n°29 – 22/07/2023 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Roberto Ciccarelli*: Crescono i profitti, i salari no: si chiama «inflazione da avidità» Dopo il Covid, il caro-prezzi: alle origini della policrisi capitalistica e delle lotte per i salari e i contratti nei trasporti, e non solo.
02 – Carè(Pd): pronti disegni di legge che disciplinano settori inesplorati. Cyber security;
03 – Le procedure di infrazione costano all’Italia oltre 800 milioni di euro Governo e parlamento
Il tema delle infrazioni al diritto europeo raramente occupa spazio nel dibattito pubblico.
04 Andrea Biondo*: Santanchè: il ministro è ufficialmente sotto inchiesta. La politica aveva giurato in Parlamento di non aver ricevuto alcuna notifica riguardo alle indagini nei suoi confronti.
05 – Andrea Biondo*: Fratelli d’Italia perde consensi: a chi stanno andando le preferenze?
Il partito di Giorgia Meloni è sceso al di sotto del 30%, registrato qualche settimana fa, ma la fiducia nei confronti della premier rimane
06 – Matteo Garavoglia*: TUNISIA, le violenze non finiscono. Protestano le ong.. Almeno 600 subsahariani ancora abbandonati nel deserto.
07 – Riccardo Noury *: Meloni-Ue-Saied: un accordo nel disprezzo dei diritti umani.
08 – Federica Lavarini*: Il carcere di Guantánamo è un buco nero ormai dimenticato.
09 – Mario Boffo e Alfiero Grandi*: Cessate-il-fuoco e diplomazia più che mai.
10 – Claudia Grisanti*: Le notizie di scienza della settimana
11 – Laura Carrer *: La nuova vita delle lingue indigene africane. Sono 7100 le lingue parlate nel mondo.
12 – Micaela Bongi*: Il coro stonato dell’opposizione PD. Perché, invece di prendere sul serio il ruolo di opposizione al governo più a destra della storia della repubblica, non prendersi a mazzate tra amici e compagni?
13 – Nel mondo

 

01 – Roberto Ciccarelli*: CRESCONO I PROFITTI, I SALARI NO: SI CHIAMA «INFLAZIONE DA AVIDITÀ» DOPO IL COVID, IL CARO-PREZZI: ALLE ORIGINI DELLA POLICRISI CAPITALISTICA E DELLE LOTTE PER I SALARI E I CONTRATTI NEI TRASPORTI, E NON SOLO.
La chiave per interpretare la fiammata degli scioperi estivi nei trasporti – e non solo in Italia – sta nella richiesta di aumentare i salari e rinnovare i contratti scaduti da anni. Richiesta sentita, e ancora presumibilmente al di sotto di un auspicabile quanto necessario livello di generalizzazione all’intera società. E tuttavia è una prima risposta all’interno della cornice economico-politica post-covid segnata dall’aumento colossale dei profitti e dal ristagno dei salari.
L’inflazione che sta taglieggiando i salari, e spinge alcuni settori a mobilitarsi, è dovuta ai profitti ed è alimentata dal disallineamento tra prezzi crescenti e salari stagnanti. Lo ha ribadito una nota congiunturale diffusa ieri dalla Fisac Cgil. La chiamano, non a caso, «inflazione da avidità» (Greed Inflation). Una situazione che assume contorni drammatici nei paesi dove non esistono né misure di contenimento dei prezzi come la Spagna, né misure per incrementare i salari come la Francia. L’Italia, soprattutto. Qui, si è registrato il più forte calo dei salari reali tra le principali economie Ocse (-7% alla fine del 2022) e la discesa è proseguita nel primo trimestre del 2023 (-7,5% su base annua). Le previsioni prevedono un incremento dei salari nominali intorno al 3,6% per il 2023/24, «quindi ben al di sotto della dinamica inflattiva vista al 6,4% nel 2023 e al 3% nel 2024.
A peggiorare le cose, nell’evidente tentativo di proteggere i profitti e punire doppiamente i lavoratori con i bassi salari e i mutui ancora aperti per i prossimi decenni, sono arrivati gli aumenti dei tassi di interesse decisi dalla Bce che “non stanno producendo gli effetti sul contenimento del costo della vita – sostiene Susy Esposito, segretaria della Fisac Cgil – Al contrario, le scelte di Francoforte, che hanno portato il tasso di rifinanziamento principale al 4% attuale dallo 0,5% in meno di un anno, e che già a fine luglio potrebbe salire al 4,5%, sta gravando in maniera pesante su lavoratori e pensionati, e si riflette in un calo dei depositi”.
Un puntuale commento sulla «presunta crescita dell’economia italiana» di Andrea Fumagalli e Roberto Romano, pubblicato in un «diario della crisi» sui siti Effimera, Machina e El Salto, ha evidenziato come in Italia il rapporto tra reddito da lavoro e valore aggiunto (salario relativo) sia calato al 45,55% nel 2021 ed è ancora diminuito nel 2022, contro il 53% della media europea, il 59% della Germania, il 58% della Francia, il 52% della Spagna e il 55% degli Stati Uniti. In altre parole l’Italia è tra i paesi europei dove si lavora di più (nel 2023, 1694 ore all’anno contro le 1341 della Germania e le 1511 della Francia) e si guadagna di meno. La crescita è solo del lavoro povero. È un modello sociale, produttivo e ideologico che il governo Meloni sta ampliando. Sarebbe uno scenario ideale per una lotta di classe. La si combattere pure, in maniera frammentaria e non uniforme.
Anche in Italia si sta consolidando un orientamento sulle risposte minime da fornire nella contingenza: veri rinnovi contrattuali (magari, senza facili entusiasmi come sulla scuola);controllo dei prezzi dei beni alimentari e energetici; tassazione degli extra profitti. Restano le divisioni. Ci vorrebbe la forza.
*(Fonte: Il Manifesto. Roberto Ciccarelli è filosofo e giornalista. Scrive per il manifesto. Tra i suoi libri, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (2018), Immanenza. Filosofia, diritto e politica della vita tra il XIX e il XX secolo (2009).

 

02 – Carè(Pd): PRONTI DISEGNI DI LEGGE CHE DISCIPLINANO SETTORI INESPLORATI. CYBER SECURITY;
“LA FORMAZIONE È VALORIZZAZIONE DELLE COMPETENZE E ASSUME RILEVANZA MAGGIORE QUANDO SI PARLA DI CYBER SECURITY, UNO SFORZO CULTURALE AL QUALE L’ITALIA È PRONTA E CHE PROPRIO NEL SETTORE DELLA SICUREZZA INFORMATICA E CIBERNETICA HA FORTI STRUMENTI PREVENTIVI E REPRESSIVI DI SICUREZZA NAZIONALE. In questo contesto mi sto impegnando a presentare disegni di legge volti a disciplinare i settori ancora inesplorati quali il territorio spaziale e la cyber security: la formazione specifica in materia sarà sicuramente essenziale. La strategia di sviluppo è identificabile solo con una crescita del capitale umano: come letto in un lavoro di Aspen Institute “non solo competenze al servizio del progresso economico, ma anche capacità di sentirsi parte di una comunità nazionale impegnata in un complesso – ma possibile – processo di rilancio”. In una recente ricerca condotta dall’Ispeg, Alessandro Parrotta, chiariva l’importanza della formazione in tema di responsabilità degli enti ed allora, mutuando questa specificità, anche in tema di sicurezza dati e cybersecurity, dobbiamo accogliere con positività quanto la Fondazione riuscirà a trasmettere alle nostre generazioni. Un Paese che non metta la cybersecurity al centro delle proprie politiche di trasformazione digitale è quindi un Paese che mette a serio rischio la propria prosperità economica e la propria indipendenza. La capacità dello Stato di gestire i rischi cibernetici sta diventando ed è una delle priorità strategiche per le amministrazioni pubbliche. Formare le nuove generazioni innescherà un processo virtuoso in cui la classe dirigente e i tecnici del futuro avranno le competenze, il bagaglio culturale e le capacità operative necessarie per confrontarsi con le sfide tecnologiche e scientifiche che cambieranno le nostre vite nei prossimi decenni, sviluppando le necessarie iniziative necessarie per affrontare i continui cambiamenti e i relativi rischi che ci aspettano in futuro.” Cosi Nicola Carè intervenendo al Convegno in Campidoglio promosso dalla Cyber Security Italy Foundation, la prima fondazione noprofit in Italia sul mondo cibernetico, presieduta da Marco Gabriele Proietti e che vede Angelo Tofalo direttore del comitato scientifico.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies . IV Commissione Difesa – Defence Committee – Circoscrizione Estero, Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide
Electoral College – Africa, Asia, Oceania and Antarctica)

