n°40 – 07/19/23 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Carè(Pd)*: Difesa, Incontro con Generale Masiello
02 Carè (PD)*: sanità, fibromi algia, sia riconosciuta come malattia per esenzione
03 – Lavoro, Carè(Pd): attività dei patronati all’estero fondamentali per assistenza ai connazionali
Roma 6 Ott.-“Oggi sono andato a far visita alla sede del Sistema 50&Più Enasco.
04 – Estero, Carè(Pd): incontro proficuo con Presidente del Comites di Canberra.
05 – Andrea Carugati*: Elly Schlein: «Torneremo al governo col voto. La nostra piazza sarà aperta». INTERVISTA. La leader Pd: siamo ostinatamente unitari, sulla sanità ci sarà una proposta delle opposizioni
06 – Andrea Medda*: Schlein ha un piano: “No a tecnici. Ecco quando torneremo al Governo”
Elly Schlein, il piano del Pd per tornare
07 – Mondo del Lavoro – Parità di retribuzione: diritti e limiti di privacy della Direttiva UE.(*)
08 – Francesco Pallante*: Una lezione di diritto costituzionale per l’esecutivo. LA FORZA E LA LEGGE. I provvedimenti con cui il tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento di tre migranti tunisini presso il centro per i richiedenti asilo di Pozzallo sono una lezione di […]
09 – Alessandro Coppola*: come il neoliberalismo ha cambiato le città – abitare in Italia e in Europa: un confronto. La casa e quartieri, esiti e squilibri di un grande esperimento di neo liberalizzazione.
10 – A chi sono andati i fondi PNRR per i servizi digitali della PA.
11 – Pietro Schiavazzi*: La rivoluzione d’ottobre di Francesco: assalto alla fortezza del conservatorismo Lo snodo del sinodo. Nell’anno undicesimo, il primo senza la fideiussione decennale di Ratzinger, il Pontefice preme l’acceleratore. Da Berlino a Kiev, intere assemblee nazionali dei vescovi mordono il freno
12 – Andrea Pipino*: Cile 1973 è il nuovo numero di Internazionale storia e racconta il colpo di stato che rovesciò il governo di Salvador Allende e gli anni della dittatura di Augusto Pinochet attraverso la stampa dell’epoca. Si può comprare in edicola, in libreria e online, oppure in digitale sull’app di Internazionale.
13 – Alessandro De Angelis*: analisi degli scricchiolii. Meloni deve battere Putin ma anche l’inflazione – la premier incontra Zelensky e ribadisce il sostegno. Ma si comincia a sentire la pressione dell’opinione pubblica, degli alleati e dell’opposizione: ovunque si rianima l’avversione per la guerra. E non soltanto in Italia.

 

 

01 – Carè(Pd)*: DIFESA, INCONTRO CON GENERALE MASIELLO
Roma 4 ott.-“Ho incontrato Carmine Masiello generale e Sottocapo di Stato Maggiore della Difesa in audizione con le Commissioni riunite Difesa, Trasporti e Politiche Ue, nell’ambito dell’esame della Comunicazione congiunta della Commissione europea e dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza al Parlamento europeo e al Consiglio sulla politica di cyber difesa dell’Ue.” Così Nicola Carè deputato del Pd componente della Commissione difesa e dell’assemblea parlamentare Nato.
*(On./Hon. Nicola Carè PD Camera dei Deputati)

 

02 Carè (PD)*: SANITA’, FIBROMIALGIA, SIA RICONOSCIUTA COME MALATTIA PER ESENZIONE
Roma, 4 ott – “Con la legge che ho presentato insieme all’On. Curti e ad altri colleghi che è stata assegnata alla commissione affari sociali in sede referente l’11 aprile di questo anno chiedo il riconoscimento della fibromialgia tra le patologie che danno diritto all’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria.
La Fibromialgia è una malattia invalidante e altalenante ed è inconcepibile che ad oggi non sia riconosciuta. È una sindrome nota come la malattia dei 100 sintomi e gli amici che ne soffrono mi dicono di difficoltà importanti. Causa un aumento della tensione muscolare caratterizzata da dolore a tessuti fibrosi, astenia, disturbi cognitivi, insonnia o disturbi del sonno e alterazione della sensibilità agli stimoli. La diagnosi e le caratteristiche cliniche sono state controverse, l’OMS organizzazione mondiale della salute l’ha riconosciuta 20 anni fa ma tuttavia molte persone vengono ostacolate e danneggiate sia dal punto di vista clinico che lavorativo, venendo ingiustamente emarginate.
Auspico un grande sostegno trasversale, posto che è un problema che non dovrebbe avere una connotazione politica. Noi siamo qui per cercare di colmare questo gap e di aiutare e sostenere le persone che ne soffrono”. Lo ha detto il deputato del Pd, Nicola Carè, intervenuto in conferenza stampa sulla presentazione delle proposte del Pd sulla fibromialgia nonché primo firmatario della proposta di legge alla Camera.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies – IV Commissione Difesa – Defence Committee – Circoscrizione Estero, Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide)

 

03 – Lavoro, Carè(Pd): ATTIVITÀ DEI PATRONATI ALL’ESTERO FONDAMENTALI PER ASSISTENZA AI CONNAZIONALI.
OGGI SONO ANDATO A FAR VISITA ALLA SEDE DEL SISTEMA 50&PIÙ ENASCO.
Ho incontrato il Direttore Generale, Gabriele Sampaolo, e il Direttore dell’Estero, David Sensi, e insieme abbiamo parlato dell’attività dei patronati all’estero e dei margini di miglioramento per l’assistenza ai nostri connazionali, anche attraverso una maggiore collaborazione con i consolati. Nel corso dell’incontro si è anche parlato della necessità di rivedere il ruolo dei patronati in funzione dei nuovi flussi migratori, che vedono un numero crescente di giovani italiani trasferirsi all’estero. In questo contesto, alcuni patronati diventano un punto di riferimento importante dove acquisire informazioni e ricevere l’assistenza necessaria per intraprendere il cammino verso l’integrazione nella nuova realtà. Questo comporta per gli operatori di Patronato la necessità di seguire un percorso formativo per fornire delle consulenze professionali e mirate.” Così Nicola Carè, deputato eletto nella ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies – IV Commissione Difesa – Defence Committee – Circoscrizione Estero, Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide)

 

04 – Estero, Carè(Pd): INCONTRO PROFICUO CON PRESIDENTE DEL COMITES DI CANBERRA.
ROMA 6 OTT.-” INCONTRO IMPORTANTE IN PARLAMENTO CON IL PRESIDENTE DEL COMITES DI CANBERRA FRANCO BARILLARO. ABBIAMO INSIEME AFFRONTATO LE TEMATICHE CARE AGLI ITALIANI ALL’ESTERO E DELINEATO STRATEGIE PER PORTARE A TERMINE GLI IMPEGNI PRESI.
Prioritarie e urgenti per i nostri connazionali sono una buona efficienza dei servizi consolari, incentivare la promozione della lingua e della cultura italiana snellendo i processi di assegnazione dei contributi agli enti che si occupano della progettualità per la diffusione della lingua. Abbiamo anche parlato dell’importanza dell’editoria italiana all’estero come mezzo di informazione e confronto nella comunità, dell’abolizione della tassa IMU riguardante i residenti all’estero in merito alla loro casa italiana. Ci siamo soffermati sull’urgenza di una adeguata riforma del voto, di una immediata riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza e sull’importanza del turismo delle radici soprattutto per le seconde e terze generazioni. L’incontro è stato proficuo per sottolineare il nostro impegno per trovare insieme soluzioni normative e risorse adeguate agli italiani all’estero che sono cittadini di serie A e che amano e rispettano la terra d’origine ma che devono essere tutelati nello stesso modo dei residenti in Italia.” Così Nicola Carè, deputato eletto nella ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputi)

 

05 – Andrea Carugati*: ELLY SCHLEIN: «TORNEREMO AL GOVERNO COL VOTO. LA NOSTRA PIAZZA SARÀ APERTA». INTERVISTA. LA LEADER PD: SIAMO OSTINATAMENTE UNITARI, SULLA SANITÀ CI SARÀ UNA PROPOSTA DELLE OPPOSIZIONI

Elly Schlein ha appena concluso la direzione Pd. Voto unanime sulla sua relazione, il clima che si respirava al terzo piano della sede del Nazareno era quello di una pax tra le anime Dem. Consapevoli che, almeno fino alle europee, bisogna marciare uniti. La segretaria risponde alle domande del manifesto dal tavolo della presidenza, nella grande sala riunioni ormai vuota a ora di cena.
Sull’Ucraina l’Europa è stata insufficiente. Ma non mi rassegno: dobbiamo spingere per la tregua. Nel Pd c’è un buon clima, nessun assalto alla leader: siamo uniti sulle battaglie
Avete convocato una manifestazione di piazza per l’11 novembre contro il governo e per la difesa della sanità pubblica. Ritiene che la fase della rassegnazione e dello scoramento nel popolo di centrosinistra sia finita?
La sinistra serve proprio per trasformare la rassegnazione in mobilitazione, speranza e proposta: questa è la nostra sfida. Veniamo da una estate militante sui bisogni concreti delle persone, dalla casa alla salute al salario minimo, ma anche contro l’autonomia differenziata che vuole aumentare le diseguaglianze nel paese soprattutto a scapito del sud. Sì, ho percepito consapevolezza della necessità di far fare un salto in avanti al Paese su questi temi: durante l’estate abbiamo realizzato 1500 eventi e ho visto una partecipazione sorprendente. Uno dei motivi che mi ha spinto a candidarmi è che nel settembre del 2022 avevo percepito questa mancanza di motivazione e speranza, anche tra i nostri militanti. Ora sono stati proprio loro a chiederci di tornare a mobilitarci con una grande manifestazione nazionale, aperta alle persone e alle forze sociali e politiche che sentono l’urgenza di dare il segnale che la misura è colma.

SI RIFERISCE ALL’AZIONE DEL GOVERNO?
In questo anno la destra al governo ha mostrato la sua vera natura: un anno di bandiere ideologiche piantate negli occhi dei più fragili, e di strizzate d’occhio agli evasori. E ora si stupiscono di avere poche risorse per la manovra… E non dimentico le politiche brutali contro i migranti. Penso che queste cose le persone le capiscano molto bene perché le vivono sulla propria pelle ogni giorno. Poi sono consapevole che non sia facile rimotivare le persone che non credono più alla politica. A me sta a cuore ricostruire una relazione, un rapporto di fiducia soprattutto con loro, anche se non è semplice. C’è una crisi democratica che sta spingendo fuori le fasce più povere.

