7548 MONTEVIDEO: Domenica si vota. Favorito il Fronte amplio, che candida l'ex tupamaro Mujica

20091024 09:15:00 redazione-IT

di Maurizio Matteuzzi

[b]L’anomalia Uruguay[/b]

C’è un paese, piccolo e lontano, in cui la sinistra anziché rinnegare le sue radici e dividersi le rivendica e si unisce (non solo ma, miracolo, riesce a stare insieme). C’è un paese, piccolo e lontano, in cui – un caso forse unico al mondo -, il probabile prossimo presidente della repubblica dice che anziché alzare muri e respingere clandestini aprirà le porte agli immigrati e a chi voglia venirci a vivere e lavorare.
Quel paese è l’Uruguay, piccola enclave con il Rio de la Plata e l’Atlantico davanti e il grande fiume che gli dà il nome dietro, stretto fra due giganti quali Argentina e Brasile che agli inizi del secolo XIX l’hanno invaso e occupato più volte dopo che l’eroe nazionale José Artigas si sollevò contro gli spagnoli nel 1811.
Quella strana sinistra anomala è il Fronte Amplio – una vasta coalizione che va dai comunisti ai democristiani, dai socialisti agli antichi tupamaros, dai socialdemocratici ai trotzkisti, fino ai transfughi dei due partiti storici più o meno centristi, i blancos e i colorados – che ha vinto le ultime elezioni nel 2004 e si appresta a rivincerle domenica prossima.

Quel probabile prossimo presidente della repubblica è José Pepe Mujica, leader del Movimiento de Partecipación Popular (Mpp), il gruppo più forte e più organizzato del Fronte, e l’ex-tupamaro che per quanto ammetta di essersi «pentito di alcune azioni» del gruppo di guerriglia urbana, rivendica la lotta armata di fine anni ’60-inizio anni ’70 come risposta alla «dittatura legale» del presidente colorado Jorge Pacheco Areco.
Il piccolo e lontano Uruguay forse non fa testo in Europa e nel resto del mondo, ma questo suo cammino in controtendenza richiama l’attenzione. Neanche in America latina l’Uruguay fa testo perché è sempre stato, nella sua storia e nonostante la feroce dittatura militare del ’73-’85, qualcos’altro. Una sonnolenta democrazia bipartitica e centrista grazie all’alternanza al potere di blancos e colorados fino al 2004, una «Svizzera australe» grazie alle sue banche e al suo segreto bancario che ne hanno sempre fatto un posto sicuro per capitali puliti e sporchi (dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008 ha rivisto qualcosa per poter uscire dalla lista nera dei paradisi fiscali, ma poca roba, maquillage).
Eppure non è un caso che l’Uruguay, colpito di rimbalzo dal collasso dell’Argentina liberista di inizio secolo, nel 2004 – eleggendo per la prima volta nella sua storia un governo di sinistra – abbia scelto di dare una risposta diversa, anzi opposta, a quelle che sono state date e si danno in Europa. E non è un caso che anche l’Uruguay, che Eduardo Galeano definisce «un paese di conservatori vecchi» (vecchi perché del 20% di uruguayani costretti a emigrare nel ventennio del neo-liberismo selvaggio, la gran maggioranza sono giovani), anche l’Uruguay sia entrato in quell’onda irresistibile di rinnovamento-rinascita dell’America latina.
Entrato a modo suo, alla uruguayana, ma a pieno titolo.
Tabaré Vázquez, il presidente socialista di questi cinque anni, non è il venezuelano Hugo Chávez, il boliviano Evo Morales o l’ecuadoriano Rafael Correa – con cui ha scarsa o nulla affinità – non è il peronista argentino Nestor Kirchner né sua moglie e successore Cristina – che detesta non solo per via della controversa fabbrica di cellulosa piantata sulla riva orientale del fiume Uruguay -, ma non è neanche il brasiliano Lula – la cui politica «gradualista», conciliatrice e moderata lo rende vicino.
Tabaré se ne va dopo cinque anni con lo stesso indice di gradimento di quando cominciò, un altissimo 65%. Se la costituzione glielo avesse consentito e lui avesse voluto ripresentarsi per un secondo mandato, qui tutti sono convinti che questa volta avrebbe stravinto, non come nel 2004 quando prevalse per soli 9000 voti di differenza.
Con Tabaré nessuno si poteva aspettare rotture spettacolari con il passato. Lui aveva promesso solo «cambi possibili». E i cambiamenti ci sono stati. Per questo ci sono buone probabilità che il suo successore sia Pepe Mujica, già da domenica o dopo l’eventuale ballottaggio – peraltro rischioso – del 29 novembre: anche se all’oncologo Tabaré, per storia personale e vocazione politica, l’ex-tupamaro (ed ex-ministro dell’agricoltura del suo governo) Mujica non piace proprio e gli avrebbe preferito il moderatissimo socialdemocratico Danilo Astori, l’ex ministro dell’economia, che invece, dopo le primarie interne, si è dovuto rassegnare alla candidatura di vice-presidente.
Un presidente socialista, un ministro dell’economia socialdemocratico che è stato a un passo da firmare un trattato di libero commercio con gli Stati uniti di Bush (ciò che significava l’automatica esclusione dal Mercosud e la rottura del faticoso processo di integrazione latino-americano), un ministro dell’agricoltura ex-guerrigliero che i candidati blanco e colorado e i giornali ostili chiamano ancora «assassino e terrorista». Il risultato dei cinque anni passati è stato un governo di buona socialdemocrazia con risultati tangibili. Un piano di emergenza sociale contro la povertà estrema che, sul tipo del programma «fame zero» di Lula, ha distribuito un po’ di soldi e un minimo di assistenza medica a 200 mila persone; riduzione consistente della povertà (anche nel civilizzato e svizzero Uruguay un cittadino su tre è povero); crescita del 30% dei salari reali; 200 mila nuovi posti di lavoro; disoccupazione ridotta dal 13 al 7%; recupero dei contratti collettivi e dei consigli salariali. Anche fra il luglio 2008 e luglio 2009, in piena recessione mondiale, il salario reale è aumentato del 7%.
La campagna si è chiusa ieri. I sondaggi danno a Mujica e al Fronte Amplio fra il 46 e il 49%; a Lacalle, che un giornale di qui ha definito «il Berlusconi uruguayano» per l’origine più che dubbia della sua fortuna e le disavventure giudiziarie, il 30-32%; e a Pedro Bordaberry, candidato colorado con la stigmate di essere figlio di Juan Maria Bordaberry, presidente-burattino durante la dittatura militare, fra il 12 e il 16%. Per vincere ci vuole un voto in più del 50%. Manca poco. Domenica si voterà anche per due referendum. Uno per consentire il voto epistolare all’infinità di uruguayani costretti all’emigrazione e uno per la cancellazione dell’infame legge d’impunità di cui parla Eduardo Galeano. Potrebbe essere un bel giorno di primavera australe per l’Uruguay.

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20091023/pagina/08/pezzo/262987/

 
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EmiNews 2009

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