n°02 – 13 Gennaio 2024 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO


01 – Perché è un problema se le famiglie più povere sono quelle con più figli.(*)Da alcuni anni, il numero di nuovi nati segna un record negativo nella serie storica.
02 – Andrea Medda*:Giorgia Meloni, costo altissimo per lo staff: più di Renzi, Conte e Draghi.I dettagli – Con il governo di Giorgia Meloni volano i costi per gli uffici di diretta collaborazioni della presidenza del Consiglio.
03 – Camilla Desideri, Stato d’emergenza in Ecuador.
04 – Lorenzo Lamperti*, Taipei all’ombra di Pechino la sfida è sullo status quo. Taiwan oggi al voto.
05 – Junko Terao:* Gli occhi del mondo su Taiwan. A Taiwan sono in corso quelle che probabilmente saranno le elezioni asiatiche più seguite quest’anno in occidente, a giudicare dalla quantità di articoli, reportage e analisi in merito uscite nelle ultime settimane in questa parte di mondo. Gli occhi di tutti sono in realtà puntati su Pechino e sulla sua possibile reazione nel caso vinca il candidato favorito nei sondaggi, Lai Ching-te, noto come William Lai, attuale vice della presidente Tsai Ing-wen, del Partito democratico progressista
06 – L’anno elettorale che verrà. Il 2024 sarà un anno impegnativo e molto interessante per chi segue l’Asia: dopo Taiwan si voterà infatti in molti paesi del continente, con più di un miliardo di elettori chiamati alle urne. In particolare si voterà in quasi tutti i paesi dell’Asia meridionale, dove si concentra quasi la metà della popolazione mondiale che vive in paesi con governi eletti democraticamente.
07 – Marianna Usuelli*: Kohei Saito, il filosofo che ha ribaltato l’interpretazione della dottrina di Karl Marx.
08 – Laudato Sì. Il degrado ambientale e il degrado umano sono intimamente connessi. I poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale di speculazione e di rendita finanziaria che genera effetti distruttivi sull’uomo e l’ambiente.
09 – Claudia Fanti*: Brasiliani contro gli atti golpisti. La democrazia resta in pericolo – AMERICA LATINA. Lula: Bolsonaro «responsabile diretto» dell’assalto agli edifici delle istituzioni dell’8 gennaio 2023. Al momento solo 25 condanne
10 – Le 10 cittadine più inquietanti degli Stati Uniti. Case diroccate, strade fatiscenti, luoghi abbandonati: su TikTok sta tornando di moda parlare delle creepy small town.

 

01 – PERCHÉ È UN PROBLEMA SE LE FAMIGLIE PIÙ POVERE SONO QUELLE CON PIÙ FIGLI.(*)DA ALCUNI ANNI, IL NUMERO DI NUOVI NATI SEGNA UN RECORD NEGATIVO NELLA SERIE STORICA.
Di fronte a questa tendenza, non va sottovalutato come oggi siano proprio le famiglie numerose e con figli a trovarsi più spesso in povertà assoluta. POVERTÀ EDUCATIVA

• GLI ULTIMI DATI RILASCIATI DA ISTAT CONFERMANO LA TENDENZA PER CUI AL CRESCERE DEL NUMERO DI FIGLI, CRESCE LA POVERTÀ NEL NUCLEO FAMILIARE.
• 22,3% LE FAMIGLIE CON ALMENO 3 MINORI IN POVERTÀ ASSOLUTA.
• TRA I NUCLEI DI ALMENO 5 COMPONENTI, IL 22,5% È POVERO.
• 10 LE PROVINCE DOVE OLTRE IL 6% DELLE FAMIGLIE HA ALMENO 5 COMPONENTI.
• NAPOLI È IL CAPOLUOGO CON PIÙ FAMIGLIE NUMEROSE. VAI ALLA MAPPA.

L’ultimo rapporto di Istat sulla povertà offre un quadro della situazione sociale ed economica affrontata dalle famiglie in Italia, in una fase di definitiva uscita dalla pandemia. E allo stesso tempo segnata dalle difficoltà ad essa seguite, come l’inflazione che ha avuto il suo picco proprio nel 2022, anno di riferimento dei dati.
Nel 2022, la quota di nuclei poveri è salita all’8,3%, dal 7,7% dell’anno precedente. Oltre 2 milioni di famiglie su circa 26 milioni. E la condizione si aggrava tra quelle numerose, specie in presenza di minori. Tra i nuclei con almeno 3 figli, più di uno su 5 si trova in povertà assoluta.
Si tratta di un aspetto molto rilevante, sebbene purtroppo non nuovo. Da alcuni anni al crescere del numero di figli cresce anche l’incidenza della povertà nel nucleo familiare.
Questa tendenza è significativa perché direttamente connessa alla condizione materiale attuale di bambini e ragazzi. Come abbiamo avuto modo di raccontare, ormai da oltre un decennio sono la

FASCIA D’ETÀ PIÙ COLPITA DALLA POVERTÀ.
Ma va letta anche, in prospettiva, in termini di impatto sulla condizione sociale e demografica del paese nei prossimi anni. Se sono le famiglie più numerose e con figli a trovarsi più spesso in povertà assoluta, è difficile aspettarsi UN’INVERSIONE DI TENDENZA NELLA NATALITÀ.
Il cui declino si è rafforzato in coincidenza con l’aumento della povertà minorile e delle famiglie con figli.
Attraverso i dati, approfondiamo la condizione economica attuale delle famiglie numerose e con figli minori, ricostruendone l’incidenza a livello locale.

LA POVERTÀ TRA LE FAMIGLIE NUMEROSE E CON FIGLI
Nel 2022 la condizione generale delle famiglie è peggiorata, con un aumento – considerato significativo da Istat – dell’incidenza della povertà assoluta dal 7,7% dell’anno precedente al 8,3%. Si tratta di nuclei che non possono permettersi il paniere di beni e servizi che si può considerare essenziale per condurre uno standard di vita minimamente accettabile.
Le situazioni più critiche emergono nei nuclei con figli. La presenza di almeno un minore nel nucleo innalza l’incidenza della povertà all’11,5%. In generale, come anticipato, si conferma la tendenza per cui maggiore è il numero di figli nel nucleo, più spesso questo si trova in povertà assoluta.

AL CRESCERE DEL NUMERO DI FIGLI, CRESCE LA POVERTÀ DEL NUCLEO FAMILIARE
INCIDENZA DELLA POVERTÀ ASSOLUTA FAMILIARE PER NUMERO DI FIGLI MINORI (2021-22)
• In presenza di un solo figlio minore l’incidenza della povertà assoluta è simile a quella media: 8,7% (rispetto all’8,3% del totale dei nuclei). Con 2 figli la quota sale al 13,2%: quasi 5 punti in più della media. Quando i figli sono almeno 3 l’incidenza della povertà assoluta supera il 20%.
• 22,3% le famiglie con almeno 3 figli minori in povertà assoluta.
• Sono soprattutto i nuclei più giovani a risentirne. Un dato che fa emergere la fragilità di queste famiglie, strette tra le spese per i figli, specie dopo l’inflazione, e le poche risorse con cui fare fronte agli aumenti.
• (…) le famiglie più giovani hanno minori capacità di spesa poiché dispongono di redditi mediamente più bassi e di minori risparmi accumulati nel corso della vita o beni ereditati.
– Istat, La povertà in Italia nel 2022, 25 ottobre 2023
• Tendenze che sicuramente non sono di incentivo nella scelta dei genitori di allargare il nucleo familiare. Anche perché – in perfetta coerenza con quanto appena visto rispetto al numero di figli – le famiglie più numerose sono anche quelle che più spesso si trovano in povertà.

• Nel 2022 i nuclei composti da una sola persona sono meno poveri della media (7,5% dei casi a fronte dell’8,3%).
• La situazione migliora per le famiglie di due componenti, dal momento che il 6% si trova in povertà assoluta. Con tre membri, la famiglia è povera nell’8,2% dei casi.
• Questi dati, è importante sottolinearlo, sono riferiti a tutte le tipologie familiari con un certo numero di membri, a prescindere dalla presenza di minori.
• Con 4 membri, la quota arriva alla doppia cifra (11%), e supera addirittura il 20% con almeno 5 componenti.
• 22,5% le famiglie con almeno 5 componenti in povertà assoluta.
• Un dato che – non casualmente – ricalca quello dei nuclei con 3 o più figli minori.