PERCHÉ CONVOCATE LA PIAZZA PRIMA ANCORA CHE LA MANOVRA SIA STATA APPROVATA? UNA CRITICA PREVENTIVA?
Perché abbiamo già visto dove vogliono arrivare. Sul salario minimo ci stanno prendendo in giro. Non daranno le risposte che servono al paese, sarà una manovra di mance corporative. Non c’è un disegno di sviluppo, meno che mai nella direzione della conversione ecologica che sta alla base del Pnrr. Non è un caso che questo governo stia sprecando quei fondi.

LEI HA PARLATO DI UNA PIAZZA COME EMBRIONE DELL’ALTERNATIVA ALLE DESTRE. MA UNA COALIZIONE PROGRESSISTA FATICA A NASCERE NON SIETE IN RITARDO?
Noi sentiamo questa esigenza di ritrovarci fisicamente in una piazza, come una comunità. Sarà aperta a tutti coloro che condividono queste urgenze. Con le altre opposizioni continueremo a essere ostinatamente unitari, non per negare le differenze che ci sono, ma perché vediamo un terreno comune su cui unire le forze. Sul salario minimo siamo stati più efficaci arrivando a una proposta comune, abbiamo costretto il governo a guardare in faccia 3,5 milioni di lavoratori poveri. Sulla sanità ci stiamo lavorando.

SULLA SALUTE, NONOSTANTE I TAGLI CHE IL GOVERNO HA ANNUNCIATO, ANCORA FATICATE A TROVARE UNA PROPOSTA ALTERNATIVA COMUNE. PERCHÉ?
Il dialogo è partito e andrà avanti: sono fiduciosa che riusciremo a far convergere le nostre proposte, a partire dalla necessità di aumentare le risorse del fondo sanitario nazionale. Solo chi non ha idea di cosa sta succedendo negli ospedali può dire che non è un problema di risorse. La Nadef conferma l’intenzione del governo di favorire la privatizzazione della sanità: per questo è necessario che si saldino al più presto le forze tra le opposizioni per condurre una battaglia comune contro la manovra.

SE CI SARÀ UNA CRISI FINANZIARIA E IL GOVERNO NON SI MOSTRERÀ IN GRADO DI GOVERNARE LA BARCA, CHE COSA FARÀ IL PD? C’È IL RISCHIO CHE VI IMBARCHIATE IN UN NUOVO GOVERNO TECNICO?
Lo sta chiedendo a una persona che ha iniziato il proprio percorso politico dicendo no alle larghe intese nel 2013. Il Pd tornerà al governo solo quando vincerà le prossime elezioni politiche.

Lei ha detto che la vostra sarà una piazza di proposta. Finora la sua segreteria è stata percepita più contro Meloni che per un programma alternativo.

Non c’è stata una sola critica al governo senza accanto una nostra proposta costruita nell’ascolto della società. Questa è una scelta di metodo, è il nostro riformismo. Non saremo mai quelli che gridano contro senza avere una proposta.

FACCIA QUALCHE ESEMPIO.

Siamo davanti al fallimento della demagogia della destra sull’immigrazione: loro hanno firmato tutte le leggi che hanno prodotto disastri e ingiustizie, da Dublino alla Bossi- Fini. Noi abbiamo presentato 7 proposte concrete per gestire il fenomeno migratorio, puntando alla solidarietà europea, le vie legali per l’accesso e l’accoglienza diffusa d’intesa con i sindaci.

LA VOSTRA PROPOSTA SI FONDA SULL’IDEA CHE A UN CERTO PUNTO I PARTNER EUROPEI DECIDANO DI DARE UNA MANO ALL’ITALIA. FINORA NON È STATO COSÌ.
La sinistra per sua natura si batte per cambiare le cose sbagliate: se volessimo rassegnarci dovremmo cambiare mestiere. Quando 4 milioni di ucraini sono arrivati in Polonia, per la prima volta si è sbloccata la direttiva sulla protezione temporanea: così si è consentito a chi fuggiva dalla guerra di raggiungere legalmente tutti i paesi europei. Perché non si fa anche per chi arriva dal Mediterraneo? Se il problema è il colore della pelle allora è razzismo. Aggiungo che a Bruxelles si sta votando un patto sulle migrazioni che non è una vera condivisione equa dell’accoglienza, ma un compromesso al ribasso. E questo perché Meloni non ha il coraggio di fare questa battaglia per non disturbare i suoi alleati nazionalisti.
Ha citato l’Ucraina. Anche il governo mostra segni di affaticamento nel sostegno militare a Kiev di fronte a una guerra che non accenna a finire. Anche nel popolo di sinistra crescono i dubbi. Il Pd che fa di fronte a un’Europa che non tocca palla?
Il ruolo dell’Europa non è un dato immutabile. Noi vogliamo cambiare le cose che non vanno: siamo davanti a sfide che nessun governo da solo può affrontare. O si riesce a gestire queste crisi a livello europeo oppure falliremo. Ho sempre denunciato con forza l’assenza di uno sforzo diplomatico e politico europeo che fino a qui è stato insufficiente. Ma non mi rassegno. Sono stata 5 anni all’europarlamento e ho sempre contrastato l’idea dei grigi burocrati che decidono sulla nostra testa. A volte anche il muro della conservazione, e degli egoismi nazionali, si può infrangere, come è successo con Next Generation Eu.
Dopo sette mesi alla guida del Pd che bilancio fa? È già partito il solito assolto al leader?
Assolutamente no. Vedo un partito che ha dato segnali di grande vitalità e capacità di mobilitazione, tutti ingredienti che mettiamo a disposizione della costruzione di una coalizione vincente. La direzione di oggi mi pare confermi che siamo un partito in salute e capace di unirsi su battaglie che tutti condividiamo.
*(Fonte: Il Manifesto – Adrea Carugati, giornalista)

 

06 – Andrea Medda*: Schlein ha un piano: “No a tecnici. Ecco quando torneremo al Governo”
Elly Schlein, il piano del Pd per tornare al Governo
LE MOTIVAZIONI E GLI OBIETTIVI
Elly Schlein è carica e pronta a riportare il Pd in alto e al Governo. L’obiettivo dichiarato è di riconquistare la fiducia degli elettori.
Giornate intense sul fronte politico con l’Italia che deve fare particolare attenzione a diversi argomenti. Ecco perché, al netto della consuete polemiche col Governo l’opposizione, in questo caso quella del Pd guidato da Elly Schlein, sembra avere le idee su come riconquistare la fiducia degli italiani e dei propri elettori. Intervistata da Il Manifesto, la leader del Partito Democratico ha affrontato diverse tematiche sottolineando anche quando il suo partito riuscirà a tornare al comando.
“Torneremo al Governo col voto. La nostra piazza sarà aperta”. Questo il titolo dell’intervista de Il Manifesto alla leader del Pd dove si evince grande carica e convinzione in vista del futuro del partito e non solo.
La Schlein ha spiegato la posizione in merito al futuro e al ritorno alla guida del Governo: “Lo sta chiedendo a una persona che ha iniziato il proprio percorso politico dicendo no alle larghe intese nel 2013. Il Pd tornerà al governo solo quando vincerà le prossime elezioni politiche”.
Ma non solo, la numero uno del Partito Democratico, come già fatto in passato, ha spiegato che il partito è di nuovo pronto a scendere in piazza. Una piazza che sarà aperta “a chi condivide le nostre stesse urgenze”.
LE MOTIVAZIONI E GLI OBIETTIVI
Nel corso dell’intervista spicca la forte motivazione della leader del Pd nel guidare il partito: “Uno dei motivi che mi ha spinto a candidarmi è che nel settembre del 2022 avevo percepito questa mancanza di motivazione e speranza, anche tra i nostri militanti. Ora sono stati proprio loro a chiederci di tornare a mobilitarci con una grande manifestazione nazionale, aperta alle persone e alle forze sociali e politiche che sentono l’urgenza di dare il segnale che la misura è colma”, ha detto la Schlein.
“Sentiamo questa esigenza di ritrovarci fisicamente in una piazza, come una comunità. Sarà aperta a tutti coloro che condividono queste urgenze”. L’obiettivo della segretaria del partito è chiaro: “A me sta a cuore ricostruire una relazione, un rapporto di fiducia soprattutto con loro, anche se non è semplice. Con le altre opposizioni continueremo a essere ostinatamente unitari, non per negare le differenze che ci sono, ma perché vediamo un terreno comune su cui unire le forze”.
Infine alcune precisazioni: “Sul salario minimo siamo stati più efficaci arrivando a una proposta comune, abbiamo costretto il governo a guardare in faccia 3,5 milioni di lavoratori poveri. Sulla sanità ci stiamo lavorando. Sulla salute, nonostante i tagli che il governo ha annunciato, ancora fatichiamo a trovare una proposta alternativa comune”.
*(Fonte: Andrea Medda, giornalista)

 

07 – MONDO DEL LAVORO – PARITÀ DI RETRIBUZIONE: DIRITTI E LIMITI DI PRIVACY DELLA DIRETTIVA UE. LA DIRETTIVA EUROPEA SULLA PARITÀ SALARIALE TRA GENERI CONCEDE DIVERSI DIRITTI AI CANDIDATI E AI LAVORATORI MA SENZA LEDERE LA PRIVACY DEI COLLEGHI.
La Direttiva UE sulla parità salariale (EU Pay Transparency Directive 2023/970), si propone di ridurre il divario di genere e, una volta recepita nell’ordinamento nazionale (gli Stati Membri dovranno farlo entro il 7 giugno 2026), dovrà essere rispettata dai datori di lavoro del settore privato e pubblico.
ANNUNCI E OFFERTE DI LAVORO: PARITÀ E TRASPARENZA
Una volta recepita la Direttiva UE, gli annunci di lavoro dovranno riportare informazioni sul livello retributivo iniziale in fase di assunzione o sulla fascia attribuibile alla posizione offerta, sulla base di criteri oggettivi e genericamente neutri. Queste informazioni dovranno per lo meno essere fornite nella risposta al candidato che manifesta interesse.
A questi candidati verranno comunque fornite, in sede di colloquio, le medesime informazioni senza che sia l’aspirate lavoratore a doverle chiedere.
Assunzioni e contratti: trasparenza e privacy
Come precisa Joelle Gallesi, Managing Director di Hunters Group, la direttiva per la parità di stipendio, si basa su tre punti chiave:
i candidati avranno diritto di ricevere informazioni sulla fascia retributiva relativa alla posizione specifica;
non sarà possibile chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni attuali o precedenti in fase di colloquio;
i lavoratori potranno chiedere informazioni sul proprio livello retributivo e su quelli medi delle categorie che svolgono pari mansioni, con i criteri utilizzati per determinare livelli retributivi e avanzamenti di carriera.
Sarà possibile chiedere al datore di lavoro di conoscere le retribuzioni medie aggregate dell’azienda, ripartite per genere e per categorie equiparabili, ma bisognerà rispettare la privacy individuale dei colleghi.
Ricordiamo che, a livello aziendale, in Italia già esiste un obbligo di reportistica sulla parità di genere (previsto dalla legge n. 162/2021) per aziende con oltre 50 dipendenti, con cadenza biennale. Inoltre, alle imprese che presentano la certificazione della parità, è concesso in Italia un esonero contributivo
*( Fonte: Wired)

