n° 30 – 27 luglio 2024 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALE ED INTERNAZIONALI NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO.

01 ­La Sen. Marca (PD) interviene nel corso dell’audizione al Ministro Tajani in Senato.
02 – Andrea Colombo*: Mattarella: «Eversivi gli atti contro l’informazione» – LA SVENTAGLIATA. Il duro intervento del presidente dopo le parole di La Russa sul giornalista picchiato.
03 – Alberto Negri*: I lotofagi della politica Usa (e italiana) – TRA GAZA E L’ODISSEA. Per avere successo una campagna elettorale americana (e non solo lì) deve contare su un elemento fondamentale, oltre ai soldi: elettori smemorati. Questo vale anche per il discorso del premier […]
I lotofagi della politica Usa (e italiana).
04 – Enrico Paventi*: tra storia e politica, il rapporto tra sinistra e identità nazionale.
05 – Makena Kelly Lauren Goode*: Kamala Harris si è già ripresa un pezzo della Silicon Valley
Dopo il ritiro di Biden e l’investitura della sua vice, l’entusiasmo e le donazioni dei sostenitori Dem nel settore tecnologico americano sembrano tornati
06 – Lelio La Porta*: Partito e intellettuali dalla Liberazione al ’68 – SAGGI. Alessandro Barile, «Una disciplinata guerra di posizione. Studi sul Pci», per Franco Angeli. Un’ampia analisi che indaga anche il ruolo di Rossanda
07 – Claudia Fanti*: La povertà globale si sconfigge tassando i ricchi. Parola di Lula – G20. Il presidente brasiliano alla guida del G20 punta a inserire la proposta nel documento finale. Previsto un gettito di 250 miliardi di dollari prelevando il 2% dai super patrimoni

00 – UNA FIRMA PER L’ITALIA!
Una firma per l’Italia, E’ possibile firmare online per il referendum contro l’autonomia differenziata
Finalmente è possibile firmare online a sostegno del referendum per abrogare l’autonomia differenziata!
E’ stata infatti resa accessibile la piattaforma pubblica per la firma online.
1. Per iniziare apri il link: https://pnri.firmereferendum.giustizia.it/…/dett…/500020 e accedi con lo SPID, la CIE o la CNS
2. Scorri l’elenco delle iniziative e clicca su “Contro l’autonomia differenziata. Una firma per l’Italia unita, libera, giusta” (il numero dell’iniziativa è 500020)
3. Premi su sostieni iniziativa o accedi, clicca su continua SPID, la CIE o la CNS
E’ bene condividere questa procedura con tutti i vostri contatti.
pnri.firmereferendum.giustizia.it
Referendum e iniziative popolari
By redazione3
Luglio 26th, 2024

01 ­La Sen. Marca (PD) INTERVIENE NEL CORSO DELL’AUDIZIONE AL MINISTRO TAJANI IN SENATO. IL 25 LUGLIO, LA SEN. LA MARCA È INTERVENUTA NEL CORSO DELL’AUDIZIONE DEL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE, ANTONIO TAJANI, AL SENATO PER SOTTOPORRE AL MINISTRO ALCUNE QUESTIONI CHE AFFLIGGONO I CONNAZIONALI RESIDENTI ALL’ESTERO.

La Senatrice La Marca, alla fine della relazione del Ministro, nel corso del suo intervento, ha sollevato nuovamente la necessità di semplificare i portali “Prenot@mi” e “Fast It” per renderli più agevoli, in seguito alle sollecitazioni ricevute. La Marca ha poi illustrato la situazione dei Consolati e delle prenotazioni degli appuntamenti consolari.
“Al mio ufficio arrivano continue sollecitazioni dai nostri connazionali sulla carenza di servizi e di personale”, ha dichiarato la Senatrice e su questo ha chiesto al Ministro lo sforzo straordinario di prevedere, in tempi brevi, un investimento cospicuo che riesca a rispondere all’esigenza di aumento del personale nei Consolati in maggiore difficoltà.
LA SECONDA QUESTIONE sulla quale si è soffermata la Senatrice è quella degli enti promotori di lingua e cultura che, in seguito all’ultima circolare 4 del 2022, vivono una situazione di difficoltà a causa delle nuove modalità di finanziamento in essa contenute. “Occorre una rapida revisione della circolare, come ho avuto modo di dichiarare in altre occasioni – ha proseguito la Senatrice – per far sì che Enti gestori storici, come ad esempio il Picai di Montreal, non chiudano i battenti e cessino le proprie attività”.
TERZA E ULTIMA QUESTIONE sollevata dalla Senatrice è stata quella del Turismo delle Radici; cinque milioni di euro, i fondi stanziati quest’anno per 850 Comuni. La Senatrice ha chiesto al Ministro di fare chiarezza sull’utilizzo dei fondi spesi e sulle iniziative avviate nell’ambito del programma sul Turismo delle Radici.
Nella sua replica il Ministro Tajani ha risposto alle domande poste dalla Senatrice La Marca. In merito ai fondi per il Turismo delle Radici, si è segnalato come i fondi siano stati già inviati ai piccoli Comuni che li avrebbero spesi in progetti di diffusione e promozione del territorio. Rispetto ai servizi consolari, il Ministro ha precisato come, sono stati intrapresi accordi con la Polizia, i Carabinieri e la Guardia di Finanza per aumentare la sicurezza e il controllo nel corso dello svolgimento delle ordinarie mansioni. In chiusura, il Ministro ha ricordato di aver convocato una riunione pochi giorni prima con i sindacati dei lavoratori per affrontare la questione del personale nelle sedi consolari.
“Ringrazio il Ministro Tajani per la sua replica. Sono costretta a sottolineare però che le risposte sono state vaghe e superficiali soprattutto in merito alla richiesta di maggior investimenti in personale e enti gestori. Condivido la necessità di maggior sicurezza nelle sedi consolari ma reputo queste misure altamente insufficienti per migliorare i tempi e la professionalità nell’erogazione dei servizi, questioni più urgenti rispetto alle altre. Continuerò a lavorare affinché il Governo si faccia carico delle problematiche che stanno maggiormente a cuore dei connazionali all’estero”. Così la Senatrice La Marca al termine dell’audizione.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)