03 – LE PROCEDURE DI INFRAZIONE COSTANO ALL’ITALIA OLTRE 800 MILIONI DI EURO GOVERNO E PARLAMENTO. IL TEMA DELLE INFRAZIONI AL DIRITTO EUROPEO RARAMENTE OCCUPA SPAZIO NEL DIBATTITO PUBBLICO. (*)
Si tratta però di un argomento che necessiterebbe di maggiore attenzione dato che ha un impatto non indifferente per le casse pubbliche.
Le procedure di infrazione sono quei provvedimenti che vengono avviati nei confronti degli stati che non adeguano il proprio ordinamento al diritto europeo.
• A livello Ue le procedure di infrazione attualmente in corso sono 1.750. Oltre il 10% di queste è in fase di contenzioso presso la corte di giustizia europea.
• L’Italia ha attualmente 82 procedure di infrazione a proprio carico. La maggior parte riguarda il settore ambientale.
• Tra il 2012 e il 2021 l’Italia ha dovuto pagare oltre 800 milioni di euro per il mancato adeguamento al diritto Ue.

A giugno il governo ha pubblicato il decreto legge 69/2023 con l’obiettivo di agevolare la chiusura di diverse procedure di infrazione a carico del nostro paese. Con questo termine si intende quel procedimento che può essere avviato nei confronti di quegli stati membri dell’Unione europea che non conformano il proprio ordinamento interno a quello comunitario. Processo che può arrivare anche alla condanna al pagamento di sanzioni economiche.
L’Italia è tra i paesi europei più in difficoltà su questo fronte. Il nostro paese infatti occupa il sesto posto per numero di infrazioni a proprio carico. Sale però al primo se si considerano le procedure che si trovano nello stadio più avanzato. Cioè quelle più vicine all’emanazione di sanzioni.
82 LE PROCEDURE DI INFRAZIONE A CARICO DEL NOSTRO PAESE.
Non si tratta di una questione di poco conto dato che, in base alla relazione annuale della corte dei conti sui rapporti finanziari tra l’Italia e l’Unione europea, l’Italia ha dovuto pagare oltre 800 milioni in 10 anni a causa delle infrazioni. Per questo è importante mantenere alta l’attenzione su questo tema.
COME FUNZIONANO LE PROCEDURE DI INFRAZIONE
Tra gli organismi comunitari, spetta alla commissione la responsabilità di verificare il rispetto del diritto Ue. Può intervenire in due casi: quando non viene recepita integralmente una determinata direttiva entro il termine stabilito. Oppure quando un paese non applica le norme correttamente. Quando si verifica uno di questi due casi, la commissione può avviare una procedura formale di infrazione.
Gli stati hanno il compito di recepire nel loro ordinamento le direttive europee. Se non lo fanno o se non le rispettano possono incorrere in una procedura formale di infrazione. Vai a “Cosa sono le procedure d’infrazione”
Sono due articoli del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) a regolare tutto il processo: il 258 e il 260. Le procedure possono avere inizio in diversi modi. Oltre alle indagini interne portate avanti dalla commissione, anche cittadini, aziende e organizzazioni non governative possono denunciare il mancato rispetto del diritto europeo da parte di uno stato.
Una procedura d’infrazione può essere avviata per tre diversi motivi:
• MANCATA COMUNICAZIONE: QUANDO LO STATO MEMBRO NON COMUNICA IN TEMPO LE MISURE PER IMPLEMENTARE LA DIRETTIVA;
• MANCATA APPLICAZIONE: QUANDO LA COMMISSIONE EUROPEA VALUTA LA LEGISLAZIONE DELLO STATO MEMBRO NON IN LINEA CON IL DIRITTO UE;
• SBAGLIATA APPLICAZIONE: QUANDO LA LEGGE EUROPEA NON VIENE APPLICATA O È APPLICATA INCORRETTAMENTE DALLO STATO MEMBRO.
La procedura di infrazione è abbastanza complessa e si sviluppa in diverse fasi. La prima fase inizia con la cosiddetta lettera di costituzione in mora con cui la commissione chiede maggiori informazioni allo stato membro interessato. Questo passaggio è definito di “pre-contenzioso” e in questo caso il paese posto sotto indagine deve fornire spiegazioni entro un periodo di tempo prestabilito.
Le sanzioni per violazioni del diritto Ue intervengono solo dopo la seconda condanna della corte europea.
Nel caso in cui la risposta non arrivi o sia giudicata insoddisfacente, la commissione può decidere di inviare un parere motivato in cui chiede di adempiere alle mancanze normative entro una data scadenza. Se lo stato membro continua a non adempiere, la commissione europea può decidere di aprire un contenzioso facendo ricorso alla corte europea di giustizia. Se la corte ritiene che il paese in questione abbia effettivamente violato il diritto dell’unione, può emettere una sentenza in questo senso, richiedendo quindi alle autorità nazionali di adottare le giuste misure per conformarsi.
Nel caso in cui, nonostante la sentenza, il paese continui a non rettificare la situazione, la commissione può deferirlo nuovamente dinanzi alla corte. Se c’è una seconda condanna, la commissione propone che la corte imponga sanzioni pecuniarie. Queste possono consistere in una somma forfettaria e/o in pagamenti giornalieri.
IL CONFRONTO TRA I PAESI EUROPEI
Grazie alla banca dati della commissione europea è possibile tracciare un bilancio delle procedure di infrazione attualmente in corso e capire in questo modo quali sono i paesi che faticano di più nel conformarsi al diritto Ue.
A giugno 2023 le procedure pendenti sono in totale 1.750 a livello europeo. Tra queste 725 (il 41,4%) sono procedure legate alla mancata comunicazione dei paesi membri delle iniziative per adeguare l’ordinamento interno a quello europeo. Parliamo quindi della fase più embrionale della procedura. Quasi la metà (840) invece si trova nella fase centrale, quella che va dalla lettera di costituzione in mora fino a prima dell’apertura del contenzioso davanti alla corte europea.
847 LE PROCEDURE DI INFRAZIONE APERTE NEL 2021, DI CUI 39 A CARICO DELL’ITALIA, IN BASE ALLA PIÙ RECENTE RELAZIONE ANNUALE DELLA COMMISSIONE EUROPEA.
C’è poi una quota non trascurabile di procedure che si trova nella fase più avanzata che può portare anche al pagamento di sanzioni economiche. Parliamo di 185 procedure pari al 10,6% del totale. L’Italia ha attualmente 82 procedure di infrazione in corso. Dato che la pone al sesto posto tra i paesi Ue per numero più consistente di infrazioni a proprio carico. Tra i grandi paesi, solo la Spagna fa peggio. Con 100 procedure in corso il paese iberico è infatti quello con il valore più alto in assoluto. Valori più elevati di quello italiano anche per Belgio, Bulgaria, Polonia e Grecia. Tra gli altri paesi principali, la Germania è ottava con 68 procedure di infrazione a proprio carico mentre la Francia 14esima con 61.
L’ITALIA HA 22 PROCEDURE DI INFRAZIONE DAVANTI ALLA CORTE UE
LE PROCEDURE DI INFRAZIONE ANCORA APERTE, PAESE PER PAESE
È però interessante fare un confronto considerando quanto incidono le procedure di infrazione nella fase del contenzioso. Quelle cioè in corso da più tempo e che si trovano nella fase del ricorso alla corte di giustizia Ue.
L’Italia ha la percentuale più alta di procedure di infrazione arrivate alla fase del contenzioso.
Da questo punto di vista possiamo osservare che il nostro paese sale al primo posto. Sono infatti 22 (il 26,8%) le procedure a carico dell’Italia che si trovano già allo stadio del ricorso alla corte europea. Tra gli altri paesi con le percentuali più alte troviamo la Grecia (21,1%), l’Ungheria (20,9%) e l’Irlanda (20,4%).
LA SITUAZIONE ITALIANA NEL DETTAGLIO
Tra le procedure attualmente in corso che coinvolgono il nostro paese la maggior parte (17) riguarda tematiche ambientali. Un altro ambito in cui l’Italia ha commesso un numero significativo di infrazioni è quello legato a stabilità finanziaria, servizi finanziari e unione dei mercati dei capitali. In questo caso le procedure pendenti sono 12.
Vi sono poi altri tre settori in cui il nostro paese fa registrare 8 procedure di infrazione ciascuno. Si tratta in particolare di affari interni, mercati, industria e Pmi e occupazione, affari sociali e pari opportunità.
LA MAGGIOR PARTE DELLE INFRAZIONI ITALIANE RIGUARDA L’AMBIENTE
LE PROCEDURE DI INFRAZIONE ANCORA IN CORSO A CARICO DELL’ITALIA SUDDIVISE PER TEMA
Le procedure di infrazione “più vecchie” tra quelle in corso risalgono a circa 20 anni fa e riguardano in larga parte tematiche ambientali. Nel 2003 infatti è stata avviata una procedura di infrazione per la presenza nel nostro paese di discariche abusive (INFR (2003)2077). L’anno successivo invece la contestazione (INFR (2004)2034) ha riguardato lo smaltimento delle acque reflue. Infine nel 2007 è stata aperta una ulteriore procedura (INFR (2007)2195) sempre relativa alla gestione dei rifiuti. In questo caso il focus era sulla difficile situazione che in quegli anni attanagliava la Campania.
PER L’ITALIA 8 PROCEDURE DI INFRAZIONE SONO GIÀ AL SECONDO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA
L’ELENCO COMPLETO DELLE PROCEDURE DI INFRAZIONE A CARICO DELL’ITALIA E IL LORO STADIO DI AVANZAMENTO
DA SAPERE
La tabella rappresenta una sorta di diario con tutte le evoluzioni relative alle singole procedure di infrazione che quindi possono essere riportate anche più volte. L’elenco dei diversi passaggi è riportato in ordine cronologico.
FONTE: elaborazione openpolis su dati commissione europea
(ultimo aggiornamento: giovedì 8 giugno 2023)
Sono 8 invece le procedure di infrazione che attualmente sono arrivate allo stadio del ricorso alla corte europea di giustizia ai sensi dell’articolo 260 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. La procedura cioè che può sfociare in una sanzione economica. Tra queste ci sono anche le 2 che abbiamo già citato relativamente alle discariche e alle acque reflue a cui se ne aggiungono altre in tema ambientale oltre che in tema di concorrenza.
Il Dl 69/2023 non affronta le procedure di infrazione già entrate nella fase del contenzioso.
C’è da dire a questo proposito che l’Italia non è rimasta ferma. C’è stato uno sforzo nel tempo per cercare di chiudere le procedure di infrazione in corso. A questo proposito vale la pena sottolineare che il recente decreto legge 69/2023 è intervenuto per cercare di prevenire l’apertura di nuove procedure di infrazione e l’aggravamento di quelle pendenti. In particolare, secondo il dipartimento per le politiche europee, il Dl punta ad agevolare la chiusura di 8 procedure di infrazione e altrettante di pre-infrazione (Eu-Pilot). È interessante notare però che nessuna di queste rientra tra le 8 che si trovano nello stadio più avanzato del contenzioso.
LE SANZIONI ECONOMICHE
Come abbiamo già anticipato, solo in caso di seconda condanna dinanzi alla corte di giustizia europea uno stato deve pagare sanzioni. Da questo punto di vista alcune utili indicazioni ci arrivano dalla già citata relazione della corte dei conti per il 2021.
Innanzitutto il documento precisa che gli importi delle sanzioni sono stabiliti in base a diversi criteri:
L’IMPORTANZA DELLE NORME VIOLATE;
• GLI EFFETTI DELLE VIOLAZIONI SUGLI INTERESSI GENERALI E PARTICOLARI;
• IL PERIODO DI MANCATA APPLICAZIONE DEL DIRITTO UE;
• LA CAPACITÀ DEL PAESE DI PAGARE, CON L’INTENTO DI ASSICURARE CHE LE SANZIONI ABBIANO UN EFFETTO DETERRENTE.

