01 – Sen. Francesca La Marca: La Senatrice La Marca presenta un’ulteriore interrogazione sul reciproco riconoscimento delle patenti di guida Italia – Québec
02 – Emiliano Brancaccio*: L’apologia del sottosviluppo GOVERNO ED ECONOMIA. La scienza economica ci dice che quando un paese parte da prestazioni così smaccatamente più penose degli altri, dovrebbe anche disporre di margini di miglioramento maggiori, che solitamente si manifestano in tassi di crescita più elevati che altrove. Ebbene, per adesso questo fenomeno in Italia non si è affatto verificato.
03 – Lorenzo Tecleme*: «clima, triplicare il nucleare». Alla cop28 l’atomo ora è verde – il summit. Stati uniti, Francia e altri 20 paesi lanciano l’appello «contro il riscaldamento globale» (ndr sempre peggio)
04 – Lorenzo Tecleme*: scandali, defezioni, lobbisti: la Cop 28 di Dubai parte male-
05 – Antonio Piemonte*:7 cose da sapere su cop28, la prossima conferenza sul clima
Si svolge a Dubai, è guidata dall’Ad dell’azienda petrolifera di stato e dovrà fare il punto sugli impegni presi dai paesi nel 2015 a Parigi
06 – Qual è la differenza tra consiglio europeo e consiglio dell’Unione europea
Sono entrambi organi intergovernativi ma svolgono funzioni differenti: il consiglio europeo definisce priorità e strategie, mentre il consiglio dell’Ue esercita una funzione legislativa e di bilancio.
07 – Come l’Ue verifica l’attuazione dei Pnrr negli stati membri. L’invio di risorse dall’Unione europea ai paesi membri è vincolato al conseguimento delle scadenze previste dai piani nazionali di ripresa e resilienza, e non solo. (*)
08 – Vittoria Torsello, Cristina Gironès, Giovana Farìa*: democrazia sotto, i deepfake sono diventati un’arma.
09 – SIMONE VALESINI*: La carne coltivata è davvero amica dell’ambiente? La verità è che si tratta di una tecnologia ancora agli albori, e al momento non è chiaro se sarà mai conveniente sul piano della sostenibilità economica e non solo
10 – On. F. LaMarca PD*: Un mio pensiero per il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
01 – Sen. Francesca La Marca: LA SENATRICE LA MARCA PRESENTA UN’ULTERIORE INTERROGAZIONE SUL RECIPROCO RICONOSCIMENTO DELLE PATENTI DI GUIDA ITALIA – QUÉBEC
Roma, 30.11.2023 – La Senatrice La Marca deposita un’ulteriore interrogazione a risposta scritta per sollecitare i Ministri dei Trasporti e degli Esteri a comunicare quale sia lo stato dell’arte delle interlocuzioni in atto e a informare l’interrogante su quali siano gli impedimenti affinché si possa procedere con la conclusione dei protocolli d’intesa, riguardo all’Accordo Quadro tra Italia e Canada per il reciproco riconoscimento delle patenti di guida, siglato ormai 6 anni fa. A sottoscrivere l’interrogazione anche i colleghi e le colleghe, Senatori e Senatrici, Camusso, Furlan, Delrio e altri.
“Nei mesi scorsi, prima con un’interrogazione e poi con un intervento in Aula, ho riacceso i riflettori su una questione annosa che reca non pochi disagi ai tanti italiani residenti in Québec e ai cittadini quebbechesi in Italia, quella del reciproco riconoscimento delle patenti di guida. Non avendo ricevuto risposta né all’interrogazione presentata nel gennaio del 2023 e né all’intervento, torno ulteriormente sull’argomento per rimarcare la totale indifferenza di questo Governo verso le questioni importanti che riguardano i nostri concittadini residenti fuori dall’Italia.”
“Sono passati 6 anni dalla firma dell’Accordo Quadro tra Italia e Canada per il reciproco riconoscimento delle patenti di guida. Nonostante i miei numerosi interventi in questi anni, non si è ancora pervenuti ad una conclusione, né risultano al momento ipotesi temporali relative alla conclusione delle trattative. Auspico quindi una rapida risposta da parte dei ministeri interpellati”. Così la senatrice La Marca, commenta la presentazione dell’interrogazione.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa-Electoral College – North and Central America)
02 – Emiliano Brancaccio*: L’APOLOGIA DEL SOTTOSVILUPPO GOVERNO ED ECONOMIA. LA SCIENZA ECONOMICA CI DICE CHE QUANDO UN PAESE PARTE DA PRESTAZIONI COSÌ SMACCATAMENTE PIÙ PENOSE DEGLI ALTRI, DOVREBBE ANCHE DISPORRE DI MARGINI DI MIGLIORAMENTO MAGGIORI, CHE SOLITAMENTE SI MANIFESTANO IN TASSI DI CRESCITA PIÙ ELEVATI CHE ALTROVE. EBBENE, PER ADESSO QUESTO FENOMENO IN ITALIA NON SI È AFFATTO VERIFICATO.
L’occasione, per lei, giunge dai dati Istat sugli occupati: nell’ultimo anno si registra un incremento occupazionale di quasi mezzo milione di unità. Il governo interpreta la notizia come fosse una prova empirica del suo eccelso operato. Per i media prevalenti anche la più elementare delle verifiche sembra una perdita di tempo: meglio plaudire più presto e più forte degli altri.
Eppure, qualche precisazione bisognerà pur farla.
Il primo chiarimento necessario è che, con la sola eccezione dell’anno orribile della pandemia, in Italia incrementi non dissimili dell’occupazione si sono verificati sotto tutti i governi dopo quello di Monti, con un record post-pandemico nei mesi a cavallo tra gli esecutivi Conte e Draghi. Se poi si vuol proprio giocare a chi si prende i meriti, allora bisogna tener conto del fatto che l’occupazione risponde alle politiche di governo sempre con un certo ritardo, che la letteratura scientifica solitamente stima di circa un anno. Per quanto possa suscitarle fastidio, ciò significa che in queste ore Meloni si sta al massimo vantando di una dinamica le cui origini risalgono ai mesi di Draghi, così come Draghi si rallegrava di una crescita eventualmente imputabile alle politiche di Conte, e così via a ritroso.
Censis, le metafore del presente: sonnambulo è il sistema, non chi gli resiste
Ma l’aspetto forse più increscioso, per i candidi di palazzo Chigi, è il confronto con il resto d’Europa. L’Italia registra infatti la più bassa percentuale di occupati in rapporto alla forza lavoro disponibile: appena il 65%, ben nove punti sotto la media europea. Si tratta forse del record negativo maggiormente caratteristico delle specifiche arretratezze dell’economia italiana, essendo determinato soprattutto dalla bassissima quota di occupazione femminile: al di sotto di quella maschile di 15 punti percentuali, il divario più ampio di tutta l’Ue, persino oltre quello di Romania o Grecia. Se esiste un segno incontrovertibile di persistenza nel nostro paese delle tipiche anticaglie del capitalismo patriarcale, è esattamente questo.
Ora, la scienza economica ci dice che quando un paese parte da prestazioni così smaccatamente più penose degli altri, dovrebbe anche disporre di margini di miglioramento maggiori, che solitamente si manifestano in tassi di crescita più elevati che altrove. Ebbene, per adesso questo fenomeno in Italia non si è affatto verificato, tantomeno sotto Meloni. Basti notare che nell’ultimo anno l’occupazione in Italia è cresciuta meno della media europea. Con un effetto sul tasso di occupazione, specialmente femminile, che non è minimamente in grado di compensare l’enorme ritardo rispetto agli altri paesi dell’Unione.
La situazione di arretratezza del capitalismo italiano, del resto, è testimoniata anche da altri dati, che un tempo si sarebbero definiti «di struttura». Un esempio di queste ore è l’annuncio dei quasi tremila licenziamenti di Alitalia. Spente ormai da tempo le abbaglianti luci berlusconiane sugli «imprenditori coraggiosi» che avrebbero dovuto preservarne l’italianità, la ex compagnia di bandiera è ormai ridotta a un osso spolpato.
Mentre Francia e Germania governavano con risolutezza i processi di centralizzazione del settore, l’Italia del trasporto aereo è all’ultimo atto di una commedia dell’anti-politica industriale tutta scritta seguendo il rassegnato precetto di Guido Carli: il governo dell’economia è una roba complessa che possono permettersi solo le nazioni avanzate, mentre ai paesi arretrati tocca solo di abbracciare la croce del libero mercato e sperare che gli vada bene.