 

08 – Francesco Pallante*: UNA LEZIONE DI DIRITTO COSTITUZIONALE PER L’ESECUTIVO. LA FORZA E LA LEGGE. I PROVVEDIMENTI CON CUI IL TRIBUNALE DI CATANIA NON HA CONVALIDATO IL TRATTENIMENTO DI TRE MIGRANTI TUNISINI PRESSO IL CENTRO PER I RICHIEDENTI ASILO DI POZZALLO SONO UNA LEZIONE DI […]

I provvedimenti con cui il tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento di tre migranti tunisini presso il centro per i richiedenti asilo di Pozzallo sono una lezione di diritto costituzionale per il governo.
A venire in evidenza sono soprattutto due profili: la gerarchia delle fonti del diritto e i rapporti tra diritto statale e diritto europeo.
Sembra incredibile doversi soffermare sul primo punto, per ribadire che la Costituzione prevale sulla legge, sugli atti aventi forza di legge, nonché, a maggior ragione, su tutti gli atti subordinati alle fonti legislative (i decreti governativi: siano essi adottati dall’intero governo, dal solo presidente del Consiglio o da uno o più ministri). Se il Governo – che è, oramai, il vero legislatore nel nostro ordinamento di fatto – approva norme contrarie alla Costituzione, allora la magistratura (a seconda dei casi: la Corte costituzione o i giudici) le annullerà.
Quanto al secondo punto, occorre ricordare che, in forza dell’articolo 11 della Costituzione, la partecipazione dell’Italia all’Unione europea comporta che, nelle materie affidate alla competenza di quest’ultima, se vi è compresenza di diritto europeo e di diritto italiano, a trovare applicazione sarà il primo, con contestuale disapplicazione del secondo (salvo nell’ipotesi, sinora mai verificatasi, in cui il diritto europeo dovesse porsi in contrasto con i principi fondamentali della nostra Costituzione).

In caso di compresenza, non è nemmeno necessario procedere all’annullamento delle norme dell’ordinamento italiano: semplicemente, qualsiasi operatore giuridico – dai giudici alla pubblica amministrazione – applicherà direttamente il diritto europeo e non quello italiano.
Dalla combinazione dei due profili deriva che una norma dell’ordinamento italiano che sia in contrasto con il diritto europeo o con la Costituzione o con entrambi non ha alcuna possibilità di trovare applicazione. È quanto già accaduto con i provvedimenti che miravano a impedire alle navi delle Ong di salvare i naufraghi, contro il disposto di una consuetudine internazionale millenaria avente rango costituzionale in forza dell’articolo 10, comma 1 della Costituzione. Ed è esattamente quanto accaduto nel caso deciso dal tribunale di Catania, la cui decisione ha posto nel nulla il decreto interministeriale del 14 settembre 2023 che dispone il trattenimento dei richiedenti asilo privi di passaporto che non prestino la garanzia finanziaria ivi prevista (gli oramai famosi 4.938 euro).
Nel merito, a rendere vana l’iniziativa del governo è l’operare: (a) della disposizione costituzionale sul diritto di asilo (art. 10, comma 3), interpretata dalla Corte di Cassazione nel senso che anche i migranti provenienti da paesi considerati sicuri (come la Tunisia) possono comunque entrare nel territorio italiano per richiedere la protezione internazionale; e (b) della direttiva 2013/33/UE, interpretata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel senso che il trattenimento dei richiedenti la protezione internazionale può essere disposto solo nel caso ne siano adeguatamente motivate la necessità e la proporzionalità (mentre, nel caso di specie, il provvedimento di trattenimento non motiva la mancata adozione di misure meno coercitive).
Insomma: secondo la Costituzione e il diritto europeo, chi richiede la protezione internazionale ha diritto a entrare in Italia e, salvo motivate esigenze contrarie, a non essere trattenuto nell’attesa di ricevere risposta.
Al governo tutto ciò non piace? Se ne faccia una ragione. In un ordinamento costituzionale, nessun potere può tutto quel che vuole: nemmeno il popolo, la cui sovranità, lungi dall’essere illimitata, è sempre vincolata a esprimersi «nelle forme e nei limiti della Costituzione».
*(Fonte: Il Manifesto. Francesco Pallante è professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Torino.)

 

09 – Alessandro Coppola*: COME IL NEOLIBERALISMO HA CAMBIATO LE CITTÀ – ABITARE IN ITALIA E IN EUROPA: UN CONFRONTO. LA CASA E QUARTIERI, ESITI E SQUILIBRI DI UN GRANDE ESPERIMENTO DI NEO LIBERALIZZAZIONE.

Milano e l’Italia in un confronto europeo gentrification 2 jacobin italia.jpg Ricorre spesso in Italia una discussione sulla maggiore o minore pertinenza dell’uso della categoria del “neoliberalismo” nell’analisi della traiettoria delle politiche pubbliche degli ultimi trent’anni. Per alcuni c’è stato eccome, per altri si tratta invece di un inganno ideologico. Per i primi, le privatizzazioni, l’austerità, le esternalizzazioni di politiche e servizi pubblici sarebbero la riprova della pertinenza dell’uso di quel concetto. Per i secondi, il persistere di un livello elevato di spesa pubblica viceversa ne smentirebbe la pertinenza. Complessivamente, chi scrive concorda con chi – e sono molti, e autorevoli – pensa che il neoliberalismo non sia stato un progetto di mera de-statizzazione della società, bensì di profonda riarticolazione del ruolo dello stato, delle sue finalità come della sua strumentazione. E che quindi il permanere di una spesa pubblica elevata, o di un ruolo rilevante da parte dello stato, non siano di per sé dimostrazione della non pertinenza di quella categoria nell’analisi del caso italiano. Al di là di come ci si collochi in questa tenzone, è tuttavia possibile osservare come se c’è in Italia un ambito di politica pubblica dove si è potuta misurare una chiara ed inequivoca torsione neoliberale questo è la politica delle città, latamente intesa.

Tale torsione ha qui assunto una forma tradizionale di drastica riduzione del ruolo sia regolativo sia di intervento diretto dello stato e di contestuale apertura al mercato. A partire dagli anni 90, il trattamento pubblico di diversi oggetti che hanno a che fare con la vita delle città è stato riorganizzato attorno al principio della preminenza dello scambio di mercato in una misura che, come vedremo, non ha sostanzialmente paragoni fra i paesi europei a noi più vicini.

Gran parte degli squilibri che sono oggi al centro dell’attenzione pubblica – dalla mancanza di un’offerta di abitazioni in affitto a livelli accessibili al fenomeno dell’over tourism, oppure della cosiddetta movida – hanno a che fare con ambiti di regolazione pubblica che sono stati per l’appunto de-regolati in quel frangente. Questo non significa sostenere vi sia un rapporto causale esclusivo ed unilineare fra determinati fenomeni e squilibri da una parte e determinate de-regolazioni dall’altra, significa sottolinearne la rilevanza specie nella prospettiva di una discussione pubblica informata. Dove in questi ultimi decenni il mercato urbano è stato particolarmente dinamico – ovvero un numero limitato grandi regioni urbane, città medie e di località turistiche – abbiamo misurato come in un grande esperimento quali possano essere gli effetti nel lungo periodo di de-regolazioni e liberalizzazioni profonde. Milano, da questo punto di vista, è un caso di grande interesse: la città ha attratto in questi anni investimenti immobiliari imponenti, anche in virtù del suo business climate decisamente propizio agli investimenti. Un clima radicato di certo in grandi cambiamenti legislativi nazionali, ma anche nelle letture particolarmente conseguenti che di questi cambiamenti sono state date a livello regionale e locale.

L’AUTO-INCAPACITAZIONE DEGLI ATTORI PUBBLICI
Quando, parlando della questione abitativa a Milano, si dice che “il comune non può far nulla” si afferma, in gran parte, il vero. Ma spesso si omette di dire che tale situazione di (quasi) impossibilità di intervento non è certo un fatto naturale, bensì discende da decisioni pubbliche che ai diversi livelli di governo hanno progressivamente fatto in modo che per l’appunto il comune potesse fare molto meno di quanto socialmente richiesto. A illustrazione di questo argomento, in questo testo vedremo quali sono gli strumenti di politica pubblica – regolazioni, pianificazioni, interventi diretti – che sono nelle disponibilità di un comune italiano per governare le trasformazioni dei quartieri urbani, rispetto ad una serie di altri casi europei. In particolare, guarderemo a quanto e come siano trasformabili i quartieri a Milano rispetto a quelli di altre città europee con le quali la classe dirigente della città generalmente si confronta – Parigi, Berlino, Vienna, Amsterdam e Barcellona – in relazione a una limitata serie di dimensioni regolative che condizionano potentemente il rapporto complesso, e decisivo per l’esercizio del diritto ad abitare, che esiste fra gli usi del patrimonio edilizio e la composizione sociale della popolazione di una data porzione di città.
Le trasformazioni dei quartieri sono regolate da un insieme vasto e complesso di norme messe in opera e amministrare dallo stato in tutte le sue articolazioni. E la natura, direzione e rapidità dei cambiamenti delle città come dei quartieri dipendono quindi anche, sebbene come ovvio non esclusivamente, da queste regolazioni e dalle loro evoluzioni. Queste ultime limitano o favoriscono, filtrano ed orientano il comportamento degli attori – promotori immobiliari, attori pubblici, famiglie e individui – definendo la cosa possono fare ed il come possono farlo. E definendo anche la natura e la forma del mercato, quale spazio complesso di interazione fra lo stato e gli attori privati. Come dicevamo, le dimensioni regolative che potremmo osservare sono tante, ma – dato il fuoco di questo contributo – guarderemo in particolare alle regolazioni del mercato dell’affitto ordinario, dei cosiddetti affitti brevi ed agli strumenti del governo spaziale – nel senso del riferirsi a contesti concreti, abitati da popolazioni concrete – della più complessiva dinamica del mercato immobiliare.

