01 – Luca Tancredi Barone*: Tensione al massimo con la Spagna, che oggi riconosce lo stato di Palestina – (ndr e noi quando)
02 – Sen. Francesca La Marca*(PD): . Buona Festa della Repubblica! – Eccoci alla vigilia del 2 giugno, Festa della Repubblica Italiana, la Festa più amata dagli Italiani nel mondo perché rappresenta le basi della nostra Costituzione ed è la celebrazione di tutti gli italiani, a prescindere da dove risiedano
03 – Federico Fornaro**: Matteotti, quelle parole coraggiose, nell’aula di oggi. LA CERIMONIA. Il posto occupato da Matteotti nell’aula di Montecitorio non sarà più assegnato ad alcun deputato. Lo ha annunciato il presidente Lorenzo Fontana aprendo, con un intervento molto equilibrato, la commemorazione
04 – Amedeo Ciaccheri°: Lo spirito della sinistra, il corpo delle città. ELEZIONI EUROPEE. Mentre il turbine della storia trascina la diplomazia internazionale nell’angolo dell’afasia, quel che resiste della democrazia europea si affatica a intrecciare progetto e destino nella più cupa delle campagne elettorali. […]
05 – Alfio Mastropaolo*: La corruzione è solo il dito, la luna è il «crony capitalism» Pressata dal declino della manifattura, all’economia capitalistica non sono bastate finanziarizzazione e deregulation. Ha messo a reddito anche la politica democratica La corruzione è solo il dito, la luna è il «crony capitalism»
06 – Luca Illetterati*: Hegel, la teoria più dei fatti agisce sul reale. FILOSOFI TEDESCHI. Mentre esce la «Fenomenologia dello spirito», e si consuma la definitiva frattura con Schelling, le lettere 1807-8 si augurano che le riforme napoleoniche scuotano la Germania: da Aragno
07 – Tommaso Di Francesco°: COMMENTO DELLA SETTIMANA «Ciò che sta accadendo oggi a Bruxelles e a Washington… sta creando l’atmosfera per un eventuale conflitto militare, che potremmo anche descrivere come una preparazione all’entrata in guerra dell’Europa».
01 – Luca Tancredi Barone*: TENSIONE AL MASSIMO CON LA SPAGNA, CHE OGGI RICONOSCE LO STATO DI PALESTINA –
DAVANTI AGLI OCCHI. Israel Katz: «Il governo di Madrid premia i terroristi» – Aumenta l’escalation fra le cancellerie di Madrid e Tel Aviv. Oggi il consiglio dei ministri del governo spagnolo riconoscerà la Palestina. Il ministro degli esteri spagnolo José Manuel Albares era ieri a Bruxelles, assieme ai suoi omologhi di Norvegia e Irlanda, che prendono oggi la stessa decisione, e parlava di «giorno storico» che aiuterà una «convivenza pacifica e sicura» in Medio oriente. Questi tre paesi si aggiungono agli altri 140 stati (solo 8 in Europa) che già hanno dato questo passo.
A CAUSA di questa decisione, però, la tensione fra Spagna e Israele è al massimo. Questo fine settimana, il ministro degli esteri israeliano Israel Katz aveva condiviso su X (ex Twitter) una parodia che rappresentava la Spagna attraverso un ballo flamenco intercalato da immagini degli attacchi terroristici del 7 ottobre, con la scritta «Hamas ringrazia la Spagna».
La cosa più paradossale di tutte è che la (vera) ballerina professionale di flamenco che appare nel video col suo vestito rosso acceso si chiama Zeina Sabbah, vive a Siviglia da anni ed è di origine palestinese. «Sono indignata e molto triste», diceva ieri ai mezzi di comunicazione, «perché hanno usato la mia immagine per attaccare e ridicolizzare il mio lavoro».
Un video che il governo spagnolo per bocca del ministro Albares definiva «scandaloso» ed «esecrabile». Albares lo diceva domenica accanto al primo ministro dell’Autorità palestinese, Mohamed Mustafa, sempre a Bruxelles, che definiva «il nostro partner palestinese per la pace, per raggiungere l’obiettivo che tutti desideriamo». L’appuntamento con Mustafa è mercoledì a Madrid, dopo il riconoscimento «come legittimo rappresentante dello Stato palestinese», che la Spagna «tratterà da pari a pari».
MA IL VIDEO di burla non è stato l’ultimo gesto di Katz. Ieri ha fatto seguire le minacce della settimana scorsa ai fatti: ha ordinato al consolato spagnolo a Gerusalemme di cessare i rapporti con i palestinesi residenti sotto la Autorità palestinese (cioè in Cisgiordania) a partire da sabato 1 giugno. «Stamattina ho dato ordine», scriveva Katz sulla rete sociale, «di inviare una nota diplomatica all’ambasciata spagnola in Israele, vietando al consolato spagnolo a Gerusalemme di svolgere attività consolari o fornire servizi consolari ai residenti dell’Autorità palestinese». E aggiungeva velenoso: «Non rimarremo in silenzio di fronte a un governo che premia il terrorismo e i cui leader Sánchez e Díaz intonano lo slogan antisemita ‘Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera’. Coloro che premiano Hamas e tentano di creare uno stato terroristico palestinese non avranno alcun contatto con i palestinesi. I tempi dell’Inquisizione sono finiti. Oggi il popolo ebraico ha uno stato sovrano e indipendente e nessuno ci costringerà a convertire la nostra religione o minaccerà la nostra esistenza: a coloro che ci danneggiano, noi faremo del male». Nella nota, si parla di misure «preliminari» e si accusa il governo spagnolo «di grave incitazione antisemita contro lo stato di Israele».
