n°26 – 01/07/2023 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ESTERO

01 -. La Senatrice La Marca*(Pd): incontra il presidente del parlamento canadese e una delegazione di parlamentari.
02 – Nina Valoti*:Sul Mes la destra fa melina: sospensiva di altri quattro mesi . Destra divisa. Alla Camera la maggioranza trova il compromesso: se ne parlerà a novembre.
03 – La Senatrice La Marca (Pd)*: interviene in aula sull’accordo di sicurezza sociale ITALIA-MESSICO
04 – Gianni Beretta*: Guatemala che non t’aspetti. Al ballottaggio va la sinistra. FIGLIO D’ARTE. Sarà Bernardo Arévalo, leader del Movimiento Semilla (il padre era Juan José Arévalo, presidente durante il decennio della Rivoluzione Democratica d’Ottobre del 1944) a sfidare la conservatrice Sandra Torres il 20 agosto. Battuti a sorpresa i candidati della destra peggiore
05 – Massimiliano Cassano *: Il piano per salvare l’Amazzonia – Il presidente brasiliano Lula avvia un progetto per mettere fine alla deforestazione del polmone verde del pianeta. Sotto la destra di Bolsonaro abbattuti 21 alberi al secondo.
06 – Andrea Pipino*: EVEREST è il nuovo numero di internazionale storia e racconta le spedizioni per conquistare la vetta dell’Himalaya attraverso la stampa dell’epoca. Si può comprare in edicola e online, oppure in digitale sull’App di internazionale.
07 – Benoît Vitkine*: RUSSIA VLADIMIR PUTIN affronta l’ammutinamento del gruppo wagner – in Russia, ora c’è un campo “lealista” e un campo “ribelle”. Sabato 24 giugno, l’ammutinamento guidato da Evgenij Prigožin e dalla sua milizia Wagner
08 – Federico Rucco*: L’Occidente guarda ma non capisce molto su cosa è accaduto in Russia.
09 – Cos’è la politica europea di coesione – Sono tutti gli investimenti attuati tramite i fondi strutturali europei che hanno l’obiettivo di ridurre i divari economici e sociali tra i territori.(*)

 

 

01 -. LA SENATRICE LA MARCA*(PD): INCONTRA IL PRESIDENTE DEL PARLAMENTO CANADESE E UNA DELEGAZIONE DI PARLAMENTARI.
Ieri, in qualità di vicepresidente della Sezione Interparlamentare Bilaterale d’Amicizia Italia-Canada, la senatrice Francesca La Marca, insieme al presidente Luigi Nave, ha incontrato quattro membri del Parlamento canadese, oltre al Presidente della Camera dei Comuni del Canada, l’On.
Anthony Rota
«È stato un incontro proficuo, quello organizzato dall’Ambasciatrice del Canada in Italia, Elissa Golberg, che ha ci ha permesso di confrontarci su alcune tematiche di accordo fra i nostri due paesi e di avere anche uno scambio molto interessante sui diversi sistemi legislativi ed elettorali che ci sono in Canada e in Italia. » ha dichiarato la senatrice Francesca La Marca.
Presenti all’incontro anche l’On. Sylvie Bérubé, l’On. Anna Roberts, l’On. Jenny Kwan, l’On. Angelo Iacono, presidente del Gruppo di Amicizia Italia-Canada, il Capo di Gabinetto Alexandre Mattard-Michaud e il Funzionario per le relazioni parlamentari Vanessa Moss-Norbury che, sempre nella mattinata di ieri, hanno incontrato i Presidenti di Camera e Senato.
«Sono contenta dell’esito dell’incontro – ha dichiarato la senatrice La Marca – perché abbiamo toccato vari argomenti che ho trattato nella mia attività politica all’interno delle istituzioni e che mi riguardano chiaramente anche in prima persona. »
« Fra i vari temi discussi ci sono stati anche il CETA e la ratifica dell’accordo sulle patenti di guida del Quèbec. Temi di vitale importanza sia per l’Italia che per il Canada e che dimostrano la necessità di rinsaldare ancora di più i già solidissimi rapporti che ci sono fra questi due paesi. » ha concluso la senatrice La Marca.
*(Sen. Francesca La Marca – Ripartizione Nord e Centro America/Electoral College – North and Central America)

 