IL MERCATO DELL’AFFITTO ORDINARIO
La prima dimensione regolativa rilevante è quella del mercato dell’affitto ordinario. In Europa, specie nelle aree urbane, sono diffuse forme di regolazione del livello e della dinamica dei canoni. Tali modelli esistono da decenni, oppure sono di più recente introduzione, a segnalare l’intervenire di una onda ri-regolativa a seguito di una fase invece prevalentemente de-regolativa. In Germania, il controllo dei canoni era incorporato nelle modalità stesse di regolazione della produzione privata di alloggi in affitto consolidatesi nel secondo dopoguerra. Tuttavia, una parte crescente del patrimonio residenziale in affitto è col tempo fuoriuscito dal regime che ne garantiva il calmieramento e questo ha determinato la necessità di nuovi interventi regolativi. Nel 2005 è stato introdotto il sistema del cosiddetto Mietpreisbremse, il quale prevede che gli aumenti dei canoni non possono essere maggiori del 10% rispetto alla media cittadina dei canoni in essere e del 15%, nel caso dell’attivazione di un nuovo contratto. Le ristrutturazioni permettono aumenti maggiori, ma pur sempre sulla base della valutazione delle migliorie apportate sulla base di una serie di criteri.

A questi interventi federali si sono poi aggiunti interventi dei singoli stati. Nel 2020, a Berlino era stata introdotta, a ulteriore rafforzamento delle norme federali, una norma – il cosiddetto Mietendeckel, poi decaduto – che stabiliva un tetto obbligatorio agli affitti differenziato per quartieri. In Francia, in una varietà di aree metropolitane individuate sulla base di criteri relativi alla condizione di minore o maggiore tensione del mercato abitativo, vige un sistema di inquadramento e quindi di calmieramento dei canoni residenziali. Il livello dei canoni di riferimento è stabilito annualmente dai prefetti con l’individuazione di livelli minimi e massimi articolati per sub-zone. Questi valori medi – stabiliti sulla base della valutazione di un osservatorio partecipato da istituzioni e parti sociali – possono conoscere una oscillazione verso l’alto di non oltre il 30% verso il basso di non oltre il 20% verso l’alto, in relazione a criteri quali l’anno di costruzione, le dimensioni dell’alloggio ed altre caratteristiche qualitative degli alloggi. Nel caso di coabitazioni – fattispecie non solo diffusa, ma anche in crescita in qualsiasi città europea – in alloggi sui quali quindi insiste una varietà di contratti il canone totale non può comunque eccedere i valori massimi consentiti per l’intero immobile. Pur non potendo trattarne estesamente qui, sistemi di inquadramento dei canoni vigono da tempo anche ad Amsterdam e Barcellona, sia ad esito di norme nazionali sia di norme regionali e locali.
Viceversa, in Italia, dal 1998 la definizione del livello dei canoni nel patrimonio privato – la larga maggioranza a Milano, diversamente da diverse delle città citate dove il patrimonio di edilizia sociale è più consistente – è completamente libera e indipendente da qualsiasi valutazione qualitativa. Il loro calmieramento è affidato esclusivamente a dispositivi esortativi e di incentivazione fiscale attraverso l’istituto – molto marginale a Milano, il 5% dei contratti in essere, sebbene in crescita – del cosiddetto canone concordato. Cosa comporta questa vistosa divergenza del caso milanese rispetto a quanto accade nelle altre città citate? Comporta essenzialmente che allo scadere dei contratti in essere i proprietari non hanno alcun vincolo riguardo il livello del canone del nuovo contratto, sia che questo sia proposto all’inquilino in essere sia che sia proposto ad un nuovo inquilino. Virtualmente, l’intero stock di abitazioni di proprietà privata in affitto di un intero quartiere – e quindi dell’intera città – può quindi conoscere una rivalutazione che non incontri alcun limite se non la disponibilità (non necessariamente la capacità effettiva) di chi cerca casa a pagare la cifra fissata. L’assenza di norme di inquadramento degli affitti rende poi possibile l’aumento dei canoni attraverso pratiche di ristrutturazione e frazionamento di fatto degli alloggi – fenomeno in evidente crescita a Milano – con l’offerta in affitto di singole stanze a prezzi inflazionati, pratica che in tutti i casi citati sarebbe interdetta perché farebbe superare all’immobile il tetto massimo stabilito. In questo ambito di regolazione, Milano e l’Italia costituiscono quindi un’eccezione radicale, la cui divergenza rispetto al resto d’Europa è andata allargandosi in tempi recenti.

LA (NON) REGOLAZIONE DEGLI AFFITTI BREVI E DEI LORO IMPATTI
La non regolazione dell’offerta di affitti brevi – seconda dimensione regolativa che esamineremo – si spiega ampiamente con la più complessiva scarsità di regolazioni riguardo il mercato dell’affitto (si veda su questo tema il contributo di Francesca Artioli, proprio sulle pagine di cheFare). Come ormai stabilito, la diffusione degli affitti brevi contribuisce alla riduzione dell’offerta in affitto a lungo termine ed alla loro rivalutazione, concentrando tali effetti in aree residenziali ancora socialmente composite nei confronti delle quali si concentrano le aspettative del turismo esperienziale. Che sia attraverso regolazioni di natura locale – che talvolta hanno implicato conflitti di ordine costituzionale – o di natura sovra-ordinata, in tutte le maggiori città europee vi sono forme di limitazione più o meno severa dell’offerta di affitti brevi. Ad Amsterdam, dal 2019, solo gli immobili che sono residenza principale di chi ne ha la proprietà possono essere affittati, ma per non più di 30 giorni. Un immobile nel quale il suo proprietario non sia residente – ovvero una “seconda casa” – invece non può essere affittato a breve e deve essere obbligatoriamente affittato a lungo termine. L’amministrazione della città aveva anche introdotto un sistema di azzonamento che escludeva le zone a maggiore presenza di offerta turistica dalla possibilità di nuova offerta di affitto breve, tuttavia questa norma è decaduta.
A Barcellona, a partire dal 2017, è entrato in vigore un nuovo strumento, il Piano urbanistico speciale degli alloggi turistici (PEUAT), volto a regolare anche il mercato degli affitti brevi, prevedendo la suddivisione del territorio della città in quattro zone: una zona nella quale si persegue l’obiettivo di una diminuzione dell’offerta turistica nel suo complesso e quindi non si concedono più licenze, una zona dove l’offerta deve essere mantenuta pressoché ai livelli attuali e quindi nuove licenze sono concesse solo se sostitutive di quelle decadute, un’area periferica in cui l’offerta può crescere ed infine un’area dove l’offerta può crescere solo in seguito ad una valutazione pubblica effettuata sulla base di una varietà di criteri. A Parigi, l’affitto breve della residenza principale è permesso, con obbligo di registrazione, fino a una soglia massima di 120 notti totali all’anno. Proprietari che invece volessero mettere in affitto breve degli immobili nei quali non risiedono devono richiedere un cambiamento di destinazione d’uso all’amministrazione, mettendo allo stesso tempo a disposizione un alloggio di pari o maggiori dimensioni per l’affitto a lungo termine oppure versare al comune una tassa a compensazione della mancata offerta. Tale norma diviene ancora più stringente nel caso di quartieri caratterizzati da una forte incidenza di affitti turistici sul totale degli alloggi, con l’obbligo per chi offre un metro quadro in affitto breve di offrirne almeno tre in affitto a lungo termine. Come si può vedere, le norme in essere nelle città citate puntano a ricondurre l’uso dell’affitto breve ad una pratica di coabitazione temporanea in un immobile di residenza, contingentando l’uso di alloggi a fini esclusivamente turistici oppure sostanzialmente vietandolo. Questo muove da riconoscimento di una chiara precedenza all’uso residenziale del patrimonio nel quadro di un mercato dell’affitto che, come abbiamo visto, è di per sé molto più regolato.

Come noto, tornando in Italia, non esiste alcuna limitazione alla possibilità di immettere un immobile, sia di residenza principale sia di residenza secondaria, sul mercato dell’affitto turistico. Le sole previsioni di legge riguardano infatti un obbligo di registrazione – mai effettivamente attuato – ed il pagamento delle imposte, senza peraltro differenze fiscali con l’uso ordinario a lungo termine. Cosa comporta, concretamente, la completa assenza di regolazioni anche remotamente paragonabili a quelle illustrate in riferimento ad altre città europee? Che, di nuovo, virtualmente, non solo l’intero patrimonio privato in affitto di un quartiere può – come richiamato sopra – essere pienamente rivalutato ai livelli di mercato, ma anche che questo medesimo patrimonio può essere interamente ritirato dal mercato dell’affitto ordinario per essere immesso in quello dell’affitto breve.