DOVE VIVONO LE FAMIGLIE NUMEROSE
• Tra le regioni, la Campania è di gran lunga quella con l’incidenza più elevata di famiglie numerose: 7,6% dei nuclei, a fronte di una media nazionale pari al 4,7%.
• Seguono il Trentino-Alto Adige (6%) e 3 regioni del mezzogiorno: Sicilia (5,3%), Calabria (5,2%) e Puglia (5,1%). Poco distanti anche Marche e Veneto (entrambe al 5%).
• Al contrario la quota non raggiunge il 3% in Liguria (2,7%), ed è poco sopra questa soglia in Valle d’Aosta (3,2%), Sardegna (3,3%), Friuli-Venezia Giulia (3,4%) e Piemonte (3,4%).
• 10 su 107 le province dove oltre il 6% delle famiglie ha almeno 5 componenti.
• Tra le province, alla quota raggiunta nella città metropolitana di Napoli (8,7%) e nel casertano (7,1%) si contrappone quella del territorio triestino (2,4%) e della città metropolitana di Genova (2,5%).
• Scendendo a livello comunale, la situazione appare ancora più disomogenea. Ai vertici della classifica nazionale, piccoli comuni del reggino – come San Luca (19,6%) e Platì (18,6%) – e della provincia autonoma di Bolzano, in particolare Lauregno (19,3%) e Valle di Casies (18,6%).

NAPOLI È IL CAPOLUOGO CON PIÙ FAMIGLIE NUMEROSE
PERCENTUALE DI FAMIGLIE CON ALMENO 5 COMPONENTI (2022)

Tuttavia tra le città è Napoli quella con l’incidenza più alta.
• Nel capoluogo campano il 7,5% dei 374mila nuclei residenti ha almeno 5 componenti. Seguono altri capoluoghi del mezzogiorno, come Barletta (7,2%) e Andria (6,9%), ma anche la toscana Prato (6,6% – quarta per presenza di famiglie numerose).
• Sopra la soglia del 6% anche Palermo, Vibo Valentia e Crotone (tutte al 6,3%), mentre poco sotto Catania (5,9%).
• 1 su 43 le famiglie di almeno 5 componenti nei comuni di Carbonia e Trieste.
• In fondo alla classifica, i comuni capoluogo con meno famiglie numerose sono Carbonia, nel Sud Sardegna, e Trieste. Qui solo il 2,3% dei nuclei ha almeno 5 componenti. Superano di poco questa cifra anche Ferrara (2,4%), Genova (2,4%) e Pavia (2,5%).

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.
*(Fonte: Openpolis. I dati relativi alle famiglie residenti per numero di componenti sono di fonte Istat.)

 

02 – Andrea Medda*:Giorgia Meloni, COSTO ALTISSIMO PER LO STAFF: PIÙ DI RENZI, CONTE E DRAGHI.I DETTAGLI – CON IL GOVERNO DI GIORGIA MELONI VOLANO I COSTI PER GLI UFFICI DI DIRETTA COLLABORAZIONI DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO.

Lo staff di Giorgia Meloni costerà cifre elevatissime. Infatti, le spese previste della presidenza del Consiglio dei ministri per gli uffici di diretta collaborazione risultano essere cifre mai viste prima, neppure durante il governo Draghi, quello di Renzi e anche quello di Conte.
Secondo quanto si apprende da Domani, citato da Open, infatti, nel bilancio preventivo 2024 la presidenza del Consiglio dei ministri spenderà 21 milioni e 280 mila euro per gli uffici di diretta collaborazione. Si tratta, di fatto, dello staff della premier Giorgia Meloni.
La somma risulta essere decisamente elevata: prima della leader di Fdi, infatti, i suoi predecessori avevano speso molto meno. Il quotidiano ha sottolineato come lo staff della Meloni costerà la bellezza di due milioni in più rispetto al governo Draghi. Addirittura nove in più rispetto a quello di Matteo Renzi.
Per quanto riguarda, invece, la gestione di Giuseppe Conte, l’attuale numero uno del M5s ne spendeva quattro in meno. L’incremento ufficiale è di 350 mila euro ma nel 2023 era cresciuto di due milioni.

I dettagli
• Tra gli altri dettagli sui costi, il bilancio complessivo di Palazzo Chigi è di 5,3 miliardi. Ovvero 311 milioni in più rispetto all’anno precedente.
• Nel costo ci sono da considerare gli aumenti dei soldi alla Protezione Civile, ovvero 1,2 miliardi. Ma non solo. Anche l’incremento delle spese obbligatorie per il funzionamento della struttura. Nello specifico queste sono passate da 383 a 404 milioni di euro. Inoltre, cinque milioni di euro servono per le assunzioni necessarie a fronteggiare l’emergenza migratoria. Infine, 100 mila euro saranno utilizzati per la realizzazione del parco della salute di Torino.
• In totale, il personale assegnato a Palazzo Chigi vedrà un costo di 13,8 milioni di euro, con un aumento netto rispetto ai quasi nove dell’anno precedente.

*( Fonte: News Mondo. Andrea Medda, giornalista )

 

03 – Camilla Desideri*: STATO D’EMERGENZA IN ECUADOR. TRA IL 7 E IL 9 GENNAIO 2024 IN ECUADOR SONO ACCADUTI VARI EPISODI VIOLENTI CHE HANNO FATTO PRECIPITARE IL PAESE NEL CAOS.
José Adolfo Macías, noto come Fito, leader del potente cartello della droga Los Choneros, è evaso da un carcere della città costiera di Guayaquil in cui era recluso dal 2011 e dove stava scontando una condanna di 34 anni. Doveva essere trasferito in una struttura di massima sicurezza e da allora è latinante. Dopo di lui è evaso anche un altro leader criminale, Fabricio Colón Pico, affiliato a una banda rivale che si chiama Los Lobos.
Contemporaneamente i detenuti di varie prigioni hanno preso in ostaggio decine di agenti e di guardie penitenziarie, sono esplose almeno quattro autobombe in differenti zone del paese, sono stati saccheggiati molti negozi e ci sono stati attacchi a ospedali e scontri a fuoco in molte province. Di fronte a quest’escalation di violenza il presidente di centro Daniel Noboa ha proclamato lo stato di emergenza. La misura, che resterà in vigore per sessanta giorni, prevede un coprifuoco nelle ore notturne, dalle undici di sera alle cinque di mattina, la possibilità per il governo di mandare i militari nelle strade e nelle carceri e la limitazione di alcuni diritti per i cittadini, come quello di assemblea. La decisione di Noboa non è una novità: il suo predecessore, il conservatore Guillermo Lasso, l’ha applicata venti volte in soli due anni e mezzo di governo.

Il 9 gennaio, il giorno dopo l’annuncio dello stato d’emergenza, un gruppo di uomini armati e in gran parte incappucciati ha fatto irruzione negli studi della tv pubblica Tc Televisión, a Guayaquil, e ha preso in ostaggio dipendenti e conduttori, obbligandoli a restare sdraiati in terra. Per più di un’ora le telecamere sono rimaste accese e hanno continuato a trasmettere in diretta quello che stava succedendo, mentre in sottofondo si sentiva il rumore di spari e detonazioni. Uno dei conduttori, José Luis Calderón, è stato portato davanti alle telecamere e, con varie armi puntate alla testa, è stato obbligato a chiedere agli agenti di ritirarsi. Dopo circa due ore la polizia è intervenuta, ha riportato la situazione sotto controllo e ha arrestato tredici persone, probabilmente affiliati di una banda criminale chiamata Los Tiguerones. Dopo quest’episodio Noboa ha dichiarato che nel paese è in corso “un conflitto armato interno”, ha ordinato ai militari di ristabilire l’ordine nelle strade e ha definito “gruppi terroristici” ventidue bande criminali attive nel paese.

Per Noboa questa è la prima prova difficile da quando è stato eletto, lo scorso ottobre. È il presidente più giovane della storia dell’Ecuador, ha 36 anni, ha poca esperienza politica, non si dichiara né di destra né di sinistra, anche se è figlio di un ricchissimo imprenditore, Álvaro Noboa, che ha fatto fortuna con l’esportazione delle banane e ha provato a diventare presidente ben cinque volte, senza mai essere eletto. Noboa ha vinto le elezioni con la promessa di combattere la criminalità organizzata e riportare il paese a livelli di sicurezza accettabili, tra l’altro dopo una campagna elettorale particolarmente violenta, segnata dall’omicidio lo scorso agosto del candidato di sinistra Fernando Villavicencio, ucciso a Quito pochi giorni prima del voto.

Resterà in carica solo sedici mesi, cioè fino a maggio del 2025, quando sarebbe dovuto scadere il mandato di Lasso, che ha sciolto il parlamento anticipatamente per evitare un procedimento politico per corruzione e ha convocato le elezioni. Alcune iniziative che il nuovo presidente sta prendendo per limitare il potere delle bande e per cercare di ridurre le attività criminali dei loro boss in carcere, per esempio trasferendoli in istituti di massima sicurezza (quello che stava facendo con Fito) o allungando le loro pene, hanno infastidito le bande criminali che hanno scatenato quest’ultima ondata di violenza, partendo proprio dalle prigioni.