02 – Nina Valoti*:SUL MES LA DESTRA FA MELINA: SOSPENSIVA DI ALTRI QUATTRO MESI . DESTRA DIVISA. ALLA CAMERA LA MAGGIORANZA TROVA IL COMPROMESSO: SE NE PARLERÀ A NOVEMBRE. MA IL COPIONE È GIÀ SCRITTO, CESA: «LO APPROVEREMO». LEGHISTI SILENTI CONTE: SENZA LINEA DELLA VEDOVA: ALTRO CHE PACCHETTO, È SOLO UN PACCO DELLA CAMERA DESERTA L’AULA PER LA DISCUSSIONE SUL MES.
Il Meccanismo europeo di stabilità «nella sua configurazione attuale rimane un’organizzazione intergovernativa, dunque non rientrante negli organismi dell’Unione europea e, per questo, non soggetto al controllo democratico del Parlamento europeo né a quello tecnico della commissione europea, e questa componente privatistica può generare conflitti con la gestione pubblica della politica economica». Pur di motivare il rinvio della votazione sul Mes, la maggioranza di destra arriva a usare argomentazioni del genere.
IL PASSAGGIO È PRESENTE nel testo della «questione sospensiva» presentata a Montecitorio «per non procedere per un periodo di quattro mesi» – dunque posticipando tutto a novembre, in piena sessione di Bilancio e a soli due mesi per la scadenza per l’approvazione – all’esame della proposta di legge del Partito democratico, e dell’abbinata proposta di legge di Azione-Italia viva, di «Ratifica ed esecuzione dell’accordo recante modifica del Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità», sottoscritto dall’Italia a Bruxelles il 27 gennaio e l’8 febbraio 2021.
DAVANTI A UNA AULA DESERTA – solo una ventina i deputati presenti – non si è nemmeno votato. La questione sospensiva sarà esaminata, secondo quanto comunicato all’assemblea dal presidente della Camera Lorenzo Fontana, la prossima settimana.
Mentre la presidente del consiglio Giorgia Meloni, a Bruxelles per il vertice Ue, ha provato a sostenere che sulla ratifica da parte dell’Italia in Europa «non c’è la stessa attenzione che c’è nel dibattito nostrano», la sua maggioranza continuava a mostrarsi divisa con le tensioni che non si sono stemperate nemmeno un po’.
Lo sconfitto numero uno però è ancora una volta Matteo Salvini: il leader leghista puntava sulla bocciatura e ha dovuto fare l’ennesima marcia indietro, mentre il suo ministro Giorgetti appoggia l’approvazione.
La soluzione è quella più italica possibile: prendere tempo per appianare tensioni e divergenze tra i partiti per giungere alla fine alla più bieca posizione basata sulla realpolitik che consentirà all’Italia di completare l’operazione di ratifica, sia pure rimarcando che questo strumento non sarà mai utilizzato dal governo di centrodestra.
CONFUTATA DEFINITIVAMENTE almeno la panzana avanzata dalla maggioranza – ancora ieri da Antonio Tajani e dal capogruppo di Fdi Tommaso Foti – su un possibile «pacchetto europeo da discutere» che contenga sia il Mes che le modifiche all’Unione bancaria o perfino il necessario cambio dello statuto della Bce. Sul tema molto efficace la battuta di Benedetto Della Vedova di Più Europa: «Più che un pacchetto stiamo prendendo un pacco, sarete costretti a votare il Mes».
«Abbiamo sottolineato più volte che non è una prerogativa del paese la ratifica del Meccanismo europeo di stabilità. In questo momento non è una emergenza, mentre per noi è molto importante definire con gli altri paesi europei argomenti quali il Patto di stabilità e l’Unione bancaria», ha provato ancora ad abbozzare il capogruppo di Forza Italia Paolo Barelli, tra i firmatari della questione sospensiva. «Nessuna spaccatura nel centrodestra, la decisione era stata presa da giorni», ha affermato dal canto suo lo stesso Foti. Silente invece il capogruppo della Lega sempre a Montecitorio, Riccardo Molinari, anch’esso firmatario obtorto collo, assieme a Maurizio Lupi. In tutto questo il collega centrista Lorenzo Cesa ha infine ammesso: «Penso che alla fine il Mes lo approveremo».
Critici gli esponenti delle opposizioni. «Non esiste una linea del governo, non esiste una linea Giorgetti o una linea Meloni. C’è una linea di chi non sa che pesci prendere. Di fronte ad un dossier cosi’ importante, di fronte a tutta l’Europa che sta premendo, cercano di prendere, di guadagnare tempo. Sono indecisi su tutto», ha sottolineato Giuseppe Conte.
*( Fonte: Il Manifesto. Nina Valoti, giornalista)

 