La risposta di Albares non si è fatta attendere: «Inaccettabile», l’ha bollata. «Non cadremo nelle provocazioni che ci allontanano dall’obiettivo di riconoscere lo stato palestinese».
LA SPAGNA appoggia anche l’ordine della Corte internazionale di giustizia che chiede di fermare la selvaggia offensiva a Rafah. «Esistono già misure precauzionali molto chiare che devono essere applicate», ha detto il capo della diplomazia spagnola. «Chiediamo ancora una volta un cessate il fuoco», ha detto Albares, ricordando che la Spagna ha smesso di autorizzare la vendita di armi a Israele. Lo stesso Alto rappresentante della Ue, il catalano Josep Borrel, ha ricordato che Israele ha «intimidito» e «accusato di antisemitismo» la Corte internazionale, cosa che accade «ogni volta che qualcuno fa qualcosa che non piace al governo Netanyahu».
(Luca Tancredi Barone. Attualmente è redattore e conduttore del quotidiano scientifico Radio3 Scienza (RAI) e collabora con i quotidiani “Liberazione” e “il manifesto”.)
02 – Sen. Francesca La Marca . BUONA FESTA DELLA REPUBBLICA! – ECCOCI ALLA VIGILIA DEL 2 GIUGNO, FESTA DELLA REPUBBLICA ITALIANA, LA FESTA PIÙ AMATA DAGLI ITALIANI NEL MONDO PERCHÉ RAPPRESENTA LE BASI DELLA NOSTRA COSTITUZIONE ED È LA CELEBRAZIONE DI TUTTI GLI ITALIANI, A PRESCINDERE DA DOVE RISIEDANO.
Per la prima volta nella storia d’Italia, il 2 giugno 1946, anche le donne poterono esercitare il loro diritto di voto per scegliere tra Monarchia e Repubblica e chi avrebbe composto l’Assemblea costituente. Il 18 giugno 1946, la Corte di Cassazione proclamò ufficialmente la nascita della Repubblica italiana dopo giorni di contestazioni, resistenze e disordini dei monarchici, intenzionati a mantenere al potere i sovrani responsabili della discesa italiana nell’orrore della dittatura fascista.
Più di 12 milioni di cittadini votarono per la Repubblica e più di 10 milioni per la Monarchia. Il Paese era profondamente spaccato in due.
Oggi, purtroppo, come 78 anni fa, lo scenario politico italiano si presenta frammentato. Le divisione ideologiche all’interno del Paese sono tante.
Più che mai, quindi, occorre ricordare lo spirito e i valori della nostra bellissima Costituzione, una Costituzione che il Governo attuale sta tentando di modificare a discapito della democraticità. Occorre far sì che gli italiani all’estero, con la loro obiettività, proprio perché residenti fuori dal confini nazionali, abbiano una voce forte nelle decisioni del Paese.
Per il bene dell’Italia.
Buona Festa della Repubblica, dunque, anche a noi, italiani residenti in Nord e Centro America!
(Sen. Francesca La Marca*(PD)
03 – Federico Fornaro*: MATTEOTTI, QUELLE PAROLE CORAGGIOSE, NELL’AULA DI OGGI. LA CERIMONIA. IL POSTO OCCUPATO DA MATTEOTTI NELL’AULA DI MONTECITORIO NON SARÀ PIÙ ASSEGNATO AD ALCUN DEPUTATO. LO HA ANNUNCIATO IL PRESIDENTE LORENZO FONTANA APRENDO, CON UN INTERVENTO MOLTO EQUILIBRATO, LA COMMEMORAZIONE.
Il posto occupato da Matteotti nell’aula di Montecitorio non sarà più assegnato ad alcun deputato. Lo ha annunciato il presidente Lorenzo Fontana aprendo, con un intervento molto equilibrato, la commemorazione ufficiale per il centenario dell’ultimo discorso pronunciato alla camera dal segretario del partito socialista unitario. Sebbene all’epoca non vi fossero posti assegnati ai deputati, dalle foto dell’epoca si è potuto stabilire con certezza che il 30 maggio 1924, Matteotti intervenne proprio dal quarto banco partendo dal basso nel settore più a sinistra dell’emiciclo.
Contrariamente alla prassi, quel pomeriggio, il presidente della giunta delle elezioni, Antonio Casertano, iniziò a leggere, nel disinteresse generale dell’aula, un lunghissimo elenco di nomi di deputati (326 per l’esattezza), per la quasi totalità eletti nel listone fascista, proponendo la loro convalida. Le opposizioni prontamente chiesero il rinvio degli atti alla giunta per i necessari approfondimenti. I popolari per bocca di Giovanni Gronchi annunciarono l’astensione. Fu a quel punto che in aula tumultuante prese la parola Matteotti.