È la commissione a proporre l’importo della sanzione ma è la corte a stabilirne l’effettiva misura quando si pronuncia.
6 LE PROCEDURE DI INFRAZIONE CHE HANNO PRODOTTO ESBORSI FINO AL 31 DICEMBRE 2021.
Queste sono relative al settore ambientale (3), agli aiuti di stato (2) e agli aiuti concessi per interventi a favore dell’occupazione (1).
Oltre alle procedure che abbiamo già citato in precedenza in merito alla gestione dei rifiuti e delle acque reflue, tra quelle che hanno comportato il pagamento di sanzioni per il nostro paese ve ne sono anche altre 3 che riguardano il mancato recupero degli aiuti illegittimi concessi alle imprese nel territorio di Venezia e Chioggia (INFR(2012)2202), il mancato recupero degli aiuti illegittimi concessi per interventi a favore dell’occupazione INFR(2022)4113 e il mancato recupero degli aiuti di stato concessi agli alberghi della Sardegna INFR(2014)2140.
L’ITALIA HA PAGATO OLTRE 800 MILIONI PER INFRAZIONI EUROPEE IN 10 ANNI
L’ESBORSO TOTALE DELL’ITALIA A CAUSA DI PROCEDURE DI INFRAZIONE ARRIVATE ALLA SECONDA SENTENZA DI CONDANNA DALLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA (2012-2021)
Complessivamente gli importi versati a causa di seconde condanne ammontano a circa 829 milioni di euro tra il 2012 e il 2021. Risorse che vengono sottratte di anno in anno dal bilancio pubblico e che potrebbero essere impiegate in altro modo nell’interesse della collettività. Per questo è fondamentale mantenere alta l’attenzione su questo tema, affinché le istituzioni si impegnino per risolvere le questioni ancora pendenti ed evitino di incappare in altre sanzioni.
*(FONTE: elaborazione openpolis su dati commissione europea – ultimo aggiornamento: giovedì 8 giugno 2023) sa: Governo e Parlamento, Infrazioni europee)

 

04 – Andrea Biondo*: SANTANCHÈ: IL MINISTRO È UFFICIALMENTE SOTTO INCHIESTA. LA POLITICA AVEVA GIURATO IN PARLAMENTO DI NON AVER RICEVUTO ALCUNA NOTIFICA RIGUARDO ALLE INDAGINI NEI SUOI CONFRONTI.