In pochi anni l’Ecuador, dove vivono quasi 18 milioni di persone, è passato da essere uno dei paesi più sicuri della regione a uno dei più pericolosi. Era noto per i suoi vulcani, per la sua ricca biodiversità, per il costo basso della vita, che attirava molti cittadini statunitensi in pensione. Nel 2017 il tasso di omicidi era di 5,78 per ogni centomila abitanti, oggi è di quaranta. Il 2023 è stato l’anno più letale della sua storia recente, con quasi 7.600 morti violente, rispetto alle poco più di quattromila dell’anno precedente.

Le cause di questa trasformazione sono molte, come spiega in un editoriale El País: gli investimenti pubblici sono diminuiti, la pandemia di covid-19 ha aggravato la crisi economica e la disoccupazione, lasciando spazio all’infiltrazione della criminalità organizzata internazionale, in particolare ai cartelli della droga messicani che si contendono con le bande locali le rotte per il traffico di cocaina. Geograficamente l’Ecuador è stretto tra la Colombia e il Perù, i due principali produttori di cocaina del mondo, e negli ultimi anni la città di Guayaquil (dove infatti si concentra la maggior parte degli episodi violenti) è diventata il porto principale da cui partono i carichi di droga diretti in Europa e negli Stati Uniti.
La crisi economica e l’escalation della violenza hanno spinto decine di migliaia di persone a lasciare il paese e a mettersi in viaggio verso nord, tentando la traversata della pericolosa giungla del Darién, al confine tra la Colombia e Panamá. Dopo i venezuelani, infatti, il secondo gruppo più numeroso di persone che passa per il Darién sono gli ecuadoriani, hanno reso noto le autorità panamensi. Ora Noboa ha un compito difficile davanti a sé, conclude El País sottolineando il rischio che il leader ecuadoriano possa seguire il modello autoritario del presidente del Salvador Nayib Bukele: coinvolgere tutti i partiti per mettere in atto una politica implacabile contro la criminalità organizzata, ma senza calpestare i diritti umani e rispettando le libertà fondamentali di tutti i cittadini.
*( Camilla Desideri, giornalista di Internazionale)

 

04 – Lorenzo Lamperti*, TAIPEI ALL’OMBRA DI PECHINO LA SFIDA È SULLO STATUS QUO. TAIWAN OGGI AL VOTO. I DUE SFIDANTI PRINCIPALI SI SCONTRANO SUL RAPPORTO CON LA CINA, IL TERZO INCOMODO PIACE AI GIOVANI PERCHÉ PARLA DEI PROBLEMI INTERNI ALL’ISOLA.

Status quo. Per i due candidati principali alle presidenziali di Taiwan, ma anche per Cina e Stati uniti, la parola chiave delle elezioni di oggi è questa. L’assunto è chiaro: il voto sarà decisivo per il futuro delle relazioni con Pechino, ma anche per gli equilibri tra le due grandi potenze. Probabile, quasi certo, anche in realtà i taiwanesi non ne sembrano particolarmente convinti. «Chiunque vinca, l’importante è che abbassi i prezzi delle case. Lo dico per mia figlia», dice la 54enne Limei mentre scruta le bancarelle del mercatino di Yongchun, non lontano dal centro di Taipei. Con una curva demografica che tende in modo sempre più inquietante al basso, non aiuta certo il problema abitativo che impedisce a molti giovani anche solo di ipotizzare di crearsi una famiglia.

UN PROBLEMA talmente atavico da aver creato i primi segnali concreti di una crisi dei partiti tradizionali, che però si concentrano prevalentemente su altro, cercando di cogliere in fallo il rivale su identità nazionale e rapporti con la Cina continentale. Non a caso, il Guomindang (Gmd) che fu di Sun Yat-sen e Chiang Kai-shek presenta da mesi il voto come una «scelta tra guerra e pace». Secondo il suo candidato, l’ex poliziotto Hou Yu-ih, una vittoria di Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp) alzerebbe il rischio di un conflitto sullo Stretto per le sue posizioni «indipendentiste». Il rivale, attuale vicepresidente, parla di «scelta tra democrazia e autoritarismo». Suggerendo che un successo dell’opposizione dialogante con Pechino potrebbe portare verso la riunificazione.

IN REALTÀ entrambi garantiscono di voler mantenere lo status quo, dunque niente unificazione ma nemmeno dichiarazione di indipendenza formale. C’è una differenza, sottile eppure decisiva. Il Gmd riconosce il «consenso del 1992», controverso accordo col Partito comunista (Pcc) secondo cui esiste una sola Cina, ma con «diverse interpretazioni». Un’ambiguità strategica che ha consentito il dialogo. Il Dpp sostiene invece che Taiwan (entro la cornice del nome ufficiale Repubblica di Cina) e Repubblica popolare cinese siano due entità separate e non interdipendenti. È la “teoria dei due stati” del primo presidente eletto democraticamente, Lee Teng-hui, ripresa dalla leader uscente Tsai Ing-wen. Una posizione che Xi Jinping ritiene «secessionista», ma diversa dall’indipendenza formale come Repubblica di Taiwan perseguita dal Dpp delle origini. Un passaggio che, come messo nero su bianco dalla legge anti secessione di Pechino, significherebbe guerra.

NELLE ULTIME battute della campagna elettorale, Hou e Lai hanno provato a prendere le distanze dai vecchi leader dei loro partiti. «Non sono un tipico membro del Gmd», ha detto Hou a 48 ore dal voto, dopo che l’influente ex presidente Ma Ying-jeou (non invitato al comizio finale del suo “discepolo”) ha dichiarato: «È impossibile vincere una guerra contro la Cina». Hou parla spesso in dialetto taiwanese, cosa impensabile per un membro del Gmd fino alla fine della legge della guerra marziale nel 1987 e alla democratizzazione. L’ex agente ha garantito che rilanciare il rapporto con Pechino non significa procedere a un accordo politico. Lai garantisce invece di aver archiviato le velleità indipendentiste e di aver sposato la linea di Tsai, sua ex rivale interna al Dpp.
Lai dice di essere pronto a dialogare con Xi, che qualche mese fa aveva invitato a bere un bubble tea. Complicato possa accadere. «Se la Cina non parla con Tsai, non parlerà nemmeno con Lai, che è percepito come più radicale e meno prevedibile», dice Yen Chen-shen, politologo della National Chengchi University di Taipei. Una vittoria di Lai potrebbe aumentare la pressione militare di Pechino. Gli Usa potrebbero vedere nella familiare vice Hsiao Bi-khim, ex rappresentante di Taipei a Washington, una garanzia contro colpi di testa non voluti.
IL TERZO incomodo è Ko Wen-je, che in passato ha definito taiwanesi e cinesi come appartenenti a un’unica famiglia. Il candidato del Partito popolare (Tpp), ex medico ed ex sindaco di Taipei, propone una “terza via” pragmatica e anti ideologica. Mentre i rivali parlavano prevalentemente di questioni internazionali, lui si è concentrato soprattutto su quelle interne. Negli ultimi giorni prima delle urne, Dpp e Kmt hanno iniziato a temerlo, soprattutto per il consenso che sembra riscuotere tra i giovani, che hanno affollato il suo ultimo comizio di ieri sera, al contrario di quello del Dpp. Mentre i rivali parlavano prevalentemente di questioni internazionali, lui si è concentrato soprattutto su quelle interne. Anche se sconfitto, Ko potrebbe giocare un ruolo decisivo in parlamento, dove nessuno dovrebbe avere la maggioranza assoluta.
UN’ULTERIORE variante è l’imminente arrivo di una delegazione di ex alti ufficiali inviati dalla Casa bianca. Una mossa che la Cina ha letto come «un’interferenza sul voto». Dall’amministrazione Biden sono comunque arrivati anche segnali di rassicurazione. «Non prendiamo posizione sulla risoluzione definitiva delle divergenze tra le due sponde dello Stretto, purché siano risolte pacificamente», ha detto un funzionario della Casa bianca. Evitare l’apertura di un nuovo fronte è d’altronde imperativo, ancor di più tenendo in considerazione che secondo le stime di Bloomberg una guerra su Taiwan costerebbe circa 10.000 miliardi di dollari, il 10% del pil mondiale: più del Covid e della guerra in Ucraina.
*( Lorenzo Lamperti È giornalista e direttore dell’agenzia editoriale China Files. Vive a Taiwan)