02 – Andrea Colombo*: MATTARELLA: «EVERSIVI GLI ATTI CONTRO L’INFORMAZIONE» – LA SVENTAGLIATA. IL DURO INTERVENTO DEL PRESIDENTE DOPO LE PAROLE DI LA RUSSA SUL GIORNALISTA PICCHIATO
DEL RESTO NON CERTO A CASO SERGIO MATTARELLA SOTTOLINEA CHE TRA LE FUNZIONE COSTITUZIONALI CHE LA CARTA ASSEGNA AI GIORNALISTI C’È «LA DOCUMENTAZIONE DI QUEL CHE AVVIENE, SENZA OBBLIGO DI SCONTI», IL FAR LUCE «SU FATTI SIN LÌ TRASCURATI».
È probabile che, come segnalano le fonti del Colle, la prolusione sulla libertà d’informazione ci sarebbe stata anche senza i fatti degli ultimi giorni, nel solco di quella sulla democrazia di alcune settimane fa. Il presidente della Repubblica si sarebbe comunque soffermato sul ruolo essenziale della libera informazione nelle democrazie e sulla necessità di «una nuova legge organica» adeguata ai tempi, in grado cioè di misurarsi con la «evoluzione tecnologica che ha mutato radicalmente diffusione e fruizione delle notizie».
QUEST’ULTIMA ESIGENZA Mattarella la ha sottolineata quasi nel dettaglio prendendo di mira i tycoon dei nuovi media che si comportano come se «occupassero uno spazio meta-territoriale che li rende capaci di intercettare opportunità economiche senza considerare che anche per essi valgono i princìpi di convivenza civile propri agli Stati e alla comunità internazionale da cui traggono benefici».
Ma certamente Mattarella ha rivisto e reso più acuminati alcuni passaggi date le circostanze, come il riferimento preciso all’aggressione subìta a Torino da Andrea Joly: «Si vanno infittendo contestazioni, intimidazioni, quando non aggressioni contro giornalisti che documentano fatti. Ma l’informazione è esattamente questo». Il discorso in perfetta sincronia con il report europeo che documenta l’arretramento della libertà di stampa in Italia è davvero solo una coincidenza. Ma di quelle sin troppo eloquenti.