«Mi è facile vederlo, dritto al suo banco dell’estrema sinistra: figura esile, slanciata, un po’ rigida, che si stacca dallo schienale di cuoio rosso. Matteotti aveva l’oratoria semplice, contenuta, quasi secca, senza fiori letterari, martellante e sottolineava fatti ed episodi con gesti misurati, sobri. La voce era acuta, spesso aggressiva, non fatta certo per attutire i colpi secchi portati dal ragionamento. Tutto, in lui, era elegante e signorile». Così lo avrebbe descritto Vera Funaro, moglie di Giuseppe Emanuele Modigliani.
Il discorso di Matteotti durò oltre un’ora, per le continue e minacciose interruzioni da parte dei deputati fascisti e si concluse con la richiesta di «annullamento in blocco della elezione di maggioranza». Poco dopo la conclusione dell’ intervento di Matteotti scoppiò quello che La Stampa definì un uragano infernale. Dello stesso tenore il titolo del Corriere della Sera: Tumultuosi incidenti e pugilato alla camera durante la discussione per la convalida di 200 deputati della maggioranza
Era accaduto che il vice presidente della camera, il fascista Francesco Giunta, rivendicando orgogliosamente il suo ruolo di squadrista avesse minacciato, con riferimento alla «congrega che va dall’on. Amendola all’on. Matteotti … di mettere a posto quella masnada di uomini». Per tutta risposta il generale Roberto Bencivegna, del gruppo dei liberali amendoliani, si diresse verso i banchi dei fascisti scatenando una rissa furibonda. I quotidiani dell’epoca avrebbero dedicato più spazio agli scontri in aula che alla dura denuncia matteottiana.
Questa era la camera del 1924, dominata dai fascisti e lontana anni luce dal bon ton istituzionale nei rapporti tra maggioranza e opposizione evocato e raccomandato da Luciano Violante nel suo intervento commemorativo.
Giacomo Matteotti, un’eredità politica alla prova del presente
Il «collasso» della democrazia liberale che aprì le porte al fascismo, inoltre, non può essere ricondotto solo alla perdurante instabilità dei governi di matrice liberale, ma piuttosto, come denunciò a più riprese Matteotti in parlamento, all’aperta complicità degli apparati di sicurezza dello stato nei confronti dello spadroneggiare della milizia privata al servizio del Pnf e degli agrari.
Le iniziative organizzate in queste settimane in tutt’Italia in occasione del centenario dell’assassinio di Matteotti possono rappresentare, dunque, un’occasione per riflettere sulla reale natura del fascismo, sul carattere violento e antidemocratico fin dal 1919, giustamente evidenziati dallo storico Emilio Gentile nella sua prolusione. Infine, si deve annotare che la presidente Meloni ha riconosciuto una verità storica, ovvero che Matteotti fu «ucciso da squadristi fascisti per le sue idee». Non sarebbe guastato aggiungere un riferimento all’appartenenza di Amerigo Dùmini e dei suoi complici alla cosiddetta “Ceka fascista” al servizio di Mussolini: un modesto suggerimento per il comunicato stampa di palazzo Chigi il prossimo 10 giugno, centenario del rapimento e dell’uccisione di Giacomo Matteotti. *L’autore è deputato Pd, autore del libro «Matteotti, l’Italia migliore»
**( Federico Fornaro – Laurea in scienze politiche; Dirigente di azienda. Eletto nella circoscrizione. PIEMONTE 2.)
04 – Amedeo Ciaccheri°: LO SPIRITO DELLA SINISTRA, IL CORPO DELLE CITTÀ. ELEZIONI EUROPEE. MENTRE IL TURBINE DELLA STORIA TRASCINA LA DIPLOMAZIA INTERNAZIONALE NELL’ANGOLO DELL’AFASIA, QUEL CHE RESISTE DELLA DEMOCRAZIA EUROPEA SI AFFATICA A INTRECCIARE PROGETTO E DESTINO NELLA PIÙ CUPA DELLE CAMPAGNE ELETTORALI. […]
Mentre il turbine della storia trascina la diplomazia internazionale nell’angolo dell’afasia, quel che resiste della democrazia europea si affatica a intrecciare progetto e destino nella più cupa delle campagne elettorali.
L’Europa va al voto, ma non c’è spazio per grandi scenari. Le magnifiche sorti e progressive del vecchio continente non hanno resistito alle bordate della pandemia. Resistenza e conquista, questi sono gli scenari che ci sono concessi. Resistere al furore della violenza o assistere alla conquista del potere per il potere. Giorgia Meloni si mette alla testa di una convenzione di opportunismi per disgregare il futuro del continente e abbattere il sogno di Ventotene. Se crediamo che questo sia stato un anno terribile stretto tra due conflitti così vicini, dobbiamo temere per quello che verrà.
Hans Kelsen sosteneva che l’Europa è lotta di classe tradotta in politica e – come ha detto Warren Buffet – è la classe ricca che sta vincendo la battaglia.
Anima Vagula Blandula, dice Marco Aurelio, congedando l’anima a luoghi freddi e oscuri, quando si separa dal corpo. Possiamo ancora ricomporre corpo e anima della sinistra necessaria per affrontare gli anni che verranno? C’è uno spettro che la crisi democratica non ha saputo esorcizzare: i corpi in relazione nelle città. Prossimità, interdipendenza, connessione, collaborazione, le città reagiscono ancora ai sintomi della retorica nazionalista continuando a inventare spazi di resistenza. Nelle città si inventa ancora l’alternativa. Nella crisi il capitalismo della sorveglianza non ha ancora vinto. Tutto merito di quella potenza che ancora possiamo chiamare municipalismo, dove senso di luogo e comunità di destino si intrecciano per costruire qualcosa che non c’è, contando solo su un principio di umanità.
