6543 Arance amare. Vivere alla giornata tra Rosarno e Gioia Tauro

20090127 14:36:00 redazione-IT

Costretti a vivere in capannoni abbandonati, senza luce né acqua. Impiegati in nero, alla giornata, per una paga che raramente supera i 25 euro. Sono almeno 2.000 persone. Molti senza documenti

ROSARNO – Costretti a vivere in capannoni abbandonati, senza luce né acqua. Impiegati in nero, alla giornata, per una paga che raramente supera i 25 euro. Sono i raccoglitori delle arance della campagna tra Rosarno, San Ferdinando e Rizziconi, in provincia di Reggio Calabria. Sono almeno 2.000. Sono tutti immigrati: ghanesi, marocchini, ivoriani, maliani, sudanesi. E quasi tutti senza documenti. È una storia che dura da vent’anni. Arrivano a dicembre, per l’inizio della raccolta dei mandarini. E vanno via a marzo, dopo la raccolta delle arance. Quest’anno però la stampa nazionale si è accorta di loro. È successo lo scorso 13 dicembre, quando alcune centinaia di immigrati africani hanno marciato verso il centro di Rosarno, sfasciando qualche cassonetto per protesta.

Il giorno prima, due ragazzi ivoriani di 20 e 21 anni erano stati feriti dagli spari di una pistola. Una ritorsione, secondo gli inquirenti, dopo una rapina andata male. A un mese dai fatti, siamo tornati a Rosarno. Abbiamo visitato le baraccopoli. Siamo usciti all’alba sulle piazze dove si cerca lavoro. E abbiamo scoperto una situazione molto complessa. Dove i proprietari degli aranceti sono i figli dei braccianti che fecero le lotte per le occupazioni delle terre dopo il fascismo. Dove ogni domenica una signora di 85 anni prepara da mangiare agli immigrati che vivono nella vecchia fabbrica in città. E dove un gruppo di avvocati sta cercando di aiutare gli immigrati senza documenti, che qua sono praticamente tutti.

Eppure le contraddizioni restano. L’emergenza abitativa nelle baraccopoli ricavate dentro le due vecchie fabbriche alla Rognetta e alla Cartiera è evidente. Mancano servizi igienici, acqua corrente, elettricità e riscaldamento. "Molti si ammalano qui”, dice Saverio Bellizzi, coordinatore del progetto a Rosarno di Medici senza frontiere. Le condizioni di lavoro sono dure. Ma non c’è lo stesso caporalato della Puglia. La maggior parte delle aziende agricole sono di piccoli produttori. Che vengono direttamente in piazza, ogni mattina, a caricare i quattro o cinque braccianti di cui avranno bisogno per al massimo una settimana. E non sono nemmeno negrieri. In una diffusa economia sommersa, qua il lavoro nero è la norma. E la paga di 25 – 28 euro per le otto ore di lavoro, non è così distante dai 32 euro negoziati dal contratto provinciale di Reggio Calabria. I produttori risparmiano soprattutto sui contributi. Un lavoratore in regola costerebbe sui 40 euro lordi. Ma il settore degli agrumi è in profonda crisi. Le clementine si riescono ancora a vendere a 28 centesimi al chilo. Ma il prezzo delle arance è crollato a 7 centesimi. Eppure nei supermercati si comprano a oltre un euro. Colpa dei tanti passaggi della trasformazione. E di un cartello che – in terra di mafia – ha bloccato lo sviluppo delle cooperative create negli anni passati dai piccoli produttori.