ALTRETTANTO ELOQUENTE è il mutismo con cui la maggioranza ha accolto la staffilata. Si è fatto sentire solo il Fratello Mollicone, presidente della commissione Editoria della Camera, per plaudire alla richiesta di riforma avanzata dal presidente. Tutto il resto deve essergli sfuggito. La premier Giorgia Meloni, che aveva cercato di ricucire i rapporti il giorno prima con gli auguri telefonici al presidente per il compleanno, se la prende in privato con l’incontinenza di Ignazio La Russa. Ma nel mirino di Mattarella c’era anche e forse soprattutto chi lo aveva chiamato in causa per censurare Fanpage, cioè lei stessa.
Quel che alla maggioranza non potrà sfuggire è il monito, anche questo di inusuale durezza, su due capitoli che riguardano direttamente l’azione, o meglio l’inazione del governo e della maggioranza: la mancata elezione del quindicesimo giudice della Corte costituzionale e le carceri. Arrivano dopo una discorso a tutto campo, dalla guerra in Ucraina, con riferimenti precisi alla resa di Monaco nel 1938, all’odio politico che arma la mano degli attentatori sino all’antisemitismo, senza risparmiare una poco velato richiamo allo sgangherato tifo pro Trump del vicepremier leghista Matteo Salvini. Sono due passaggi per Mattarella importantissimi.
Il ritardo nell’elezione del giudice è «un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento» al quale il guardiano della Carta esige che si metta riparo al più presto. Il parlamento temporeggia perché aspetta di nominare anche altri giudici, secondo la logica del pacchetto. Ma questo, per Mattarella, equivale a mancare di ogni senso delle istituzioni e lo dice più chiaramente di come non si può. Le nomine devono essere individuali e per merito, non di gruppo e per spartizione.
SULLE CARCERI il presidente della Repubblica usa parole più forti di quanto abbia mai fatto: «Descrizione straziante», «Condizioni angosciose per chiunque abbia sensibilità e coscienza». Indica una strada precisa: «In molti casi è possibile un diverso modello carcerario. È un dovere perseguirlo. Ovunque, subito». Però non sarà ascoltato. La soluzione del problema, per questa destra, va nella direzione opposta: più galere
*( Andrea Colombo è un giornalista, scrittore e commentatore politico italiano.)

03 – Alberto Negri*: I LOTOFAGI DELLA POLITICA USA (E ITALIANA) – TRA GAZA E L’ODISSEA. PER AVERE SUCCESSO UNA CAMPAGNA ELETTORALE AMERICANA (E NON SOLO LÌ) DEVE CONTARE SU UN ELEMENTO FONDAMENTALE, OLTRE AI SOLDI: ELETTORI SMEMORATI. QUESTO VALE ANCHE PER IL DISCORSO DEL PREMIER […] I LOTOFAGI DELLA POLITICA USA (E ITALIANA)

Per avere successo una campagna elettorale americana (e non solo lì) deve contare su un elemento fondamentale, oltre ai soldi: elettori smemorati. Questo vale anche per il discorso del premier israeliano Netanyahu al Congresso che è stato disertato dalla candidata Kamala Harris, attaccato pesantemente da Nancy Pelosi. Il tutto evidentemente per attirare il voto delle minoranze arabe, musulmane e filo-palestinesi. E meno male che è stato accompagnato dalle proteste vibranti davanti (e dentro) a Capitol Hill violentemente represse con centinaia di arresti, con in prima fila i giovani ebrei contro l’occupazione e dalle parole inequivocabili di Bernie Sanders: “Come Sinwar, Netanyahu è un criminale di guerra”.
L’elettore democratico smemorato infatti deve dimenticare che il Congresso e questa amministrazione Biden in primavera – a massacro di Gaza ampiamte in corso – ha approvato un pacchetto di aiuti militari a Israele di oltre 26 miliardi di dollari. Deve dimenticare che gli Usa hanno aumentato quella potenza militare che già aveva visto l’amministrazione Obama stanziare per Tel Aviv 38 miliardi di dollari. Figuriamoci cosa accadrebbe se dovesse esplodere il fronte con il Libano o incendiarsi il Mar Rosso nel mirino degli Houti yemeniti. Questo è ovviamente l’”asse del male” capeggiato dall’Iran cui fa riferimento Netanyahu per il quale Israele e Stati uniti si dettano reciprocamente la linea della politica estera.
Biden che era salito alla Casa Bianca dicendo di volere riaprire i negoziati con Teheran, dopo che Trump aveva cancellato gli accordi del 2015 voluti da Obama, ben poco ha fatto al riguardo. L’elettore smemorato per dare il suo voto alla Harris deve dimenticarsi pure di questo. Ovvero del fatto che gli Stati uniti sono interessati ad alimentare un clima di scontro perenne in Medio Oriente, esattamente come vuole Israele per giustificare l’occupazione e gli insediamenti nei territori palestinesi. Il clima di apartheid non cambia.
Netanyahu che ieri ha incontrato Biden e la Harris e oggi va da Trump forse non se la passerà così male neppure se vincono i democratici. Certo Trump ha garantito a Israele il riconoscimento di Gerusalemme capitale dello stato ebraico, l’occupazione perenne delle alture siriane del Golan in corso dal 1967, e ha forgiato quel patto di Abramo con le monarchie arabe che per altro Biden ha ereditato in pieno. Il premier israeliano preferisce Trump, vorrebbe evitare elezioni fino a novembre per restare in sella, ma non è detto che poi si troverà tanto peggio con i democratici alla Casa Bianca. Chi oserebbe trattare Netanyahu come un ricercato delle corte penale internazionale, che per altro gli Usa non riconoscono? La politica del doppio standard è destinata a continuare sotto ogni amministrazione americana e le dichiarazioni da campagna elettorale lasciano il tempo che trovano. L’elettore è smemorato per definizione.
Anche da noi qui in Italia si pratica una politica dell’oblio. In concomitanza con la visita a Roma del presidente israeliano Herzog dobbiamo dimenticarci l’Italia ha continuato a fornire armi a Israele anche durante la guerra di Gaza, fare finta di niente sul fatto che l’Eni in ottobre, a ostilità cominciate da settimane, avesse accettato da Tel Aviv un appalto di esplorazione sul gas davanti alla Striscia che appartiene ai palestinesi. Non ne avremmo saputo nulla se non ci fosse stata una denuncia di un studio legale americano. Ignorare, come facciamo del resto regolarmente, che con lo stesso Netanyahu questo governo ha firmato nel marzo 2023 un appalto per la cybersecurity che allora spinse il capo della nostra agenzia alle dimissioni. Silenzio.
Dobbiamo dimenticare le dichiarazioni del ministro della Difesa Crosetto a Gerusalemme quando disse che «gli israeliani avvertono sempre i civili prima dei bombardamenti su Hamas». Deve essere sicuramente così che è accaduto anche il 13 luglio a Gaza quando caccia e droni israeliani hanno bombardato Al Mawasi, che l’esercito aveva indicato come unica zona sicura per gli abitanti della Striscia. Una superficie di 6,5 chilometri quadrati dove Israele vorrebbe rinchiudere un milione e 800mila persone che hanno perso tutto. Il risultato è stato un massacro con dozzine e dozzine di civili uccisi. E la strage continua ogni giorno.
Ma gli italiani, almeno secondo il nostro governo, sono i migliori alleati della politica americana bi-partisan in Medio Oriente. Il nostro tasso di oblio è altissimo e chi osa protestare o anche soltanto ricordare la verità viene trattato come un pericoloso sovversivo. Chi non dimentica sono i palestinesi e i nostri interlocutori arabi nella regione – altro che Piano Mattei – utili nello “scambio” migranti-petrolio, comunque perfettamente consci che l’Italia non ha avuto neppure il coraggio di votare per uno Stato palestinese. Vorrebbero che come i marinai di Ulisse mangiassimo il dolce frutto del loto che, guarda caso, si trovava nel mito dell’Odissea sulle coste libiche. Un porto sicuro, vero?
*(Alberto Negri (Milano, 1956) è un giornalista e reporter di guerra. Per «Il Sole 24 Ore» ha seguito dal 1987 al 2017 i principali eventi politici e bellici .)