Nell’ultimo periodo il nome di Daniela Santanchè è stato oggetto di numerose discussioni a causa del caso Visibilia. Il ministro del Turismo era stata accusata di aver mentito al Senato, dopo aver affermato di non essere a conoscenza di alcuna indagine nei suoi confronti. Da questo lunedì, però, è ormai certo che la compagna di Dimitri Kunz d’Asburgo sia effettivamente sotto la lente di ingrandimento della giustizia.
La richiesta di proroga delle indagini, documento che informa chi lo riceve di essere sotto inchiesta, è stato recapitato presso l’abitazione milanese della Santanchè il 17 luglio. A riceverlo, secondo quanto riportato dall’Ansa, sarebbe stata una persona definita “addetta alla casa” del ministro. Lo stesso avviso, qualche giorno prima, era stato consegnato ad altri due indagati per il caso Visibilia dalla Procura di Milano.
Le richieste di proroga sono state spedite, ed in alcuni casi consegnate, a tutti gli indagati dell’inchiesta che coinvolge Daniela Santanchè. Si tratta dei dirigenti Visibilia Davide Mantegazza e Massimo Gabelli, che hanno già ricevuto il documento ma, nell’istanza arrivata al ministro, si leggono anche i nomi del suo compagno Dimitri Kunz d’Asburgo, della sorella Fiorella Garnero e di Massimo Cipriani.
Mercoledì prossimo sarà un altro giorno importante per la Santanchè: l’aula del Senato discuterà la mozione di sfiducia nei suoi confronti, presentata dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico. “Abbiamo chiesto a Santanchè di dimettersi – ha commentato Elly Schlein – in Italia e in Europa altri ministri si sono dimessi per fatti molto meno gravi. In Aula ha dichiarato cose false, non è accettabile. Quando la mozione arriverà, voteremo a favore “
*(Andrea Biondo – giornalista al Sole 24 Ore, specializzato nelle tematiche riguardanti i media, l’economia)

 

05 – Andrea Biondo*: Fratelli d’Italia perde consensi: a chi stanno andando le preferenze?
Il partito di Giorgia Meloni è sceso al di sotto del 30%, registrato qualche settimana fa, ma la fiducia nei confronti della premier rimane.
Sono passate alcune settimane dalla pubblicazione dei risultati di un sondaggio politico che aveva visto Fratelli d’Italia superare il 30% dei consensi ed ora l’entusiasmo nei confronti del gruppo di maggioranza sembra essere calato.
Secondo i dati rivelati da Dire-Tecnè, relativi ad alcune interviste realizzate fra il 13 ed il 14 luglio, il partito di Giorgia Meloni è meno apprezzato dagli italiani. Fratelli d’Italia, infatti, è sceso dello 0,3% in sette giorni, toccando il 29% di gradimento totale. A chi è andata questa fiducia? La risposta è il Partito Democratico di Elly Schlein, salito al 20,1% dopo una crescita dello stesso 0,3% perso dalla maggioranza.
Meloni – Schlein
Chi completa il podio?
A completare questo particolarissimo podio c’è, infine, il Movimento Cinque Stelle di Giuseppe Conte. I penta stellati sono fissi al 15,5% di gradimento. Nonostante la scomparsa di Silvio Berlusconi, Forza Italia si è stretta dietro alla figura di Antonio Tajani, il suo nuovo leader, ed ha raccolto l’11% di consenso.
Nonostante il calo registrato da Fratelli d’Italia, la fiducia degli italiani nei confronti di Giorgia Meloni rimane stabile. Il 53,5% della popolazione, secondo Dire-Tecnè, si dichiara sicuro di lei: un piccolo calo dell’0,2% rispetto alla scorsa settimana. Leggero aumento, dello 0,3%, per chi dice di non avere più fiducia nell’attuale presidente del Consiglio.
*(Fonte: News Mondo. Andrea Biondi è giornalista al Sole 24 Ore, specializzato nelle tematiche riguardanti i media, l’economia dell’entertainment).

 

06 – Matteo Garavoglia*: TUNISIA, LE VIOLENZE NON FINISCONO. PROTESTANO LE ONG. ALMENO 600 SUBSAHARIANI ANCORA ABBANDONATI NEL DESERTO. LA GUARDIA DI FRONTIERA LIBICA NE «SALVA» 100: «CONDIZIONI DISUMANE»
Seicento. Sono le persone che a oggi si trovano ancora nella zona militarizzata al confine con la Libia, una striscia desertica senza acqua, cibo e di fatto inaccessibile. «Ci sono persone che stanno morendo, bambini e donne incinte. Abbiamo bisogno di aiuto», si sente in uno degli audio ricevuti dal progetto Mem. Med -Memoria Mediterranea e che il manifesto ha potuto verificare. Ci sono altri due video che mostrano le forze di sicurezza tunisine allontanare dalla frontiera le persone bloccate in quella terra di nessuno con gas lacrimogeni e diverse foto, tra cui una persona che tiene in braccio un bambino di neanche un anno.
DA INIZIO LUGLIO le autorità locali hanno deportato lungo il confine libico e algerino almeno 1200 persone. A oggi i morti accertati sono 15 ma dalle ultime ricostruzioni i numeri nelle prossime settimane potrebbero aumentare sensibilmente. Il punto di partenza è Sfax, a più di 300 chilometri di distanza e città dove si sente maggiormente la presenza della comunità subsahariana.
Qui da più di due settimane si registrano violenze di ogni tipo contro cittadini originari dell’Africa occidentale e del Sudan. Nel frattempo, mentre le storie si intrecciano e si accumulano i casi di chi ha perso tutto e si ritrova a vivere per strada o in mezzo alla campagna. Domenica 15 luglio la commissaria dell’Unione europea Ursula von der Leyen, accompagnata dalla premier Giorgia Meloni e dal primo ministro olandese (ormai dimissionario) Mark Rutte, ha chiuso un cerchio che dalla sponda nord del Mediterraneo era atteso da più di un mese.
In una cerimonia chiusa ai giornalisti della stampa estera e tunisina, non c’è stato alcun riferimento alle condizioni delle persone subsahariane e sudanesi vittime di violenze a Sfax e abbandonate nel deserto. Le uniche parole sono arrivate da Saied stesso: «Il popolo tunisino ha mostrato una generosità illimitata nei confronti di questi migranti espulsi dai propri paesi, mentre molte Ong che dovrebbero assumere il loro ruolo umanitario hanno agito solo attraverso comunicati stampa.
Possono proteggere queste vittime dalla fame e dalla sete? Per non parlare delle manovre di diffamazione e fake news con l’obiettivo di danneggiare la Tunisia e il suo popolo». Frasi che tuttavia non fanno capire chi è il responsabile di quelle deportazioni nel deserto, ossia lo Stato tunisino. Inoltre, il ministero dell’Interno del governo di unità nazionale della Libia, un paese conosciuto per essere governato da milizie e dove gli abusi nei centri di detenzione avvengono su base quotidiana, ha diffuso un video che documenta il salvataggio di alcune persone provenienti dalla frontiera tunisina.
BASATO su cinque pilastri, la gestione dei flussi migratori rimane l’urgenza più evidente e l’obiettivo principale del memorandum al momento è solo uno: vedere calare i numeri degli arrivi lungo la sponda nord del Mediterraneo. Il resto degli investimenti, tra cui il capitolo delle energie rinnovabili, può attendere. Un dettaglio che non è passato inosservato da parte della società civile tunisina, impegnata da qualche mese a dimostrare che la Tunisia non può essere considerata un paese sicuro per i rimpatri dei suoi cittadini e per i migranti. «In un contesto non democratico, caratterizzato dall’assenza di dibattito e censura dell’informazione, la Tunisia ha firmato un memorandum. Questo permette al nostro paese di giocare il ruolo di guardiano, di diventare una fortezza per contenere i non desiderati delle politiche europee in materia d’immigrazione», sono le parole del portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) che sintetizzano le preoccupazioni di una società civile che si sente sempre più accerchiata dalle mosse presidenziali.
Un logoramento delle condizioni interne del paese che si manifesta violentemente anche nel mancato accesso alle zone dove la violenza è più presente. A Sfax migliaia di persone continuano a riempire le strade della città, in particolar modo a Bab Jebli, in pieno centro. «Stavo camminando semplicemente per strada quando un gruppo di tunisini mi ha aggredito da dietro. Guarda le ferite – raccontava qualche giorno fa un richiedente asilo sudanese di poco più di 20 anni, scappato dalla guerra civile scoppiata nel suo paese – mi hanno colpito in testa e rotto un labbro. Un operatore dell’Unhcr mi ha accompagnato in ospedale ma poi mi ha lasciato lì. Ora devo ritrovare i miei amici».
MENTRE si registrano casi di migliaia di persone che hanno trovato rifugio nella campagna fuori da Sfax per scappare dalle aggressioni della polizia, l’impressione che resta è una: si stanno perdendo le storie delle persone vittime di violenze, sostituite da freddi numeri. A oggi le persone abbandonate nel deserto da inizio luglio sono più di 1200, 600 quelle che sono riuscite a rientrare.
(LA REDAZIONE CONSIGLIA: – Meloni-Ue-Saied: un accordo nel disprezzo dei diritti umani)
*(Fonte: Il Manifesto. Matteo Garavoglia. Giornalista freelance, scrive di Tunisia e Nord Africa. Laureato all’Università La Sapienza di Roma e Aix-Marseille Université )