 

05 – Junko Terao:* GLI OCCHI DEL MONDO SU TAIWAN. A TAIWAN SONO IN CORSO QUELLE CHE PROBABILMENTE SARANNO LE ELEZIONI ASIATICHE PIÙ SEGUITE QUEST’ANNO IN OCCIDENTE, A GIUDICARE DALLA QUANTITÀ DI ARTICOLI, REPORTAGE E ANALISI IN MERITO USCITE NELLE ULTIME SETTIMANE IN QUESTA PARTE DI MONDO. GLI OCCHI DI TUTTI SONO IN REALTÀ PUNTATI SU PECHINO E SULLA SUA POSSIBILE REAZIONE NEL CASO VINCA IL CANDIDATO FAVORITO NEI SONDAGGI, LAI CHING-TE, NOTO COME WILLIAM LAI, ATTUALE VICE DELLA PRESIDENTE TSAI ING-WEN, DEL PARTITO DEMOCRATICO PROGRESSISTA (Dpp).
Negli anni della presidenza Tsai, cominciata nel 2016 con grande disappunto di Pechino, Taiwan ha subìto gli attacchi più duri da parte del governo cinese – per il quale l’unificazione con “l’isola ribelle” è un obiettivo inserito nella costituzione – e pressioni crescenti nella forma di incursioni militari nello spazio aereo e marittimo dell’isola. Parallelamente alle minacce di Pechino è cresciuto anche il sostegno degli Stati Uniti nei confronti dell’isola, unico baluardo democratico nella sinosfera e in quanto tale da difendere strenuamente, almeno a parole.
L’arrivo al governo di Tsai e del Dpp, rappresentanti delle aspirazioni indipendentiste dell’isola ma anche pragmatici sostenitori dello status quo (Taiwan è già di fatto un paese autonomo dalla Cina, non serve sancire la sua indipendenza legalmente), aveva segnato la fine della luna di miele tra Taipei e Pechino, durata otto anni grazie al presidente Ma Ying-jeou e al suo partito, il Kuomintang (Kmt, il partito del nazionalista di Chiang Kai-shek, che nel 1949 si rifugiò a Taiwan con il suo esercito, sconfitto dai soldati di Mao Zedong). Il periodo che è seguìto, culminato negli ultimi due anni nei discorsi su una possibile terza guerra mondiale, ha visto gli Stati Uniti sostenere con forza sempre maggiore Taiwan, con esiti non sempre graditi a Taipei che, scegliendo di vivere nell’ambiguità, apprezza la prudenza più delle manifestazioni di solidarietà troppo accorate.
Il discorso di capodanno di Xi Jinping, che ha ribadito l’inevitabilità dell’unificazione, non lascia dubbi sul suo tentativo di intimidire gli elettori, ma l’idea che i taiwanesi andranno alle urne con in testa la paura dell’invasione cinese è frutto di un errore di valutazione o di una narrazione semplicistica che prevale in occidente. La minaccia cinese è reale ma non è una novità, e i taiwanesi ormai ci hanno fatto l’abitudine. Soprattutto, agli elettori stanno a cuore questioni molto più concrete e urgenti: il lavoro, i salari, la casa e il costo della vita. Questi sono temi che interessano in particolare a una parte dell’elettorato che potrebbe rivelarsi decisivo per il risultato del voto: i giovani.
Tra poche ore sapremo se William Lai, che secondo gli ultimi sondaggi disponibili (nei dieci giorni prima del voto i sondaggi sono vietati) aveva diversi punti di vantaggio sui due sfidanti – Hou Yu-ih del Kmt e Ko Wen-je, presidente e fondatore del Taiwan people’s party (Tpp) – ce la farà. Michelle Kuo e Albert Wu, autori di una newsletter su Taiwan, scrivono che secondo i sondaggi interni del Dpp il margine di vantaggio di Lai sarebbe più stretto e che “è quasi impossibile che il partito mantenga la maggioranza in parlamento. E c’è una discreta possibilità che perda il controllo della presidenza”
*( Junko Terao è una giornalista italo-giapponese. Laureata in lingue e letterature orientali a Ca’ Foscari, ha lavorato nelle redazioni esteri di Lettera22, Manifesto e Riformista. Dal 2010 è l’editor per l’Asia e il Pacifico del settimanale Internazionale.)

 

06 – L’anno elettorale che verrà*. IL 2024 SARÀ UN ANNO IMPEGNATIVO E MOLTO INTERESSANTE PER CHI SEGUE L’ASIA: DOPO TAIWAN SI VOTERÀ INFATTI IN MOLTI PAESI DEL CONTINENTE, CON PIÙ DI UN MILIARDO DI ELETTORI CHIAMATI ALLE URNE. IN PARTICOLARE SI VOTERÀ IN QUASI TUTTI I PAESI DELL’ASIA MERIDIONALE, DOVE SI CONCENTRA QUASI LA METÀ DELLA POPOLAZIONE MONDIALE CHE VIVE IN PAESI CON GOVERNI ELETTI DEMOCRATICAMENTE.

L’anno elettorale è cominciato domenica scorsa in Bangladesh. Sarà poi la volta del Pakistan, dell’India e dello Sri Lanka. Parliamo di democrazie fragili, imperfette, dove il rischio dell’autoritarismo è dietro l’angolo, come dimostra il caso del Bangladesh, dove la prima ministra Sheikh Hasina, che governa il paese dal 2009, si è aggiudicata il quarto mandato consecutivo (il quinto in termini assoluti perché aveva guidato il paese tra il 1996 e il 2001). Il risultato era stato ampiamente previsto innanzitutto perché il voto è stato boicottato dal principale partito dell’opposizione, il Partito nazionalista del Bangladesh, che aveva chiesto che a portare il paese alle urne fosse un governo ad interim, come vuole una consuetudine che si è consolidata negli anni. Hasina ha rifiutato la richiesta e ha fatto incarcerare migliaia di dissidenti e fatto reprimere con violenza le manifestazioni antigovernative. Secondo l’opposizione almeno nove tra leader e sostenitori del Pnb sono morti in carcere negli ultimi tre mesi.
Il Pnb aveva invocato uno sciopero contro il voto definito “una farsa” e il risultato è stata un’affluenza molto bassa, intorno al 40 per cento. Il partito della premier, la Lega Awami, si è aggiudicato il 75 per cento dei seggi in parlamento. Nel corso dei tre mandati di Hasina il Bangladesh ha avuto una crescita economica notevole, grazie in particolare all’industria tessile e all’export di abbigliamento. La popolazione che vive sotto la soglia di povertà è scesa sotto il 13 per cento, mentre negli anni novanta era il 50 per cento. Allo stesso tempo, però, il governo di Sheikh Hasina ha preso una deriva sempre più autoritaria. La premier è la figlia del fondatore del Bangladesh, Sheikh Mujibur Rahman, che il governo ha reso oggetto di una specie di culto, con concorsi scolastici dedicati a lui e il divieto di diffamarne la memoria. I quarto mandato ottenuto con elezioni in cui la Lega Awami non ha avuto di fatto rivali non fa che confermare la definizione di “autocrazia elettorale” spesso attribuita al Bangladesh.
L’8 febbraio si vota in Pakistan e le elezioni, rimandate oltre il termine previsto per legge, saranno il culmine di una crisi politica che dura più di un anno e mezzo, quando il primo ministro Imran Khan, ex campione di cricket mondiale, è stato sfiduciato dal parlamento nell’aprile 2022. Da allora Khan ha indetto scioperi e manifestazioni accusando l’establishment militare di volerlo eliminare politicamente. Il governo ha risposto incarcerando esponenti e sostenitori del Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI), il partito di Khan, che lo scorso agosto è stato incarcerato con l’accusa di corruzione, accuse che lui dice essere politicamente motivate. Nel frattempo è rientrato nel paese dopo quattro anni di esilio volontario l’ex premier Nawaz Sharif, il cui partito, il Pakistan Muslim League-Nawaz (PML-N), sembra essere oggi nelle grazie dell’esercito. In realtà il partito di Khan è ancora molto popolare, il che fa pensare ad alcuni osservatori che il voto potrebbe slittare ancora. Oltre alla crisi politica, il paese è alle prese con una crisi economica senza precedenti per cui ha dovuto chiedere l’intervento dell’Fmi.