04 – Enrico Paventi*: TRA STORIA E POLITICA, IL RAPPORTO TRA SINISTRA E IDENTITÀ NAZIONALE – SAGGI. JACOPO CUSTODI RIPERCORRE L’ITINERARIO DI UN’IDEA DALLA RESISTENZA FINO AI NO-GLOBAL

CHE COS’È UNA NAZIONE? COME È POSSIBILE INTERPRETARE QUESTO CONCETTO AL GIORNO D’OGGI?
È proprio inevitabile, a riguardo, subire l’influenza della propaganda politica? Sinistra e identità nazionale sono nozioni necessariamente in perenne antitesi? Si tratta di domande che sollevano questioni sulle quali il dibattito sociologico, storico-politologico e politico continua a essere vivace.
MUOVENDOSI AGILMENTE tra teoria politica e storiografia, facendo in particolare riferimento al pensiero del sociologo anglo-irlandese Benedict Anderson, che definisce la nazione una «comunità politica immaginata, intrinsecamente limitata e sovrana», il ricercatore Jacopo Custodi articola questo suo saggio, dal titolo Un’idea di paese. La nazione nel pensiero di sinistra (Castelvecchi, pp, 117, euro 15), in maniera lucida ed esauriente.
Lo studioso vede nell’identità nazionale la presenza di un senso di appartenenza comune assai profondo e di una notevole forza simbolica, e ce ne propone una nuova concezione nell’intento di giungere a formulare in proposito un’idea progressista, nazional-popolare (costruita cioè sul serrato legame con il «popolo-nazione»), inclusiva e solidale.
CUSTODI OSSERVA come da Garibaldi ai Gruppi di Azioni Patriottica, dal Pci ai movimenti no-global, la sinistra possa vantare una lunga tradizione di patriottismo, un sentimento che essa ha declinato in modo evidentemente assai diverso rispetto a quanto fa oggi la destra: non un’Italia chiusa e monoculturale che difende i propri confini dalla cosiddetta «invasione» degli immigrati, ma un paese consapevole e orgoglioso della propria cultura, che si rivela nel contempo aperto al mondo, alla conoscenza dell’altro a all’interazione dinamica con tutto quanto caratterizza quest’ultimo. Dal momento che, scrive l’autore: «La nazione può essere intesa come popolo multietnico e multiculturale, o come comunità basata su una singola razza o una singola cultura».
Vari sondaggi mostrano inoltre come una cospicua percentuale di cittadini europei si identifichi con l’identità nazionale. Motivo in più, sostiene Custodi, perché la sinistra non lasci che siano solo le destre a definire cosa sia l’Italia, cosa significhi farne parte e chi siano davvero i nostri connazionali.