Questa è la storia che unisce Riace e Roma, un piccolo centro e una grande metropoli. Lo spazio dell’invenzione dove si può riunire anima e corpo e affrontare le grandi questioni del presente con la politica, non con la violenza, con l’azione collettiva, non la competizione, disegnando un futuro di pace.
Ci sono due persone che corrono a queste elezioni europee nella lista di Alleanza Verdi e Sinistra che tra gli altri hanno saputo praticare municipalismo, in tempi di ubriacatura nazionalista: Mimmo Lucano e Massimiliano Smeriglio.
Il primo ha saputo resistere alla vendetta giudiziaria in difesa di un modello anticapitalista di rigenerazione locale, dove la mescolanza ha risposto allo svuotamento delle aree interne e non ha voltato le spalle a un principio arcaico di ospitalità e fratellanza.
Il secondo ha tessuto storie di comunità ribelli in lungo e largo, quando l’amministrazione locale può dare nuovo significato alla crisi dei corpi intermedi, mettere radici, e ostinatamente percorrere la strada più difficile, fino a tenere solitario una bandiera di pace, mentre il massimo parlamento continentale si schierava in gran parte per un’economia di guerra.
Non bastano due persone per cambiare il destino d’Europa ma dobbiamo augurarci che il pensiero municipalista irrompa con candidature come queste dentro il prossimo parlamento europeo, perché ci sarà da lottare.
Le città per loro predisposizione sono legate tra loro. Luciana Castellina sapientemente in queste settimane ha evocato un’idea con spirito militante: dobbiamo pensare come non solo la classe intellettuale può riconoscersi in un Europa unita, serve un Erasmus degli spazzini, per spiegare come scambiare pratiche, costruire ponti, e curare una cittadinanza comunitaria non deve limitarsi alle generazioni in formazione ma può riunire persone oltre i nazionalismi. Il nazionalismo che propaganda la destra lo vediamo già nei fatti oggi: è guerra.
Il vecchio adagio municipalista dice una cosa contraria: l’aria delle città rende liberi, per questo dobbiamo credere che possiamo costruire una Europa delle Città, per amore della libertà. Quella libertà inestimabile, irrinunciabile, che merita l’antifascismo di Ilaria Salis, candidata anche lei con Avs, per essere eletta e finalmente libera.
^( Amedeo Ciaccheri è il più giovane presidente che il Municipio VIII abbia avuto. Nonostante l’età è già molto esperto: ecco cos’ha fatto.)
05 – Alfio Mastropaolo*: LA CORRUZIONE È SOLO IL DITO, LA LUNA È IL «CRONY CAPITALISM»
PRESSATA DAL DECLINO DELLA MANIFATTURA, ALL’ECONOMIA CAPITALISTICA NON SONO BASTATE FINANZIARIZZAZIONE E DEREGULATION. HA MESSO A REDDITO ANCHE LA POLITICA DEMOCRATICA LA CORRUZIONE È SOLO IL DITO, LA LUNA È IL «CRONY CAPITALISM»
Abbiamo cambiato repubblica, rinnovato i partiti, sostituito la classe politica. Sono apparse formazioni che hanno inscritto la moralità pubblica sulle loro insegne. Si è messo mano alle istituzioni. E stata promossa una competizione politica bipolare, insieme all’involuzione monocratica dell’azione di governo: ufficiale in comuni e regioni, ufficiosa sul piano nazionale, ma bastevole a zittire il parlamento. La cui residua vitalità è ormai affidata alle dispute interne alle maggioranze di turno. Si sono inventate istituzioni ad hoc, come l’Anac. A furor di popolo si è ridotto il numero dei parlamentari. Sono state inasprite le pene. Ma la moralità pubblica si è vieppiù degradata.
Qualcosa di nuovo però succede sempre. Il caso pugliese sembra volgare voto di scambio. Quello genovese ha tratti originali. La quantità si fa qualità: lo chiamano crony capitalism, quando l’intreccio tra capitalismo, politica e governo diviene intimo e sopprime la concorrenza. Pressato dal declino della manifattura, al capitalismo non sono bastate finanziarizzazione, privatizzazioni e deregulation. Ha messo a reddito la politica democratica, che, per parte sua, ha subito una mutazione radicale. I media, per lo più privati, hanno espropriato i partiti dell’azione d’informazione e propaganda e li hanno ridotti a cordate di potere. Riservate ai ceti abbienti. Si è soprattutto indebolita l’autorità pubblica, ridisegnando l’andamento di quelle che un grande sociologo come Norbert Elias chiamava «lotte per il monopolio».
Ve ne sono sempre e ovunque. Per costituire monopoli politici, economici, culturali. Spicca la lotta tra capitalisti e attori politici. Le burocrazie pubbliche tradizionali e il regime rappresentativo-democratico, fondato sul pluralismo dei partiti, erano congegnati in modo da ostacolare sia la costituzione di monopoli politici stabili, sia le ambizioni monopolistiche dei potentati economici. Non erano congegni perfetti, ma agivano da freno. Negli ultimi decenni le burocrazie pubbliche sono state consapevolmente debilitate, mentre il ridisegno dualistico della competizione politico-elettorale ha condotto alla costituzione ciclica, e per lassi di tempo non brevi, di monopoli politici in capo all’esecutivo e al suo leader.