Al di là delle fanfare panglossiane della destra di governo, a noi non sta andando affatto bene. Al punto che anche parlare di declino sembra un eufemismo. La verità è che i capitani del capitalismo italiano e i loro fedeli servitori al governo sembrano ormai capaci di una cosa soltanto: crogiolarsi in un’apologia del sottosviluppo.
*(Fonte: Il Manifesto. Lorenzo Tecleme. Giornalista freelance che collabora con Domani, Jacobin, Repubblica e Valori, giovanissimo attivista di Fridays for Future che ha curato il libro “Guida rapida alla fine del mondo.)
03 – Lorenzo Tecleme*: «CLIMA, TRIPLICARE IL NUCLEARE». ALLA COP28 L’ATOMO ORA È VERDE – IL SUMMIT. STATI UNITI, FRANCIA E ALTRI 20 PAESI LANCIANO L’APPELLO «CONTRO IL RISCALDAMENTO GLOBALE» (ndr sempre peggio)
Un palco bianco circondato dalle palme, sullo sfondo 22 bandiere e una scritta nera che svetta: «TRIPLICARE L’ENERGIA NUCLEARE ENTRO IL 2050». Se i primi giorni ufficiali di Cop28 sono stati assorbiti dalle notizie sul loss&damage, il terzo giorno è sicuramente quello dell’energia atomica. Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Giappone, Emirati Arabi Uniti e altre 17 nazioni hanno annunciato un accordo per triplicare la potenza nucleare installata entro metà secolo.
DA DUBAI lo hanno rivelato al mondo i rappresentanti dei paesi coinvolti, in prima fila il presidente francese Macron e l’inviato speciale per il clima statunitense Kerry. «Non stiamo dicendo che questa sia un’alternativa assoluta ad altre fonti di energia» ha spiegato l’ex Segretario di stato di Washington «ma la scienza e la realtà dei fatti ci dicono che non si può arrivare ad emissioni nette zero senza nucleare».
L’accordo riguarda una data estremamente lontana nel tempo – il 2050, quando il grosso delle emissioni andrebbe tagliato nei prossimi dieci o quindici anni per rimanere sotto i +1.5°C di aumento della temperatura media globale – e non coinvolge due grandi potenze nucleari come Cina e Russia. Ma il fatto stesso che ad una Cop si parli in modo così esplicito di energia atomica nel contesto della de carbonizzazione è un segnale politico notevole. Jeff Ordower, direttore per gli Usa dell’associazione ecologista 350.org, è stato tra i primi a criticare l’accordo: «Non abbiamo tempo da perdere in distrazioni pericolose come il nucleare».
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NELLA PARTITA dell’atomo, però, sembra fare un passo di lato l’Italia. Roma non ha firmato la dichiarazione, e nel suo discorso alla sessione plenaria di Cop28 la premier Meloni non ha menzionato il tema. Non solo: interrogata dai giornalisti durante l’incontro con la stampa, il capo del governo si è mostrato insolitamente prudente. «Non sono sicura che ricominciando da capo l’Italia non possa rimanere indietro» ha dichiarato, aggiungendo poi di essere pronta a ricredersi di fronte ad evidenze contrarie. La sua risposta si è chiusa con un riferimento alla fusione nucleare, «grande sfida italiana».
In campo energetico, l’equivalente del proverbiale lancio di palla in tribuna: è di fissione che parla la dichiarazione dei 22, e nessuno sa se e quando la fusione sarà disponibile. Una timidezza notevole per quell’esecutivo che nel vicino passato ha parlato di rilancio del nucleare nella penisola.
I negoziati intanto proseguono. Per le prime bozze di risoluzione finale bisognerà aspettare la prossima settimana, ma ieri le agenzie hanno battuto per tutta la giornata i lanci di nuovi accordi collaterali. L’annuncio atteso sulla triplicazione dell’energia rinnovabile a livello globale entro il 2030 è arrivato. Lo hanno firmato 116 paesi, ma l’obiettivo è quello di farlo finire sul documento conclusivo della Conferenza – che vale per tutti e su cui tutti devono essere d’accordo.
GLI STATI UNITI, arrivati a questa Cop stanchi e con poche promesse in mano, hanno scoperto le loro carte su due temi chiave: carbone e metano. La prima novità è anche la più clamorosa: Washington aderisce alla Powering Past Coal Alliance, impegnandosi così a non costruire nuove centrali a carbone (se non abated, cioè accompagnate da complessi e costosissimi sistemi di cattura e stoccaggio della CO2) e promettendo di pianificare la chiusura di quelle esistenti «in un lasso di tempo compatibile col mantenimento dei +1.5°C».
Potenzialmente una delle notizie migliori della giornata. Sul metano, gli Usa parlano di una serie di misure che dovrebbero nelle intenzioni ridurre le emissioni di questo gas climalterante dell’80% in 15 anni. Il metano degrada in atmosfera più velocemente della CO2, ma ha un effetto sulle temperature decine di volte più potente.
SEMPRE DAL CONTINENTE americano, ma un po’ più a sud, arriva una seconda novità. La Colombia è la prima nazione latinoamericana ad aderire alla Fossil Fuel Non-Proliferation Treaty Iniziative, una proposta di trattato sui combustibili fossili modellato sull’esempio degli accordi che hanno contribuito a frenare la diffusione delle armi nucleari nel mondo. «Dobbiamo evitare l’omicidio del pianeta» ha detto il presidente colombiano Petro, il primo di sinistra nella storia del paese. Fino ora l’iniziativa era stata condivisa solo da un pugno di stati insulari – Vanatu, Tuvalu, Fiji, Isole Salomone, Tonga, Niue, Timor Est, Barbados, Palau – e da due entità sovranazionali, il Parlamento Europeo e l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
IERI I CAPI di stato e di governo hanno lasciato Dubai. Finito il summit dei leader, ha inizio la fase più complessa di ogni Cop, con meno annunci roboanti e più lavorio diplomatico. Solo alla fine di queste due settimane ne conosceremo gli esiti.
*(Fonte: Il Manifesto. Lorenzo Tecleme. Giornalista freelance che collabora con Domani, Jacobin, Repubblica e Valori, giovanissimo attivista di Fridays for Future che ha curato il libro “Guida rapida alla fine del mondo.)
04 – LORENZO TECLEME*: SCANDALI, DEFEZIONI, LOBBISTI: LA COP 28 DI DUBAI PARTE MALE.
Arabia Esaudita. Pesano l’assenza a sorpresa di Biden e la defezione annunciata di Xi, il presidente Al Jaber a capo della compagnia petrolifera emiratina. I paesi conservatori non vogliono che nella risoluzione finale si menzionino i combustibili fossili. Tra i nodi caldi il loss&damage, per risarcire i Paesi più colpiti dalla crisi climatica. Al posto del papa, influenzato, andrà il segretario di stato Parolin, ma non è la stessa cosa.
Defezioni, scandali, boicottaggi. La Cop28 di Dubai, che ha inizio in queste ore, sta diventando un problema di credibilità per l’intero processo negoziale sul contrasto al riscaldamento globale a guida Nazioni Unite. E si configura sempre più come la Cop della reazione fossile.
Le Cop (acronimo di Conference of Parties), sono incontri annuali promossi dall’Unfccc, la Convenzione delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici cui hanno aderito tutti i paesi del Pianeta. Si tengono ogni anno in una location diversa, e la nazione ospitante ottiene automaticamente anche la presidenza di turno.
LA VENTOTTESIMA edizione che ha inizio oggi a Dubai dovrà affrontare diversi temi chiave. Molto del negoziato si giocherà sulle parole usate: il blocco dei paesi più conservatori non vuole che si menzionino i combustibili fossili nella risoluzione finale.
Alla Cop26 di Glasgow, nel 2021, si nominò per la prima volta il carbone, ma i paesi che ne sono più dipendenti – soprattutto Cina e India – ottennero che si parlasse di riduzione dell’uso, non di eliminazione, e soprattutto che ci si riferisse ai soli impianti unabated, cioè non accompagnati da sistemi di cattura e stoccaggio della Co2. Sulla presenza o meno della locuzione «combustibili fossili» nel documento finale, e sulla differenza tra riduzione ed eliminazione, si aspettano duri scontri.
LA SECONDA QUESTIONE sul tavolo è quella del loss&damage. Si tratta del principale lascito dell’edizione precedente, la Cop27 di Sharm el-Sheik, e di un tema relativamente recente nei negoziati. Da tempo i paesi del cosiddetto sud globale – Africa, America Latina, Sud-Est asiatico – chiedono che siano le nazioni più industrializzate a pagare per i danni che già oggi la crisi climatica sta causando.