CERTO, suscita qualche perplessità il fatto che l’autore, avendo preso in esame alcuni movimenti della cosiddetta «sinistra radicale», si occupi poco del Partito socialista europeo (Pse), dell’italiano Pd e dei partiti socialisti spagnolo e tedesco – i quali, per consenso elettorale e struttura organizzativa, sembrano essere i soggetti maggiormente in grado di sfidare la destra sul terreno della contro-narrazione relativa al concetto di nazione. Un’analisi della quale si sente dunque la mancanza.
Per concludere: suddiviso in cinque densi capitoli, questo breve saggio possiede il pregio – non trascurabile – tanto della chiarezza quanto della profondità. La riflessione di Custodi merita attenzione soprattutto da parte di coloro che, in particolare a sinistra, non rinunciano a ragionare con serietà – oltre gli slogan e i luoghi comuni – sulla maniera più efficace di reagire a quanto viene sostenuto da una destra che va facendosi, in nome della cosiddetta italianità, sempre più aggressiva. Una tale narrazione va contrastata in maniera decisa, proprio svelandone tutte le ipocrisie, le miserie, le rozzezze per mirare alla realizzazione di una comunità solidale che senta un legame affettivo nei confronti della propria terra e rifiuti ogni forma di esclusione e di emarginazione.
*(Fonte: Il Manifesto- Enrico Paventi, giornalista)

05 – Makena Kelly Lauren Goode*: Kamala Harris si è già ripresa un pezzo della Silicon Valley
Dopo il ritiro di Biden e l’investitura della sua vice, l’entusiasmo e le donazioni dei sostenitori Dem nel settore tecnologico americano sembrano tornati

