6556 ILAN PAPPÉ, esponente dei «nuovi storici», "Israele imprigiona Gaza per far fuggire i palestinesi"

20090128 16:37:00 redazione-IT

INTERVISTA di Michelangelo Cocco

[b]«Per il bene dell’Italia, dell’Europa e del Medio Oriente, abbiamo bisogno di una posizione europea molto diversa da quella attuale». Così Ilan Pappé, relatore sabato scorso dell’affollatissimo seminario «La guerra israelo-occidentale contro Gaza», organizzato a Roma dalla sezione italiana dell’International solidarity movement e da ForumPalestina. Secondo lo studioso israeliano – esponente dei «nuovi storici» israeliani – autore di La pulizia etnica della Palestina (Fazi) – il nostro paese «gioca un ruolo importante nel formulare la posizione del Vecchio continente. E se continuerà con la posizione attuale, le prossime generazioni ricorderanno le sue élite attuali come quelle che hanno giocato un ruolo molto negativo, contribuendo alla distruzione del popolo palestinese e destabilizzando la sicurezza internazionale».[/b]

[b]L’esecutivo israeliano sostiene di aver raggiunto la maggior parte degli obiettivi di «Piombo fuso», ma il governo di Hamas controlla ancora Gaza e i palestinesi stanno ricostruendo i tunnel che collegano Rafah all’Egitto. Quali erano allora gli obiettivi dell’offensiva militare?
Riprendersi dalla sconfitta subita due anni prima in Libano e ristabilire il potere di deterrenza dell’esercito. Sconfiggere militarmente Hamas, che assieme a Hezbollah rappresenta l’unico che si oppone veramente a Israele. Inoltre, non c’è una vera politica nei confronti della Striscia di Gaza: gli israeliani la vogliono controllare indirettamente, ma non sanno come comportarsi con i suoi abitanti. E se i palestinesi resistono, mettono in atto punizioni collettive sempre più estreme. Le tre settimane di massacri hanno messo a nudo anche quest’ultimo elemento.

Qual è la differenza tra «Piombo fuso» e le precedenti campagne militari d’Israele contro i palestinesi?

La strategia è la stessa, ma questa volta c’è stata un’escalation nella forza utilizzata, nella licenza d’uccidere concessa alle truppe. La prossima operazione potrebbe essere ancora più pesante.

Il 96% dei cittadini ebrei d’Israele ha appoggiato quest’operazione militare. Come spiega un simile atteggiamento?

Stiamo parlando della stessa società che, nel 1948 e nel 1967, ha espulso i palestinesi dalle loro terre. Dopo 60 anni d’indottrinamento, di de-umanizzazione dei palestinesi, di demonizzazione dei palestinesi, ucciderne un migliaio in tre settimane non ha rappresentato un grosso problema. I media, la cultura politica, hanno preparato la società ad accettare questi massacri come «un atto di autodifesa». Fino a quando la società non comincerà a liberarsi dell’ideologia sionista, non potrà verificarsi alcuna seria opposizione nei confronti di operazioni come «Piombo fuso».

Tuttavia piovono accuse di «crimini di guerra», mentre perfino gruppi di ebrei israeliani chiedono di boicottare lo Stato d’Israele per come tratta i palestinesi. Non crede che uno degli effetti delle stragi sarà l’isolamento dello Stato ebraico?

Me lo auguro, ma non credo che Israele venga fermato da iniziative di questo tipo. La Corte internazionale di giustizia ha condannato il Muro dell’apartheid ma questo non ha cambiato di un pollice le politiche israeliane. Forse però un processo si sta mettendo in moto, voglio sperarlo.

Lei è a favore del boicottaggio, anche quello accademico e culturale. In che modo ritiene che misure simili possano favorire il processo di pace?

Se il boicottaggio avesse successo, l’élite culturale e intellettuale israeliana sentirebbe che non è accettata, a causa della sua complicità o indifferenza verso le politiche governative. Sarebbe costretta ad agire, perché non può vivere senza essere parte del mondo occidentale. Da sola, una misura del genere non sarebbe abbastanza: per un vero cambiamento occorre una politica generale che prema per realizzarlo. Ma sarebbe un buon inizio, perché questi intellettuali hanno un ruolo centrale nel creare, in Israele, l’immagine di uno Stato ebraico appoggiato da tutto l’occidente nella sua battaglia contro i palestinesi.

Dalla «nakba» nel 1948-’49 all’operazione «Piombo fuso» 60 anni dopo: il movimento nazionale palestinese sembra morto.
Non è morto, ma in crisi profonda: di unità, scopi, strategia. Il movimento di liberazione palestinese, comunque, non è mai stato in buone condizioni. Credo tuttavia che abbia le potenzialità per arrivare a una leadership e una strategia migliori. Ma molta della responsabilità per lo stato in cui si trova è del mondo occidentale, questo problema non è stato creato dai palestinesi ma dall’Europa. Il fatto che i palestinesi meriterebbero una leadership migliore non ci esime, qui in Europa, dal fare del nostro meglio per sostenerli.

Nel suo ultimo libro lei sostiene che, a partire dagli anni ’30 del secolo scorso, il movimento sionista elaborò un piano per realizzare la pulizia etnica dei palestinesi. Oggi però operazioni simili sono inimmaginabili: i due popoli sono destinati a vivere assieme. Ma in quale forma?

Qualche anno fa sembrava impossibile che Israele uccidesse 400 bambini palestinesi in pochi giorni. Invece l’ha fatto, senza che il mondo abbia mosso un dito. Ciò significa che potrebbe, ad esempio, espellere migliaia di persone e in Italia, o in Gran Bretagna, i governi non si opporrebbero. Credo però che gli israeliani non abbiano bisogno di una pulizia etnica come quella del 1948. La strategia è un’altra: tenere «in prigione» Gaza e metà della Cisgiordania, così molti lasceranno il paese. Se ne avranno bisogno, lanceranno una nuova pulizia etnica, o un genocidio, o l’occupazione. Questi sono gli strumenti. Ciò che conta è che la strategia non è cambiata e, a giudicare dalle reazioni internazionali, Israele sente di avere davvero pochi limiti rispetto a quello che può fare, pulizia etnica inclusa.

Quindi lei ritiene che la strategia sia quella della pulizia etnica, non la creazione di un regime di apartheid?

Si tratta di due elementi che – come nel caso del regime segregazionista del Sudafrica – non possono essere separati: apartheid significa creazione di aree riservate soltanto a un popolo. Le puoi ottenere dalla separazione o dall’espulsione di uno dei popoli, o dall’uccisione. Sono soltanto mezzi, che fanno parte della stessa ideologia.[/b]

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EmiNews 2009

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