L’anno scorso si raggiunse a sorpresa un accordo di massima, grazie soprattutto al peso negoziale della Cina, grande sponsor dell’iniziativa. Ma su chi debba mettere i soldi, a quanti paesi vadano, chi gestisca questi flussi di denaro, non c’è ancora chiarezza.
IL PETROLIERE CON I PIANI PIÙ ANTI-CLIMA? GLI EMIRATI, PADRONI DI CASA DI COP28
I negoziati intermedi hanno visto contrapporsi da un lato le nazioni a basso reddito, che chiedono di ampliare la platea dei riceventi e di affidare i fondi ad una istituzione ad hoc.
Dall’altro i paesi occidentali, su tutti gli Stati Uniti, che vorrebbero far gestire il processo alla Banca Mondiale e concedere l’accesso al minor numero possibile di nazioni. Dubai potrebbe essere il luogo adatto a trovare un compromesso.
I PUNTI SUL TAVOLO sono insomma molti. Ma Cop28 sembra aprirsi già stanca, travolta dalle polemiche e disertata da alcuni leader chiave. Di certo non ha aiutato la presidenza in mano agli Emirati Arabi Uniti, una nazione che ha fondato la sua ricchezza sul petrolio.
Il presidente designato, Sultan Al Jaber, è anche ceo dell’Abu Dhabi National Oil Company, la compagnia estrattiva di stato emiratina, e di Masdar, società specializzata in energie rinnovabili. Un petroliere a capo dei negoziati sul clima, una prima volta inquietante. Specie dopo che la Bbc ha rivelato, in uno scoop di pochi giorni fa, che Al Jaber avrebbe usato gli incontri preparatori della Conferenza per trattare nuovi accordi relativi ai combustibili fossili per conto della sua azienda. L’interessato nega e parla di accuse «false, scorrette e imprecise», ma lo scandalo ormai è scoppiato.
E la presidenza non è l’unico punto debole del summit. Due anni di tensioni geopolitiche – dall’Ucraina a Taiwan passando per Gaza – hanno allontanato le grandi potenze mondiali. E senza il dialogo tra le principali capitali, su tutte Washington e Pechino, non esiste azione per il clima.
AL VIA IL GREENWASHING A DUBAI
L’INVIATO SPECIALE per il clima statunitense John Kerry ha incontrato il suo omologo cinese Xie Zhenhua poche settimane fa. Un segnale di apertura importante, ma messo in secondo piano dalla defezione di Xi Jinping, attesa, e di Joe Biden, inaspettata: nessuno dei due parteciperà al summit di Dubai.
Persino il Papa, che per la prima volta aveva annunciato l’intenzione di essere presente ad una Cop, non sarà della partita, al suo posto probabilmente andrà il segretario di Stato Pietro Parolin. La causa è un’influenza, ma il presagio non è dei migliori. L’Unione Europea poi, in altre occasioni attenta a presentarsi come capofila dell’azione climatica, sembra arrivare debole alla vigilia. La crisi energetica ha distratto i governi e indebolito il Green Deal, mentre il nuovo commissario incaricato dei negoziati, l’olandese Wopke Hoekstra, ha un passato come consulente di Shell.
GLI SCANDALI e la scarsa ambizione dimostrata dai governi hanno scoraggiato gli ecologisti, ma ringalluzzito il settore dei combustibili fossili.
Secondo l’ong Global Witness erano 673 i lobbisti accreditati a Cop27. Quest’anno potrebbero essere ancora di più. Di certo c’è che, dopo una fase di accelerazione delle politiche di transizione, il summit di Dubai rischia di segnare un passo indietro, minando la credibilità dei negoziati promossi dalle Nazioni Unite. La Cop della reazione fossile, appunto
*(Fonte: Il Manifesto. Lorenzo Tecleme, Giornalista freelance che collabora con Domani, Jacobin, Repubblica e Valori, Lorenzo Tecleme è un giovanissimo attivista di Fridays for Future che ha curato il libro “Guida rapida alla fine del mondo.)
05 – Antonio Piemonte*:7 COSE DA SAPERE SU COP28, LA PROSSIMA CONFERENZA SUL CLIMA. SI SVOLGE A DUBAI, È GUIDATA DALL’AD DELL’AZIENDA PETROLIFERA DI STATO E DOVRÀ FARE IL PUNTO SUGLI IMPEGNI PRESI DAI PAESI NEL 2015 A PARIGI
Cop28, la ventottesima edizione della Conferenza delle parti delle Nazioni unite dedicata al clima, si apre giovedì 30 novembre a Dubai: richiama negli Emirati Arabi Uniti settantamila partecipanti, il numero più alto di sempre. Dopo l’accordo sul fondo per perdite e danni raggiunto l’anno scorso alla Cop di Sharm el Sheikh, in Egitto, a Dubai si attendono i dettagli operativi. Ma il piatto principale del menu emiratino è senz’altro il cosiddetto global stocktake, cioè il primo “tagliando” dell’accordo di Parigi siglato nel 2015.
Le 10 cose da sapere su Cop28:
• Cosa sono le Cop
• Cop28 a Dubai
• Il nodo del petrolio
• La situazione internazionale
• L’accordo di Parigi e il tagliando
• Il nuovo fondo per loss and damage
• Nodo fake news
COSA SONO LE COP
La Conferenza delle parti sul clima nasce dalla Conferenza di Rio del 1992 per raccogliere attorno a un tavolo tutti i Paesi del globo allo scopo di tagliare le emissioni di gas serra. Il mondo attuale è molto diverso da quello del 1992: la Cina di oggi ha definitivamente abbandonato la povertà, l’India è ben avviata sulla strada dello sviluppo. Ma, nonostante oggi inquinino moltissimo, la posizione nei trattati è rimasta la stessa, e anche gli oneri, parametrati alle emissioni degli anni Novanta.
È difficile dare l’idea della complessità di queste conferenze: oltre centottanta paesi, ognuno con decine di negoziatori, un calendario fittissimo. Le posizioni negoziali, in un’assemblea del genere, spesso sono agli antipodi: per questo i lavori vengono preparati con ampio anticipo dai cosiddetti sherpa. Il voto finale non avviene per alzata di mano ma con una procedura chiamata consenso: in mancanza di opposizioni evidenti, la mozione passa.
COP28 A DUBAI
La Cop28 si terrà a Dubai, negli Emirati arabi, nel quartiere Expo City. A ospitare negoziatori, membri delle ong e media sarà una struttura enorme (la cosiddetta Blue zone); ci sarà, inoltre, un’area dedicata alla società civile (Green zone). Novanta tra ristoranti e caffè serviranno 250mila pasti al giorno, dichiarano gli organizzatori, tutti “allineati all’obiettivo di contenere il riscaldamento entro gli 1,5 gradi” con un conteggio calorico preliminare sui menu
I grattacieli con hotel a sette stelle, lo sfarzo ostentato e le piste da sci nei centri commerciali non fanno di Dubai una città dalla fama di attenta alla sostenibilità, ma le autorità dichiarano di prendere sul serio la transizione energetica e di essere sulla strada di una riconversione.
EMISSIONI DI CO2 DI UNA FABBRICA TEDESCA
UN NUOVO MODO DI TASSARE LE EMISSIONI DI CO2
Alcuni studiosi propongono di prendere di mira i profitti, e non i consumi. In questo modo la tassazione sarebbe più equa. E potrebbe davvero spingere a ridurre l’inquinamento
Il nodo del petrolio
Cop28 avverrà in un paese produttore di petrolio e il presidente è Sultan Ahmed Al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi national Oil company (Adnoc), la compagnia petrolifera statale. Scelte contestate dagli attivisti. “Comprendo il ragionamento, ma dal mio punto di vista è necessario dialogare anche con queste realtà – afferma Silvia Francescon, esperta di politica estera per il think tank italiano Ecco -. Si tratta di interlocutori necessari per arrivare a un negoziato realmente rappresentativo”.
Che conferenza sarà? “Da Madrid in poi le Cop sono state esclusivamente politiche – chiosa Jacopo Bencini, policy advisor del gruppo di ricerca Italian Climate Network, che aggrega scienziati e studiosi italiani -. L’accordo di Parigi è chiuso, il Paris Rulebook è entrato in vigore: ora bisogna solo applicarli e implementarli. Dal punto di vista negoziale, insomma, credo che non ci saranno grandi passi in avanti, a parte le decisioni sul global stocktake”. “Sono convinto però che vedremo – prosegue Bencini – una Conferenza della parte a due velocità”. Se nelle sale negoziali potrebbe essere un anno di transizione, dice l’esperto, “a latere mi aspetto un iperattivismo emiratino, con molti annunci su finanza e rinnovabili”. Perché il minuscolo Paese mediorientale è ansioso di sfruttare la visibilità garantita dalla kermesse globale, e forte delle note disponibilità di denaro l’occasione è buona per stringere qualche nuova alleanza e proiettare l’influenza all’estero. Nei mesi scorsi Dubai ha promesso all’Africa 5 miliardi per la cooperazione climatica.