A qualche ora dall’annuncio con cui il presidente statunitense Joe Biden ha comunicato il proprio ritiro dalla corsa alle presidenziali americane del 2024, i superdonatori Democratici della Silicon Valley si erano già schierati per esprimere il loro sostegno alla candidatura alla presidenza di Kamala Harris.
Rinnovato entusiasmo
“È la cosa giusta per il nostro paese e per il nostro futuro democratico”, ha scritto su X Reid Hoffman, cofondatore e presidente esecutivo di LinkedIn (oltre che socio della società di venture capital Greylock Partners), che la settimana scorsa aveva promosso una riunione virtuale tra 300 donatori del Partito democratico e Harris, incoraggiando i membri della sua rete a partecipare, come riporta il New York Times.
“Kamala Harris è il sogno americano fatto persona, la figlia di immigrati che si sono conosciuti all’Università della California. È anche la tenacia fatta persona: è partita dalla mia città natale, Oakland, in California, per poi diventare la più importante procuratrice dello stato – ha dichiarato a Wired US Dmitri Mehlhorn, ex consigliere politico di Hoffman –. Con il passo indietro di Scranton Joe [uno dei soprannomi di Biden, che fa riferimento alla sua città natale in Pennsylvania, Ndr] non vedo l’ora di aiutare a eleggere la presidente Harris”.
“Wow. Che leadership incredibile. Ora andiamo!”, ha scritto su X dopo la diffusione della lettera di dimissioni di Biden Aaron Levie, amministratore delegato della società di cloud storage Box e donatore democratico. “La comunità tecnologica deve unirsi per sconfiggere Donald Trump e salvare la nostra democrazia, compattandosi dietro la vicepresidente Kamala Harris – ha dichiarato a Wired US Ron Conway, fondatore e managing partner del fondo di venture capital Sv Angel –. Conosco Kamala da decenni ed è stata una combattente, una leader e una sostenitrice dell’ecosistema tecnologico fin dal giorno in cui ci siamo incontrati. È la scelta migliore per sconfiggere Donald Trump e ha il mio sostegno incondizionato”.
Questi appelli rappresentano un importante cambio di passo rispetto alle settimane seguite alla disastrosa performance di Biden al dibattito televisivo con Trump, che aveva alimentato i dubbi dei donatori sulle sue possibilità di rielezione. Mentre la pressione sul presidente si faceva sempre più forte, all’inizio del mese Hoffman aveva dichiarato a Wired US che i megadonatori della Silicon Valley avevano sospeso i nuovi contributi alla campagna elettorale.
“Sia i donatori che la base dei Democratici erano preoccupati prima del dibattito, ma nelle settimane successive la candidatura [di Biden] è diventata quasi impossibile. Il divario è passato da superabile a apparentemente insormontabile – spiega a Wired US Manny Yekutiel, ex vicedirettore finanziario per la California settentrionale di Hillary Clinton –. Questo apre le porte a un maggiore entusiasmo per le elezioni, il ticket e la convention. Sarà molto più facile organizzarsi”.
Le donazioni in effetti hanno già ricominciato ad arrivare. Nelle 24 ore successive all’annuncio di Biden, il comitato elettorale di Harris ha raccolto 81 milioni di dollari, la somma più alta accumulata in una giornata nel corso della campagna per le presidenziali 2024.”La raccolta di fondi per Biden è scesa a picco, al punto che gli organizzatori delle raccolte fondi sono passati a occuparsi delle campagne per il Congresso, perché dai grandi donatori non arrivava più molto per Biden”, aveva raccontato domenica a Wired US un’importante dirigente del settore tecnologico americano, che nella Silicon Valley ha lavorato a diversi prodotti software e ha chiesto di rimanere anonima.
Chi sta con Trump nella Silicon Valley
Mentre le donazioni da sinistra si erano praticamente fermate, dopo l’attentato contro Trump del 13 luglio diversi leader della Silicon Valley come Elon Musk, il venture capitalist David Sacks e i fondatori della prestigiosa società di venture capital Andreessen Horowitz si sono schierati a favore dell’ex presidente e della suo candidato per la vicepresidenza J.D. Vance, promettendo donazioni da milioni di dollari. Nonostante figure di spicco dell’industria tech americana come Sacks e Musk abbiano sottolineato che il settore sarebbe ormai più a suo agio all’idea di una rielezione di Trump, ci sono ancora poche prove che suggeriscono un cambiamento fondamentale nelle tradizionali inclinazioni politiche della Silicon Valley.
“David [Sacks] è Repubblicano da molto tempo”, ha scritto Keith Rabois, investitore e importante donatore Repubblicano in un’email inviata a Wired US all’inizio del mese, aggiungendo di non sapere quanti nuovi sostenitori del partito ci fossero effettivamente nella Silicon Valley.
“È una vergogna – dice invece Yekutiel a proposito del gruppo sempre più numeroso di dirigenti tecnologici che sostengono Trump –. Rappresenta molto di ciò che non va in questo paese […], ed è una cosa lontanissima dalla comunità tecnologica che dovrebbe creare un mondo migliore e più connesso”.
Altri importanti donatori del settore tecnologico stanno ragionando su quale sia la strada migliore da seguire per i Democratici ora che Biden è fuori dai giochi.
dopo un sonnellino di 20 milioni di anni
Vinod Khosla, cofondatore di Sun Microsystems e fondatore della società di venture capital Khosla Ventures, ha chiesto una convention Democratica aperta a più contendenti e un “candidato più moderato che possa facilmente battere Donald Trump”.
Pochi giorni dopo il dibattito, Reed Hastings, cofondatore e presidente esecutivo di Netflix, aveva invitato Biden a farsi da parte per dare al Partito democratico una possibilità di battere Trump. Insieme a sua moglie, Patty Quillin, Hastings avrebbe donato più di 20 milioni di dollari al Partito democratico negli ultimi anni. E anche se dopo l’abbandono di Biden aveva scritto su X che i Democratici avrebbero dovuto scegliere un candidato in grado di vincere in uno stato in bilico a novembre, il numero uno di Netflix si è poi congratulato pubblicamente con Harris.
Fino a che la Commissione elettorale federale americana o il comitato elettorale di Harris non diffonderanno dati ufficiali, non c’è modo di sapere con certezza quanto il rinnovato sostegno della Silicon Valley si tradurrà in donazioni effettive. Ma considerando che secondo le ricostruzioni i donatori Democratici avrebbero congelato più di 90 milioni di dollari in contributi elettorali dopo il dibattito di fine giugno, il comitato di Harris potrebbe contare presto su un afflusso di nuovi milioni.
*( Makena Kelly Lauren Goode – giornaliste Questo articolo è apparso originariamente su Wired US.)

06 – Lelio La Porta*: PARTITO E INTELLETTUALI DALLA LIBERAZIONE AL ’68 – SAGGI. ALESSANDRO BARILE, «UNA DISCIPLINATA GUERRA DI POSIZIONE. STUDI SUL PCI», PER FRANCO ANGELI. UN’AMPIA ANALISI CHE INDAGA ANCHE IL RUOLO DI ROSSANDA