Così lo sfruttamento – come un domino – si ripercuote sull’ultimo anello della catena: i lavoratori. Assunti senza tutela. Anche nel caso dei comunitari, che vengono ingaggiati, per non aver problemi con l’ispettorato del lavoro, ma ai quali non sempre vengono pagate le effettive giornate di lavoro. Senza parlare dei non comunitari. Quasi tutti senza permesso di soggiorno. Quasi tutti non potranno regolarizzarsi per i prossimi dieci anni, avendo ricevuto un decreto di espulsione con divieto di reingresso in Italia. E allora il problema sembra trascendere Rosarno. C’è in Italia un esercito di uomini illegali, costretti alla clandestinità dai meccanismi della legge sull’immigrazione, che vagano da una campagna all’altra del sud. Seguendo le stagioni: i pomodori a Foggia, le arance a Rosarno, le primizie a Caserta, le olive ad Alcamo, le patate a Cassibile. E vanno così a tappare i buchi di un’agricoltura che al sud è sempre più in crisi. In quello stesso sud che dopo la seconda guerra mondiale si distinse per le dure lotte contadine del movimento delle occupazioni delle terre.

(Gabriele Del Grande)

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Un inferno chiamato Rosarno
da Il Manifesto del 20 dicembre 2006

Il lavoro stagionale e schiavistico nei campi della piana di Gioia Tauro, per conto della ’ndrangheta e per pochi euro all’ora. Il razzismo, le spedizioni punitive e la prostituzione. E per alloggio un’ex cartiera abbandonata. Viaggio tra gli immigrati di Rosarno, Calabria.
Nell’Italia che non si vede