L’ascesa imponente dei numeri del patrimonio in affitto breve a Milano come in altre città italiane appare ormai in controtendenza rispetto ad altre città europee, dove l’offerta si è ormai stabilizzata oppure risulta in contrazione. A Milano, come altrove in Italia, si sta assistendo viceversa ad una migrazione massiva dei proprietari verso l’affitto breve in un contesto nel quale l’offerta complessiva in affitto è molto più limitata che in molte città europee (si sta contraendo quindi un’offerta già scarsa). Se quindi la prima ondata di neo-liberalizzazione ha liberalizzato i canoni e contribuito alla riduzione dell’offerta in affitto attraverso l’alienazione del patrimonio residenziale pubblico e l’incentivazione alla residenza in proprietà, la seconda – guidata dalle innovazioni dell’economia di piattaforma e l’assenza di interventi regolativi – fa migrare questo patrimonio già scarso verso una forma di affitto diversa da quella residenziale.
IL GOVERNO DELLE TRASFORMAZIONI DEI QUARTIERI
Un ultimo aspetto rilevante ha a che fare con l’attivo riconoscimento da parte delle politiche e della pianificazione urbane dell’esistenza di un oggetto definibile quale quartiere urbano, caratterizzato da una specifica composizione sociale la cui relazione con la dinamica immobiliare costituisce di per sé un oggetto di intervento pubblico. Nelle politiche urbane di molte città europee tale riconoscimento è un fatto strutturale, ed il territorio urbano non è considerato come uno spazio isomorfo al quale possano applicarsi le stesse regole e in riferimento al quale le politiche pubbliche possano perseguire gli stessi obiettivi. In particolare, da tale riconoscimento discende la presenza di regolazioni e strumenti – che includono anche l’intervento diretto dello stato, anche nella forma del comune, quale attore immobiliare – che hanno come fine quello di correggere gli effetti di quella che sarebbe la dinamica spontanea del mercato immobiliare in determinati quartieri, essenzialmente quelli nei quali i processi di valorizzazione conducano a processi consistenti e rapidi di espulsione (il cosiddetto displacement) e di chiusura all’arrivo di nuovi abitanti appartenenti a determinati gruppi sociali (essenzialmente i medesimi a rischio di displacement).
A Parigi esiste una politica di lungo periodo di acquisizione pubblica di patrimonio privato nell’insieme della città ma con una cogenza di particolare intensità in alcuni quartieri. Fra i diversi strumenti, le cosiddette Operazioni Programmate per il Miglioramento dell’abitare (OPAH) e le Operazioni di miglioramento dell’abitare degradato (OAHD) permettono all’amministrazione comunale di esercitare un diritto di prelazione per l’acquisto di immobili o di esproprio di immobili da destinare ad alloggi sociali. L’amministrazione di Berlino, come quelle di altre città tedesche, individua dei quartieri nei quali vigono alcune norme particolari sull’uso, la cessione e la trasformazione del patrimonio al fine di proteggerne la composizione sociale esistente. Nelle aree interessate da questo dispositivo – il cosiddetto milieux protection – i comuni possono limitare il diritto dei proprietari a vendere gli alloggi ritirandoli così dall’offerta in affitto oppure a ristrutturarli a livelli che implicherebbero un forte aumento dei canoni, sebbene inquadrati dalle norme citati in precedenza. Inoltre, anche in questo caso, il comune dispone entro questi perimetri di un diritto di prelazione sugli immobili messi in vendita.
A Vienna, dagli anni Settanta dello scorso secolo, l’amministrazione eroga ai proprietari entro perimetri definiti incentivi alle ristrutturazioni, i quali non possono però alzare il canone d’affitto né vendere il proprio immobile per un periodo di 15 anni. Infine, a Barcellona, nel caso di nuovi progetti immobiliari – ristrutturazioni profonde incluse – con una superficie utile superiore ai 600 mq, il 30% della superficie deve essere destinato ad alloggi sociali acquisiti dal comune in virtù anche in questo caso di un diritto di prelazione. Nel caso di Milano, nella pianificazione come nelle più complessive politiche urbane non esistono perimetrazioni entro le quali si applichino norme che limitano e orientano i comportamenti dei privati o rendano possibile un intervento diretto del comune quale attore immobiliare.
Che cosa comporta concretamente l’assenza di un riconoscimento attivo dell’esistenza dei quartieri urbani per come l’abbiamo inteso fino ad ora, e quindi di strumenti e regolazioni che lo mettano in opera? Prima di tutto, che anche in aree in cui si manifesti un forte e rapido processo di valorizzazione che comporta concreti rischi di espulsione/chiusura all’arrivo di determinati gruppi sociali non vi è alcuna capacità di mitigazione di tali processi da parte dell’attore pubblico: nessuna possibilità di limitare la contrazione dell’offerta in affitto a favore della proprietà o di limitare l’aumento degli affitti, nemmeno nel caso in cui queste siano esito di ristrutturazioni realizzate con trasferimenti pubblici. In quartieri già densi quali quelli della cosiddetta “semi-periferia, anche in relazione al governo delle caratteristiche della nuova produzione edilizia la capacità d’intervento del comune è sostanzialmente nulla: l’obbligo di quote di Edilizia Residenziale Sociale (ERS) è attualmente previsto solo nel caso di trasformazioni oltre i 10.000 metri quadri complessivi (nella discussione relativa alla revisione in corso del Piano di Governo del Territorio in diversi hanno proposto l’abbassamento di tale soglia).

FATTORI, SQUILIBRI DI E VIE DI USCITA DA UN GRANDE ESPERIMENTO
Potremmo discutere nella stessa rapida prospettiva comparativa altre dimensioni regolative che sono senza dubbio importanti per capire le condizioni di trasformazione dei quartieri urbani. La regolazione del commercio locale è, ad esempio, di grande rilevanza ed anche questa ha conosciuto in Italia – e in particolare a Milano e in Lombardia – una profonda liberalizzazione con effetti evidenti sulle trasformazioni dei quartieri (la famosa movida quale fenomeno di forte concentrazione spaziale della vita notturna è, in parte probabilmente significativa, esito della liberalizzazione del commercio). Anche quella del governo delle funzioni che il patrimonio edilizio ospita è una dimensione regolativa importante, ed anche in questo caso Milano rappresenta un caso di intensa neo-liberalizzazione con l’introduzione del principio di cosiddetta “indifferenza funzionale” nella pianificazione urbanistica che rende molto agevoli cambiamenti di funzioni nel patrimonio esistente (e non solo) laddove esista un attore di mercato intenzionato a promuoverli.
La discussione potrebbe quindi ampliarsi, ma ciò che preme sottolineare in questa conclusione è l’eccezionalità del processo di neoliberalizzazione che hanno conosciuto le città Italiane – e Milano in particolare – nel quadro dei casi europei che abbiamo rapidamente presentato (e che pure sono stati criticamente esaminati quali altrettanti casi di neo-liberalizzazione delle politiche urbane e abitative e, sebbene in forme diverse, di rinnovata “crisi abitativa”). Facendo esercizio di immaginazione sociologica, possiamo ipotizzare i fattori che hanno permesso un esito così radicale. Non solo la storica ma crescente centralità dell’istituto della proprietà immobiliare diffusa nel nostro sistema sociale, ma forse anche l’accrescersi, in un quadro di perdurante stagnazione economica e di crisi profonda della mobilità sociale, di una pressante richiesta sociale di liberalizzazione e massimizzazione di ogni forma di estrazione di rendita. Che questa derivasse dagli immobili residenziali urbani, da quelli commerciali e dal suolo pubblico di pertinenza oppure dalle spiagge, l’allargamento e massimizzazione delle rendite realizzabili è stata un forte richiesta dei gruppi sociali centrali e superiori (ma che si è dimostrata egemonica anche nei confronti dei ceti inferiori, per i quali è decisamente più improbabile accedervi e viceversa molto più probabile subirne le esternalità).

Egualmente, il peso crescente e prevalente dei processi di patrimonializzazione nel destino degli individui e delle classi sociali ha probabilmente contribuito potentemente a tale consenso. Infine, la trasformazione dei modelli di accumulazione urbana – in direzione di consumi culturali e turismo – ha rappresentato un’opportunità straordinaria per queste strategie (anche per legittimarle più ampiamente) anche perché sembravano – e tutt’ora sembrano – gli unici possibili in un paese in contrazione.
Tutto questo ha fatto sì che nei decenni si sia così perfettamente naturalizzata nel discorso pubblico italiano l’idea che la proprietà di un immobile urbano coincida con un diritto ad una sua totale disponibilità e non con un insieme di diritti e responsabilità nel quadro di un mercato sociale regolato e temperato da obiettivi collettivi. Il diffuso sostegno politico a tale discorso ha fatto in modo che, progressivamente, il campo degli strumenti nelle disponibilità degli attori pubblici – e in particolare dei comuni – nella regolazione e nell’orientamento delle dinamiche di mercato si desertificasse, socializzando l’opinione pubblica all’idea che le trasformazioni urbane guidate dal mercato fossero l’unica strada possibile, una strada per l’appunto naturale. Ora gli squilibri di questo modello iniziano ad essere percepibili non solo (come è sempre stato) per i gruppi sociali più deboli – famiglie a basso reddito, individui vulnerabili, migranti – ma anche per una parte della composizione sociale che ha per anni sostenuto più o meno attivamente il consenso di questo grande esperimento. E si fanno sentire in particolare a Milano dove la contraddizione fra estrazione sregolata della rendita e la domanda di lavoro che discende da impieghi più produttivi del capitale raggiunge probabilmente il suo massimo. Una stagione di ri-regolazione appare oggi non solo augurabile, ma anche forse più probabile di qualche tempo fa.
Nota: Questo testo deriva da ricerche dell’autore e in misura significativa da quanto emerso in un ciclo di incontri organizzato dal comitato Abitare in Via Padova nel 2023. In particolare, si rimanda agli interventi di Francesca Artioli, Federico Savini, Constanze Wolfgring, Alice Sotgia e Iolanda Bianchi. I video degli incontri sono visibili a questo indirizzo: https://abitareinviapadova.org/milano-si-puo-fare-2/. Una raccolta di quanto emerso nella forma di un opuscolo è invece scaricabile a questo indirizzo. Si rimanda anche al volume che raccoglie i testi di Sandra Annunziata, “Oltre la gentrification. Letture di urbanistica critica tra desiderio e resistenze urbane”, Edit Press, 2023, per approfondimenti teorici e pratici.
*(Alessandro Coppola insegna urbanistica al Politecnico di Milano. Si è occupato e si occupa di politica e politiche)

 

09 – A CHI SONO ANDATI I FONDI PNRR PER I SERVIZI DIGITALI DELLA PA.(*)