Quest’anno i lobbisti (da sempre tanti, vengono contati tutti gli anni dalle ong) dovranno indicare sul badge l’organizzazione di appartenenza. Basterà a far luce sui partecipanti a Cop? Sono inoltre rigorosamente vietate le proteste al di fuori dell’area di Cop28, niente slogan politici, equipaggiamento video rigorosamente schedato per tutti i giornalisti che entrano nel Paese. Le limitazioni nelle applicazioni di messagging in vigore nel Paese mediorientale, da Whatsapp a Telegram, non renderanno facili le comunicazioni.
La battaglia per smascherare i lobbisti di gas e petrolio alle conferenze sul clima
Dalla prossima Cop, in programma a Dubai, i rappresentanti delle fonti fossili dovranno esibire dei tesserini che identificano la loro appartenenza
LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE
Ci sono altri fattori da considerare alla vigilia. L’incontro tra i presidenti di Cina e Stati Uniti, Xi Jinping e Joe Biden, delle scorse settimane, dopo anni di tensioni, ha aperto uno spiraglio per chi crede nella cooperazione tra i due giganti, che sono anche i maggiori inquinatori globali. Durerà? “Non ci possiamo permettere di non essere speranzosi – riflette Francescon -. I negoziati sul clima, del resto, hanno sempre aiutato il dialogo diplomatico. E l’incontro tra i due leader è incoraggiante; non va dimenticato che nel 2015 l’intesa tra Washington e Pechino fu determinante per arrivare all’accordo di Parigi”.
“Per noi sarà un successo solo se si verificheranno due condizioni – annuncia Chiara Martinelli, direttrice di Climate Action Network Europe, rete che raccoglie 180 organizzazioni ambientaliste continentali -. Primo, un impegno concreto nella dichiarazione finale all’eliminazione di tutte le fonti fossili, il cosiddetto phase out. Secondo, più finanziamenti veri per tutti paesi poveri: fair funded future potrebbe essere lo slogan”. Una buona notizia, al riguardo, è giunta pochi giorni fa: sarebbe stato raggiunto l’obiettivo di cento miliardi in aiuti per la crisi climatica all’anno, secondo dati preliminari dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. La promessa era stata fatta a Copenaghen nel 2009, e il traguardo arriva tre anni dopo rispetto all’obiettivo fissato per il 2020, ma era inaspettato. La Cop28 avviene in quello che è ormai riconosciuto come l’anno più caldo della storia e non si contano i disastri ambientali.
L’ACCORDO DI PARIGI E IL TAGLIANDO
Con l’accordo di Parigi del 2015 per la prima volta tutti i Paesi si sono impegnati a mantenere la temperatura “ben al di sotto” dei 2 gradi rispetto all’era preindustriale e a proseguire gli sforzi per restare entro gli 1,5 gradi, soglia ritenuta più sicura per combattere i devastanti effetti del cambiamento climatico. Il problema, fanno notare gli scienziati, è che il mondo è già arrivato oltre gli 1,3 gradi e il margine di manovra è estremamente ridotto. L’accordo di Parigi stabilisce che ogni Paese fissi da sé i propri obiettivi climatici (N.d.C – National determined contributions).
Ma il mondo saprà chi bara, con il global stocktake. Si tratta del controllo dei compiti a casa, da tenersi ogni cinque anni a partire dal 2023. Al momento, ognuno fa i conti a modo proprio, rendendo molto difficile il lavoro di comparazione. Gli indicatori dicono che con gli impegni presi fino a oggi l’aumento delle temperature non resterà coonfinato entro i limiti di Parigi, ma sfiorerà i 3 gradi entro il 2100.
Sultan Ahmed al-Jaber durante la Abu Dhabi International Petroleum Exhibion and Conference sponsorizzata da Adnoc
La prossima conferenza del clima sarà guidata da un manager del petrolio
Membro di spicco del governo degli Emirati arabi uniti, il presidente di Cop28 Sultan Ahmed Al Jaber è a capo della compagnia petrolifera nazionale e favorevole ad aumentare gli investimenti per i combustibili fossili di 600 miliardi fino al 2030
IL NUOVO FONDO PER LOSS AND DAMAGE
Letteralmente “perdite e danni”, la terza gamba della finanza climatica, dopo mitigazione (ridurre, cioè, le emissioni serra), e adattamento (predisporre misure di contenimento per prepararsi agli eventi estremi). Se la Cop di Sharm, partita sotto tono, si è conclusa con un successo è perché in Egitto si è deciso di istituire un nuovo fondo.
Un incontro ad Abu Dhabi a inizio novembre ha formalizzato alcune raccomandazioni da portare a Cop28. La più controversa riguarda la possibilità di ospitare il fondo presso la Banca Mondiale, dominata dagli Stati Uniti. Troppo potere all’Occidente, sostiene alcuni paesi, che lo accusano essersi arricchito sfruttando l’energia derivata dalle fonti fossili e chiedono di poter fare lo stesso. Il gruppo negoziale G77 + Cina – composto dagli Stati in via di sviluppo con l’aggiunta di Pechino – spinge in questo senso, ed è dotato del peso per spostare gli equilibri.
Un altro punto nodale del nascituro fondo sarà l’allargamento della base dei donatori. “I paesi che hanno inquinato di più storicamente devono ovviamente contribuire per primi – dice Chiara Martinelli di Climate Action Network Europe – anche per togliere un alibi agli altri: è a quel punto che giganti come Cina e India saranno costretti a entrare in gioco”. L’obiettivo è rendere il fondo operativo già nel 2024. A dare il buon esempio potrebbe essere l’Unione europea: il nuovo commissario al clima Wopke Hoekstra nei giorni scorsi ha annunciato “un sostanziale contributo finanziario da parte della Ue e dei suoi stati membri”. “Sembrava tutto bloccato a livello continentale: poi la dichiarazione di Hoesktra e quella congiunzione che include tutti gli Stati membri lasciano ben sperare” chiosa Bencini.
NODO FAKE NEWS
Se dopo il sesto rapporto del Panel intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc, il gruppo di scienziati che assiste l’Onu sul tema) è assodato che la crisi a cui assistiamo ha una matrice industriale, la disinformazione negli anni è cambiata, raffinando le armi e adattandole al mutato contesto: “Non si parla più di negazionismo – rileva Martinelli – ma l’accento si è spostato sul fatto che le soluzioni proposte a oggi non funzionerebbero e aumenterebbero povertà e disuguaglianze”. Un argomento non privo di mordente tra i cittadini esasperati dall’inflazione, ma che piace molto anche al Sud globale. Il compromesso tra istanze climatiche, economiche e sociali sarà il sacro Graal dei prossimi anni.
*(Fonte: Wired. Antonio Piemonte · | SAP Analyst Consultant presso Accenture Italia)
06 – QUAL È LA DIFFERENZA TRA CONSIGLIO EUROPEO E CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA
SONO ENTRAMBI ORGANI INTERGOVERNATIVI MA SVOLGONO FUNZIONI DIFFERENTI: IL CONSIGLIO EUROPEO DEFINISCE PRIORITÀ E STRATEGIE, MENTRE IL CONSIGLIO DELL’UE ESERCITA UNA FUNZIONE LEGISLATIVA E DI BILANCIO.
Definizione
Il consiglio europeo e il consiglio dell’Unione europea sono la voce degli stati membri all’interno del sistema istituzionale Ue. Hanno entrambi un carattere intergovernativo e riuniscono rappresentanti dei paesi membri. Per questo e per la denominazione simile vengono spesso confusi. Tuttavia svolgono funzioni distinte.
Il consiglio europeo è composto dai capi di stato o di governo dei 27 stati membri ed è titolare del potere di indirizzo politico. Esiste informalmente da diversi decenni ma è stato formalizzato definitivamente, nella sua forma odierna, nel 2007, con il trattato di Lisbona.
Come definito dal trattato sull’Unione europea (Tue), esso “dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità generali “. Individuando le linee strategiche (elaborando una apposita agenda) e di gestione delle crisi. Oltre ai capi di stato o governo, ne fanno parte il presidente del consiglio stesso e il presidente della commissione. Con la partecipazione aggiuntiva dell’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
L’organo si riunisce due volte ogni semestre su convocazione del presidente. Le sue funzioni sono di carattere decisionale, perlopiù esercitando competenze di politica estera e sicurezza comune. Inoltre svolge un ruolo importante in alcune procedure di nomina per incarichi di alto profilo a livello Ue, in particolare:
• ELEGGE IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO EUROPEO;
• PROPONE IL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA;
• NOMINA L’ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA POLITICA DI SICUREZZA;
• NOMINA IL COLLEGIO DEI COMMISSARI, IL COMITATO ESECUTIVO E IL PRESIDENTE DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA.