07 – Riccardo Noury *: Meloni-Ue-Saied: UN ACCORDO NEL DISPREZZO DEI DIRITTI UMANI – COMMENTI. L’ACCORDO DI DOMENICA COL PRESIDENTE TUNISINO Kaïs Saïed È, PER MOLTI VERSI, UNA FOTOCOPIA DEL MEMORANDUM D’INTESA TRA ITALIA E LIBIA PROMOSSO NEL 2017 DALL’ALLORA MINISTRO DELL’INTERNO Marco Minniti.
La politica estera dell’Unione europea è dominata da un interesse e da un’ossessione, a scapito della tutela e della promozione dei diritti umani.
L’interesse è legato alle risorse, l’ossessione (che nasce dalla politica interna e che quella estera esegue) riguarda l’immigrazione.
Questo è particolarmente vero nelle relazioni con la sponda sud del Mediterraneo: vogliamo il pesce dal Marocco (o meglio dalle acque del Sahara occidentale occupato, e chissà che la Corte di giustizia dell’Unione europea, proprio per questo motivo, non si metta di traverso) e gli idrocarburi da Algeria ed Egitto. Paghiamo da tempo la Libia e, ora, la Tunisia perché fermino le partenze dei migranti e dei richiedenti asilo.
L’accordo di domenica col presidente tunisino Kaïs Saïed è, per molti versi, una fotocopia del Memorandum d’Intesa tra Italia e Libia promosso nel 2017 dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. Il suo obiettivo, adottato entusiasticamente dal governo italiano, è quello di risolvere la nostra ossessione: soldi in cambio di controllo delle frontiere, soldi per pattugliare le acque territoriali, soldi per migliorare il sistema di ricerca e soccorso in mare (una formula orwelliana che si traduce: intercettare e riportare a terra), soldi per favorire i rimpatri dei tunisini arrivati irregolarmente in Europa, soldi infine per facilitare i ritorni, dalla Tunisia verso paesi terzi, di cittadini non tunisini.
Nell’accordo col presidente tunisino Saïed non manca, naturalmente, quella «retorica dei diritti umani» che serve a tranquillizzare le inquietudini di facciata: si cita, infatti, peraltro in modo del tutto vago, il rispetto dei diritti umani e delle norme del diritto internazionale.

Nelle fitte interlocuzioni di questi mesi con Tunisi, nessuno ha fatto presente a Saïed che le norme interne e internazionali sui diritti umani, a partire dall’estate del 2021, le ha progressivamente smantellate lui: un profondo giro di vite nei confronti del dissenso pacifico e della libertà d’espressione (gli oppositori indagati e, in alcuni casi, agli arresti, sono una settantina), l’annullamento delle garanzie sull’indipendenza del potere giudiziario e, da ultimo, all’inizio dell’anno, il ricorso al discorso d’odio, che ha generato un’ondata di violenza contro i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati dell’Africa subsahariana.

Ricordiamo le parole pronunciate da Saïed il 21 febbraio, durante una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale: «Orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana [sono arrivati in Tunisia] con la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati»; una situazione «innaturale», parte di un disegno criminale per «cambiare la composizione demografica» e trasformare la Tunisia in «un altro stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico». Nessuno stupore se, immediatamente dopo, folle di facinorosi sono scese in strada aggredendo «i neri». Decine e decine sono stati arrestati e poi espulsi. Per arrivare agli ultimi giorni, quando centinaia di migranti, bambine e bambini inclusi, sono stati abbandonati al loro destino nelle aree desertiche alle frontiere con Libia e Algeria.
«Notizie false», ha attaccato Saïed riferendosi ad Amnesty International e ad altre organizzazioni non governative. Tutto, purtroppo, tragicamente vero. Com’è vero che le fallimentari politiche dell’Unione europea continuano a espandersi. Com’è vero che l’Unione europea si renderà nuovamente complice, attraverso questo mal-concepito accordo con la Tunisia, di violazioni dei diritti umani.
* (Portavoce di Amnesty International Italia)

08 – Federica Lavarini*: Il carcere di Guantánamo è un buco nero ormai dimenticato. Nella prigione aperta nel 2002 nella base navale statunitense a Cuba sono stati rinchiusi 780 detenuti. Oggi nel carcere ci sono 30 persone, ancora in condizioni critiche. Per la prima volta l’Onu ha potuto visitare la struttura
PER LA PRIMA VOLTA DOPO OLTRE 21 ANNI DALLA SUA APERTURA, AVVENUTA L’11 GENNAIO 2002 ALL’INTERNO DELLA BASE NAVALE AMERICANA SITUATA NELLA ZONA SUD DELL’ISOLA DI CUBA, IL GOVERNO DEGLI STATI UNITI HA CONCESSO ALLE NAZIONI UNITE L’ACCESSO AL CAMPO DI PRIGIONIA DI GUANTÁNAMO. Una “visita tecnica” che si è conclusa il 26 giugno scorso e che ha avuto come primo risultato un fitto report di 23 pagine, nel quale la rappresentante Onu Fionnuala Ní Aoláin detta come priorità la definitiva chiusura del luogo simbolo della “lotta al terrorismo”, inaugurato dall’amministrazione guidata da George W. Bush a seguito dell’attacco alle Torri Gemelle. La special rapporteur ha avuto colloqui in forma privata con gli attuali 30 detenuti, con il personale militare e medico della base e, precedentemente alla visita, con i familiari e con l’associazione Cage, fondata da ex detenuti di Guantánamo.

La relatrice speciale Onu vede come un “segnale positivo” la disponibilità dell’amministrazione Biden a concedere l’acceso a una zona militare extraterritoriale da sempre interdetta a qualsiasi controllo e nella quale ai 780 detenuti, tutti uomini di religione musulmana catturati nel corso dei due decenni precedenti in Afghanistan, Pakistan e Yemen con l’accusa di terrorismo, è stato negato qualsiasi diritto fondamentale. Persone che “non hanno alcun tipo di relazione con quanto avvenuto l’11 settembre 2001” e che, tuttavia, hanno vissuto o vivono tuttora l’esperienza di continui traumi fisici e psicologici. Per molti detenuti “la linea di separazione tra il passato e il presente è straordinariamente sottile, se non inesistente: le passate esperienze di tortura, costantemente rivissute nel presente, non hanno possibilità di risolversi in ragione del fatto che i detenuti non hanno ricevuto dal governo americano alcun tipo di terapia riabilitativa in grado di sanare il trauma subìto”.