Il piano nazionale di ripresa e resilienza prevede diverse misure volte a potenziare e migliorare i servizi offerti dalle pubbliche amministrazioni. I fondi già assegnati in questo ambito sono circa 1,6 miliardi. Vediamo a cosa servono e come si distribuiscono sul territorio
• SONO 8 GLI INVESTIMENTI DEL PNRR E DEL FONDO COMPLEMENTARE PENSATI PER RAFFORZARE E MIGLIORARE I SERVIZI DIGITALI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
• I FONDI GIÀ ASSEGNATI AMMONTANO A CIRCA 1,6 MILIARDI. LA LOMBARDIA È LA REGIONE CHE RICEVE PIÙ FONDI (202,7 MILIONI). SEGUONO IL PIEMONTE (124,5) E IL VENETO (97,3).
• SE SI ESCLUDONO I PROGETTI DI AMBITO NAZIONALE, ALLE REGIONI DEL MEZZOGIORNO VA IL 35,8% DELLE RISORSE STANZIATE FINORA.
• A LIVELLO COMUNALE, PALERMO È IL TERRITORIO CHE RICEVE LA MAGGIOR QUOTA DI RISORSE (CIRCA 3,5 MILIONI DI EURO). SEGUONO I COMUNI DI ROMA (2,9), VENEZIA (2,7) E VERONA (2,5).
La pandemia ha dimostrato come poter interagire con le persone anche a distanza, per motivi di lavoro o svago, sia una necessità. Poter effettuare operazioni da remoto infatti ci consente di velocizzare quelle procedure che non è strettamente necessario svolgere in presenza. Inoltre permette di azzerare il tempo richiesto per gli spostamenti. Elementi che aiutano a conciliare meglio gli ambiti lavorativi con quelli privati contribuendo così al miglioramento della qualità della vita di ognuno di noi.
È per questi motivi che il Pnrr italiano stanzia una massiccia quota di fondi (circa 48 miliardi di euro) a favore della digitalizzazione del paese. Le misure previste in questo senso sono molteplici e vanno dallo sviluppo delle infrastrutture all’implementazione di strumenti digitali nelle pubbliche amministrazioni. E proprio il miglioramento dell’esperienza del cittadino nei suoi rapporti con la Pa ricopre un ruolo molto rilevante negli investimenti previsti dal Pnrr. Parliamo di 2,6 miliardi di euro, a cui si aggiungono altri 800 milioni del fondo complementare.
33.748 i progetti per la digitalizzazione e il miglioramento dei servizi offerti dalla PA già finanziati dal Pnrr.
Una parte importante di questi interventi sarà gestita a livello centrale ma anche comuni, province, città metropolitane e altri enti territoriali avranno un ruolo fondamentale nella “messa a terra” di questi progetti.
La digitalizzazione della PA e i fondi del Pnrr
Il tema della digitalizzazione abbraccia sostanzialmente tutti gli ambiti su cui insistono investimenti del Pnrr. Dalla sanità alla scuola, dalla mobilità alla transizione ecologica. L’obiettivo è quello di rendere il paese più efficiente e moderno. In questo caso ci soffermeremo su quelle misure che abbiamo classificato come di “cittadinanza digitale”. Vale a dire tutti quegli investimenti che puntano a potenziare la presenza online delle pubbliche amministrazioni, ad aumentare i servizi erogati e a migliorare l’esperienza degli utenti.
8 LE MISURE E SOTTOMISURE DEL PNRR E DEL FONDO COMPLEMENTARE DEDICATE ALLA “CITTADINANZA DIGITALE”.
L’intervento più consistente dal punto di vista economico riguarda proprio il miglioramento della qualità e dell’utilizzabilità dei servizi pubblici digitali. Con questo investimento, del valore complessivo di 813 milioni di euro, si punta a migliorare la user experience dei servizi digitali. Ciò dovrà avvenire armonizzando le pratiche di tutte le pubbliche amministrazioni verso standard comuni di qualità. Il secondo investimento più rilevante invece è denominato Polis – case dei servizi di cittadinanza digitale. Questa misura, che assorbe tutti gli 800 milioni previsti dal fondo complementare, punta a creare uno sportello unico di prossimità. Tale sportello dovrà assicurare ai cittadini residenti nei comuni più piccoli la possibilità di fruire di tutti i servizi pubblici in modalità digitale.
Altri 580 milioni poi sono destinati al rafforzamento dell’adozione delle piattaforme nazionali PagoPA (lo strumento per i pagamenti tra la pubblica amministrazione e cittadini e imprese) e Io, app che dovrà diventare il punto di accesso unico per i servizi digitali della pubblica amministrazione. Invece 556 milioni sono stati stanziati per la creazione di una piattaforma nazionale dati (Pnd). Questa servirà a interconnettere i database della Pa in modo che il cittadino non sia più costretto a fornire la stessa informazione molteplici volte.
Il Pnrr stanzia risorse per il miglioramento dei servizi digitali offerti ai cittadini dalla Pa.
Sono poi previsti investimenti complessivi per 255 milioni per il rafforzamento delle piattaforme nazionali di identità digitale (come Spid, carta d’identità elettronica e anagrafe nazionale). Mentre 245 milioni serviranno per la digitalizzazione degli avvisi pubblici. Con quest’ultimo intervento si punta alla creazione di una piattaforma unica di notifiche che permetta di inviare messaggi con valore legale.
Da segnalare infine l’investimento da 90 milioni per la creazione di uno sportello digitale unico che consentirà la digitalizzazione di un insieme di servizi essenziali (come la richiesta del certificato di nascita). E gli 80 milioni che saranno utilizzati per migliorare l’accessibilità dei servizi pubblici digitali, in modo che tutti possano usufruirne.
Come si distribuiscono i fondi del Pnrr sul territorio
Non tutti i fondi che abbiamo appena passato in rassegna sono già stati effettivamente assegnati. Grazie all’ultimo rilascio di dati da parte del governo, risalente allo scorso 13 giugno, possiamo valutare quali sono i progetti che hanno già ricevuto un finanziamento e come questi si suddividono sul territorio.
Non abbiamo indicazioni sullo stato di avanzamento dei progetti finanziati.
Prima di passare all’esame degli interventi già avviati però sono necessarie alcune precisazioni. Innanzitutto, i dati messi a disposizione dal governo ci forniscono l’elenco dei progetti finanziati finora ma non ci dicono niente sul loro stato di avanzamento. Non possiamo quindi dire se questi interventi sono già partiti o meno.
In secondo luogo, molti dei progetti finanziati (quasi mezzo miliardo di euro) sono classificati come “nazionali” e non è quindi possibile una loro localizzazione. Questo perché sono affidati alla diretta gestione delle amministrazioni centrali o perché si ritiene possano avere un impatto sull’intero territorio nazionale. Rientrano in questa categoria, per esempio, gli investimenti sulla creazione dello sportello digitale unico e i fondi per l’inclusività dei servizi digitali della Pa. Da segnalare infine che non sono a oggi disponibili informazioni sui progetti legati alla misura Polis, l’unica finanziata con il fondo complementare.
455,1 milioni € gli investimenti Pnrr per il miglioramento dei servizi digitali della Pa che non possono essere territorializzati perché nazionali.
Fatte queste premesse, possiamo osservare che complessivamente i fondi Pnrr già assegnati per progetti in ambito di cittadinanza digitale ammontano a circa 1,6 miliardi di euro. A livello regionale è la Lombardia l’area a cui sono stati assegnati più fondi (202,7 milioni). Seguono il Piemonte (124,5) e il Veneto (97,3).
SERVIZI DIGITALI DELLA PA, ALLA LOMBARDIA OLTRE 200 MILIONI
IL RIPARTO TRA LE REGIONI ITALIANE DEI FONDI PNRR PER LA DIGITALIZZAZIONE DEI SERVIZI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
La Campania è la prima regione del mezzogiorno per quantità di risorse attribuite (95,6 milioni) seguita dalla Sicilia (80,4 milioni). Escludendo i fondi di carattere nazionale, possiamo osservare che al sud sono state attribuite risorse inferiori alla quota minima del 40% prevista dal Pnrr.
35,8% i fondi Pnrr per la cittadinanza digitale attribuiti alle regioni del mezzogiorno rispetto al totale delle risorse già assegnate.
Anche se ovviamente stiamo parlando di un dato parziale, visto che non tutti i fondi sono già stati assegnati, tale tendenza è comunque preoccupante e deve essere tenuta sotto controllo. Visti gli ampi divari anche in tema di digitalizzazione tra il sud e il resto del paese.
A livello di singole misure, quella con la quota più significativa di risorse già attribuite riguarda il miglioramento della user experience degli utenti (787 milioni). Seguono il potenziamento nell’utilizzo della piattaforma PagoPa e dell’app Io (245,4 milioni) e la digitalizzazione degli avvisi pubblici (183,6 milioni).
L’impatto del Pnrr a livello locale
Spingendo l’analisi a livello locale, possiamo osservare che sono 7.506 (su 7.901) i comuni che ricevono fondi Pnrr per progetti legati al miglioramento dei servizi digitali della Pa. Quasi la totalità dei territori quindi (il 95%) si è già visto assegnare finanziamenti più o meno consistenti per realizzare interventi in questo ambito.
Trasparenza, informazione, monitoraggio e valutazione del PNRR
È il territorio di Palermo quello che riceve la maggior quota di risorse, pari a circa 3,5 milioni di euro. Seguono i comuni di Roma (2,9), Venezia (2,7) e Verona (2,5). Tra i comuni non capoluogo il primo che incontriamo nella graduatoria è Giugliano in Campania con circa 728mila euro. Seguono Cava de’ Tirreni (671mila euro) e Pomezia (606mila euro).
PNRR E DIGITALE: PALERMO, ROMA E VENEZIA I COMUNI PIÙ FINANZIATI
IL RIPARTO TRA I COMUNI ITALIANI DEI FONDI PNRR PER LA DIGITALIZZAZIONE DEI SERVIZI DELLA PA
DA SAPERE
Un progetto può interessare più di un comune. In quei casi l’importo del progetto viene attribuito a tutti i territori coinvolti, perché non è possibile una divisione delle risorse. Nella mappa non sono rappresentati i progetti di ambito nazionale e provinciale.
A livello di singoli progetti, logicamente, i più onerosi sono quelli che hanno una portata su tutto il territorio nazionale e che assorbono l’intero importo stanziato dalla misura. Anche per gli investimenti che hanno un riparto territoriale delle risorse tuttavia in alcuni casi il soggetto attuatore è rappresentato da amministrazioni centrali dello stato. I progetti gestiti da queste ultime assorbono somme consistenti. Alla presidenza del consiglio dei ministri, ad esempio, sono affidati 72 milioni di euro per la diffusione della piattaforma PagoPa e dell’app Io e altri 38,5 per la digitalizzazione degli avvisi pubblici. Altri 36,6 milioni sono assegnati al ministero dell’interno ancora per progetti legati a PagoPa e app Io. Al ministero delle infrastrutture infine vanno circa 8,1 milioni per interventi nell’ambito della piattaforma nazionale digitale dati.
Considerando invece i progetti “territorializzati”, i più onerosi in assoluto riguardano interventi per il miglioramento dell’esperienza degli utenti e saranno realizzati a Genova, Palermo, Catania, Bologna, Verona, Venezia e Torino. In tutti questi casi l’importo stanziato è pari a circa 1,3 milioni di euro. Nello stesso ambito, a Bari sarà realizzato un progetto da 1,2 milioni di euro e a Firenze un altro da 1,1 milioni.
Il nostro osservatorio sul Pnrr
Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.
*(FONTE: elaborazione openpolis su dati Open-PNRR)