03 – LA SENATRICE LA MARCA (PD) INTERVIENE IN AULA SULL’ACCORDO DI SICUREZZA SOCIALE ITALIA-MESSICO

Quali sono le attuali politiche che il governo ha intenzione di attuare sul piano della tutela previdenziale in regime internazionale con il Messico? Questo è stato il fulcro centrale dell’intervento di oggi nell’Aula del Senato da parte della senatrice Francesca La Marca.
« La finalità degli accordi di sicurezza sociale è quella di garantire la parità di trattamento di lavoratori e pensionati che si spostano dall’uno all’altro Paese contraente. Eppure, il sistema di tutela previdenziale in regime internazionale che riguarda l’Italia non è purtroppo completo poiché numerosi paesi di emigrazione italiana sono rimasti esclusi. Fra questi vi è il Messico, con il quale l’Italia ha sviluppato nel tempo importanti relazioni e dove risiedono oltre 25.000 cittadini italiani iscritti all’AIRE e molti di più non iscritti. » ha dichiarato la senatrice La Marca.
Con il Messico l’Accordo in vigore è datato 1977 ma è applicato soltanto ai cittadini italiani rimpatriati, titolari quindi di pensione messicana, mentre per gli italiani residenti in Messico, che hanno maturato contributi pensionistici in Italia, l’erogazione di un’eventuale pensione praticamente non avviene.
« Ho negli anni più volte sollecitato i Ministri che si sono susseguiti per avere delle risposte chiare sulla questione – ha continuato la senatrice La Marca – ma non ho mai avuto risposte chiare in merito. »
« È evidente che gli accordi in vigore fra Italia e Messico sono anacronistici e soprattutto non tengono conto dei rapporti solidissimi fra i due paesi. L’Italia infatti è il 13° fornitore del Messico e i benefici che deriverebbero dalla vigenza di tali accordi internazionali sarebbero fruiti non solo dai lavoratori interessati, ma anche dalle imprese italiane che sarebbero in grado così di aumentare la propria competitività sul piano internazionale. » ha concluso la senatrice La Marca.
*( Sen. Francesca La Marca – Ripartizione Nord e Centro America/Electoral College – North and Central America)

 

04 – Gianni Beretta*: GUATEMALA CHE NON T’ASPETTI. AL BALLOTTAGGIO VA LA SINISTRA. FIGLIO D’ARTE. SARÀ BERNARDO ARÉVALO, LEADER DEL MOVIMIENTO SEMILLA (IL PADRE ERA JUAN JOSÉ ARÉVALO, PRESIDENTE DURANTE IL DECENNIO DELLA RIVOLUZIONE DEMOCRATICA D’OTTOBRE DEL 1944) A SFIDARE LA CONSERVATRICE SANDRA TORRES IL 20 AGOSTO. BATTUTI A SORPRESA I CANDIDATI DELLA DESTRA PEGGIORE, MA IL PRIMO PARTITO È IL VOTO NULLO
Si era dato da fare con largo anticipo il Tribunale supremo elettorale (ben prima dell’arrivo degli osservatori internazionali) per riservare arbitrariamente alle sole destre la contesa di questo primo turno di elezioni presidenziali (oltre che parlamentari e municipali) in Guatemala, inibendo con pretesti vari la partecipazione di tre candidati della sinistra (o comunque democratici). A cominciare dalla indigena maya Thelma Cabeza del Movimiento para la Liberación de los Pueblos, in un paese dove almeno la metà della popolazione è originaria.

E invece al ballottaggio del 20 agosto prossimo a sfidare Sandra Torres (della conservatrice Unidad Nacional de la Esperanza, che ha ottenuto il 15,8 %) ci sarà un outsider progressista di lusso che i sondaggi davano ampiamente perdente fra i ben 22 pretendenti: Bernardo Arévalo del Movimiento Semilla (seme) affermatosi, soprattutto nelle città, con l’11,8%. Nello stupore dei suoi stessi contendenti.

SEMILLA SORSE NEL 2015 dalle manifestazioni spontanee in tutto il paese contro la povertà e soprattutto la tremenda corruzione che caratterizzò il mandato dell’allora presidente (ex generale) Otto Perez Molina, che infatti dovette dimettersi. E guidò pure le proteste del 2021. Ma in particolare Bernardo è figlio di Juan José Arévalo, eletto presidente del Guatemala durante il decennio della Rivoluzione Democratica d’Ottobre del 1944, ispirata da giovani ufficiali che si ribellarono al dittatore Jorge Ubico. Una rivoluzione che seguì quella messicana del 1910 (la prima dopo quella francese e precedente alla bolscevica) imperniandosi entrambe sulla necessità di una riforma agraria emancipatrice dall’atavico schema colonial/oligarchico della conquista spagnola.

QUELL’ESPERIENZA (anticipatrice dello stesso castrismo) fu rovesciata dal golpe ordito dalla bananiera United Fruit Co. (e dalla Cia) nel 1954. Il Che ne fu testimone sul posto. Successivamente nell’esilio Juan José fu pure tra i promotori del semiclandestino Partito Guatemalteco del Lavoro.