In India, il paese più popoloso del mondo, tra aprile e maggio saranno chiamati alle urne 950 milioni di elettori. In occidente si ama definire l’India “la più grande democrazia del mondo”, ma nei due mandati di governo consecutivi del Bharatiya janata party (Bjp) del primo ministro Narendra Modi, che ora cerca la riconferma per un terzo mandato, la democrazia ha fatto passi indietro. Modi ha dato forma a uno stato basato sull’ideologia ultranazionalista indù dove le minoranze, in particolare i musulmani, sono perseguitati apertamente e impunemente. L’opposizione si è organizzata in una coalizione, INDIA, il cui mandato è battere il Bjp alle urne. Ma, dati i risultati delle elezioni statali di novembre, le speranze che ci riescano sono poche.
In Sri Lanka si dovrebbe votare entro settembre per rinnovare il parlamento ed eleggere il presidente. Come il Pakistan, anche lo Sri Lanka è alle prese con le peggiore crisi economica della sua storia, per cui ha chiesto l’intervento dell’Fmi. Dopo la fine dell’era dei Rajapaksa, con la destituzione e la fuga di Gotabaya nel 2019, non c’è un candidato favorito alla carica di presidente.
Il Mondo è il podcast quotidiano di Internazionale, dal lunedì al venerdì, tutte le mattine dalle 6.30. Qui ci sono tutte le puntate della settimana.

In breve
◆ In Birmania Pechino ha mediato un cessate il fuoco tra la giunta militare e i tre gruppi ribelli che avevano guadagnato terreno nel nord del paese e bloccato gli scambi commerciali con la Cina.
◆ Stato d’emergenza in Papua Nuova Guinea dove 15 persone sono morte a causa delle violenze scoppiate nelle due città principali dopo delle manifestazioni spontanee contro il governo.
◆ Tra India e Maldive è in corso una crisi diplomatica generata da una visita del primo ministro Narendra Modi alle isole Lakshadweep, un arcipelago poco sviluppato vicino alle Maldive dove New Delhi vuole promuovere il turismo. Tre viceministri di Malè, che hanno percepito la mossa come una minaccia per il loro paese dato che la maggior parte dei visitatori delle Maldive viene dall’India, hanno commentato sui social network insultando Modi e l’India. Sono seguite la sospensione dei tre funzionari e la convocazione dell’ambasciatore maldiviano a New Delhi. Dietro c’è l’allontanamento di Malè dall’India, partner storica, a favore di nuovi rapporti privilegiati con la Cina.
*(ndr)

 

07 – Marianna Usuelli*: KOHEI SAITO, IL FILOSOFO CHE HA RIBALTATO L’INTERPRETAZIONE DELLA DOTTRINA DI KARL MARX. MARX È SEMPRE STATO CONSIDERATO LONTANO DALL’ECOLOGIA. A TORTO. LO DIMOSTRA IL LAVORO DI RICERCA DEL FILOSOFO GIAPPONESE CHE HA RIESUMATO GLI INEDITI “QUADERNI DI SCIENZE NATURALI” CHE CUSTODISCONO LA VERSIONE PIÙ MATURA E RECENTE DEL PENSIERO DELL’ECONOMISTA DI TREVIRI. LA SOSTENIBILITÀ È AL CENTRO DELLA SUA CRITICA AL CAPITALISMO

Con centinaia di migliaia di copie vendute in tutto il mondo in numerose lingue, Kohei Saito è il filosofo giapponese che sta ribaltando l’interpretazione convenzionale della dottrina di Karl Marx. Da sempre concepito come pensatore produttivista, utopista tecnologico con un’inflessibile fiducia nel progresso, che promuove il dominio dell’umanità sulla natura, Marx è sempre stato considerato lontano dall’ecologia. Saito, uno dei maggiori conoscitori a livello globale del padre del comunismo, ha riesumato dei manoscritti che Marx non riuscì a riordinare prima di morire. I “Quaderni di scienze naturali” nascondono per Saito la versione più matura e recente del pensiero di Marx e permettono di ricostruire tutta un’altra filosofia, che addirittura pone la sostenibilità al centro della sua critica al capitalismo.
L’eco socialismo di Karl Marx (Castelvecchi Editore, 2023) è il libro partorito dall’analisi di questi scritti inediti, che affrontando le prospettive dell’agricoltura, della botanica, della chimica e della geologia, contengono fondamentali riflessioni sulla crisi ecologica causata dalle attività umane. Apparso per la prima volta nel 2017, “L’eco socialismo di Karl Marx” ha reso Saito il più giovane vincitore del Deutscher Memorial Prize, ma è stato pubblicato in italiano solo alla fine del 2023.
PROFESSOR SAITO, ROVESCIANDO L’INTERPRETAZIONE CANONICA DEL “MARXISMO PROMETEICO”, LEI GIUNGE A SOSTENERE CHE “NON È POSSIBILE COMPRENDERE TUTTA LA PORTATA DELLA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA DI MARX SE SI IGNORA LA SUA DIMENSIONE ECOLOGICA”. CI SPIEGA MEGLIO?
KS Penso che oggi sia difficile negare che il capitalismo sta creando l’attuale crisi ecologica globale. Il problema è che non ci sono molte teorie per criticare sistematicamente l’economia di mercato. La principale è ovviamente quella legata al pensiero di Karl Marx che però è sempre stato accusato di essere anti-ecologico, paladino della modernizzazione e dell’industrializzazione. Dai “Quaderni di scienze naturali” emerge tuttavia la sua profonda attenzione verso fenomeni quali la deforestazione, la desertificazione, l’esaurimento del suolo e addirittura l’estinzione delle specie, che prima d’ora si ignorava completamente. Marx era giunto alla conclusione che il capitalismo non comporta solo lo sfruttamento degli umani ma anche della natura e che sta distorcendo la nostra interazione metabolica con essa. Verso la fine della sua vita Marx rivendicò quindi una società postcapitalistica sostenibile, quello che io chiamo “eco-socialismo”.

SECONDO LEI PERCHÉ MARX È STATO FRAINTESO FINO A OGGI E NON SIAMO STATI IN GRADO DI COGLIERE IL SUO PENSIERO ECOLOGICO?
KS Pubblicati solo nel 2020 (Saito è uno degli editori, ndr), i Quaderni di scienze naturali sono stati ignorati per ben 150 anni dalla pubblicazione del primo volume de “Il Capitale”. Una delle ragioni è che nel corso del Novecento i movimenti sociali si sono dedicati prevalentemente alle condizioni di vita dei lavoratori e alla lotta alla povertà, trascurando l’ecologia. Abbiamo creduto che con la tecnologia e lo sviluppo potessimo risolvere il problema della fame. La questione ecologica è stata marginalizzata e lo è tuttora, anche da parte dei movimenti operai. Io penso invece che oggi verdi e rossi dovrebbero imparare gli uni dagli altri e che l’ecosocialismo sia uno dei modi grazie a cui possiamo lottare meglio per ottenere una società più giusta e sostenibile.

SPESSO SI DICE CHE È PIÙ FACILE IMMAGINARE LA FINE DEL MONDO CHE LA FINE DEL CAPITALISMO. COME MAI LA NOSTRA SOCIETÀ È GIUNTA ALL’INCAPACITÀ DI IMMAGINARSI DIVERSAMENTE?
KS Dopo il collasso dell’Unione sovietica molti hanno pensato che il marxismo avesse fallito e non ci fosse alcuna alternativa al sistema capitalistico. A quel punto si è pensato che tutti i problemi -la sostenibilità, l’uguaglianza, la parità di genere- avrebbero dovuto essere risolti all’interno dell’economia di mercato. La nostra immaginazione si è costretta sempre più negli esistenti sistemi economici, istituzioni politiche e norme culturali. Quando ero uno studente sono stato molto ispirato dal filosofo Antonio Negri, scomparso di recente. Lui è stato uno dei pochi a rivendicare apertamente la necessità di immaginare una società oltre il capitalismo, alternativa che chiamava “comunismo”. Molti oggi pensano che il comunismo sia un’utopia, ma è altrettanto utopico pensare che il capitalismo possa risolvere la crisi climatica e portare benessere a tutti. Quindi io credo che abbiamo bisogno di più coraggio e immaginazione per proiettarci oltre il capitalismo ponendo al centro la questione ecologica, e penso che il marxismo ci dia tanti spunti creativi per questo lavoro.