Il consiglio dell’Unione europea, detto anche consiglio dei ministri europei o più semplicemente consiglio, è invece composto da ministri, anch’essi in rappresentanza del proprio stato. Esso esercita, congiuntamente al parlamento, la funzione legislativa e di bilancio. Non ha un presidente fisso: la presidenza viene ricoperta, su base rotazionale, da ognuno degli stati membri.
Lista delle presidenze del consiglio dell’Ue
Al suo interno, il consiglio è composto di una serie di gruppi (detti anche consigli tecnici, formazioni o configurazioni): attualmente sono 10, distinti per argomento. È assistito da un segretariato generale e affiancato da un organo ausiliare: il Coreper (commissione permanente dei rappresentanti), composto dai capi e dai vice-capi delegazione degli stati membri, che ha il compito di svolgere i lavori preparatori alle sedute del consiglio.
Assieme al parlamento, il consiglio assolve alla funzione legislativa. In alcune materie riveste ancora un ruolo di preminenza rispetto al parlamento, ma non in tutte e il loro numero si è ridotto nel corso del tempo.
Si occupa inoltre di coordinare le politiche degli stati membri in alcuni ambiti: politiche economiche e di bilancio; istruzione, cultura, gioventù e sport; politica occupazionale. Inoltre elabora la politica estera e di sicurezza comune, conclude accordi internazionali e adotta il bilancio dell’Ue.
DATI
All’interno del consiglio europeo, solitamente le decisioni vengono prese secondo il criterio del consenso (ovvero quando nessun paese membro si oppone alla decisione) e solo in alcuni casi si ricorre alla maggioranza (qualificata o semplice) oppure all’unanimità. Nel consiglio dell’Unione europea invece la scelta del sistema di voto dipende dalla questione analizzata, ma prevale quello della maggioranza qualificata, che prevede la compresenza di due maggioranze: degli stati (55%) e della popolazione (65%).
Il peso demografico degli stati membri nel consiglio dell’Unione europea
Per raggiungere la maggioranza nel consiglio Ue conta anche il peso demografico di ciascun paese membro
Il peso dei singoli paesi all’interno del consiglio dell’Unione europea dipende dalla popolazione residente. I paesi più popolosi sono la Germania, la Francia e l’Italia, che infatti pesano per il 18,59%, il 15,16% e il 13,32% rispettivamente.
ANALISI
Sia il consiglio europeo che il consiglio dell’Unione europea sono organi a carattere intergovernativo, poiché vi si incontrano rappresentanti dei governi nazionali che difendono gli interessi del proprio paese. Vari studiosi hanno tuttavia evidenziato come questo aspetto confederale abbia, nel consiglio dell’Unione europea, una componente più marcatamente sovranazionale, evidente nella sua funzione legislativa, ma anche nel ricorso al voto per maggioranza, rispetto a quello basato sul consenso.
Secondo alcune interpretazioni, il consiglio europeo svolgerebbe una funzione analoga a quella di un monarca costituzionale all’interno di un sistema parlamentare. Un monarca in grado di rappresentare l’unità, l’identità, la continuità e i valori dell’Unione. Negli anni infatti quest’organo si è espanso, non soltanto come attività ma anche come area di competenza, diventando sempre più un’autorità, con una sua propria sovranità.
Il consiglio dell’Unione europea per contro rappresenterebbe una sorta di “camera alta” all’interno di un sistema di bicameralismo imperfetto. Proprio in recenti proposte di riforma dell’Ue il tentativo è quello di andare verso un vero e proprio bicameralismo, riducendo i poteri del consiglio e modificando il sistema di votazione.
Entrambi gli organi vanno infine distinti dal consiglio d’Europa. Esso non è un’istituzione europea ma un’organizzazione internazionale, con sede a Strasburgo, che riunisce 46 paesi europei e la cui missione è quella di promuovere la democrazia e proteggere i diritti umani e lo stato di diritto in Europa.
(FONTE: elaborazione openpolis su dati consiglio europeo e consiglio dell’Ue)
07 – COME L’UE VERIFICA L’ATTUAZIONE DEI PNRR NEGLI STATI MEMBRI. L’INVIO DI RISORSE DALL’UNIONE EUROPEA AI PAESI MEMBRI È VINCOLATO AL CONSEGUIMENTO DELLE SCADENZE PREVISTE DAI PIANI NAZIONALI DI RIPRESA E RESILIENZA, E NON SOLO.
DEFINIZIONE
Ogni sei mesi la commissione europea effettua dei controlli sui paesi. Verifica che abbiano completato, nei tempi stabiliti, le scadenze definite nei rispettivi piani di ripresa e resilienza (Pnrr). Solo dopo tale controllo, procede all’erogazione dei fondi concordati.
Questa procedura è definita all’interno degli accordi operativi che ogni stato membro ha firmato con la commissione Ue. Prevede confronti trimestrali tra Bruxelles e il governo nazionale, per monitorare l’andamento del piano. E definisce i meccanismi di verifica del conseguimento dei singoli milestone e target.
CHE COSA SI INTENDE PER SCADENZE PNRR.
Il processo di valutazione inizia quando lo stato membro presenta alla commissione la richiesta di finanziamento. Dopo averla ricevuta, la commissione prepara entro due mesi un documento di valutazione. E chiede al comitato economico e finanziario – composto da due rappresentanti per stato membro – di fornire un suo parere entro quattro settimane. Se il comitato individua delle mancanze gravi da parte di un paese, può chiedere che la questione venga analizzata anche in sede di consiglio europeo. Oltre al raggiungimento di milestone e target, viene verificato che tutti gli interventi già implementati per il raggiungimento di scadenze passate non siano stati revocati. Una condizione anch’essa necessaria all’invio dei finanziamenti.
A questo punto la commissione è chiamata a decidere se erogare tutte le risorse stabilite. Oppure se inviarne solo una parte, nel caso in cui venissero confermate mancanze o irregolarità. In questo secondo caso, il resto dei fondi viene sospeso e lo stato coinvolto ha sei mesi di tempo per completare le scadenze in ritardo. Se ciò non avviene, la commissione può stabilire una riduzione dell’ammontare totale indirizzato a quel piano nazionale. Da notare comunque che nei casi in cui alcuni milestone o target risultino impossibili da raggiungere per condizioni oggettive, i governi nazionali hanno la possibilità di presentare una versione rivista dei rispettivi Pnrr.
QUANTO E COME PUÒ ESSERE MODIFICATO IL PNRR.
Per prendere queste decisioni, la commissione segue la cosiddetta comitatologia. Cioè una serie di procedure che la invitano a tenere fortemente in considerazione il parere espresso dal comitato, pur non obbligandola. La commissione è infatti libera di votare a maggioranza semplice, laddove non sia stato possibile raggiungere un consenso unanime, che rimane l’opzione preferibile. Trattandosi di un organo politico, possiamo dire la decisione finale sull’erogazione dei fondi è prettamente politica, in quanto appannaggio esclusivo dei voti dei singoli commissari.
DATI
A oggi, solo Italia e Spagna hanno ricevuto la terza tranche di finanziamenti. D’altra parte questi due paesi sono anche quelli a cui il dispositivo di ripresa e resilienza destina complessivamente più risorse. Al primo 191,5 miliardi e al secondo 69,5. Ricevere più fondi è connesso a un maggior numero di misure e scadenze da completare. Di conseguenza è logico che Italia e Spagna richiedano e ricevano nuove rate ogni 6 mesi, mentre altri paesi che hanno piani meno corposi no. Non è indicativo di una maggiore o minore capacità di realizzare il piano.
A proposito degli altri stati membri, 21 hanno ricevuto il pre-finanziamento, pari e non oltre al 13% dell’ammontare totale indirizzato a ciascun Pnrr. Mentre 19 paesi hanno avuto la prima rata e 7 la seconda.
PNRR: FINORA L’ITALIA HA RICEVUTO OLTRE 85 MILIARDI
LE TRANCHE DI RISORSE PNRR INVIATE AI PAESI UE
Mancano all’appello 5 stati membri. Ungheria, Polonia, Paesi Bassi e Svezia hanno avuto l’approvazione dalla commissione europea dei rispettivi Pnrr, ma non hanno ancora richiesto la prima tranche di pagamento. L’Irlanda invece ha inviato la domanda a Bruxelles ma è ancora in attesa di ricevere il pagamento.