Chi governa se ne infischia delle opposizioni e vuole protrarre a ogni costo il suo provvisorio monopolio, magari associandosi e sottomettendosi ai potentati economici. Che, se del caso, corteggiano pure le opposizioni. Di qui il crony capitalism: altro che concorrenza, le imprese pretendono norme accomodanti, investimenti pubblici, benefici fiscali e quant’altro. Il personale politico ne ricava pregiate opportunità privata di arricchimento.
Ben corrisponde a questo schema il racconto dei casi genovesi. Regione e Autorità portuale, un’impresa della grande distribuzione e una multi-utility, figliata dalla privatizzazione di alcune venerabili municipalizzate dell’energia, una colossale opera pubblica, un clan mafioso, qualche politico in carriera. Senza l’ingombro della politica estera, della difesa, dell’ordine pubblico, della giustizia, il governo è totalmente funzionalizzato agli affari, offrendo fra l’altro un anticipo del regionalismo differenziato in arrivo.
Che possibilità vi sono allora di contrastare questa deriva? La corruzione è malattia universale, pur se non sempre ugualmente grave, vi sono solo due leve. Gli accorgimenti istituzionali e la cultura politica e civile. I primi non sono valsi a molto. Né servirebbe il ripristino del finanziamento pubblico dei partiti, di recente cancellato per stolta demagogia. Suona naturalmente beffarda la terapia di Meloni e del suo governo: attuando un vecchio disegno della destra, si cancella il confine tra legalità e illegalità, e s’impedisce di perseguire le trasgressioni. Una sforbiciata alle intercettazioni, riduzioni ulteriori dei mezzi per chi indaga, qualche severo vincolo aggiuntivo alla libertà d’informazione, ricondurre il pubblico ministero sotto l’autorità del guardasigilli. Per intanto, già si è abrogato il reato di abuso d’ufficio.
In realtà, le istituzioni non saranno mai sufficienti finché non si riuscirà a manovrare l’altra leva: cioè curare il deficit di etica pubblica e risanare costume immaginario collettivo. Chi può tuttavia svolgere l’ingente azione educativa e persuasiva che si richiede? La scuola? Il fantasma dei partiti? I media, vecchi e nuovi? La volenterosa società civile? E più facile, per ora, suggerire cosa serve. Il capitalismo neoliberale a suo tempo si è imposto tramite una rivoluzione culturale che ha sollevato un’ondata travolgente di moralismo antipolitico e antistatale e ha elevato a valori supremi concorrenza, profitto, merito, individualismo senza freni. Gli effetti di questo intreccio li abbiamo sotto gli occhi. Di sicuro non ha frenato la corruzione. Probabilmente l’ha aggravata parecchio. Serve allora una rivoluzione culturale all’incontrario, che risvegli la critica anticapitalistica e proponga tutt’altri valori.
Non si è ancora scoperto come farne a meno, ma il capitalismo non è una benedizione del cielo. E perciò doveroso denunciarne e contrastarne gli inconvenienti. A maggior ragione quelli della sua versione crony, che è onnivora e rischiosissima. La grande crisi finanziaria è stata un’opportunità per ripensarci. Così come la pandemia. Sono fallite entrambe. Sarà la crisi climatica che ci sovrasta a creare le condizioni di un radicale rinnovamento dei modi di pensare e delle scale di valori, necessario per tante ragioni, anche per rimediare alla corruzione?
*(Alfio Mastropaolo insegna Scienza politica all’Università di Torino. Si è occupato di élites politiche, democrazia, politica italiana)
06 – Luca Illetterati*: HEGEL, LA TEORIA PIÙ DEI FATTI AGISCE SUL REALE. FILOSOFI TEDESCHI. MENTRE ESCE LA «FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO», E SI CONSUMA LA DEFINITIVA FRATTURA CON SCHELLING, LE LETTERE 1807-8 SI AUGURANO CHE LE RIFORME NAPOLEONICHE SCUOTANO LA GERMANIA: DA ARAGNO
Difficile dire se gli epistolari, oggi affidati perlopiù alla comunicazione digitale avranno in futuro la stessa importanza che hanno avuto fino a oggi. Dal punto di vista degli studi umanistici, sono stati, perlomeno fino a tutto il Novecento, una fonte essenziale per la comprensione del pensiero degli autori di volta in volta studiati. Nelle lettere si trovano infatti spesso esplicitate, a seconda dell’interlocutore a cui sono rivolte, le intenzioni e le necessità che hanno originato le opere, il loro sfondo polemico, una versione talvolta più radicale o comunque meno ambigua di ciò che intendono sostenere, la radice esistenziale a partire da cui prendono forma.
La casa editrice Aragno ha intrapreso a partire dal 2022, sotto la cura di Giuseppe Raciti, la traduzione delle lettere di Hegel, strumento essenziale nella comprensione della genesi e dello sviluppo della sua filosofia. L’epistolario hegeliano era finora disponibile per il lettore italiano solo in forma parziale: nel 1972 Laterza aveva pubblicato una antologia delle lettere più importanti (Lettere, traduzione di P. Manganaro e V. Spada, prefazione di Eugenio Garin); poi Guida aveva dato avvio (sempre per la cura di Manganaro) alla pubblicazione completa dell’epistolario, ma l’impresa si fermò al secondo volume (Epistolario I e II, 1983 e 1988).