“DOPO IL COLLASSO DELL’UNIONE SOVIETICA MOLTI HANNO PENSATO CHE IL MARXISMO AVESSE FALLITO E NON CI FOSSE ALCUNA ALTERNATIVA AL SISTEMA CAPITALISTICO. A QUEL PUNTO SI È PENSATO CHE TUTTI I PROBLEMI AVREBBERO DOVUTO ESSERE RISOLTI ALL’INTERNO DELL’ECONOMIA DI MERCATO” – KOHEI SAITO

ALLA LUCE DELLE SUE RIFLESSIONI, SI POTREBBE CONSIDERARE MARX UN AUTORE IN LINEA CON IL PENSIERO DELLA DECRESCITA?
KS Molti ritengono che il superamento del capitalismo implicherebbe un uso della tecnologia più giusto e una crescita economica più sostenuta e a beneficio di tutti. Ma questa idea non è in linea con il pensiero che Marx ha sviluppato alla fine della sua vita. Infatti era giunto a riconoscere che lo sviluppo della tecnologia nel capitalismo si è verificato a spese di un sempre maggiore sfruttamento degli umani e della natura. Una tecnologia che nasce dallo sfruttamento non è adatta a una società post-capitalistica che aspira all’uguaglianza. Abbiamo bisogno di un diverso tipo di tecnologia e di relazione con la natura. Negli anni Marx è diventato sempre più critico nei confronti del produttivismo e ha sviluppato un’idea di abbondanza slegata dal consumismo e più sostenibile. Penso quindi che dovremmo specificare il concetto di ecosocialismo come “decrescita ecosocialista” o “comunista”, in cui tutti condividiamo la ricchezza di questo Pianeta in un modo uguale e giusto.

SI È CONCLUSA DA POCHE SETTIMANE LA VENTOTTESIMA CONFERENZA DELLE NAZIONI Unite sul clima (Cop28). Come giudica gli esiti?
KS Se si rimane nella cornice esistente delle attuali istituzioni politiche, la Cop28 è da leggere come un successo, è andata meglio delle precedenti e ha portato a un risultato storico, così come quando è stato raggiunto l’Accordo di Parigi nel 2015. Se si esce dalla cornice capitalistica, l’intero sistema delle Cop appare come un fallimento: non sta portando la necessaria trasformazione che serve per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C e non sta dando voce alle persone povere e marginalizzate. Da questa prospettiva con la Cop28 abbiamo assistito alla ripetizione delle solite dinamiche politiche e questa è una delle ragioni per cui le persone dovrebbero radicalizzarsi e avremmo bisogno di sperimentare un diverso tipo di movimento sociale e politico.
*( Marianna Usuelli. Giornalista, collabora con la rivista Altreconomia. È tutor del Master Interdisciplinary Approaches to Climate Change della Università Statale di Milano e collabora con l’Unità Aria e Clima del Comune di Milano)


08 – LAUDATO SI’*: IL DEGRADO AMBIENTALE E IL DEGRADO UMANO SONO INTIMAMENTE CONNESSI. I POTERI ECONOMICI CONTINUANO A GIUSTIFICARE L’ATTUALE SISTEMA MONDIALE DI SPECULAZIONE E DI RENDITA FINANZIARIA CHE GENERA EFFETTI DISTRUTTIVI SULL’UOMO E L’AMB
IENTE.

L’INIQUITÀ PLANETARIA
L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale. Di fatto, il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta: Tanto l’esperienza comune della vita ordinaria quanto la ricerca scientifica dimostrano che gli effetti più gravi di tutte le aggressioni ambientali li subisce la gente più povera. Per esempio, l’esaurimento delle riserve ittiche penalizza specialmente coloro che vivono della pesca artigianale e non hanno come sostituirla, l’inquinamento dell’acqua colpisce in particolare i più poveri che non hanno la possibilità di comprare acqua imbottigliata, e l’innalzamento del livello del mare colpisce principalmente le popolazioni costiere impoverite che non hanno dove trasferirsi. L’impatto degli squilibri attuali si manifesta anche nella morte prematura di molti poveri, nei conflitti generati dalla mancanza di risorse e in tanti altri problemi che non trovano spazio sufficiente nelle agende del mondo. Vorrei osservare che spesso non si ha chiara consapevolezza dei problemi che colpiscono particolarmente gli esclusi. Essi sono la maggior parte del pianeta, miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto. Questo si deve in parte al fatto che tanti professionisti, opinionisti, mezzi di comunicazione e centri di potere sono ubicati lontani da loro, in aree urbane isolate, senza contatto diretto con i loro problemi. Vivono e riflettono a partire dalla comodità di uno sviluppo e di una qualità di vita che non sono alla portata della maggior parte della popolazione mondiale. Questa mancanza di contatto fisico e di incontro, a volte favorita dalla frammentazione delle nostre città, aiuta a cauterizzare la coscienza e a ignorare parte della realtà in analisi parziali. Ciò a volte convive con un discorso “verde”.

ECOLOGIA E GIUSTIZIA SOCIALE
Ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri. Invece di risolvere i problemi dei poveri e pensare a un mondo diverso, alcuni si limitano a proporre una riduzione della natalità. Non mancano pressioni internazionali sui Paesi in via di sviluppo che condizionano gli aiuti economici a determinate politiche di “salute riproduttiva”. Però, se è vero che l’ineguale distribuzione della popolazione e delle risorse disponibili crea ostacoli allo sviluppo e ad un uso sostenibile dell’ambiente, va riconosciuto che la crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale. Incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi. Si pretende così di legittimare l’attuale modello distributivo, in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare, perché il pianeta non potrebbe nemmeno contenere i rifiuti di un simile consumo. Inoltre, sappiamo che si spreca approssimativamente un terzo degli alimenti che si producono, e il cibo che si butta via è come se lo si rubasse dalla mensa del povero. Ad ogni modo, è certo che bisogna prestare attenzione allo squilibrio nella distribuzione della popolazione sul territorio, sia a livello nazionale sia a livello globale, perché l’aumento del consumo porterebbe a situazioni regionali complesse, per le combinazioni di problemi legati all’inquinamento ambientale, ai trasporti, allo smaltimento dei rifiuti, alla perdita di risorse, alla qualità della vita.

INIQUITÀ GLOBALE
L’iniquità non colpisce solo gli individui, ma Paesi interi, e obbliga a pensare ad un’etica delle relazioni internazionali. C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi. Le esportazioni di alcune materie prime per soddisfare i mercati nel Nord industrializzato hanno prodotto danni locali, come l’inquinamento da mercurio nelle miniere d’oro o da diossido di zolfo in quelle di rame. In modo particolare c’è da calcolare l’uso dello spazio ambientale di tutto il pianeta per depositare rifiuti gassosi che sono andati accumulandosi durante due secoli e hanno generato una situazione che ora colpisce tutti i Paesi del mondo. Il riscaldamento causato dall’enorme consumo di alcuni Paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra, specialmente in Africa, dove l’aumento della temperatura unito alla siccità ha effetti disastrosi sul rendimento delle coltivazioni. A questo si uniscono i danni causati dall’esportazione verso i Paesi in via di sviluppo di rifiuti solidi e liquidi tossici e dall’attività inquinante di imprese che fanno nei Paesi meno sviluppati ciò che non possono fare nei Paesi che apportano loro capitale: Constatiamo che spesso le imprese che operano così sono multinazionali, che fanno qui quello che non è loro permesso nei Paesi sviluppati o del cosiddetto primo mondo. Generalmente, quando cessano le loro attività e si ritirano, lasciano grandi danni umani e ambientali, come la disoccupazione, villaggi senza vita, esaurimento di alcune riserve naturali, deforestazione, impoverimento dell’agricoltura e dell’allevamento locale, crateri, colline devastate, fiumi inquinati e qualche opera sociale che non si può più sostenere. Il debito estero dei Paesi poveri si è trasformato in uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il debito ecologico. In diversi modi, i popoli in via di sviluppo, dove si trovano le riserve più importanti della biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei Paesi più ricchi a prezzo del loro presente e del loro futuro. La terra dei poveri del Sud è ricca e poco inquinata, ma l’accesso alla proprietà dei beni e delle risorse per soddisfare le proprie necessità vitali è loro vietato da un sistema di rapporti commerciali e di proprietà strutturalmente perverso. È necessario che i Paesi sviluppati contribuiscano a risolvere questo debito limitando in modo importante il consumo di energia non rinnovabile, e apportando risorse ai Paesi più bisognosi per promuovere politiche e programmi di sviluppo sostenibile. Le regioni e i Paesi più poveri hanno meno possibilità di adottare nuovi modelli di riduzione dell’impatto ambientale, perché non hanno la preparazione per sviluppare i processi necessari e non possono coprirne i costi. Perciò, bisogna conservare chiara la coscienza che nel cambiamento climatico ci sono responsabilità diversificate e, come hanno detto i Vescovi degli Stati Uniti, è opportuno puntare specialmente sulle necessità dei poveri, deboli e vulnerabili, in un dibattito spesso dominato dagli interessi più potenti. Bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e barriere politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza.
(…)

