne sarebbero ancora oltre 4.000 da vagliare. Quante sono, poi, le pratiche pervenute dai consolati di altri Paesi e che sono anch’esse in attesa?
La cosa più sconcertante, tuttavia, è che mentre da parte dei consolati si afferma che non vi siano giacenze, sono tante le proteste di persone che dicono di avere presentato le domande e di non averne più avuta notizia, né presso i consolati né presso il Ministero dell’interno.
AVERE UNA RISPOSTA CERTA DA PARTE DELL’AMMINISTRAZIONE È UN DIRITTO CHE NON PUÒ ESSERE ELUSO.
Ci sono in ballo, inoltre, il decoro e la credibilità del nostro sistema pubblico e l’immagine dell’Italia all’estero. Mi auguro, dunque, che si faccia subito chiarezza e, soprattutto, si dia un colpo di acceleratore alle procedure, affinché questa vicenda si concluda nel rispetto della legge e dei diritti delle persone.
On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D. – Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America
Electoral College of North and Central America


03 – LA RIFORMA DEL MES, UNA GABBIA IN CONTRASTO CON IL NUOVO CORSO UE . ECONOMIA. IL MES COME «RISOLUTORE» DI ULTIMA ISTANZA. UN PARACADUTE PER GLI SPECULATORI. DOPO IL 2008, NON SI È FATTO NULLA PER FRENARE LA LIBIDINE DEL FARE SOLDI A MEZZO DEI SOLDI, di Luigi Pandolfi*.
La riforma del Mes, alla quale il prossimo vertice Ecofin dovrebbe dare il via libera definitivo, torna ad agitare la politica italiana. Anche in questo caso, nondimeno, come per la sua nuova linea di credito «pandemica», la discussione non pare all’altezza della posta in gioco.

Per chiarire questo concetto, dobbiamo tornare alla funzione originaria di questo strumento. Istituito nel 2012, nel pieno della cosiddetta crisi dei «debiti sovrani» e al di fuori del quadro giuridico Ue, la sua missione è quella di concedere assistenza finanziaria ai Paesi con difficoltà a finanziarsi sui mercati. Prestiti sotto rigide condizioni, come nel caso della Grecia e di altri Paesi della «periferia» negli anni scorsi. Insomma, un salvagente per Paesi falliti o sull’orlo del fallimento.

Perché l’Unione europea ha voluto questa «cassa» esterna all’ordinamento comunitario? Perché i Trattati attualmente non prevedono l’opzione di «salvataggi solidali». Nessuno può essere chiamato a rispondere, direttamente o indirettamente, dei debiti degli altri.

Con la riforma non si incorpora il Mes nell’ordinamento dell’Unione, ma si stabiliscono «nuove modalità di cooperazione» tra questo meccanismo e la Commissione. Se uno Stato chiede assistenza finanziaria, Bruxelles valuta la coerenza delle sue politiche di bilancio con i vincoli imposti dai Trattati, mentre il Mes ne valuta la capacità di rimborso. Entrambe queste valutazioni serviranno a definire la gravosità dei «compiti» che il richiedente dovrà fare «a casa».

Andiamo più nel dettaglio. Tra le novità introdotte dalla bozza di revisione, ce ne sono almeno quattro che meritano una menzione. La prima riguarda l’istituzione di un «dispositivo di sostegno» per le banche (backstop). Il Mes allargherebbe la sua mission, offrendo una sponda finanziaria non solo agli Stati ma anche al settore bancario ed a quello dell’intermediazione mobiliare. Qualora finissero i soldi del «Fondo di risoluzione unico», alimentato dalle stesse banche, entrerebbe in gioco il Mes come «risolutore» di ultima istanza. Un paracadute per gli speculatori? Anche. D’altronde, dopo il disastro del 2007-2008, non si è fatto nulla per mettere un freno alla libidine del fare soldi a mezzo dei soldi.