La guerra di posizione corrisponde, sul piano strategico, a ciò che Togliatti intendeva per socialismo nel suo rapporto al X congresso del Pci (dicembre 1962). Il segretario comunista sosteneva che, riprendendo il ragionamento avviato diversi anni prima nel corso della discussione sulla fiducia al secondo governo De Gasperi intorno a quali dovessero essere i caratteri della democrazia italiana a venire (era il 1946), la peculiarità della via italiana al socialismo era costituita da un graduale sviluppo che tendeva ad un «mutamento di qualità». Tutto si basava su una lotta di lungo periodo condotta dalle classi lavoratrici per diventare dirigenti e puntare al «rinnovamento di tutta la struttura sociale».
QUESTA IMPOSTAZIONE togliattiana aveva come origine la concezione gramsciana della politica intesa non come distinzione fra democrazia e socialismo bensì come reciproco riconoscimento nell’estensione della prima verso la realizzazione del secondo. Questa guerra di posizione costituì il filo rosso dell’elaborazione dei comunisti italiani e si giovò di una politica culturale a proprio sostegno. Questo è il tema su cui ha lavorato Alessandro Barile nel suo Una disciplinata guerra di posizione. Studi sul Pci (Franco Angeli, pp. 194, euro 33).
In otto densi e documentatissimi capitoli l’autore affronta di fatto il nesso politica-cultura nel Pci a partire dalla Liberazione fino al ’68 prendendo le mosse da un personaggio come Italo Calvino, «partigiano, intellettuale, militante», quale emblema della «intera parabola della generazione di intellettuali formatisi negli ultimi anni del fascismo e poi divenuti comunisti». I momenti in cui l’argomentazione va oltre la ricerca storiografica e si pone nell’ottica della necessità di avere un interlocutore con cui affrontare le questioni sono due: la direzione della Sezione culturale comunista affidata a Rossana Rossanda e «l’appuntamento mancato con la nuova sinistra».
LA PRIMA QUESTIONE chiama in causa proprio quel X congresso a cui si faceva riferimento all’inizio. Mentre definiva la specificità della via italiana al socialismo Togliatti provvedeva ad una riorganizzazione ricollocando diversi dirigenti e nominando, anche se la decisione fu contrastata all’interno del partito, Rossanda alla direzione della Sezione culturale. È vero che le posizioni di Rossanda erano «dissonanti» con quelle del partito sul piano culturale ma lo stesso non poteva dirsi della sua azione politica sia nella Federazione sia nel Consiglio comunale di Milano. Nonostante la sicura ventata trasformatrice di cui Rossanda fu portatrice, sul piano del rapporto con gli intellettuali non vi furono particolari novità. Barile riassume la situazione in una battuta molto efficace. «Non si fatica a dirsi comunisti; si fa sempre più fatica, però, a pensarsi organici».
LA SECONDA QUESTIONE, ossia il rapporto del Pci con la nuova sinistra, si colloca all’altezza del caso manifesto (capitolo sette) e sembra esserne in qualche modo il corollario. In questo senso, ossia nel senso di un processo di divisione all’interno della sinistra e dello stesso partito (amendoliani e ingraiani), sembra di capire che, secondo Barile, si nasconda il vizio del mancato dialogo dei comunisti con la nuova sinistra.
ALTRE QUESTIONI sono affrontate dall’autore nella sua analisi del rapporto fra Pci e intellettuali mantenendo, nella sostanza, viva l’idea che gli intellettuali dovessero avere un ruolo fondamentale costituendo la trincea più avanzata della guerra di posizione. E, visti i sommovimenti generati all’interno del partito dalle vicende politico-culturali italiane, sembra di poter dire che la guerra di posizione non sia stata proprio del tutto disciplinata.
L’epilogo del volume, che costituisce un capitolo a sé, è dedicato ad una ricognizione critica sui materiali pubblicati in occasione del centesimo anniversario della fondazione del Pci. Dalla scissione di Livorno alla questione del riformismo comunista, dalla doppiezza alle rifondazioni per concludere che la storia del Pci «appare, forse inevitabilmente, schiacciata su Gramsci e Togliatti» poco concedendo alle valutazioni sulla storia successiva, «in particolare sulla segreteria Berlinguer». Scrive Barile che Berlinguer «continua a essere una fonte di produzione bibliografica notevole» riportando in nota tre testi su di lui. Con la leggerezza del lettore di fronte a un’opera di studio e di ricerca come quella di cui si sta scrivendo, sarà invece consentito dissentire dall’autore ricordando che ci sono lavori che, ripercorrendo attraverso il pensiero di Berlinguer la sua segreteria, ne mettono in evidenza pregi e difetti per definirlo, in conclusione, rivoluzionario e comunista democratico, in modo ossimorico soltanto verbalmente ma non di certo nella sostanza dell’azione politica del leader sardo come segretario del Pci.
*(La Porta Lelio. Docente nei Licei, collaboratore di Critica marxista, è autore di Etica e rivoluzione nel giovane Lukács)