FINANZA E NUOVE GUERRE
Nel frattempo i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente. Così si manifesta che il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi. Molti diranno che non sono consapevoli di compiere azioni immorali, perché la distrazione costante ci toglie il coraggio di accorgerci della realtà di un mondo limitato e finito. Per questo oggi qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta.
È prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni. La guerra causa sempre gravi danni all’ambiente e alla ricchezza culturale dei popoli, e i rischi diventano enormi quando si pensa alle armi nucleari e a quelle biologiche. Infatti nonostante che accordi internazionali proibiscano la guerra chimica, batteriologica e biologica, sta di fatto che nei laboratori continua la ricerca per lo sviluppo di nuove armi offensive, capaci di alterare gli equilibri naturali. Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute. Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?
(…)
LA GIUSTIZIA TRA LE GENERAZIONI
La nozione di bene comune coinvolge anche le generazioni future. Le crisi economiche internazionali hanno mostrato con crudezza gli effetti nocivi che porta con sé il disconoscimento di un destino comune, dal quale non possono essere esclusi coloro che verranno dopo di noi. Ormai non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni. Quando pensiamo alla situazione in cui si lascia il pianeta alle future generazioni, entriamo in un’altra logica, quella del dono gratuito che riceviamo e comunichiamo. Se la terra ci è donata, non possiamo più pensare soltanto a partire da un criterio utilitarista di efficienza e produttività per il profitto individuale. Non stiamo parlando di un atteggiamento opzionale, bensì di una questione essenziale di giustizia, dal momento che la terra che abbiamo ricevuto appartiene anche a coloro che verranno. I Vescovi del Portogallo hanno esortato ad assumere questo dovere di giustizia: L’ambiente si situa nella logica del ricevere. È un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva.

PER UN’ “ECOLOGIA INTEGRALE”
Un’ecologia integrale possiede tale visione ampia. Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? Questa domanda non riguarda solo l’ambiente in modo isolato, perché non si può porre la questione in maniera parziale. Quando ci interroghiamo circa il mondo che vogliamo lasciare ci riferiamo soprattutto al suo orientamento generale, al suo senso, ai suoi valori. Se non pulsa in esse questa domanda di fondo, non credo che le nostre preoccupazioni ecologiche possano ottenere effetti importanti. Ma se questa domanda viene posta con coraggio, ci conduce inesorabilmente ad altri interrogativi molto diretti: A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi? Pertanto, non basta più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni. Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. È un dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra.
Le previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e ironia. Potremmo lasciare alle prossime generazioni troppe macerie, deserti e sporcizia. Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi, come di fatto sta già avvenendo periodicamente in diverse regioni. L’attenuazione degli effetti dell’attuale squilibrio dipende da ciò che facciamo ora, soprattutto se pensiamo alla responsabilità che ci attribuiranno coloro che dovranno sopportare le peggiori conseguenze. La difficoltà a prendere sul serio questa sfida è legata ad un deterioramento etico e culturale, che accompagna quello ecologico. L’uomo e la donna del mondo postmoderno corrono il rischio permanente di diventare profondamente individualisti, e molti problemi sociali attuali sono da porre in relazione con la ricerca egoistica della soddisfazione immediata, con le crisi dei legami familiari e sociali, con le difficoltà a riconoscere l’altro. Molte volte si è di fronte ad un consumo eccessivo e miope dei genitori che danneggia i figli, che trovano sempre più difficoltà ad acquistare una casa propria e a fondare una famiglia. Inoltre, questa incapacità di pensare seriamente alle future generazioni è legata alla nostra incapacità di ampliare l’orizzonte delle nostre preoccupazioni e pensare a quanti rimangono esclusi dallo sviluppo. Non perdiamoci a immaginare i poveri del futuro, è sufficiente che ricordiamo i poveri di oggi, che hanno pochi anni da vivere su questa terra e non possono continuare ad aspettare. Perciò, oltre alla leale solidarietà intergenerazionale, occorre reiterare l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà intragenerazionale.
*(Papa Francesco, LAUDATO SI’. Enciclica sulla cura della casa comune, San Paolo edizioni 2015)

 

09 – Claudia Fanti*: BRASILIANI CONTRO GLI ATTI GOLPISTI. LA DEMOCRAZIA RESTA IN PERICOLO – AMERICA LATINA. LULA: BOLSONARO «RESPONSABILE DIRETTO» DELL’ASSALTO AGLI EDIFICI DELLE ISTITUZIONI DELL’8 GENNAIO 2023. AL MOMENTO SOLO 25 CONDANNE.
È stata la celebrazione della «vittoria della democrazia» quella che si è svolta ieri a un anno esatto dall’invasione delle sedi del Parlamento, della Corte suprema e del Planalto a Brasilia. E per l’occasione sulla facciata delle due torri del Congresso è stata proiettata l’immagine della bandiera del Brasile con la scritta «la democrazia ci unisce». Così sembrerebbe, in effetti: secondo il sondaggio Genial/Quaest di domenica, sarebbero nove brasiliani su dieci a condannare gli atti golpisti dell’8 gennaio 2023.

Che la democrazia sia uscita rafforzata da quel tentativo di colpo di stato non è però opinione condivisa. Non solo perché quella democrazia sembra ancora incapace di liberarsi dalle incrostazioni del passato coloniale e dall’eredità della dittatura militare – i cui difensori, al contrario, hanno rafforzato la loro presenza all’interno del Congresso -, ma anche perché i veri responsabili dell’attacco alle sedi dei tre poteri sono ancora tutti in libertà: militari, parlamentari, imprenditori. I soliti sospetti, insomma, delle classi dominanti.

OLTRE NATURALMENTE a lui, l’ex presidente Bolsonaro. Lo stesso che aveva cercato di far passare tra i suoi elettori il messaggio che il potere giudiziario stesse remando contro il suo governo, che aveva sollecitato la partecipazione delle forze armate nella verifica della regolarità del voto, che aveva più volte e senza prove – persino di fronte agli ambasciatori stranieri – messo in discussione la sicurezza del sistema elettronico e che infine si era rifiutato di riconoscere la propria sconfitta mandando così un segnale ben preciso ai suoi sostenitori. Lo stesso, soprattutto, che, stando alla testimonianza resa alla giustizia dal suo aiutante di campo Mauro Cid, si era consultato con i militari sulla maniera migliore per eseguire un colpo di stato.
«C’è un responsabile diretto» dietro il golpe, ha non a caso dichiarato Lula in un’intervista al quotidiano on-line Metrópoles riferendosi a Bolsonaro, accusato di aver pianificato il colpo di stato e di essersi poi «codardamente nascosto» scappando dal paese prima del suo insediamento. Ed è quanto ha sostenuto anche il decano del Supremo tribunale federale Gilmar Mendes, definendo «inequivocabile» la «responsabilità politica» dell’ex presidente: se i militari si sono mostrati tanto accomodanti con i golpisti è perché avevano ricevuto «un qualche incoraggiamento da parte della stessa presidenza della Repubblica».
Il rischio che sia lui che gli altri responsabili possano farla franca – ponendo così le condizioni per un nuovo tentativo golpista in un futuro prossimo – è però tutt’altro che remoto.
SE IERI LA CORTE suprema ha emesso altri 47 mandati giudiziari contro finanziatori e sostenitori degli atti dell’8 gennaio, al momento sono state condannate, a pene che variano dai 10 ai 17 anni, appena 25 persone, mentre delle oltre duemila arrestate durante l’invasione delle sedi dei tre poteri solo 66 restano in carcere: a tutte le altre, al posto della prigione, sono state applicate misure come l’uso del braccialetto elettronico, il divieto di uscire dal paese, la revoca del passaporto.
«È solo una questione di tempo», ha tuttavia voluto rassicurare il presidente, promettendo giustizia «di fatto e di diritto» ed esprimendo la convinzione «che questo paese attraverserà tutto il XXI secolo senza più colpi di stato».
Ed è non a caso sotto il titolo «Democracia Inabalada», cioè salda, sicura, inattaccabile, che è stata organizzata ieri (nel momento in cui scriviamo si sta ancora svolgendo) una cerimonia nel Salão negro del Congresso alla presenza, oltre che di Lula, del presidente della Corte suprema Luís Roberto Barroso, di quello del Senato Rodrigo Pacheco, di ministri, parlamentari, governatori, sindaci e molte altre personalità della società civile.
DI «INABALADO», però, non sembra esserci molto, al di là delle odi alla democrazia: di fronte all’intensa polarizzazione politica, al sempre latente scontro tra i poteri dello stato e all’ancora molto diffusa pretesa dei militari che spetti a loro intervenire, in caso di conflitto tra le istituzioni, per riportare l’ordine nel paese, le minacce alla democrazia appaiono tutt’altro che scongiurate.
*( Fonte: Il Manifesto. Claudia Fanti: Giornalista, scrive da più di 20 anni sul settimanale Adista, collabora con “il manifesto” e con altre testate.)