La scelta del curatore dell’edizione Aragno è di non pubblicare la corrispondenza in entrata e uscita, ma solo lettere di Hegel con aggiunte quelle missive che provengono da personaggi ritenuti dal curatore (non senza, com’è ovvio, qualche arbitrio) particolarmente significative (è il caso ad esempio di Hölderlin, Schelling, Goethe) o meno noti, ma contenenti questioni importanti nelle vicende interne al pensiero hegeliano.
Il primo volume, uscito nel 2022, contiene le lettere che arrivano fino agli anni in cui Hegel è a Jena, dove lavora, scarsamente remunerato, come libero docente e dove si impegna nell’elaborare un nuovo sistema la cui pubblicazione è continuamente rinviata, finché non sfocerà, persino imprevedibilmente, nella scrittura della Fenomenologia dello spirito. Fra queste pagine, spicca lo scambio con Hölderlin – famosa la lettera del luglio del 1794 in cui il poeta si rivolge al filosofo scrivendo «tanto spesso fosti il mio genio» – e con Schelling, al quale Hegel si rivolge non solo per discutere questioni teoriche, ma anche nella speranza che il già affermato, per quanto più giovane, compagno di studi possa aiutarlo a trovare una qualche sistemazione professionale più stabile.
Ora giunge a pubblicazione il secondo volume delle Lettere (a cura di Giuseppe Raciti, Aragno, pp. 198, € 25,00), che si riferisce al cosiddetto periodo di Bamberga, fra il 1807 e il 1808: sono anni, per Hegel, difficili e delicati. Viene pubblicata la sua prima grande opera filosofica, la Fenomenologia dello spirito, ma si vede costretto per motivi economici – l’appello rivolto a Goethe per farlo assumere come direttore del giardino botanico non era andato a buon fine – ad allontanarsi dall’ambiente accademico per accettare il lavoro di redattore della gazzetta locale, la Bamberger Zeitung. In questi stessi anni, inoltre, proprio in seguito alla pubblicazione della Fenomenologia, si rompe definitivamente l’amicizia con Schelling, che nell’ultima lettera inviata all’amico – il 2 novembre 1807 – si rammarica del fatto che nella Prefazione alla sua opera Hegel non abbia esplicitamente tenuto distinte le sue posizioni da quelle degli «scopiazzatori», che avrebbero della filosofia di Shelling diedero una versione macchiettistica. Pare che Hegel non abbia risposto, e così fra i due il rapporto si interrompe: come rivelano alcune lettere successive, Hegel non mancò di mandare i saluti all’ex sodale per interposta persona.
Sulle stesse posizioni di Klaus Vieweg, che al filosofo di Stoccarda ha dedicato una biografia di prossima pubblicazione anche in Italia (Hegel. Der Philosoph der Freiheit, Beck 2019) Raciti sostiene il carattere tutto politico dell’epistolario scritto negli anni di Bamberga: da un lato Hegel dà una valutazione decisamente positiva delle riforme napoleoniche e in generale della scossa ne può derivare una Germania dormiente; dall’altro lato c’è un’aspra polemica nei confronti dell’arretratezza tedesca e in modo particolare verso il cattolicesimo reazionario bavarese: «I principi tedeschi non hanno ancora compreso il concetto di una libera monarchia, né si apparecchiano a realizzarla – spetterà a Napoleone organizzare il tutto».
Per Hegel, l’attività giornalistica corrisponde alla sua vibrante attenzione nei confronti delle crisi e dei processi di trasformazione sociale e istituzionale, ma per altro verso, lungi dal rafforzare la sua indubbiamente potente passione politica, la indebolisce. Considerazioni via via più sferzanti sull’attitudine giornalistica a assumere i fatti senza indagarne né la genesi né le motivazioni attraversano alcune delle lettere più belle, in particolare quelle indirizzate al poeta e traduttore Karl Ludwig von Knebel. E vanno forse lette anche in relazione a uno dei pochi testi hegeliani del periodo di Bamberga, ovvero Chi pensa astrattamente?, dove – rovesciando un luogo comune – sostiene che il pensiero astratto è proprio dell’uomo incolto: per lui – dice Hegel con un esempio divenuto famoso – l’assassino che viene condotto al patibolo è solo un assassino: la sua umanità, la sua storia, persino il suo aspetto fisico, ovvero la concretezza dell’individuo, scompaiono e la sua complessità viene ridotta alla piattezza monodimensionale dell’astrazione.
Sia sul piano storiografico, sia su quello più decisamente filosofico, come pure su quello politico, le lettere indubbiamente più importanti di questi anni sono quelle con Friedrich Immanuel Niethammer, studente più anziano del famoso seminario di Tubinga (dove si erano formati e conosciuti Hegel, Hölderlin e Schelling) più tardi collaboratore di Fichte a Jena e negli anni a cui si riferisce l’epistolario consigliere scolastico centrale in Baviera, dove promosse una importante riforma dei ginnasî bavaresi, alla quale più tardi lo stesso Hegel in qualche modo contribuì. Durante gli anni di Bamberga, Niethammer è l’interlocutore principale di Hegel: scrivendogli, esplicita tutto il suo sarcasmo verso la grettezza bavarese e soprattutto esplicita le sue idee politiche, che guardano alla possibilità di una nuova costituzione per la Germania. L’epistolario con Niethammer è inoltre significativo perché dà la possibilità di cogliere concretamente il desiderio hegeliano di tornare agli studi filosofici: tutto il loro scambio si fonda, di fatto, sulla possibilità di vedere realizzata questa speranza, che si concretizzerà solo alla fine del 1808, quando a Hegel, proprio grazie all’interessamento dell’amico, viene affidato l’incarico di rettore e di professore di filosofia del Ginnasio di Norimberga.