 

10 – LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE DI FRANCESCO: ASSALTO ALLA FORTEZZA DEL CONSERVATORISMO LO SNODO DEL SINODO. NELL’ANNO UNDICESIMO, IL PRIMO SENZA LA FIDEIUSSIONE DECENNALE DI RATZINGER, IL PONTEFICE PREME L’ACCELERATORE. DA BERLINO A KIEV, INTERE ASSEMBLEE NAZIONALI DEI VESCOVI MORDONO IL FRENO.
Così Bergoglio risponde a tono ai “dubia” della vecchia guardia
Segui i temi Più che un sinodo uno snodo. Un cronoprogramma incalzante, con scadenza segnatamente il Giubileo. Una campagna di autunno, del meteo e del pontificato, verso il traguardo in prospettiva di un conclave. Un assalto sistematico alla fortezza del conservatorismo, per fare breccia in muri e rimuovere veti che da dieci anni resistono sussiegosi, gommosi all’urto del cambiamento. E ancora, più che un cammino comune (dall’etimologia del vocabolo synodos), un bivio (parola ricorrente nei discorsi del Papa), dove i partecipanti muovono in opposte direzioni e si dividono in gruppi o cordate: tra quanti appaiono frenati, prudenti, nella preoccupazione di una ulteriore spaccatura se non addirittura di uno scisma, e coloro che si sentono viceversa in prossimità dell’arrivo e procedono gradualmente ma determinati, sulla scia del percorso intrapreso, nella convinzione che stasi e assenza di risposte (Francesco ha replicato nel dettaglio personalmente ai “dubia” espressi dalla vecchia guardia) costituiscano per la Chiesa, nell’attuale congiuntura, il male peggiore. L’ultima stagione, la più rivoluzionaria del pontificato, è cominciata con una sorta di “Marsigliese” al posto del Veni Creator Spiritus, quando Bergoglio, addì 23 settembre dell’Anno Domini 2023, nella città mediterranea che al celebre inno dà il nome, ha profeticamente suonato la carica, puntato il faro – nell’omonimo Palais du Pharo – e alzato il tiro sul bastione di una dottrina e di una teologia che, al pari e in analogia con la Bastiglia dell’89, configurano un edificio disabitato, ancorché simbolico, retorica dimora o prigione di pochi residui osservanti, distanti dall’evolversi della società: “La sfida è quella di una teologia che sviluppi un pensiero aderente al reale”, ha sentenziato, conforme alla svolta impressa e direttiva impartita in estate al competente dicastero, “affinché la sua luce sia un criterio per comprendere il senso dell’esistenza, in dialogo con l’attuale contesto che non ha precedenti nella storia dell’umanità”. Nell’anno undicesimo del pontificato e primo senza la “fideiussione” decennale di Joseph Ratzinger, che per il fatto stesso di esserci rappresentava una garanzia e copertura dottrinale ma comportava contestualmente una obbligazione morale, affettiva-effettiva per il successore, Bergoglio si sente libero di premere l’acceleratore sulle questioni antropologica e teologica, entrambe sollevate sin dall’inizio a Rio nel 2013 e rimaste in sospeso: cioè l’idea dell’uomo (rivedendo ad esempio, step by step, il “fondamento sociologico-scientifico” del magistero sulla omosessualità, con le parole del relatore generale, scelto dal Papa, il gesuita lussemburghese Jean-Claude Hollerich) e la stessa identità di Dio, per certi aspetti ancora da scoprire. E da scoprire “fuori dalle mura”. Del resto rispetto a dieci anni fa lo slogan di una “Chiesa in uscita” verso i lontani, non sintetizza soltanto una opportunità e opzione pastorale bensì una necessità e azione vitale, dal momento che il recinto di San Pietro, caro a Benedetto e coltivato dalla Cei, ha continuato a svuotarsi e perdere anche i “vicini”, come attestano i dati dell’Istat sul calo inarrestabile dei praticanti nella zona franca limitrofa, non più rassicurante, dell’Italia postdemocristiana. “Chiesa in uscita”, tradotto in programmi e organigrammi, postula pertanto un radicale ricambio d’idee oltre che di classe dirigente. Da qui la celebrazione, alla vigilia del sinodo, di un concistoro che ha consolidato, anzi meglio ancora blindato il controllo di Bergoglio sul sacro collegio (portando quasi al 75% il numero di cardinali da lui creati) e sulla Curia. Spiccano a riguardo alla guida dei due dicasteri chiave, dei Vescovi e della Dottrina della Fede, le figure dello statunitense di ascendente sudamericano Francis Prevost, originario di Chicago ma con trascorsi peruviani, e dell’argentino, già rettore della Università Cattolica di Buenos Aires, Victor Manuel Fernández, ghost writer della Evangelii Gaudium, carta programmatica del pontificato. Investiture che identificano un cambiamento d’epoca e modificano il DNA delle rispettive istituzioni: poiché se l’affidamento a un missionario dello scouting e screening dell’episcopato muove dall’evidenza che le pecore hanno abbandonato gli ovili e ai pastori anziché custodirle viene chiesto l’afflato – e fiuto – di andare a cercarle, l’insediamento di un teologo visionario, fantasista e non più difensivista (è come schierare Messi stopper, ha commentato un osservatore arguto), nel palazzo che fu del Sant’Uffizio, ammette di riflesso che a risiedere fuori sede, smarrito e da ritrovare, insieme con il gregge, è ormai Dio stesso. Dalla cittadella di Ratzinger, sorgente incontaminata, perfetta ispiratrice come un tempo i monasteri benedettini della Civitas Christiana, il Sinodo approda dunque alle periferie di Francesco, “enormi geografie umane in cui nuove culture incessantemente si generano spesso in contrasto con il Vangelo e il cristiano non suole più essere promotore di senso”, ma dove nondimeno “Dio abita e non si nasconde a coloro che lo cercano, sebbene a tentoni e in modo impreciso”. Alla luce delle suddette considerazioni e in stretta correlazione con il sinodo 2023 – 2024, si deve interpretare l’anomalia eurocentrica (9 su 18, vale a dire il 50 per cento, dei nuovi cardinali elettori sono europei, 6 dei quali “mediterranei”, due italiani, due francesi, due spagnoli) del concistoro del 30 settembre, in controtendenza con la linea fin qui seguita da Bergoglio, che come nessun altro ha riposizionato il potere di scegliere il proprio successore, in una Chiesa che nasce universale per mandato del suo Signore ma prima d’ora non era però mai stata globalizzata, quanto a dislocazione dei centri di pensiero. Così, se da un lato prosegue la “lunga marcia” e il “Pivot to Asia” vaticano verso Pechino, circondata di “basi” cardinalizie, con le nomine a Hong Kong e in Malaysia, e dall’altro cresce l’Africa subsahariana, con le porpore dal Sud Sudan alla Tanzania fino alla punta meridionale di Cape Town, l’Europa riconquista una tantum – a onta del trend statistico discendente di vocazioni e battezzati – centralità geopolitica e ideologica rispetto allo stesso emisfero di provenienza del Pontefice (quattro le “berrette” americane, due delle quali argentine: i fedelissimi Manuel Fernández e Angel Sixto Rossi, arcivescovo di Cordoba e fondatore di Manos Abiertas).Dilaniato sull’asse orizzontale est-ovest dalla guerra e su quello verticale nord-sud dalle diatribe sulle migrazioni, il vecchio continente appare verosimilmente appeso in croce, mentre i suoi popoli si mostrano incapaci di “camminare insieme”, causa una sindrome involutiva che ne mette in forse la tenuta comunitaria e trasmette le proprie scosse al resto del pianeta. Tale incapacità istituzionale di “fare sinodo” si riverbera in ambito ecclesiale, dove intere assemblee nazionali dei vescovi, per ragioni differenziate, manifestano malessere nei confronti di Roma e mordono il freno, da Berlino a Kiev, con risvolti da Via Dolorosa che hanno indotto Bergoglio, prima di avviare il cammino, a proteggerlo dall’esposizione giornalistica, in un frangente storico nel quale uno scisma si suscita e consuma mediaticamente ancor prima che canonicamente. Comunione versus comunicazione, ergo. Essenza divina, dove lo Spirito agisce a porte chiuse, e trasparenza terrena, dove un cenacolo deve avere pareti di vetro. Non solo: missione versus partecipazione, in un contesto dove la sensibilità e le priorità dell’Occidente (gender, sacerdozio femminile, celibato maschile) non sono le medesime di Africa e Asia, sempre più protagoniste sulla scena del millennio. Al bivio del sinodo dei sinodi, la Chiesa di Francesco sperimenta tutte insieme, diremmo in modalità peronistica, le antinomie, tensioni e contraddizioni tra universalità del messaggio, che non cambia, e varietà di un paesaggio che invece lo recepisce, concepisce, redistribuisce di luogo in luogo con direttive, aspettative, prospettive diverse.
*(Fonte: HuffPost. Pietro Schiavazzi. Vaticanista di Huffington Post e Limes Giornalista, docente universitario)

 

11 – Andrea Pipino*: CILE 1973 È IL NUOVO NUMERO DI INTERNAZIONALE STORIA E RACCONTA IL COLPO DI STATO CHE ROVESCIÒ IL GOVERNO DI SALVADOR ALLENDE E GLI ANNI DELLA DITTATURA DI AUGUSTO PINOCHET ATTRAVERSO LA STAMPA DELL’EPOCA. SI PUÒ COMPRARE IN EDICOLA, IN LIBRERIA E ONLINE, OPPURE IN DIGITALE SULL’APP DI INTERNAZIONALE.

Tra gli orrori che il novecento ci ha lasciato in eredità, insieme a grandi utopie e straordinari progressi sociali e tecnologici, un posto di rilievo lo meritano senz’altro, con i loro impareggiabili repertori di brutalità, le dittature sudamericane. E in particolare quella cilena.

Il regime militare di Augusto Pinochet è stato forse il più riconoscibile e famigerato modello di governo autoritario del dopoguerra, almeno in America Latina. Per chi ha vissuto gli anni settanta e ottanta, l’incarnazione stessa dell’autoritarismo più impudente era proprio la faccia del generale cileno, con i suoi immancabili occhiali scuri e un’espressione tra il compiaciuto e l’enigmatico.