 

10 – LE 10 CITTADINE PIÙ INQUIETANTI DEGLI STATI UNITI. CASE DIROCCATE, STRADE FATISCENTI, LUOGHI ABBANDONATI: SU TIKTOK STA TORNANDO DI MODA PARLARE DELLE CREEPY SMALL TOWN

01 – BODIE, CITTÀ FANTASMA IN CALIFORNIA.
Su TikTok impazzano i video sulle “Creepy small town” degli Stati Uniti: si tratta di villaggi, cittadine o paesini che oggi possono essere considerati a tutti gli effetti città-fantasma. Lo stato di abbandono in cui versano ha fatto sì che, nel corso degli anni, iniziassero a circolare voci spettrali sul loro conto tra leggende metropolitane e disastri epocali che hanno segnato la vita di chi le abitava. Ecco un elenco delle 10 cittadine più inquietanti americane.
Situata nella contea di Mono in California Bodie è una delle città fantasma più conosciute d’America per la sua…
Situata nella contea di Mono, in California, Bodie è una delle città fantasma più conosciute d’America per la sua avvincente storia. Nel 1859, una squadra di cercatori vi scoprì l’oro e nel 1876 la gente del posto vide la propria città fiorire proprio grazie a questa scoperta. Solo un paio di anni dopo, la popolazione di Bodie era cresciuta fino a raggiungere un numero di abitanti compreso tra i sette e le diecimila persone. Nel 1915 però, dopo anni sempre più bui, la città era stata già praticamente abbandonata. Ciò che la rende così straordinaria ancora è lo stato di conservazione degli edifici e di quello che c’è al loro interno. Tutto sembra congelato da oltre un secolo.

02 – CENTRALIA, PENNSYLVANIA
Centralia, Pennsylvania. La cittadina, situata nella profonda zona mineraria della Pennsylvania, fu evacuata nel 1962 a causa di feroci incendi sotterranei che colpirono una miniera di carbone. Il fumo è continuato a uscire dal terreno per molti anni, tanto che alcuni per gioco, provavano a cuocere delle uova in tegamini poggiati a terra. Molti degli abitanti, come il signor Mervine, hanno convissuto per decenni con i fumi nocivi vivendo in un clima di perenne inquitudine visto che, da un momento all’altro, il suolo sarebbe potuto implodere.

03- VIRGINIA CITY E NEVADA CITY, MONTANA
Situate a circa un miglio di distanza nella contea di Madison, nel Montana, Virginia City e Nevada City hanno ciascuna la propria storia interessante. Entrambe furono protagoniste del periodo della corsa all’oro, con Nevada City nota per uno dei “più ricchi giacimenti dell’oro nell’ovest delle Rocky Mountains”. Virginia City, d’altra parte, un tempo era la casa della famigerata donna avventuriera Calamity Jane. Entrambe le città hanno edifici risalenti al 1800 e offrono ai visitatori uno sguardo sul glorioso passato del vecchio Far West.
Questa cittadina un tempo era la capitale dello stato dell’Alabama ma nel corso degli anni è diventata più conosciuta…

04 – OLD CAHAWBA, ALABAMA
Questa cittadina, un tempo, era la capitale dello stato dell’Alabama, ma nel corso degli anni è diventata più conosciuta per la sua fama di cittadina spettrale che per la sua storia politica, arrivando addirittura ad assumere l’appellativo di “città fantasma più famosa dell’Alabama”. Il “merito” di questo titolo è dovuto alle leggende di attività paranormali che circolano in merito a questo luogo. Si racconta di una sfera misteriosa vista nel labirinto del giardino di proprietà del Ufficiale dell’esercito confederato della guerra civile Christopher Claudius Pegues. La Guida digitale ai fantasmi e ai luoghi infestati dell’Alabama elenca molti altri esempi di presunti fantasmi e inquietanti, non solo nel Parco archeologico di Old Cahawba, ma in tutto lo stato dell’Alabama.

05 -EAST BETHANY, NEW YORK
In realtà non c’è molto da vedere o da fare a East Bethany, questo piccolo villaggio nello stato di New York. Molti dei turisti che lo visitano, però, si definiscono “cacciatori di fantasmi” che vengono per la presunta attrazione paranormale dell’edificio ora noto come Rolling Hills Asylum. Originariamente creato come ospizio per i poveri della contea di Genesee, la location è stata utilizzata in “American Horror Story: Asylum”. L’Asylum negli ultimi tempi ha cavalcato la sua storia inquietante e ora offre dei tour per gli appassionati cercartori di fantasmi e altre attività spettrali per i visitatori.
Si sa che lo stato della Louisiana ha una lunga storia di fantasmi ma una città vicina a questo stato ha una storia…

06 -THIBODAUX, LOUISIANA
Si sa che lo stato della Louisiana ha una lunga storia di fantasmi, ma una città vicina a questo stato ha una storia molto particolare. Si dice infatti che Thibodaux sia maledetta: la cittadina, che si trova sul fiume Bayou Lafourche, negli anni è stata teatro di numerosi momenti di violenza. Il più noto, a sfondo razziale, è stato il “massacro di Thibodaux” avvenuto nel 1887 dopo uno sciopero dei lavoratori della canna da zucchero. Lo sciopero durò tre settimane e si concluse con la devastazione provocata dalle forze paramilitari bianche che si scagliarono contro la stragrande maggioranza dei lavoratori neri in sciopero. Non si sa quante persone siano state uccise, ma è possibile che fossero centinaia. Secondo molti gli spiriti di queste vittime continuano ad aleggiare nella Laurel Valley Plantation.
All’inizio del XX secolo una coppia di cercatori si imbatt in una ricchezza di rame da queste parti ben presto furono…

07 – KENNECOTT, ALASKA
All’inizio del XX secolo, una coppia di cercatori si imbatté in una ricchezza di rame da queste parti: ben presto furono create diverse miniere per estrarlo, inaugurando un’era di prosperità per la cittadina. Nel novembre del 1938, tuttavia, il rame si esaurì e non molto dopo l’ultimo treno lasciò Kennecott, con la città abbandonata. Ora i turisti possono visitare le vecchie miniere e vedere ciò che resta di una città un tempo ricca.L’ospedale Kennecott (a sinistra) si distingueva come l’unico edificio imbiancato della città. La stragrande maggioranza delle altre strutture cittadine, compresi i dormitori dei lavoratori (a destra), erano dipinte di rosso, il colore meno costoso all’epoca. L’ospedale Kennecott è stato anche il sito della prima macchina a raggi X in Alaska.

08 – THURMOND, VIRGINIA OCCIDENTALE
Oggi, la città di Thurmond, nel Virginia Occidentale, è sinonimo di isolamento. Collegata al mondo esterno da una sola strada e da un binario ferroviario, oggi è tagliata completamente fuori dalla civiltà. Nel 2018, la popolazione era di sole cinque persone, ma un tempo era un fiorente centro di estrazione del carbone. Ancora oggi, gran parte della città è ora conservata come appariva decenni fa: passare da queste parti ricorda quanto velocemente un luogo può passare dal successo a trasformarsi in una città fantasma.
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09 – WAILUKU, HAWAII
Quando si pensa alle Hawaii probabilmente ci si immagina la vacanza da sogno con palme ondeggianti, mare cristallino e spiagge assolate. Ma Wailuku, città del celebre arcipelago, fa eccezione a tutto questo, essendo famosa per una storia spettrale. Wailuku ospita il Teatro Īao, la cui storia risale agli anni ’20, quando un fantasma di una donna si sarebbe stabilito nel teatro.
Quando si pensa alle Hawaii probabilmente ci si immagina la vacanza da sogno con palme ondeggianti mare cristallino e…

10 – RHYOLITE, NEVADA
Rhyolite, nel Nevada, è un’altra città un tempo prospera che è ora diventata inquietante. La corsa all’oro portò una popolazione significativa nell’area: la città ebbe un periodo florido con un teatro dell’opera e persino una borsa. Ma nel 1907 iniziò il panico finanziario che provocò la crisi dell’economia e nel 1911 la miniera di Montgomery Shoshone fu chiusa. La città è ormai sostanzialmente abbandonata da più di un secolo, con molti degli edifici rimanenti di cui restano solo le rovine. Secondo le leggende metrpolitane, la città sarebbe ancora oggi infestata dai molti che hanno lasciato qui le loro fortune Rhyolite nel Nevada è un’altra città un tempo prospera che è ora diventata inquietante. La corsa all’oro portò una…
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