Allora, le lettere hegeliane (molte delle quali traversate da una strepitosa e sagace carica polemica) si fanno occasione per riflettere tanto sul concetto stesso di formazione – ad esempio esecrando la scomparsa della filosofia dai programmi di insegnamento universitario della Baviera – quanto sulla strettamente correlata opportunità di scrivere un testo di logica per gli studenti ginnasiali: esplicitamente chiestogli da Niethammer, quel testo diventerà la base di un progetto che sfocerà, negli anni di Norimberga, nella Scienza della logica. In questa prospettiva, è di particolare interesse l’incrocio problematico e niente affatto scontato che Hegel discute in questa corrispondenza fra dimensione didattica e dimensione scientifica. Di fronte alla richiesta di Niethammer, Hegel prende tempo – «spero però che la richiesta non sia urgente e non comporti un sollecito disbrigo» – e dice al suo interlocutore che sta lavorando alla sua logica generale, della quale tarda a venire a capo: «sento che dovrò faticare ancora di più per padroneggiare l’argomento fino al punto da renderlo elementare; lei sa, infatti, che è più facile adottare uno stile incomprensibilmente sublime, anziché riuscire onestamente accessibili, e l’insegnamento che si somministra ai giovani, il modo in cui si porge la materia, sono l’ultima pietra di paragone della chiarezza». Ma la cosa è tanto più complessa, in quanto la logica a cui Hegel sta lavorando è del tutto non tradizionale: diventerà l’opera forse più importante (anche se non la più letta) di Hegel, certamente il caposaldo di ciò che egli intende con pensiero dialettico, ovvero speculativo.
Proprio l’avere in vista questo lavoro rende Hegel riluttante: lo scopo fondamentale di un manuale, scrive infatti, sta nel «contenere quanto è universalmente riconosciuto nell’ambito di una scienza… e nessuno sa più che farsene di questa vecchia logica; ce la trasciniamo dietro come un gioiello di famiglia, e questo soltanto perché non si dispone ancora di un altro surrogato, di cui però si sente universalmente il bisogno». Il problema, agli occhi di Hegel, è quello niente affatto scontato di come «legare tra loro il vecchio, il passaggio al nuovo, cioè il negativo del vecchio, e poi il nuovo positivo che ne consegue». Non sono in campo solo determinazioni logiche: per Hegel, non soltanto sono inscindibili il piano logico e quello concreto, ma – soprattutto – dopo questi anni di immersione nella vita pubblica a Bamberga, egli è sempre più convinto che «il lavoro teorico (…) è più attivo nel mondo che il pratico; tosto che il regno della rappresentazione è rivoluzionato, la realtà effettuale non regge più».
*( Fonte: Il Manifesto – Luca Illetterati è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Padova.)
07 – Tommaso Di Francesco°: COMMENTO DELLA SETTIMANA «CIÒ CHE STA ACCADENDO OGGI A BRUXELLES E A WASHINGTON… STA CREANDO L’ATMOSFERA PER UN EVENTUALE CONFLITTO MILITARE, CHE POTREMMO ANCHE DESCRIVERE COME UNA PREPARAZIONE ALL’ENTRATA IN GUERRA DELL’EUROPA»: LA DICHIARAZIONE DEL SOVRANISTA UNGHERESE VIKTOR ORBÁN SEMBRAVA UNA BOUTADE, INVECE È STATA CONFERMATA E RILANCIATA IERI DAL SEGRETARIO DELLA NATO JENS STOLTENBERG IN UNA INTERVISTA ALL’ECONOMIST NELLA QUALE INVITA GLI ALLEATI NATO CHE FORNISCONO ARMI ALL’UCRAINA A «PORRE FINE AL DIVIETO DI USARLE PER COLPIRE OBIETTIVI MILITARI IN RUSSIA».
Insomma, prepariamoci ad entrare in guerra con la Russia. Un intervento il suo a gamba tesa nella delicata campagna elettorale in corso per le europee, dove i governi Ue e gran parte degli schieramenti politici, tacciono sulla questione cruciale per il destino dell’Europa; per l’Economist Stoltenberg si rivolge anche a Biden, che ancora vuole controllare ciò che l’Ucraina può attaccare con i sistemi forniti dagli Usa – ma il segretario di Stato Blinken la pensa come Stoltenberg.
Si tirano le somme di quello che finora hanno fatto la Nato, gli Usa, l’Ue e molti governi a partire da Giorgia Meloni: nuovi 60 miliardi in armi per Kiev, decisione di acquisti di munizioni concordate anche con il prelievo dal Pnrr, operazioni d’intelligence, accordi di cooperazione militare decennali, gli F-16 in arrivo dopo aver addestrato i piloti… Tutto perché l’inutile massacro continui e in assenza totale di una iniziativa congiunta dell’Ue per un tavolo negoziale per il cessate il fuoco e per un accordo di pace concordato – non il finto summit senza la Russia di giugno in Svizzera.