ANALISI
Il processo di verifica semestrale dell’attuazione dei piani e la conseguente erogazione dei finanziamenti andrà avanti fino al 2026, con i meccanismi che abbiamo descritto. Incluso l’appannaggio praticamente esclusivo della commissione europea nel decidere se inviare le risorse o meno.
Lo slittamento di questo processo a un livello più politico che tecnico ha delle conseguenze. Perché pone il piano nazionale di ripresa e resilienza al centro di trattative più ampie, relative ad altre questioni politiche. Nel tempo alcuni momenti cruciali del Pnrr italiano per esempio – come la richiesta di modifica dell’agenda – si sono intrecciati ad altri negoziati tra Roma e Bruxelles. Come la ratifica della riforma del meccanismo europeo di stabilità (Mes) e quella del patto di stabilità. O ancora le elezioni del parlamento europeo di giugno 2024.
Inoltre, alle altre partite in gioco si aggiunge per l’Italia una considerazione più generale. È il paese membro a cui sono destinate più risorse per il Pnrr. Il fallimento del piano italiano costituirebbe dunque un fallimento per l’intero progetto europeo. La commissione in primis ha interesse a evitare questo esito e dunque a valutare in modo meno rigido l’operato italiano.
Tuttavia questi meccanismi nel lungo termine rischiano di avere un impatto. Soprattutto sulla capacità di restituire i fondi in prestito, per quei paesi che li hanno richiesti e ricevuti. Come abbiamo spiegato in altri approfondimenti infatti, le risorse economiche che l’Ue ha destinato ai paesi non sono solo sovvenzioni (338 miliardi di euro), ma anche e soprattutto prestiti (385,8 miliardi). L’idea che alimenta l’impianto di ripresa e resilienza è che completando tutti gli interventi previsti, i paesi in questione vivranno un processo di sviluppo tale da consentirgli di restituire i soldi ricevuti in prestito. Un assunto che chiaramente pone grandi aspettative e responsabilità, specialmente per quegli stati, in primis il nostro, che ricevono le cifre più alte. A maggior ragione dunque servirebbe un più rigido controllo tecnico da parte delle istituzioni europee. Sull’effettivo conseguimento delle scadenze e delle misure previste, nonché sulla realizzazione concreta di opere e interventi.
(FONTE: elaborazione openpolis su dati commissione europea)
08 – Vittoria Torsello Cristina Gironès Giovana Farìa*: DEMOCRAZIA SOTTO, I DEEPFAKE SONO DIVENTATI UN’ARMA. SONO SEMPRE PIÙ REALISTICI. E sempre più in grado di confondere gli utenti online, alimentando la disinformazione. Uno strumento utilizzato per destabilizzare la società, come racconta questa inchiesta…Un estratto del video deepfake del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, contrassegnato da un utente Twitter con la scritta rossa che annuncia come il contenuto sia ingannevole.
Questo articolo ha ricevuto il supporto di Investigative journalism for Europe
“Non c’è bisogno di morire in questa guerra. Vi consiglio di vivere,” intimava la voce seria del presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky in uno dei video diventato virale a marzo 2022, poco dopo l’invasione della Russia, seguito da un altro del presidente russo Vladimir Putin, che parlava di una resa pacifica. Pur essendo di bassa qualità, i filmati sono riusciti a diffondersi velocemente, creando confusione e con l’obiettivo finale di trasmettere una narrazione distorta.
Nell’universo digitale, dove i confini tra realtà e finzione sono sempre più labili, è emerso un ulteriore mezzo che mette in discussione la realtà proiettata sui nostri schermi: i deepfake. Si tratta di montaggi iperrealistici che imitano l’aspetto o la voce di una persona. Dall’inizio della guerra tra Russia e Ucraina, il loro uso è stato un’arma di conflitto, infiltrandosi in ogni angolo dei social network. Nonostante le reazioni quasi immediate e il debunking che ne è seguito, la loro circolazione è stata più efficace in determinati casi.
LA CORSA DEI DEEPFAKE
“Siamo creature molto visive, ciò che vediamo influenza ciò che pensiamo, percepiamo e crediamo – sostiene Victor Madeira, giornalista ed esperto di controspionaggio russo e disinformazione -. I deepfake rappresentano solo l’ultima arma progettata per confondere, sopraffare e, alla fine, paralizzare la presa di decisioni occidentale e la nostra volontà di reagire”. Mentre l’obiettivo è minare la fiducia nell’informazione, nei media e nella democrazia, il potere derivante da questa manipolazione attrae le piattaforme online. Sebbene queste ultime non siano legalmente obbligate a monitorare, individuare e rimuovere i deepfake dannosi, è nel loro interesse adottare politiche proattive per implementare tali strumenti e dare priorità alla protezione degli utenti.
Tuttavia, non sempre le necessità coincidono con gli interessi. “In quanto aziende, sono impegnate in una massiccia competizione per espandersi verso nuovi mercati, anche quando non hanno l’infrastruttura necessaria per proteggere effettivamente gli utenti”, sostiene Luca Nicotra, campaign director di Avaaz, ong specializzata nell’indagine della disinformazione online. Guadagnare con questo tipo di disinformazione, ricevendo feedback positivi, diventa dunque più vantaggioso, piuttosto che creare gli strumenti per impedirne la diffusione e salvaguardare gli utenti. E aggiunge: “Qualunque cosa accada con Facebook, Telegram, Instagram e altre piattaforme, è necessaria una revisione finale da parte di personale addestrato, ma questo comporta dei costi”.
DA ORA SARÀ POSSIBILE ACCEDERE AI METADATI DI UN’IMMAGINE PER SAPERE SE È STATA GENERATA O MODIFICATA DALL’AI
CREARE UN DEEPFAKE
Gli sviluppi dell’intelligenza artificiale generativa hanno sollevato preoccupazioni sulla capacità della tecnologia di creare e diffondere disinformazione su una scala senza precedenti. “Si arriva a un punto in cui diventa molto difficile per le persone capire se l’immagine ricevuta sul loro telefono è autentica o meno”, sostiene Cristian Vaccari, professore di comunicazione politica presso la Loughborough University ed esperto in disinformazione. I contenuti prodotti inizialmente con pochi e semplici mezzi possono sembrare di scarsa qualità, ma, attraverso modifiche necessarie, possono diventare credibili. Un esempio recente coinvolge la presunta critica della moglie del presidente americano Joe Biden riguardo alla gestione della crisi in Medio Oriente.
“Gli strumenti esistono già per produrre deepfake anche solo con un prompt di testo – avverte Jutta Jahnel, ricercatrice ed esperta in intelligenza artificiale presso il Karlsruhe Institute of Technology -. Chiunque può crearli, questo è un fenomeno recente. Si tratta di un rischio sistemico complesso per l’intera società”. Un rischio sistemico di cui è già diventato difficile delineare i confini. Secondo l’ultimo rapporto del centro studi Freedom House, almeno 47 governi hanno utilizzato commentatori pro-governo per manipolare discussioni online a loro favore, raddoppiando il numero rispetto a un decennio fa. Per quanto riguarda l’uso dell’AI, “nel corso dell’ultimo anno è stata utilizzata in almeno 16 paesi per seminare dubbi, denigrare gli oppositori o influenzare il dibattito pubblico”.
Secondo gli esperti, la situazione sta peggiorando, e non è facile individuare i responsabili in un ambiente saturo di disinformazione causato dalla guerra. “Il conflitto tra Russia e Ucraina sta causando una maggiore polarizzazione e una maggiore motivazione a inquinare l’ambiente informativo”, sostiene Erika Magonara, esperta di Enisa, l’agenzia europea della cybersecurity. Attraverso l’analisi di vari canali Telegram, è emerso che i profili coinvolti nella diffusione di tali contenuti presentano caratteristiche specifiche. “C’è una sorta di circolo vizioso – spiega Vaccari -. Le persone che hanno meno fiducia nelle notizie, nelle organizzazioni informative e nelle istituzioni politiche diventano disilluse e si affidano ai social media o a determinati circoli, seguendo un approccio del tipo ‘fai la tua ricerca’ per contrastare le informazioni”. Il problema coinvolge non solo i creatori, ma anche i diffusori.