Era il 1973 quando, nel primo 11 settembre passato alla storia, ventott’anni in anticipo rispetto a quello dell’attentato alle torri gemelle, i militari cileni rovesciarono con i carri armati il governo del presidente Salvador Allende, impegnato da quasi tre anni nel complicato esperimento di trasformare, pacificamente e nel rispetto della legge, il Cile in una democrazia socialista. Il regime nato da quel golpe si rese responsabile di violenze indicibili e di una completa riorganizzazione sociale ed economica del paese, per poi cadere, quindici anni dopo, senza spargimenti di sangue ma attraverso un referendum popolare, lasciando però ai cileni un’eredità difficilissima da gestire.

Raccontare oggi quegli anni – dalla soppressione del progetto politico di Allende, alle torture e agli omicidi compiuti dal regime, fino al ripristino dell’ordine democratico – vuol dire prendere posizione in difesa della libertà e della democrazia, ribadire la pericolosità di ogni tentazione autoritaria e riconoscere i rischi che possono sorgere quando ci si appella con troppa insistenza agli slogan del nazionalismo, del tradizionalismo, dell’ordine.

Ma parlare dei fatti cileni significa anche chiedersi perché nell’agosto del 1973, al culmine di un periodo di caos economico e di polarizzazione, l’ipotesi di un colpo di stato di destra appariva a molti osservatori molto probabile. E soprattutto invita a interrogarsi su un punto fondamentale: un governo che agisce nel sistema di alternanza politica di una democrazia rappresentativa fino a dove può spingersi nel ridisegnare i confini stessi del sistema, senza alimentare la reazione, più o meno violenta, dei gruppi di potere e dei partiti che sostengono lo status quo?

In altre parole: al netto dei sabotaggi della classe proprietaria e delle interferenze internazionali, in particolare statunitensi, il sogno di Allende di costruire il socialismo senza strappi rivoluzionari era comunque destinato al fallimento? Oppure in altre circostanze si sarebbe potuto realizzare?

Gli articoli raccolti in queste pagine non danno una risposta definitiva, ma offrono elementi di riflessione e un punto di vista diverso su una pagina fondamentale della storia novecentesca che, come dimostrano le recenti cronache politiche cilene, con ogni evidenza non si è ancora del tutto chiusa.
*(Fonte: Internazionale. Andrea Pipino, giornalista di Internazionale)

 

12 – Alessandro De Angelis*: ANALISI DEGLI SCRICCHIOLII. MELONI DEVE BATTERE PUTIN MA ANCHE L’INFLAZIONE – LA PREMIER INCONTRA ZELENSKY E RIBADISCE IL SOSTEGNO. MA SI COMINCIA A SENTIRE LA PRESSIONE DELL’OPINIONE PUBBLICA, DEGLI ALLEATI E DELL’OPPOSIZIONE: OVUNQUE SI RIANIMA L’AVVERSIONE PER LA GUERRA. E NON SOLTANTO IN ITALIA.

La cronaca: Giorgia Meloni, a margine del vertice di Granada, incontra Volodymyr Zelensky. E la nota, per come è scritta e per come vengono sottolineati alcuni passaggi, è evidentemente tesa a fugare dubbi e retro pensieri, in relazione alla posizione del governo italiano sull’Ucraina: il sostegno viene definito “continuo”, “convinto”, a “360 gradi” e “finché sarà necessario” con l’obiettivo di raggiungere una pace “giusta, duratura e complessiva”. Messaggio ricevuto, in primis dal leader ucraino che sottolinea l’apprezzamento in un tweet pressoché in tempo reale. I dubbi e i retro pensieri erano stati alimentati dalle parole del giorno prima del ministro Guido Crosetto, in relazione alla sostenibilità delle riserve di armi, da Giorgetti sulle compatibilità finanziarie e della stessa premier che ha parlato della “necessità di non compromettere la nostra sicurezza” e di una “certa stanchezza nell’opinione pubblica”.
Si capisce che la questione si articola su tre piani. C’è il tema finanziario, che riguarda la necessità di non sguarnire i magazzini delle nostre forze armate, ma che comunque non inficia la possibilità di continuare a mandare le armi a Kiev. C’è il tema del rispetto del “vincolo esterno”, che è forse il terreno su cui, per convinzione o necessità di legittimazione, Giorgia Meloni ha tenuto di più la posizione e, per convinzione e necessità, non può cedere. E c’è un piano più politico, dove la sfasatura comunicativa tra la comunicazione dubbiosa e problematica di ieri e quella assertiva di oggi, si presta a un minimo di analisi.
Diciamo così, a proposito di “vincoli”: parametrata al contesto internazionale, l’Italia non è il ventre molle dell’Occidente nel sostegno all’Ucraina, nell’ambito di fragorosi scricchiolii che vanno dalla Slovacchia, dove ha vinto Robert Fico, il socialista pro-Putin, a Washington, dove è stato evitato all’ultimo minuto lo shutdown grazie a un compromesso tra repubblicani moderati e democratici ma a pagare l’accordo sarà l’Ucraina che non riceverà i 6,2 miliardi di dollari chiesti dal presidente Joe Biden. Scricchiolii che passano anche per la Polonia: dinanzi a una campagna elettorale che si sta rivelando più complicata del previsto, e alla necessità di non perdere consensi presso il fondamentale bacino di voti degli agricoltori, il premier polacco Mateusz Morawiecki prima ha annunciato lo stop alle importazioni di grano ucraino invise ai suoi grandi elettori delle aree rurali. Poi ha minacciato la sospensione delle forniture di armi all’esercito ucraino.
Il contesto racconta di una war fatigue, amplificata dall’appuntamento elettorale europeo, cui non sfugge l’umore dell’opinione pubblica italiana, che peraltro, sin dall’inizio sull’Ucraina è stata attraversata dalle spinte certo di un pacifismo politico, ma soprattutto di un pacifismo da portafoglio. Il tema del “quanto ci costa”, come alibi del disimpegno. Per cui, anche a livello di postura di governo, l’Italia è sempre stata “allineata” ma senza particolari picchi di protagonismo. Senza cioè fare del sostegno necessario e obbligato dalla nostra collocazione internazionale una “narrazione”, anche sfidante. L’intera discussione pubblica e partitica, né ai tempi di Draghi né ai tempi di Meloni, non ha mai messo al centro la vera “fatigue”, quella di un popolo impegnato, inverno dopo inverno, a lottare per la propria libertà e per la democrazia, la sua ma anche nostra, intesa come libertà dei popoli europei. Rispetto al rumoroso contesto internazionale, destinate ad essere aumentare anche dalle prossime elezioni, le timidezze italiane si notano di meno, però quel riferimento, da parte di Giorgia Meloni, alla “stanchezza dell’opinione pubblica” e l’evocazione del tema dei costi, disvela una preoccupazione tutta domestica e tutta elettorale.
Non è facile, per palazzo Chigi, giustificare agli occhi dell’opinione pubblica nuove e costose spedizioni mentre in Parlamento arriva una manovra col loden, che taglia la sanità. Si spiega così anche un certo fastidio sull’uscita di Tajani in relazione all’ottavo pacchetto sulle armi, che ha rimesso sotto i riflettori un tema scientemente “tenuto basso” in questi mesi.
Insomma, Giorgia Meloni non può permettersi di far venire meno il sostegno, ma ha sostituito, nelle parole, un approccio lineare con un approccio contrattualistico: sì, ma Biden e gli alleati devono rendersi conto che c’è l’inflazione. Dietro c’è il timore del rigetto, da parte dell’opinione pubblica: non tanto quello di sinistra ma soprattutto quella di destra, cui Salvini ha sbandierato Marine Le Pen, ciò che Giorgia Meloni era e non è più, l’originale francese che simboleggia il “tradimento” dell’antico armamentario da parte della variante italiana. E c’è il timore della solitudine nei prossimi passaggi parlamentari, col voto a fine anno sul rinnovo del decreto Ucraina: Conte farà i fuochi d’artificio, il Pd Elly Schlein vorrebbe tanto seguirlo ma non può perché sennò si spacca il Pd, Santoro in piazza, la Cgil pure, Salvini si sa come la pensa, Tajani sta dalla parte giusta ma non ha tutta questa potenza persuasiva. Per ora la premier, sui fondamentali, tiene, ma la storia è entrata nella fase di un difficile equilibrio tra vincolo e consenso.
*(Fonte: HuffPost. Alessandro De Angelis. Giornalista, attualmente Vicedirettore di HuffPost. Opinionista nella trasmissione Otto e Mezzo di Lilli Gruber)

 

13 – Pierluigi Battista*: Il chiacchiericcio italiano e la scuola dell’obbligo maltrattata- Bene, che si fa con le famiglie che non mandano i figli a scuola? Niente, non si dice niente, nulla, cervello piatto, chiacchiere al sole.

E allora, che fine ha fatto il frastuono sulla scuola dell’obbligo disertata in massa nei territori difficili del nostro Paese?
Ha fatto la fine che deve fare in un chiacchiericcio pubblico instupidito a destra e a sinistra e che si eccita per transumanze e governi tecnici pur di non affrontare i temi seri:
• è precipitato nel nulla. I bambini che non vengono mandati a scuola: che fare, se si è contrari a sanzioni severe per i genitori che invece di obbedire all’obbligo scolastico permettono che i loro figli piccoli siano arruolati nelle bande criminali?
• Una risposta, solo un abbozzo di risposta, una larva di risposta, ce l’avete?
• Vi pavoneggiate con ovvietà come “repressione non basta, ci vuole l’educazione”. Bene, che si fa con le famiglie che non mandano i figli a scuola?
Niente, non si dice niente, nulla, cervello piatto, chiacchiere al sole. Non importa che una magnifica conquista civile come la scuola dell’obbligo venga così platealmente maltrattata.
Non c’è più il senso della storia, da dove veniamo, che progressi abbiamo fatto.
Permettiamo nell’indifferenza verbosa e inconcludente che la scuola sprofondi nell’irrilevanza e nello sfascio, non sappiamo difenderne il valore forse perché non ci crediamo più.
Siamo convinti che la scuola contenga in sé, nelle sue mura sbrecciate a cadenti, qualcosa di antiquato, che una disciplina minima è coercizione reazionaria.
Non ci importa che un sacco di bambini non sappiano nemmeno come è fatta un’aula scolastica, condannati per sempre all’analfabetismo.
Ma così non c’è salvezza.
*(Fonte: HuffPost. Pierluigi Battista, è un giornalista, scrittore, opinionista e conduttore televisivo italiano)

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