Mentre dal Sud del mondo le iniziative per la pace non mancano: Xi in Europa di questo ha parlato, tanto che il ministro degli esteri ucraino Kuleba con la moglie di Zelensky sono corsi a Belgrado dopo la sua visita; e a Pechino il ministro degli esteri Wang Yi e il consigliere del presidente brasiliano Lula, Celso Amorim. propongono i temi di una de-escalation del conflitto.
Grave è la responsabilità della Ue. A fronte del fatto che sul campo, dallo stallo alla ritirata ucraina, non si prefigura alcuna possibile vittoria di una parte e nemmeno dell’altra, nonostante la limitata quanto sanguinosa avanzata russa; e che la situazione di stanchezza e di fuga di milioni di giovani russi e ucraini, un’intera generazione, dal fronte bellico, invece richiederebbe uno sforzo negoziale per fermare la guerra, recuperando i contenuti – ritiro russo, autonomia del Donbass, neutralità rispetto alla Nato, sospensione dello status della Crimea – già negli Accordi di Minsk e poi un mese dopo l’inizio della scellerata invasione di Putin, sul tavolo e accettati dalle due parti a Istanbul, ma «saltati» per intervento del premier britannico Johnson, conferma Foreign Affairs, la rivista di riferimento del Dipartimento di Stato Usa.
Al contrario Stoltenberg chiede un allargamento della guerra fino al «limite noto». Perché è chiaro che le nuove armi sofisticate, sistemi di missili a lunga e lunghissima gittata, capaci di colpire in profondità il territorio russo, avrebbero una risposta altrettanto “in profondità”, fino a colpire le linee di rifornimento bellico per l’Ucraina nei Paesi Nato confinanti. Il precipizio sulla terza guerra mondiale.
Solo una domanda. Ma non è che i leader della Nato pensano che Putin sia come Milosevic? 25 anni fa, a marzo, aprile e maggio 1999, scattarono i raid aerei dell’Alleanza atlantica, pure dall’italiana Aviano, durarono 78 giorni, in aperta violazione della Carta dell’Onu, dopo l’imbroglio del vertice di Rambouillet e l’invenzione del casus belli della strage di Racak, con migliaia di vittime civili, disastri ambientali, «effetti collaterali» che devastarono città con milioni di persone, ospedali, ferrovie, scuole, fabbriche nel sud-est dell’Europa.
Hai voglia a dire che è stato «Putin che si è preso la responsabilità di far tornare la guerra in Europa»: nel sud-est europeo sono stati i nazionalismi ben oliati e la stessa Nato – e con il risultato di legittimare un nuovo staterello etnico intorno ad una base Usa. È quello che si vuole fare con Putin? Certo, si possono trovare legami nell’arroganza nazionalista, nel sentimento panslavo…Ma c’è una «inezia» da considerare.
A differenza della piccola e debole Serbia, la Russia ha l’arma atomica e ha avviato da pochi giorni, per risposta alla «deterrenza» occidentale – per Meloni «lo strumento della pace» – esercitazioni con le armi atomiche tattiche alla frontiera ucraino-bielorussa. Siamo al rischio di una escalation incontrollabile.
Come il protagonismo di Macron: vuole mandare truppe francesi in Ucraina ma poi è costretto ad inviarle nella Caledonia in rivolta; e dopo avere annunciato l’invito a «rappresentanti» russi alla festa per lo sbarco in Normandia del giugno ‘44, ci ha ripensato e al posto loro invita Zelensky. È il revisionismo storico di governo: cancellate 26milioni di vittime dell’Unione sovietica occupata dai nazisti dal giugno 1941 – poteva invitare Memorial – , premiata l’Ucraina che applaudì le truppe hitleriane e cooperò con l’«eroe» Bandera.
Un appello europeo, uscito martedì 21 sulla Frankfurter Rundshau (in copyright sul Corriere della Sera), prima firmataria come ex europarlamentare e parlamentare Luciana Castellina – e tra gli altri dieci importanti firmatari Peter Brandt e Carlo Rovelli – oltre a dire basta a nuovi trasferimenti di armi, ha chiesto che la questione di una iniziativa Ue per porre fine alla guerra sia inserita nell’agenda dei candidati alle europee e che il prossimo Parlamento europeo promuova una conferenza con le due parti sul nuovo ordine di pace e di sicurezza in Europa. Quale schieramento ascolterà questo drammatico e necessario appello?
Perché le affermazioni di Stoltenberg vanno nel segno opposto. Tantopiù che avanza l’allarmante novità di una estrema destra proto-fascista “ripulita” delle sue sponde nostalgiche impresentabili, che diventa l’ago della bilancia del governo dell’Ue, pronta all’incarico di continuare la guerra, una prova costituente per legittimarsi internazionalmente, come fa Giorgia Meloni – accreditata da von der Leyen – per la quale la guerra in Europa è una polizza assicurativa sulla durata del governo. Il via libera è già arrivato dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel: «Non importa – ha dichiarato – lo spostamento a destra dell’asse dell’Ue, l’importante è la sostanza». E la sostanza è la guerra.
*(Tommaso Di Francesco è condirettore del quotidiano comunista il manifesto, fa parte del gruppo del Manifesto)
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