Alessio Magro
Rosarno – Stanno sul bordo della strada, con le buste di plastica in mano, gli stivali di gomma ai piedi. Aspettano di essere scelti per una giornata di lavoro.
Come al mercato degli schiavi. Sono l’esercito delle arance, le braccia che mandano avanti i campi nella piana di Gioia Tauro, profonda Calabria. Aspettano i caporali, con i loro pick-up, pronti a spaccarsi la schiena dieci o dodici ore per 20-25 euro. Aspettano, attenti a non farsi investire dalle auto che passano sulla Nazionale, perché a Rosarno i marciapiedi non ci sono. E perché c’è chi fa a gara a colpire il negro o il rumeno. Chi è fortunato acquista il diritto ad essere sfruttato. Ma anche quello si paga: 5 euro a testa per il trasporto fino agli aranceti. A volte bisogna farsela a piedi. Li vedi in fila dietro il guard-rail, tre-quattro chilometri sull’autostrada per abbreviare il tragitto. Gli altri tornano a casa, si fa per dire.
Storie comuni. Lo sbarco a Lampedusa, il trasferimento al cpt di Isola Capo Rizzuto. E da lì «mi hanno mandato a Milano», dice Marco. È senegalese, si fa chiamare così. Mille euro per scappare dal Sant’Anna, i documenti sequestrati fino al saldo della somma. Poi i trasferimenti seguendo il ritmo della campagna. Le metropoli del Nord, le serre del salernitano, d’estate i pomodori a Foggia, poi Pachino e in autunno le arance a Rosarno. Campania, Puglia, Sicilia, Calabria. Camorra, sacra corona unita, ’ndrangheta e mafia. Nelle mani dell’agenzia schiavi, un’organizzazione ben oleata. Lo dicono anche le recenti inchieste della Dda di Catanzaro: una cellula smista i connazionali dove c’è lavoro, la centrale operativa è a Crotone, i collegamenti in tutt’Italia.
Dietro non può non esserci una regia occulta, i boss che non hanno mai lasciato le campagne. Richiedono la manodopera, mettono a disposizione i mezzi di trasporto e si arricchiscono nell’ombra.
Anche a Rosarno ad aiutare i padroni italiani ci sono i kapò stranieri. Curano la logistica, assoldano le braccia, tengono a bada la propria gente, con le buone o con le cattive. E, perché no, tengono i contatti con le autorità, che fanno finta di non vedere. Niente controlli, nessuna tutela. Sono fantasmi che servono per mandare avanti l’industria degli agrumi. E allora, durante la stagione della raccolta, le sirene tacciono. Poi arrivano le retate ad orologeria: qualche arresto, un pugno di espulsioni per far quadrare i conti. Ogni tanto un blitz: botte e sconquassi per rimettere ordine nei periodi di tensione.
Dalla fine degli anni ’90, il sistema si è perfezionato. E Rosarno è diventata forse il luogo dove la Bossi-Fini ha dato i suoi frutti più amari. Un fallimento totale. O, se si cambia punto di vista, un successo pieno. Senegalesi, ghanesi, liberiani, ivoriani, la gran parte costretti alla clandestinità o comunque al lavoro nero. Perché il sistema dei flussi si basa sulla percentuale di disoccupati: più stranieri al Nord, dove c’è più lavoro. Al Sud la richiesta è alta nei periodi di raccolta, ma nei campi non ci va più nessuno. Dunque, l’accesso regolare alle campagne è negato ai migranti. Ci sono poi i richiedenti asilo che non possono lavorare, ma sono costretti a farlo per sopravvivere, a qualunque condizione. E così accanto alle poche centinaia di stranieri regolari, in autunno lavorano più di quattromila migranti fuori dalla legge, sfruttati all’inverosimile. I falsi braccianti rosarnesi prendono il sussidio senza far nulla. E la ’ndrangheta ringrazia.
In pochi possono permettersi una casa. E se riescono ad affittare quattro mura, dormono in sei o sette in una stanza. Per le badanti dell’Est le opportunità sono maggiori. Anche i rumeni se la passano un po’ meglio, per loro c’è il lavoro nei cantieri edili. Uomini di fatica a 50 euro a giornata. Ma i soprusi e gli infortuni sono di routine. Se ti ammali, poi, nessuno ti aiuta.
«Il padrone non mi ha pagato, ho il braccio rotto e non riesco più a lavorare». Dimitri, 23 anni, dalla Romania in Italia per sfiancarsi sui ponteggi. Accade che qualcosa va storto, una manovra errata e una caduta. Con una mano sola non si può lavorare e allora a casa senza un euro.
Per gli africani è ancora più dura. Vivono in miseria negli angoli più degradati della squallida Rosarno. Denigrati, emarginati, colpiti dal razzismo di chi ha dimenticato i parenti «germanesi», gli emigranti di Little Italy o Marcinelle. A pochi passi dalla stazione, un recinto di ferro sigilla villa Fazzari. Abbandonata dopo la confisca al boss. E lo sgombero. Lì ci vivevano fino a qualche anno fa i campesinos della Piana. Un’occupazione insopportabile per gli ’ndranghetisti. Più giù, sotto un cavalcavia, un gruppo di disperati ha sistemato le proprie cose. Vengono dall’Africa sub-sahariana. Vivono senz’acqua e luce. Mangiano quando possono alla mensa della Caritas.