IL CANDIDATO DI DESTRA ALLE ELEZIONI IN ARGENTINA, JAVIER MILEI
Quelle in Argentina sono le prime elezioni condizionate dall’intelligenza artificiale
I due sfidanti, Massa e Milei, si scontrano a colpi di contenuti generati dall’AI. Con rischi sulla tenuta della democrazia interna
INQUINARE LA POLITICA
“La disinformazione online, soprattutto durante i periodi elettorali e legata a narrazioni pro-Cremlino, rimane una preoccupazione costante”, riportano le prime righe di Freedom House nella sezione dedicata all’Italia. Dall’inizio della guerra, la Russia ha lavorato su Facebook per diffondere la sua propaganda attraverso gruppi e account creati appositamente a tale scopo. L’analisi dei vari canali Telegram operanti in Italia e Spagna ha confermato questa tendenza, rivelando inclinazioni verso ideologie di estrema destra e sentimenti anti-establishment. Questi elementi hanno fornito terreno fertile per la propaganda pro-Cremlino. Tra le narrazioni più diffuse, si trovano teorie che negano il massacro di Bucha, sostengono l’esistenza di biolaboratori americani in Ucraina e promuovono la narrazione sulla denazificazione dell’Ucraina stessa.
Una tendenza diffusa è stata la creazione di deepfake per parodiare i protagonisti politici della guerra, provocando un danno diffamatorio personale come principale conseguenza. Questo effetto è stato confermato da uno studio recente condotto dal Lero Research Centre presso l’University College Cork su Twitter, nel quale si afferma che “gli individui tendevano a trascurare o addirittura a incoraggiare i danni causati dai deepfake diffamatori quando erano diretti contro rivali politici”.
“Che cos’è un deepfake? Fate un piccolo esercizio e provate ad osservare i vari personaggi politici italiani, come Meloni, Salvini, Conte, Draghi e altri. Vi sembrano uguali o sono un po’ cambiati? Da quanto tempo [loro] utilizzano i deepfake?” Si legge questo messaggio su una delle chat Telegram analizzate. Mirare alla realtà come se fosse un deepfake ha conseguenze negative sulla percezione della verità. Questo riflette un’altra diretta conseguenza della diffusione dei deepfake in un ambiente informativo già denso di manipolazioni, ciò che gli accademici definiscono il “liar’s dividend”, ovvero l’incertezza informativa nell’ambiente mediatico che ne distorce ulteriormente la realtà. Ne è un effetto la narrazione secondo la quale i media occidentali utilizzano l’AI per manipolare la percezione del pubblico, sostenendo, per esempio, che la Russia non stia attaccando aree residenziali civili.
La terza tendenza individuata è l’assenza di debunking su Telegram. La mattina del 16 marzo 2022 ha segnato uno dei primi casi in cui un deepfake politico è stato deliberatamente utilizzato per diffondere disinformazione in un contesto di conflitto, sottolineando l’impatto potenziale dei deepfake. In questo caso specifico, tali contenuti hanno alimentato credenze cospiratorie e generato uno scetticismo dannoso. Questo fenomeno sembra verificarsi più frequentemente in determinati Paesi.
IL CASO DI SPAGNA E ITALIA
Un ambiente digitale assediato dai deepfake è ulteriormente messo a rischio dalla mancanza di adeguate contromisure. È il caso di Spagna e Italia, dove “ci sono il doppio delle situazioni di disinformazione, ma risorse limitate per monitorare questo fenomeno”, sostiene Nicotra. Un rapporto del 2020 di Avaaz ha evidenziato questa tendenza, sottolineando come utenti di lingua italiana e spagnola possano essere maggiormente esposti alla disinformazione. “I social network individuano solo la metà dei post falsi perché hanno scarso incentivo a investire in altre lingue”. La maggior parte del debunking avviene, infatti, per la lingua inglese.
“In questo momento, è uno svantaggio competitivo per qualsiasi azienda smettere di fornire agli utenti disinformazione e contenuti polarizzati”, sostiene Nicotra. Telegram è una delle piattaforme in questo contesto. Inoltre, tra tutti i 27 paesi dell’Unione Europea, Italia e Spagna sono quelli in cui Telegram è maggiormente utilizzato. Il 27% e il 23% della popolazione, rispettivamente, utilizzano questa rete per ottenere informazioni, come riportato nell’ultimo sondaggio Eurobarometer sull’uso dei media.
Se si considerano questi dati in relazione alla disinformazione russa, emerge una realtà preoccupante che favorisce ulteriormente la diffusione di determinate narrazioni all’interno di queste bolle informative. Come spiega Madeira, la disinformazione russa è adattata a ciascun paese o regione, ma gli stati mediterranei, in particolare, hanno una reputazione di essere “morbidi” con la Russia e sono ancor più indulgenti per quanto riguarda le questioni di sicurezza in generale. All’interno di questa mancanza di trasparenza e controllo sulla disinformazione, l’Unione europea ha cercato di intervenire promuovendo diverse leggi sulla regolamentazione dei contenuti.
LA RISPOSTA EUROPEA: COSA MANCA ANCORA DA FARE
Approvato dal Parlamento europeo all’inizio della scorsa estate e ora in fase finale di negoziato, l’AI Act è la legge più recente che si concentra sull’intelligenza artificiale. Una delle misure che include è l’etichettatura della disinformazione per contrastare l’efficacia e ostacolare la generazione di contenuti illeciti. “Introduce obblighi e requisiti graduati in base al livello di rischio, al fine di limitare gli impatti negativi sulla salute, sicurezza e diritti fondamentali” – spiega l’europarlamentare Brando Benifei, relatore del disegno di legge -. Ciò che sta cambiando, tuttavia, è il livello di responsabilità che le istituzioni dell’Ue stanno sempre più – e giustamente – ponendo sulle piattaforme che amplificano questi contenuti, specialmente quando il contenuto è politico”.
Si tratta dunque di stabilire il livello di responsabilità per ciò che avviene, non solo a livello istituzionale, ma anche da parte delle piattaforme interessate: “Se accetti i deepfake sulla tua piattaforma, sei responsabile di quel contenuto. Sei anche responsabile dei rischi strutturali perché agisci come amplificatore di questa disinformazione”, sostiene Dragos Tudorache, anch’egli europarlamentare e co-relatore della legge.
Per la prima volta si è assistito a propaganda e disinformazione deepfake che hanno cercato di influenzare una guerra. Nonostante la pubblicazione del Digital services act, che stabilisce le basi per controllare la disinformazione sui social media e l’approvazione dell’AI Act sull’intelligenza artificiale da parte del Parlamento europeo, “l’AI ha reso la disinformazione una tendenza, facilitando la creazione di contenuti falsi”, afferma Erika Magonara. Il deepfake stesso rappresenta una tecnica bellica progettata per alimentare determinati tipi di discorso e stereotipi facilmente condivisibili. In un conflitto che non mostra segni di cessazione, come sostiene Magonara, “il vero obiettivo è la società civile”.
*(Fonte: Wired. Vittoria Torsello – Premio Roberto Morrione per il giornalismo …Il Premio Roberto Morrione per il giornalismo investigativo. Il premio finanzia la realizzazione di progetti di inchieste su temi di cronaca …)
09 – Simone Valesini*: LA CARNE COLTIVATA È DAVVERO AMICA DELL’AMBIENTE? LA VERITÀ È CHE SI TRATTA DI UNA TECNOLOGIA ANCORA AGLI ALBORI, E AL MOMENTO NON È CHIARO SE SARÀ MAI CONVENIENTE SUL PIANO DELLA SOSTENIBILITÀ ECONOMICA E NON SOLO
ANDREY POPOV
Tra i (pochissimi) traguardi portati a casa dall’attuale governo c’è il divieto di produrre e distribuire carne coltivata nel nostro paese. Una legge che non rispecchia né l’opinione popolare (sembra che il 55% degli italiani sia in realtà interessato all’acquisto di prodotti di questo tipo), né quella della scienza, visto che la millanta “tutela della salute umana e del patrimonio agroalimentare” ha ben poco a che fare con la coltivazione in laboratorio di bistecche, hamburger e cotolette. Le ragioni sono molte, e in parte ve le abbiamo già raccontate. Ma ce n’è una che forse potrebbe tranquillizzare persino i bellicosi vertici di Coldiretti: i rischi di veder arrivare sulle nostre tavole prodotti di questo tipo in tempi rapidi e a costi competitivi sono pressoché inesistenti. Come molte tecnologie innovative, la carne coltivata è un campo di ricerca vivo, interessante, e dal grande potenziale. Ma che si possa rivelare non solo economicamente sostenibile, ma anche realmente meno inquinante degli allevamenti tradizionali, per ora, è ancora tutto da dimostrare.