La seconda novità è riferita alle modalità di accesso ai prestiti. Per la cosiddetta «linea di credito precauzionale» si prevede una «procedura semplificata», purché il Paese sia «sano». Niente memorandum, ma solo una «lettera d’intenti». Domanda: ma se un Paese non è soggetto a procedure d‘infrazione per disavanzi eccessivi né presenta «gravi vulnerabilità del settore finanziario» ed è in grado di finanziarsi sul mercato, perché dovrebbe indebitarsi col Mes? Molto più facile che a chiedere questi soldi siano i Paesi con conclamate difficoltà finanziarie. Ma per loro resterebbe solo la strada per l’inferno. Soldi in cambio di «riforme» lacrime e sangue. Una linea per i Paesi del «centro» e un’altra per quelli della «periferia»? A pensar male si fa peccato, ma tante volte ci si indovina.

La terza novità è collegata al nuovo rapporto tra Mes e Commissione. Con la riforma dell’articolo 3 del Trattato, la vecchia Troika assume sembianze nuove. In pratica, il Mes, insieme alla Commissione ed alla Bce, entrerebbe direttamente in casa dei suoi membri, per «seguirne e valutarne la situazione macroeconomica e finanziaria, e sostenibilità del debito».

Infine, la questione delle cosiddette «Clausole di azione collettiva». Con la modifica del meccanismo di deliberazione, si intende facilitare la ristrutturazione del debito di un Paese che abbia fatto richiesta di accesso al Mes. Non è una misura che «costringe» a ristrutturare, come qualche politico o commentatore ha impropriamente affermato, ma potrebbe giocare a sfavore dei Paesi più indebitati ed aumentare il ricatto dei mercati.

Sembra un vecchio film in bianco e nero. Ed in contrasto con le novità emerse in questi mesi, dal ruolo della Bce agli strumenti finanziari messi in campo direttamente dall’Unione per fronteggiare la crisi. Delle due l’una: o si prosegue sulla strada di una maggiore integrazione, comprendente anche una nuova gestione solidale del debito, o ci si trascina col Mes, simbolo di un’Europa neoliberista, fondata sugli egoismi nazionali. ( di Luigi Pandolfi*. Da Il Manifesto)


04 – GIAPPONE, ITALIA E GERMANIA E IL SIGNIFICATO DI RIFIUTARE LA GUERRA. SCAFFALE. «LE TRE COSTITUZIONI PACIFISTE», UN SAGGIO DEL FILOSOFO DEL DIRITTO MARIO G. LOSANO, di Francesco Pallante
«La guerra piace a chi non sa cos’è». Si apre così, assumendo a riferimento ideale il noto monito erasmiano, la più recente ricerca del filosofo del diritto Mario G. Losano dedicata agli articoli pacifisti delle Costituzioni di Giappone (art. 9), Italia (art. 11) e Germania (art. 26): i tre Stati dell’Asse che, usciti sconfitti dalla Seconda guerra mondiale, riscrissero, sotto pressione più o meno intensa dei vincitori, le proprie Carte fondamentali tra il 1947 e il 1949.
Edito, in lingua italiana, dal Max-Planck-Institut per la storia del diritto europeo di Francoforte nel 2020, il libro che raccoglie i risultati della ricerca s’intitola Le tre costituzioni pacifiste. Il rifiuto della guerra nelle costituzioni di Giappone, Italia e Germania ed è disponibile on-line in open access e, su richiesta, in edizione cartacea (pp. 399, euro 26,38).
Al capitolo iniziale, ricostruttivo degli eventi che condussero prima alla stipulazione del Patto Tripartito e poi, con la sconfitta bellica, alla trasformazione democratica dei tre Stati in parola, fanno seguito tre capitoli dedicati all’analisi dell’origine storica, del significato giuridico e dell’attualità politica delle singole clausole costituzionali pacifiste. A completamento del lavoro, tre appendici sono dedicate, rispettivamente: al dibattito del 2018 sulla proposta di modifica, se non di abrogazione, dell’art. 9 della Costituzione giapponese; al movimento dei «Partigiani della pace», promosso dal Cominform nel 1947 e legato all’Urss, ma capace, proprio in Italia, di suscitare un coinvolgimento ben al di là del mondo comunista; alle dimenticate disposizioni pacifiste della Costituzione della Repubblica democratica tedesca (artt. 5 e 6) e alla legge che in quel Paese, nel 1950, fu dedicata alla tutela della pace.