PROBLEMI CRONICI
Se le condizioni materiali a Guantánamo sono “nettamente migliorate” rispetto al periodo nel quale sono arrivati i primi prigionieri e agli anni successivi, in cui il luogo “era caratterizzato da brutalità sistematiche e istituzionalizzate”, vi sono tuttora aspetti estremamente critici. Sebbene sia garantita un’assistenza medica di base, gli specialisti e le facilities che dovrebbero occuparsi della riabilitazione dei traumi dovuti alla tortura “non sono strutturate per affrontare disabilità permanenti, traumi cerebrali, dolore cronico e tutte le manifestazioni connesse, così come l’assenza per 21 anni del supporto emotivo dato dalla famiglia e dalla comunità di appartenenza”. Grazie al costante impegno dei legali e della Croce rossa internazionale è stata gradualmente implementata la possibilità di comunicare con familiari, che tuttavia, in alcuni casi, “hanno appreso dopo oltre 15 anni della detenzione a Guantánamo di un loro congiunto”. Alcuni detenuti hanno preferito evitare le chiamate per “paura di ritorsioni verso i familiari da parte del governo degli Stati Uniti o del Paese di origine” e in un caso “solo la madre del detenuto è riuscita a identificare in una video call il figlio, ormai irriconoscibile a causa del rapido processo di invecchiamento”.

Dopo oltre vent’anni, la realtà di Guantánamo corre il rischio di venire dimenticata secondo l’ultimo rapporto della Seton Hall Law School di Newark, firmato da Mark Denbeaux, che in American Torturers: Fbi and Cia Abuses at Dark Sites and Guantánamo denuncia come gli Stati Uniti abbiano distrutto o nascosto tutte le prove video delle sistematiche torture inflitte ai detenuti. L’unica testimonianza visiva di quanto accaduto sono i disegni dell’artista yemenita Abu Zubaydah, assistito da Denbeaux, e prima vittima delle “enhanced interrogation techniques”, sottoposto 83 volte alla “simulazione di annegamento” (waterboarding). I 40 disegni sono stati pubblicati da The Guardian e, prima ancora, esposti nella mostra Remaking the Exceptional. Tea, Torture, and Reparations. Chicago to Guantánamo al DePaul Art Museum di Chicago.

UNA MOSTRA PER DENUNCIARE
“Guantánamo non è un caso eccezionale ma costituisce l’ordinaria modalità di funzionamento del sistema carcerario statale”, affermano i due curatori, Aaron Huges, artista e veterano della guerra in Iraq, e Amber Ginsburg, docente di arti visive all’università di Chicago. Ed è qui, nella terza più grande città degli Stati Uniti che, tra gli anni Settanta e Ottanta, oltre un centinaio di persone di colore sono state vittime delle torture del capo del Dipartimento di Polizia, Jon Burge. Tra le modalità di tortura più “efficaci”, le scariche elettriche generate da un dispositivo, in gergo detto “black box”, nato dall’adattamento di una invenzione dello scienziato serbo Nikola Tesla, utilizzato anche dai soldati americani durante la guerra in Vietnam.

Nel lavoro di ricostruzione fatta dai curatori, nel recupero di opere d’arte e nel raffronto tra i racconti dei detenuti rinchiusi a Guantánamo e quelli delle vittime di Burge, oltre che da inchieste giornalistiche, è emerso un filo rosso che lega le due esperienze. Anche il report delle Nazioni Unite conclude che l’eccezionalità, la discriminazione e la narrazione in chiave “anti-terroristica” per giustificare le violenze perpetrate a Guantánamo “hanno avuto effetti che vanno ben oltre i suoi confini con enormi conseguenze sui diritti umani in più Paesi”.
“Crediamo, e sogniamo, che l’arte rappresenti una forma di giustizia riparativa, di affermazione di libertà e di guarigione – affermano Hughes e Ginsburg -. La giustizia è una pratica. Come diciamo in Remaking the Exceptional, le riparazioni sono un modo per rimediare i torti, un percorso verso la guarigione, un passo verso la giustizia
*(Federica Lavarini, giornalista pubblicista e scrive, , su Oggi Scienza, Wired)

09 – Mario Boffo e Alfiero Grandi*: CESSATE-IL-FUOCO E DIPLOMAZIA PIÙ CHE MAI.CESSATE-IL-FUOCO, LA PAROLA ALLA DIPLOMAZIA, È IL DOCUMENTO CHE RACCOGLIE LE CONCLUSIONI DEL CONVEGNO PER LA PACE IN UCRAINA DEL 30 GIUGNO SCORSO ED È STATO INVIATO DAI PROMOTORI (DIPLOMATICI, GIORNALISTI, MILITARI, INTELLETTUALI, COORDINAMENTO PER LA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE) A DEPUTATI E SENATORI CHIEDENDO DI FARE EMERGERE IN PARLAMENTO IL DESIDERIO DI PACE DELLA MAGGIORANZA DELL’OPINIONE PUBBLICA ITALIANA.
Presentando il documento si chiarisce che l’obiettivo è avviare un’iniziativa politica per scongiurare ulteriori rischi – anzitutto una guerra nucleare – e assicurare all’Ucraina libertà ed indipendenza, all’Europa un futuro di pace.
Nell’opinione pubblica sono infatti cresciute preoccupazione e contrarietà. Esponenti politici di diversa collocazione hanno riconosciuto la necessità di una iniziativa per il cessate il fuoco, per creare condizioni per una trattativa con l’obiettivo di raggiungere una pace duratura attraverso adeguate garanzie internazionali. Fino ad ora si è parlato solo di invii di armi, sempre più letali, all’Ucraina. È mancato completamente un impegno per avviare trattative di pace. Non sono mancate iniziative, tra cui spicca l’impegno del cardinale Zuppi per incarico del Papa, dei paesi africani, dell’America latina, della Cina e di altri paesi, ma il risultato finora è lo stallo per i veti venuti dai belligeranti e dai loro sostenitori.
Un giacimento di odio reciproco rischia di consolidarsi per generazioni, lacerando rapporti culturali, sociali, geografici tra popolazioni coesistenti, come è avvenuto nella ex Jugoslavia.
Puntare tutto sull’invio delle armi senza fare decollare l’iniziativa per il cessate il fuoco e la pace rischia di fare prevalere la posizione di chi è convinto che solo la vittoria delle armi possa portare ad una soluzione, attraverso l’annientamento del nemico. Solo una trattativa in una sede multilaterale come l’ONU può affrontare l’insieme dei problemi cercando soluzioni ragionevoli.
Continuando così, si superano limiti prima impensabili come l’uso dei proiettili a uranio impoverito, delle bombe a grappolo che dovrebbero essere vietate, dei bombardamenti che malgrado le dichiarazioni colpiscono i civili e le loro infrastrutture.
A causa della guerra la lotta al cambiamento climatico è indebolita, le risorse sono dirottate verso l’aumento degli armamenti con conseguenze sulle spese sociali.
L’Ucraina oggi è un gigantesco poligono di prova di armi sempre più terribili e gli unici a guadagnarci sono i produttori, con danno di tutta l’umanità.
L’invasione dell’Ucraina è inaccettabile, va condannata. La risposta non può essere trovata nel reciproco sfinimento ma nel dare la parola alla diplomazia e alla politica, per evitare lutti sempre maggiori e riprendere un percorso di coesistenza tra regimi politici diversi, affidando l’affermazione della democrazia all’esempio di una vita migliore e più degna, non alle armi.
Occorre evitare ulteriori passi verso il baratro della guerra tra Nato e Russia che devasterebbe il continente europeo. Purtroppo, la voce dell’Unione europea non si è sentita, restringendo ulteriormente gli spazi di iniziativa.
Il documento inviato ai parlamentari sottolinea che occorre un chiaro messaggio all’Italia, all’Europa, agli Stati Uniti per la stabilità del nostro continente.
Il vertice di Vilnius sembra avere compreso che l’entrata dell’Ucraina nella Nato adesso porterebbe ad una guerra diretta con la Russia e al concreto pericolo di guerra atomica. Portare tutti i paesi dell’Europa dentro un quadro di sicurezza reciproca, individuando nuove architetture, usando la diplomazia per risolvere i nodi del conflitto permetterebbe invece di riportare la Russia nel consesso europeo, usando i condizionamenti della pace e della stabilità.
In passato di fronte a rischi non meno gravi per la vita dell’umanità sono stati trovati forza e coraggio per reagire a quanto sembrava inevitabile. Oggi occorre lo stesso coraggio, la stessa forza per bloccare la corsa verso l’abisso nucleare e rilanciare l’utopia positiva della pace e della coesistenza tra diversi.
Per questo occorre che la società, le sue rappresentanze facciano sentire la loro voce, quella di quanti sono preoccupati per la guerra e le sue conseguenze e chiedono di essere ascoltati, di pesare nelle decisioni.
Per questo occorre che i parlamentari, superando il distacco con elettrici ed elettori, diano rappresentanza ad un’opinione pubblica che oggi non ce l’ha costruendo nelle forme che riterranno un coordinamento di quanti mettono al primo posto la pace e vogliono fare crescere questa posizione finora schiacciata da una visione solo fondata sulle armi e sul proseguimento della guerra. La guerra è diventata un obiettivo in sé e per sé, va fermata ora, prima che sia troppo tardi.
*(Mario Boffo è dal 2005 Ambasciatore d’Italia nella Repubblica dello Yemen. In precedenza aveva svolto tra l’altro gli incarichi di Capo Ufficio I Cerimoniale Diplomatico della Repubblica, A. Grandi, è un politico e sindacalista italiano)