QUANTO INQUINA LA CARNE
Che il consumo e il modello attuale di produzione della carne sia un problema per il pianeta è indubbio. Le stime della Fao parlano di oltre 8 giga tonnellate di CO2 prodotte dagli allevamenti intensivi di bestiame in tutto il mondo, pari almeno (alcune stime sono anche più elevate) al 14,5% delle emissioni totali di gas serra provenienti dalle attività umane. Queste cifre prendono in considerazione l’intera filiera agroalimentare collegata alla produzione di alimenti di origine animale, a partire dalle colture utilizzate come mangimi, passando per i gas emessi dagli stessi animali, per le emissioni energetiche necessarie per alimentare gli allevamenti, i mattatoi e la distribuzione del prodotto finito, e via dicendo. In un mondo che deve imparare a inquinare di meno per evitare conseguenze catastrofiche sul clima, è chiaro che cambiare i modi in cui consumiamo e produciamo carni e latticini è una priorità. Il problema è capire come farlo.
Trasformare l’intero genere umano in una specie vegana non è necessariamente la risposta migliore nel breve periodo (anche alimentare a vegetali 8 miliardi di persone presenta le sue difficoltà), né la più semplice. Ed è qui che entra in gioco la carne coltivata: la scienza moderna non ha difficoltà a produrre tessuti biologici in laboratorio. È visto che gli animali sono macchine ben poco efficienti in termini di produzione di calorie per il consumo umano – perché si sono evoluti per vivere, respirare, mangiare, muoversi, riprodursi, e fare un po’ tutto quello che facciamo anche noi consumando, appunto, calorie – eliminarli dall’equazione potrebbe rivelarsi una soluzione vincente. Producendo solamente i tessuti che ci servono in laboratorio, insomma, potremmo avere carne da mangiare investendo meno risorse, inquinando meno, e sollevando molti meno problemi di ordine etico (almeno per chi se li pone). Questa è la teoria, ma come sempre, è quando si passa alla pratica che sorgono i problemi.
Una crocchetta di pollo fatta con carne coltivata durante una presentazione a Singapore
Il nuovo divieto contro la carne coltivata in Italia
Lo ha votato la Camera. Una vittoria per la destra, ma secondo molti una sconfitta per la ricerca e il mercato italiani. Scontro fisico tra Coldiretti, che sostiene il divieto, e +Europa, che lo contesta
Quanto inquina la carne coltivata?
Di carne coltivata si parla ormai da tempo. Ma nonostante l’hype e gli investimenti miliardari degli ultimi anni, gli esempi concreti in campo commerciale sono ancora pochissimi: piccole (chi più, chi meno) start-up, che producono piccole quantità di carne coltivata a prezzi proibitivi per i consumatori (e spesso anche in perdita, pur di ritagliarsi visibilità in un mercato competitivo e in costante crescita). Calcolare quanto inquinino queste aziende per produrre la loro carne coltivata non è facile e non sarebbe giusto, perché ovviamente è passando all’economia di scala che si può valutare il reale impatto di una nuova tecnologia. Quel che è certo è che anche la carne coltivata produce, e produrrà necessariamente anche in futuro, emissioni: i bioreattori in cui vengono coltivati i tessuti cellulari, così come gli ingredienti utilizzati e tutti i macchinari coinvolti nel processo produttivo, producono sostanze inquinanti e richiedono energia per essere alimentati, e in buona parte del pianeta, questa energia la produciamo ancora oggi bruciando combustibili fossili, e quindi emettendo CO2.
Un tentativo recente di valutare l’impatto sul clima di un mercato maturo della carne coltivata arriva dai ricercatori della University of California, Davis (Uc Devis), che hanno utilizzato come bechmark le tecniche di produzione di tessuti coltivati in campo farmaceutico, dove queste tecnologie sono estremamente sviluppate e sottoposte a controlli di qualità paragonabili a quelli che verrebbero richiesti in campo alimentare. La loro valutazione è basata sulla comparazione delle emissioni prodotte per la produzione di carne coltivata e carne allevata nell’intero ciclo vita dei due prodotti, sommando cioè energia, consumi di acqua e materiali necessari per ottenerli, e poi convertendoli in quella che sarebbe la quantità equivalente di CO2, per stimarne l’impatto climatico.
Il loro lavoro, per ora pubblicato in preprint, valuta due scenari: uno in cui la produzione di carne coltivata avviene con processi paragonabili a quelli utilizzati nell’industria farmaceutica, e uno in cui i processi produttivi per il mercato alimentare riescono a fare a meno dei rigorosissimi step di purificazione degli ingredienti che vengono imposti al mercato del farmaco. I risultati sono molto diversi: nel primo caso, l’impatto sul clima della produzione di carne coltivata sarebbe addirittura 25 volte superiore a quello degli allevamenti; nel secondo, potrebbe variare in una forchetta che va dall’80% di emissioni in meno al 25% in più rispetto a quelle del mercato tradizionale. “I nostri risultati suggeriscono che la carne coltivata non è intrinsecamente migliore per l’ambiente rispetto a quella tradizionale. Non è, insomma, una panacea”, ha commentato a proposito Edward Spang, professore di scienze e tecnologie alimentari della Uc Devis che ha guidato la ricerca. “È possibile che in futuro riusciremo a ridurne l’impatto ambientale, ma serviranno significativi miglioramenti tecnologici per riuscire a aumentare le performance e contemporaneamente ridurre i costi dei terreni di coltura cellulare”.
CARNE COLTIVATA IN LABORATORIO
Nonostante gli stop del governo. Una questione aperta
Quella di Spang e colleghi ovviamente non è l’unica valutazione dell’impatto ambientale della carne coltivata realizzata negli ultimi anni. E in molti casi, i risultati erano molto diversi dai loro, e ben più lusinghieri. Un’analisi pubblicata a gennaio parlava ad esempio di emissioni dimezzate entro il 2030 rispetto a quelle di un allevamento attuale di bovini, da 35 chili di CO2 per chilo di carne a 14, considerando l’attuale mix di sorgenti energetiche. Trattandosi di un’industria con alti consumi energetici, l’impatto ambientale della carne coltivata nel rapporto varia moltissimo in base alle fonti energetiche utilizzate, arrivando anche a 3, o 4 chili di CO2 per chilo di carne nel caso in cui le rinnovabili riescano a coprire fette sempre più ampie dei consumi energetici mondiali. Bene, ma non benissimo, se pensiamo che pollame e maiali possono produrre rispettivamente anche 3 e 5 chili di CO2 per chilo di carne, all’interno di filiere ben ottimizzate.
Un rapporto del Good Food Institute (non profit che rappresenta gli interessi dell’industria delle fonti alternative di proteine) è ancora più ottimista: stando alla loro analisi tecnico economica la carne coltivata potrebbe diventare entro il 2030 non solo molto meno inquinante, ma persino competitiva sul piano economico rispetto a quella tradizionale, arrivando a costare circa 6 dollari al chilo. Per farlo, però, servirebbe un impianto produttivo all’avanguardia, capace di produrre 10mila tonnellate di carne l’anno, e dotato di una quantità di bioreattori che qualcuno stima pari a un terzo di quelli utilizzati oggi dall’intera industria del farmaco.
Quelle citate fin qui sono solo alcune delle decine di stime che si possono trovare in rete. Una moltitudine di risultati differenti che dovrebbero aiutarci a comprendere che al momento, semplicemente, non è chiaro né quanto potrebbe costare, né quanto potrebbe inquinare, in futuro, la carne coltivata su scala industriale. Un’incertezza che dovrebbe tranquillizzare chi ha paura di veder sparire nel giro di qualche decennio tutto il patrimonio enogastronomico del nostro paese, e il suo tessuto produttivo, soppiantato da insetti (probabilmente anche più sostenibili della carne coltivata), hamburger e crocchette prodotte in laboratorio. Se la transizione avverrà, sarà quasi certamente graduale, e difficilmente sostituirà completamente i piatti e gli ingredienti della tradizione, almeno nell’arco della nostra vita. Ridurre i consumi di carne (e la produzione eccessiva con il conseguente spreco alimentare legati al nostro modello economico) sarebbe la via maestra per rendere più sostenibile il nostro stile di vita. Ma è chiaro che in questo modo, a guadagnarci sarebbe solamente il pianeta.
*(Simone Valesini, Giornalista scientifico a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. Laureato in Filosofia della Scienza, collabora con Wired, L’Espresso, Repubblica)
10 – On. F. LaMarca PD*: Un mio pensiero per il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Care amiche, cari amici,
Oggi ricorre la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Negli ultimi giorni l’Italia ha assistito all’ennesimo caso di femminicidio, una piaga che persiste nella società odierna poiché ancora oggi nel mondo, ogni ora, vengono uccise cinque donne.
In occasione di questa giornata vorrei condividere con voi una mia riflessione che potrete trovare al seguente link: https://youtu.be/hp44oxxR-Ec?si=01UN8hYB3MEzXFXU
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America – Senato della Repubblica XIX Legislatura)
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