AD ANIMARE LA RICERCA di Losano – allievo, e poi biografo, di Norberto Bobbio, traduttore e introduttore in Italia di Hans Kelsen, studioso di Rudolf Jhering, pioniere dell’informatica giuridica, cultore della geopolitica – è l’urgenza di recuperare piena consapevolezza della realtà della guerra, e quindi del valore della pace, in una fase storica in cui scontri asimmetrici, guerre ibride, conflitti umanitari, missioni di pace o di polizia internazionale rischiano di confondere ciò che da sempre è fin troppo chiaro alle vittime di ogni conflitto armato: che guerra significa lutti e distruzioni, tanto più dopo che Hiroshima e Nagasaki hanno reso reale il rischio dell’annientamento atomico.
Dalla prospettiva della teoria dello Stato, la rinuncia allo ius ad bellum (il diritto di dichiarare la guerra) – imposta ai tre Stati sconfitti dalle potenze vincitrici, ma fortemente sostenuta dal sentimento popolare diffuso – rappresenta una rottura della tradizione che, fin dai Trattati di Vestfalia (1648), proprio nella guerra offensiva individua il nucleo essenziale della sovranità statale. Non che mancassero i precedenti: come ricorda Losano, una disposizione analoga compariva nella Costituzione della Repubblica spagnola del 1931 (art. 6) e, ancor prima, la rinuncia alla guerra era stata al centro del Patto Briand-Kellog del 1928.

LA FINE della Seconda guerra mondiale – «il peggior conflitto della storia» – infuse, però, al valore della pace una solidità popolare senza precedenti, capace di farsi ancora sentire a distanza di decenni, in occasione delle manifestazioni tedesche e italiane degli anni Ottanta contro gli «euromissili».
Proprio tale solidità è oggi venuta meno. La violenza bellica è tornata a essere strumento pressoché ordinario di governo delle relazioni internazionali: al punto che, mentre la guerra del Kosovo del 1999 ancora ebbe bisogno di trovare legittimazione, anche se ex post, in una risoluzione Onu e quella contro l’Iraq del 2003 giustificazione nella menzogna delle armi di distruzione di massa, nel caso dell’attacco alla Libia del 2011 nessuna finzione è stata necessaria e la più cinica brama di potenza – persino intestina al campo occidentale – ha potuto apertamente manifestarsi.
ALTRI PAESI trassero in seguito ispirazione dalle tre Costituzioni pacifiste esaminate nel libro di Losano. Ripercorrere in esso le vicende che portarono la pace al cuore del diritto costituzionale del dopoguerra ci consente di tornare ad apprezzare a pieno l’importanza politica e ideale di quella scelta. Nella speranza che, col tempo, il valore della pace riacquisti la necessaria solidità nel sentire diffuso e nell’azione politica.