07 – Claudia Fanti*: LA POVERTÀ GLOBALE SI SCONFIGGE TASSANDO I RICCHI. PAROLA DI LULA – G20. IL PRESIDENTE BRASILIANO ALLA GUIDA DEL G20 PUNTA A INSERIRE LA PROPOSTA NEL DOCUMENTO FINALE. PREVISTO UN GETTITO DI 250 MILIARDI DI DOLLARI PRELEVANDO IL 2% DAI SUPER PATRIMONI
Tra una concessione e l’altra alle forze conservatrici che stanno segnando il suo terzo mandato, su un punto Lula non intende arretrare: quello della lotta alla fame, da sempre il suo cavallo di battaglia. Non sorprende allora che, assumendo lo scorso dicembre la presidenza annuale del G20, la sua principale preoccupazione sia stata subito quella di lanciare un’Alleanza globale contro fame e povertà, offrendo un significativo contraltare alle politiche guerrafondaie del G7.
FORTE DEI DATI del Rapporto delle Nazioni unite sullo stato della sicurezza alimentare nel mondo (Sofi 2024), in base a cui in Brasile, nel 2023, l’insicurezza alimentare acuta è caduta dell’85% e 14,7 milioni di persone hanno smesso di soffrire la fame, Lula ha lanciato ieri la sua iniziativa, che sarà ufficializzata al vertice dei capi di stato del G20 di novembre a Rio de Janeiro, nella sede nazionale dell’Ação da Cidadania, alla presenza di autorità di altri paesi impegnate oggi e domani nella riunione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali.
L’idea del presidente è chiarissima: «Siamo tornati per ridurre la fame in Brasile e vogliamo lavorare insieme ad altri paesi per sradicarla in tutto il mondo. È possibile costruire un mondo più giusto e meno diseguale». Sarà questo lo scopo dell’Alleanza: una sorta di piattaforma in cui far confluire risorse finanziarie, programmi sociali di successo e il gruppo dei paesi più poveri al di fuori del G20.
Se si attendono fino a un centinaio di adesioni – nel suo incontro con Lula del 15 luglio il presidente Mattarella ha già assicurato il sostegno italiano all’iniziativa – il ministro dello sviluppo, dell’assistenza sociale, della famiglia e della lotta alla fame Wellington Dias ha chiarito che, per partecipare all’alleanza, bisognerà seguire alcune regole, a cominciare dalla presentazione di un piano statale che dovrà stabilire gli obiettivi entro il 2030 per ridurre la fame e la povertà, nel quadro di politiche pubbliche già rivelatesi vincenti.
E riguardo al Brasile, proprio il paese in cui la potentissima lobby dell’agribusiness fa il bello e il cattivo tempo al congresso, l’accento delle strategie di lotta alla fame sarà posto in particolare sull’integrazione sociale ed economica dei piccoli produttori, così che siano inclusi nel mercato nazionale e globale degli alimenti sulla base del riconoscimento del nesso strettissimo tra superamento della fame e rafforzamento dell’agricoltura familiare.
MA A RIVELARSI impegnativa è l’intera missione della presidenza brasiliana del G20, chiamata ad aggirare il muro contro muro all’interno dell’organismo sui conflitti in Ucraina e a Gaza, per costruire un difficile consenso sui temi ritenuti prioritari dal governo Lula: quelli della cooperazione, della ristrutturazione del debito e della tassazione dei super-ricchi, destinata a liberare risorse da impiegare nella lotta contro il cambiamento climatico e contro le disuguaglianze mondiali.
La proposta, contenuta nel rapporto commissionato dal Brasile e curato dell’economista francese Gabriel Zucman, è quella di una tassa del 2% sui patrimoni dei circa 3mila miliardari globali, che garantirebbe un gettito annuale di 250 miliardi di dollari. E a cui affiancare, tra l’altro, una riforma dell’accordo internazionale sulla tassazione delle multinazionali, con l’applicazione di un’aliquota del 25%.
MALGRADO la freddezza di diversi paesi, a partire da Stati uniti e Germania, la responsabile della segreteria degli affari internazionali del ministero delle finanze Tatiana Rosito ha espresso ottimismo riguardo l’inserimento della proposta nel documento finale della riunione ministeriale (e qualche chance in effetti deve esserci se persino Giorgetti ha dichiarato che bisogna mettersi «d’accordo in tutto il mondo affinché questo possa avvenire»).
E ha annunciato che le dichiarazioni saranno tre: una sulla cooperazione tributaria internazionale, che dovrebbe includere appunto la tassazione delle grandi fortune; una seconda che riunirà più temi, come quello dell’architettura finanziaria internazionale; e una terza su questioni geopolitiche, al di là delle profonde divergenze esistenti tra i paesi del G20.
*( Claudia Fanti – Giornalista, scrive da più di 20 anni sul settimanale Adista, collabora con “il manifesto” e con altre testate)

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