 

10 – S Claudia Grisanti*: CIENZA. LE NOTIZIE DI SCIENZA DELLA SETTIMANA. NEL PACIFICO SI È SVILUPPATO EL NIÑO, UN FENOMENO CLIMATICO NATURALE CICLICO, CHE CAUSA UN AUMENTO DELLE TEMPERATURE E CONDIZIONI ARIDE O UMIDE IN MOLTE REGIONI DEL PIANETA.
La comparsa del Niño, in un contesto di cambiamento climatico di natura antropica, potrebbe portare a nuovi picchi di temperatura.
Secondo stime preliminari dell’università del Maine, non confermate, la prima settimana di luglio è stata caratterizzata da temperature globali record.
Lo scorso giugno è stato il più caldo dal 1979, con temperature di superficie del mare mai viste prima e un minimo del ghiaccio marino antartico per questo mese.
Il telescopio spaziale James Webb ha ottenuto una nuova immagine agli infrarossi di Saturno. Il pianeta appare molto scuro, mentre brillano gli anelli ricchi di ghiaccio.
È stata lanciata la missione Euclid, che ha lo scopo di studiare la materia e l’energia oscura dell’universo.
I dati degli smartwatch potrebbero essere usati per migliorare le diagnosi del Parkinson, una malattia che causa difficoltà di movimento.
Le esperienze extracorporee potrebbero dipendere anche dall’attività di una piccola area del cervello, il pre cuneo anteriore.
Il caffè potrebbe influenzare il funzionamento del cervello in modo più complesso rispetto alla sola caffeina.
In alcuni tumori è possibile trovare cellule con un cromosoma in più. Secondo uno studio, senza quel cromosoma il tumore non può crescere.
Al largo della Costa Rica, su fondali molto profondi, è stata scoperta un’area di riproduzione dei polpi. Gli animali appartengono al genere Muusoctopus.
Una specie di palma del Borneo, la Pinanga subterranea, fiorisce e fruttifica sottoterra. La pianta era nota alla popolazione locale, ma non ai ricercatori.
Lo studio di due gruppi di elefanti in Kenya ha mostrato che ogni gruppo segue un tipo di alimentazione diversa.
Una frana gigantesca avvenuta intorno all’anno 1190 nell’Himalaya potrebbe aver ridotto l’altezza di una cima del massiccio dell’Annapurna. Si pensa che le frane possano quindi costituire un fattore limitante dell’altezza delle montagne.
Lo studio di alcune sepolture dell’età del rame in Spagna suggerisce che a guidare la comunità era una donna. L’analisi è stata fatta con un metodo nuovo, che usa i peptidi.
L’Oms sta valutando se l’aspartame, un dolcificante, possa aumentare il rischio di cancro.
L’intelligenza artificiale generativa potrebbe migliorare le diagnosi mediche, ma al momento manca di alcune capacità, come l’interazione con il paziente.
(da Internazionale – Claudia Grisanti, giornalista)

 

11 – Laura Carrer *: LA NUOVA VITA DELLE LINGUE INDIGENE AFRICANE. SONO 7100 LE LINGUE PARLATE NEL MONDO.

Il progetto Ethnologue si prefigge da molti anni di mappare la grande varietà di lingue parlate dalle popolazioni del mondo. “Il linguaggio è cruciale per l’identità umana”, si legge sul sito web, “perché è parte di ciò che ci rende noi stessi, che ci rende comunità e ci dà un senso”.
SONO 7100 LE LINGUE PARLATE NEL MONDO, E IL 28% SOLO NEL CONTINENTE AFRICANO. IL PATRIMONIO CULTURALE E STORICO DELL’AFRICA, CHE CONTA UNA POPOLAZIONE ATTUALE DI OLTRE 1,4 MILIARDI DI PERSONE, È MOLTO RICCO: TUTTAVIA, IL MONDO DIGITALE ATTUALE SUPPORTA PREVALENTEMENTE LINGUE COME L’INGLESE, IL CINESE O COMUNQUE PARLATE DALLA MAGGIORANZA DEI PAESI EUROPEI.
Una pesante eredità coloniale che vent’anni fa definiva l’80% dei contenuti online del mondo. Attualmente alcuni studi parlano di un ridimensionamento in questo senso: in lingua inglese rimangono circa il 54% delle pagine e dei contenuti presenti sul web, seguite poi – con un distacco notevole – da quelle in lingua spagnola (il 5.2%). La sotto rappresentazione delle lingue africane online, e quindi la mancanza di uno spazio digitale inclusivo, sono un dato di fatto nel continente. Individui, organizzazioni e governi africani hanno però iniziato numerosi progetti di digitalizzazione linguistica per aumentare la presenza online delle lingue indigene, passando dalla digitalizzazione di risorse basilari come i dizionari, fino ad arrivare ai racconti popolari e alle canzoni tradizionali.
Nel continente sono nate anche molte organizzazioni affiliate a Wikimedia foundation, la fondazione che ospita il celebre progetto Wikipedia. Un impegno importante per far sì che anche i contenuti in lingua indigena popolino uno dei siti web tra i più letti al mondo. Organizzazioni come l’African Languages Technology Initiative (ALT-I) e l’African Academy of Languages (ACALAN) hanno svolto un ruolo importante nel sostenere queste iniziative. Tecnologie di intelligenza artificiale e algoritmi di elaborazione del linguaggio, e più in generale l’innovazione tecnologica, facilitano poi l’accesso a contenuti online in settori importanti come quello bancario, l’istruzione e l’assistenza sanitaria, consentendo agli utenti di comunicare le loro esigenze attraverso la lingua madre.
Diversi governi africani hanno riconosciuto il significato delle lingue indigene e l’impatto che una loro sotto rappresentazione online può avere su molte comunità africane, in una società sempre più digitalizzata. Collaborando con le comunità locali, il mondo accademico e le aziende tecnologiche, i governi stanno incoraggiando lo sviluppo di contenuti digitali localizzati e di piattaforme online in lingua indigena. Nel 2020, il ministro dell’istruzione superiore, della scienza e dell’innovazione sudafricano ha pubblicato un documento contenente le policy da utilizzare soprattutto in campo educativo, nelle scuole superiori e nelle università.
Lo scopo è quello di fornire un quadro comune per sviluppare e rafforzare ciò che gravita intorno al patrimonio linguistico indigeno in Sudafrica attraverso borse di studio e corsi di insegnamento specifici.
Il diario linguistico digitale è un aspetto spesso sottovalutato e che deriva da un approccio alla tecnologia perlopiù occidentale, che non considera la necessità di promuovere spazi digitali inclusivi. È proprio attraverso progetti simili però che sempre più individui saranno in grado di esercitare i propri diritti online e offline, di partecipare pienamente alla vita pubblica e di contribuire alla creazione di conoscenze.
*(a cura di: Laura Carrer, giornalista freelance e ricercatrice. Scrive di sorveglianza di stato, tecnologia all’intersezione con i diritti umani, piattaforme tecnologiche e spazio urbano su IrpiMedia, Wired, Il Post, Il Manifesto e altri.)