05 – Cinzia Longo*. Riforme: un cambiamento radicale non le misure di Berlusconi e Renzi
LA DESTRA NEGLI ANNI CI HA RUBATO TANTISSIMO. I CONTRATTI A TEMPO INDETERMINATO, I DIRITTI, IL FUTURO. ORA PERFINO LE PAROLE. RIPRENDIAMOCELE.
La riforma Moratti, la riforma Gelmini, le riforme Amato, Dini, Maroni e Fornero delle pensioni, la riforma costituzionale di Berlusconi del 2005, quella di Renzi del 2016, le bicamerali per le riforme, il governo per le riforme, la necessità di “fare le riforme”.
QUALI?
E CHIARO: “LE RIFORME DI CUI IL PAESE HA BISOGNO”.
La Seconda Repubblica ha educato le persone di sinistra a tremare ogni volta che si sente la parola “riforma”. Abbiamo imparato ad andare in piazza “contro la riforma”, a porci l’obiettivo di “bloccare la riforma”. Se c’è una riforma, è di destra, è neoliberista, ed è una fregatura.
Del resto negli anni 2000 la parola “riforma” è stata uno degli elementi più ricorrenti del lessico berlusconiano. Già nella campagna elettorale 2006, Berlusconi amava snocciolare le «quaranta riforme» approvate dal suo governo, da quelle più note e controverse (scuola, lavoro, pensioni, immigrazione), a quelle più oscure (avrei sempre voluto sapere in cosa consistesse la riforma del codice nautico che inseriva ogni volta nell’elenco). Nella logica aziendalista e spoliticizzata della Seconda Repubblica, un governo che “fa le riforme” è un governo efficiente, produttivo, di successo. Quali siano le riforme, e in che direzione vadano, non è in discussione: la direzione è quella naturale, quella del pilota automatico, l’unica strada possibile. Sono le riforme “che ci chiede d’Europa”, quelle dettate nei memorandum dell’austerità: tagliare, privatizzare, liberalizzare.
Nel centrosinistra, il dibattito si concentra sul “riformismo”, parola altrettanto svuotata, perché ridotta a sinonimo di moderazione, di compromesso, di volontà di non cambiare nulla, o, peggio, di adattarsi alla direzione di cambiamento dettata dall’ordine dominante. Riformismo, da Veltroni a Renzi, non è più in opposizione a “conservatore” o a “rivoluzionario”, ma è solo un segnale in codice di rinuncia a qualsiasi velleità di cambiamento radicale. Eppure non è sempre stato così. Agli albori del movimento operaio, a fine ’800, il dibattito sul riformismo tra Bernstein e Kautsky girava soprattutto intorno ai modi e ai tempi della fine del capitalismo: i riformisti ipotizzavano tempi lunghi e immaginavano quindi una lunga e lenta transizione al socialismo fatta di conquiste intermedie. Fu solo dopo la Seconda guerra mondiale che le socialdemocrazie europee iniziarono a pensare il loro riformismo non come una strategia di superamento del capitalismo ma come una serie di miglioramenti possibili alfinterno della cornice economica dominante.
Non a caso in Italia, per distinguersi da questa prospettiva, comunisti e sinistra socialista parlavano di «riforme di struttura» e André Gorz di «riforme non riformiste»: misure di cambiamento radicale il cui obiettivo non fosse migliorare, gestire o pianificare il capitalismo, bensì trasformarlo talmente in profondità da superarlo di fatto, modificando non solo l’economia nazionale ma anche le strutture di potere e i rapporti politici tra le classi. Ma anche in settori più moderati, il lessico della politica italiana dell’epoca va dalla “riforma agraria” alla “riforma sanitaria”: si discute della radicalità del cambiamento, non della sua direzione, sempre progressista.
Se la direzione delle riforme è talmente scontata che non serve citarla, significa che quella direzione è egemonica, che è la direzione del progresso della storia, quella che tutti danno per scontata. Ed è questa probabilmente la chiave del cambio di senso della parola “riforma”: è una parola di proprietà di chi è titolare del senso della storia, della promessa di progresso, dell’orizzonte futuro. Se siamo passati dalle riforme di struttura ai piani di aggiustamento strutturale, è perché negli ultimi quarant’anni a promettere progresso e cambiamento è stato il liberismo nelle sue varie forme, con la sinistra impegnata a difendere l’esistente. Riprendersi la parola “riforma” passa da qui: dall’individuare una promessa di futuro credibile, un’utopia concreta, un orizzonte da conquistare.
*( Cinzia Longo da Internazionale)


06 -È ORA CHE PAGHINO I RICCHI. NUOVA FINANZA PUBBLICA. GOVERNARE SIGNIFICA SCEGLIERE DA QUALE PUNTO OSSERVARE IL MONDO, E LA PANDEMIA OBBLIGA A DECIDERE SE QUESTO MODELLO ECONOMICO-SOCIALE DEVE PROSEGUIRE, di Marco Bersani*.
In attesa che la fondamentale discussione sull’apertura o meno dei campi da sci trovi una conclusione consona alla statura politica e culturale del Paese, è forse giunto il momento di spiegare a governo e classe politica che il rilancio dell’economia -di questa economia- assomiglia alla ruota del criceto, che, per quanti sforzi faccia, si ritrova costantemente al punto di partenza.
Il fatto è che l’idea di essere tutt* sulla stessa barca fa acqua da tutte le parti, e stare su un barcone o su uno yacht non sono solo due modi diversi di viaggiare.