Parlano poco, sguardo basso, ascoltano e stanno zitti.
Un motorino d’altri tempi s’avvicina. A bordo un ragazzo senza casco, riccioli e occhi neri. Abdul vive in un casolare a due passi dal commissariato di polizia. Si entra per uno squarcio tra le lamiere. Un gruppetto esce da uno stanzone. Fumano, ridono, sembrano immuni alla fatica. Dentro dieci materassi, il fornello e poco altro. Poco più giù un pozzetto per l’acqua. E oltre lo slargo di terra battuta, sotto il viadotto dell’A3, una casetta con l’orto. Ci abita una famiglia straniera. Ma l’accesso è off-limits. Sono loro a riscuotere l’affitto da Abdul. Alle spalle della cittadina, il primo avamposto dei sans papiers. Si va lungo la Nazionale, poi una sterrata attraversa un torrente. Un camioncino sbarra il passo. È carico di lastre di eternit, retaggio di una demolizione da smaltire a costo zero. Oltre la fiumara un fabbricato nudo e abbandonato. Ci vivono in cinquanta. Come meglio possono.
L’hotel Africa di Rosarno è a pochi chilometri, lungo la strada che va a San Ferdinando e al porto di Gioia. Un’ex cartiera abbandonata e sventrata. Dentro in pochi, ad attendere i fratelli che tornano dai campi, ciondolando nel cortile o stesi nelle tende da campeggio sistemate al piano terra. Una lambretta s’avvicina al varco. Un urlo, «curnuti». L’uomo alla guida s’accorge delle presenze estranee, ingrana la marcia e riparte. I ragazzi dell’hotel Africa neanche ci fanno caso, sono abituati a tutto. Alle violenze e alle minacce, alle botte e alle spedizioni punitive. Oltre l’accampamento, nel retro dello stabile, uno spazio per le donne. Spesso sono costrette a prostituirsi, carne da bordello.
Lo scorso gennaio, quattro di loro hanno avuto il coraggio di denunciare i loro aguzzini senegalesi. C’era anche il bar per i clienti italiani, poi il sesso mercenario nei box di cartone. Prima era così per tutti, l’affitto per un materasso e due metri quadri di spazio con le pareti fatte di scatole da imballaggio, l’acqua in cortile. Adesso qualcosa è cambiato. Da quando in inverno i ragazzi del circolo Ds «Peppe Valarioti» hanno messo in pratica gli insegnamenti dell’ex sindaco antimafia Peppino Lavorato, il primo ad occuparsi dei migranti di Rosarno. Le visite ogni domenica, il dialogo per conquistare la fiducia, un aiuto fin dove si può. Come nel caso di Victor, nigeriano, in fuga dalle persecuzioni. È finito a Rosarno dopo il lavoro in fabbrica nel Nord-Est. Il primo giorno ha perso due dita, qualcuno aveva rimosso la sicura dal macchinario. Poi un’operazione ai polmoni andata male, le medicine salvavita che costano troppo. Difficili i ricorsi per chi non ha nulla.
Difficile far valere i propri diritti senza un avvocato di fiducia. Ci hanno pensato i ragazzi del centro sociale Angelina Cartella di Reggio: un pool di legali segue le pratiche di un gruppo di migranti, i più fortunati, quelli che hanno con sé i documenti per ottenere l’asilo ed evitare l’espulsione.
Da tempo Rifondazione presidia l’ex cartiera. I Giovani comunisti hanno anche girato un video, dopo il blitz antidroga dei carabinieri in primavera: un pugno di arresti, l’intero stabile messo a soqquadro, in centinaia sbattuti in strada. Dopo la visita del parlamentare no global Francesco Caruso e il caso-choc dei pomodori in Puglia, la deputata Angela Lombardo ha lanciato l’idea di una commissione conoscitiva sulla raccolta dei prodotti ortofrutticoli nel Meridione, a Foggia come a Rosarno.
Qualcosa si è mosso anche grazie a Medici senza frontiere, che ha attivato da aprile un servizio di assistenza medica con l’aiuto dell’Asl e di mediatori culturali. E anche per merito del neo sindaco Carlo Martelli. «Stiamo per acquistare la vecchia cartiera per farne un ostello, garantire posti letto, una doccia, mense, cucine, servizi igienici». I Comuni di Rosarno e San Ferdinando hanno stanziato 20 mila euro ciascuno per un primo intervento di bonifica dell’ex cartiera. Per rimuovere i detriti, l’amianto, l’immondizia. Ma per il centro ne serviranno almeno 200mila. «La mia posizione non è molto ortodossa.
Si parla di irregolari – dice il sindaco – ma non posso fare finta di non vederli. Sono 4mila persone, in un paese di 15mila abitanti». La rivoluzione della normalità. A sera il ritorno, tutti in fila. Scuri, stanchi, sporchi. Le auto sfilano accanto. Ma non si curano di loro, guardano e passano.

[ mercoledì 20 dicembre 2006 ]

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EmiNews 2009

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