 

12 – Micaela Bongi*: IL CORO STONATO DELL’OPPOSIZIONE PARTITO DEMOCRATICO. PERCHÉ, INVECE DI PRENDERE SUL SERIO IL RUOLO DI OPPOSIZIONE AL GOVERNO PIÙ A DESTRA DELLA STORIA DELLA REPUBBLICA, NON PRENDERSI A MAZZATE TRA AMICI E COMPAGNI?
Il partito democratico è un partito davvero democratico. La segretaria Schlein chiama tutti a raccolta a Napoli nonostante l’avanzata di Caronte per cantarle in coro al governo che vuole spaccare l’Italia con la legge Calderoli? E chi l’ha detto che per evitare lo sconquasso non si debba prima spaccare il Pd. La premier Giorgia Meloni annaspa non sapendo come affrontare l’annosa questione della giustizia, mentre la sua coalizione, la sua squadra di ministri e il suo stesso partito somigliano a tanti flipper dove schizzano pericolosamente palline impazzite spesso una nella direzione opposta all’altra? E perché, invece di prendere sul serio il ruolo di opposizione al governo più a destra della storia della repubblica, non prendersi a mazzate tra amici e compagni? Si dirà: è il solito Vincenzo De Luca, il presidente campano col suo ego più grande della stessa Campania e di tutto il Pd. E se la segretaria chiama a raccolta il partito sotto le sue finestre e addirittura ha in animo di ridimensionarne le ambizioni, l’unica risposta possibile da parte del satrapo è «e qui comando io e questa è casa mia».

Ma siccome il partito democratico è un partito davvero democratico e in democrazia si tengono le elezioni e i voti contano, ecco che il coro contro il governo – sebbene la segretaria si sforzi di tenere la scena «con una voce sola» – passa in secondo piano.

E sono tutti lì, incendiari e pompieri, vice segretari e vice cacicchi, maggioranza e minoranza, a riunirsi, confrontarsi, aggredirsi e poi emendarsi, siglare tregue a tempo guardandosi in cagnesco e che volete, il Pd è un partito davvero plurale, non c’è il pensiero unico.
Pensiero unico no, ma magari neanche unico schema. Infatti non si tratta semplicemente del solito De Luca, ma di una rappresentazione ormai ossificata che per ora nemmeno la segretaria millennial venuta da Occupy è riuscita a sovvertire. Tanto che a conferma dell’adagio secondo il quale il Pd non fa in tempo a eleggere un segretario che nel partito già si trama per buttarlo giù, ecco che già circola il nome del possibile successore nell’eventualità che Elly Schlein non riesca a superare in scioltezza la prova delle europee.
Già, le europee. Competition is competition diceva Romano Prodi. E allargando lo sguardo, la competizione è in cima ai pensieri anche dei futuribili alleati del mai davvero arato campo largo, quelli che si autoproclamano veri riformisti, gli altri che si incollano l’etichetta prêt-à-porter di veri progressisti e nel Pd chi tira da una parte e chi dall’altra con il risultato di girare su se stessi.
Va in scena così il conflitto permanente tra personalismi, correntismi, rendite di posizione da difendere con le unghie e con i denti. Ma anche e soprattutto, perché alla fine conta la politica, tra visioni forse non tutte conciliabili. Il passato del resto ha dimostrato che l’unità cementata dal comune avversario (ieri Silvio Berlusconi, oggi Giorgia Meloni) non è una linea politica e sarà bene tenerlo a mente anche per il futuro. Competition is competition, senza ingenuità, e il banco di prova delle europee, dove si vota con il sistema proporzionale, sarà cruciale anche per determinare leadership e alleanze. Ora però bisogna fare anche opposizione, dura, faticosa, necessaria: seppure annaspando e inciampando su sé stesso il governo Meloni una direzione la ha e non promette nulla di buono.
«Quando sento che non c’è una linea politica sorrido, di contenuti siamo pieni ma siamo bravi a coprirli con le divisioni interne. Se a qualcuno questa linea non piace lo ammetta e non trovi altre scuse» ha detto Schlein durante la direzione Pd del mese scorso, la stessa dalla quale ha lanciato l’«estate militante». L’estate è nel pieno, è arrivato anche Caronte e né i cacicchi, né il pompiere né la segretaria hanno più tempo per le scuse.
*( Fonte: IL Manifesto. Micaela Bongi, giornalista.)

 

13 – Nel mondo*

Ucraina-Russia
Il 17 luglio un comitato d’inchiesta russo ha affermato che due civili sono morti in un attacco ucraino contro il ponte di Kerč, che collega la penisola della Crimea, annessa da Mosca, alla Russia continentale. L’attacco sarebbe stato condotto dai servizi speciali e dalla marina di Kiev usando droni navali. Intanto, il ministero della difesa ucraino ha annunciato di aver ripreso all’esercito russo diciotto chilometri quadrati di terreno nell’ultima settimana, sette dei quali intorno a Bakhmut, nella regione orientale di Donetsk.

Stati Uniti-Cina
L’inviato statunitense per il clima John Kerry ha partecipato il 17 luglio a un incontro a Pechino con il suo collega cinese Xie Zhenhua, che segna la ripresa del dialogo tra i due principali paesi inquinatori del pianeta. I colloqui sulla crisi climatica erano stati sospesi da Pechino nel 2022 in seguito alla visita a Taiwan di Nancy Pelosi, all’epoca presidente della camera dei rappresentanti statunitense.

Iran
Il 16 luglio la polizia ha annunciato la ripresa dei controlli nelle strade e nei luoghi pubblici per verificare che le donne indossino il velo. I controlli erano stati sospesi in seguito all’ondata di proteste innescata dalla morte di Mahsa Jina Amini, avvenuta dieci mesi fa mentre era in custodia della polizia per non aver indossato correttamente il velo.

Corea del Sud
Il ministero dell’interno ha annunciato il 16 luglio che almeno trentasette persone sono morte nelle alluvioni e nelle frane causate dalle forti piogge che hanno colpito il paese negli ultimi giorni. Altre nove persone risultano disperse. Centinaia di soccorritori stanno cercando di raggiungere quattordici automobili e un pullman rimasti sommersi in un tunnel sotterraneo a Cheongju.

Canada
Il 16 luglio le autorità dei Territori del Nordovest hanno affermato che un pompiere è morto mentre cercava di circoscrivere un incendio fuori controllo a Fort Liard. Due giorni prima una pompiera di diciannove anni aveva perso la vita lottando contro gli incendi nella provincia della British Columbia, nell’ovest del paese. Dall’inizio dell’anno sono andati in fumo più di dieci milioni di ettari di vegetazione, un’area più grande del Portogallo.

Messico
Un giornalista è stato assassinato il 15 luglio ad Acapulco, nello stato occidentale di Guerrero. Si tratta di Nelson Matus, direttore del giornale online Lo Real de Guerrero, che si occupava di violenze legate al narcotraffico. La settimana precedente un altro giornalista, Luis Sánchez, era stato ucciso nello stato di Nayarit.
*(Fonte: Internazionale)

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