Governare significa scegliere da quale punto osservare il mondo, e la pandemia obbliga a decidere se questo modello economico-sociale deve proseguire, costringendo la gran parte della popolazione a scegliere oggi tra reddito e salute e domani tra debito e diritti, o se è ora che si inverta decisamente la rotta.

“È ora che paghino i ricchi”: quale parte di questa frase non è chiara a governo e arco parlamentare? Proviamo a spiegarglielo con due esempi. Per il primo, ci facciamo aiutare dal rapporto “The State of Tax Justice 2020” redatto da Tax Justice Network, secondo il quale al nostro Paese ogni anno viene sottratto -grazie alla libertà di movimento dei capitali, ai paradisi fiscali e ai paesi a fiscalità agevolata- un valore di 10,5 miliardi di euro, che, per dare l’idea, garantirebbe la copertura dello stipendio di 380.000 infermieri.

Vogliamo aprire un contenzioso forte dentro l’Europa per imporre che la tassazione delle multinazionali sia legata a dove svolgono l’attività e non a dove hanno collocato la sede legale?

Vogliamo dire che, finché non verrà attuata questa disposizione, non ci sono vincoli finanziari che tengano, e si spende tutto quello che è necessario per assumere medici e infermieri per la sanità pubblica e insegnanti e personale per la scuola pubblica?
Per il secondo esempio, ci facciamo aiutare dallo studio 2019 del Boston Consulting Group sulla ricchezza privata, secondo il quale in Italia le persone “affluenti” (con un reddito tra i 200mila e il milione di euro) sono 1,5 milioni. Oltre a queste, 400.000 persone detengono oltre il milione di euro e 36 di loro sono “Paperoni” che possiedono oltre il miliardo di euro.

Vogliamo applicare da subito una tassa patrimoniale progressiva, finendola con la narrazione dello Stato che non può mettere le mani nelle tasche degli italiani, essendo solo quelle dei ricchi sinora intonse? In attesa, vogliamo applicare da subito un raddoppio dell’aliquota sulla ricchezza finanziaria (circa 5mila miliardi) oggi tassata al 26%, ovvero meno di un reddito da lavoro di 16.000 euro/anno?

E vogliamo riformare l’Iva, diminuendo quella sui beni di consumo e aumentando esponenzialmente quella sui beni di lusso?
Abbiamo un sistema fiscale che ha perso dal 1974 la progressività stabilita dalla Costituzione, aumentando le tasse per le fasce deboli della popolazione e diminuendole drasticamente per i super ricchi: se avessimo mantenuto i criteri di allora, oggi le aliquote Irpef andrebbero dal 12% all’86%, invece che avere l’attuale vergognosa forbice che va dal 23% al 43%.

Un sistema fiscale che, dal 1974 ad oggi, ha comportato 146 miliardi in meno di gettito, per ovviare al quale lo Stato è ricorso ai mercati finanziari, accollandosi, in virtù degli interessi composti, quasi 300 miliardi di debito, pari al 13% di tutto il debito accumulato (http://italia.cadtm.org/wp-content/uploads/2018/10/Fisco-Debito1-1.pdf ).
Come si vede, i soldi ci sono, sono tanti e persino troppi. Il problema è che sono tutti nelle mani sbagliate e vanno ricollocati per uscire dall’economia del profitto e costruire la società della cura.
E’ venuto il momento di farlo capire con forza a chi continua a discutere solo di discese libere e di digestivo nella grolla a fine giornata.

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