Va da sé che Bernardo Arévalo (nato in Uruguay dove la sua famiglia era riparata) non avrà pressoché alcuna chance nella disputa finale con Sandra Torres. Ma almeno è riuscito a sconfiggere i destri più titolati che ovviamente ora convergeranno sulla sua avversaria: a partire da Manuel Conde, candidato dal partito Vamos del capo di stato uscente Alejandro Giammattei, che prima di uscire di scena ha fatto chiudere ElPeriodico (l’unico quotidiano indipendente) e condannare a 6 anni il suo direttore Ruben Zamora. Ma soprattutto Zury Rios del partito Valor, anche lei figlia (all’inverso) del generale genocida Efraín Rios Montt, dittatore fra l’82 e ’83 nonché fra gli apripista delle sette fondamentaliste in America Latina (in chiave anti Teologia della Liberazione) essendo egli stesso “pastore della Iglesia del Verbo” (mentre suo fratello Mario Enrique era vescovo cattolico).
IN OGNI CASO FRA IL 60% dei potenziali votanti che si sono recati alle urne, il primo partito è stato il voto nullo col 17.4%. Mentre le schede bianche hanno di fatto conteso il quarto posto sia a Conde che a Zury Rios.
Come a dire che il malcontento è assai profondo e l’affermazione parziale del partito Semilla ha costituito un disperato sussulto di resistenza in un paese che dopo il colpo di stato del ’54 ha vantato la guerriglia più antica del subcontinente latinoamericano (quanto quella colombiana) ma dove la sinistra (al di là dei propri stessi limiti) è stata via via estromessa d’autorità. In particolare dopo l’azzeramento della Commissione internazionale contro l’impunità delle Nazioni unite da parte del predecessore di Giammattei, l’ex presentatore e comico televisivo Jimmy Morales. Un’entità scaturita dagli storici accordi di pace del ’96 che posero fine alla sanguinosa guerra civile. Cui seguì il rapporto della Commissione della Verità dell’Onu che certificò il genocidio di 190mila indigeni. Già ampiamente documentato dal vescovo Juan Gerardi, assassinato a Città di Guatemala nel ‘98.
DAL CANTO SUO Sandra Torres è alla terza candidatura presidenziale, giungendo sempre al ballottaggio. Primera Dama del presidente moderato Àlvaro Colom (2008/2012) non esitò a divorziare dal lui per dribblare il veto costituzionale alla candidatura di familiari di ex capi di stato. È stata in carcere per qualche mese nel 2019 per finanziamenti elettorali illeciti, risultando poi assolta.
Sarebbe la prima donna ad assurgere alla massima carica dello stato (ci aveva provato pure nel 2011 la Nobel per la pace Rigoberta Menchù, estraniatasi poi dalla scena politica). Nel paese più grande e popolato, più bianco e al contempo indigeno, più ricco e diseguale, più narco e criminalmente organizzato dell’istmo centroamericano. Immerso nella più totale indifferenza della comunità internazionale.
*(Gianni Beretta. Corrispondente dal Centro America per il Manifesto, collaboratore di Epoca e Panorama e di diverse testate radiofoniche)

 

05 – Massimiliano Cassano *: IL PIANO PER SALVARE L’AMAZZONIA – IL PRESIDENTE BRASILIANO LULA AVVIA UN PROGETTO PER METTERE FINE ALLA DEFORESTAZIONE DEL POLMONE VERDE DEL PIANETA. SOTTO LA DESTRA DI BOLSONARO ABBATTUTI 21 ALBERI AL SECONDO.

La prima fase del suo Piano d’azione per la prevenzione e il controllo della deforestazione in Amazzonia era cominciata 20 anni fa, durante il primo mandato da presidente del Brasile: adesso che è tornato al Palácio do Planalto, Luiz Inácio Lula da Silva è chiamato a dar conto alle centinaia di associazioni ambientaliste del paese che hanno esultato quando il 31 ottobre 2022 la sua vittoria elettorale al ballottaggio contro Jair Bolsonaro era stata dichiarata ufficialmente.
Lo ha fatto con un nuovo pacchetto di misure varate nei primi giorni di giugno, una strategia studiata per raggiungere l’ambizioso obiettivo di fermare la deforestazione illegale entro il 2030. È la quinta riforma a tutela dell’Amazzonia sotto il suo governo, estensione di un progetto ambientalista che tra il 2004 e il 2012 ha permesso la riduzione della deforestazione dell’83%.

Tra i provvedimenti sottoscritti da Lula c’è l’impegno a raggiungere la “deforestazione a netto zero”, vale a dire il reimpianto di tutti gli alberi abbattuti, ripristinando gli stock di vegetazione autoctona come compensazione a medio termine per la rimozione legale della vegetazione.

LE MISURE IN DIFESA DI FLORA E FAUNA
Il governo ha esteso di 1.800 ettari un’unità di conservazione della foresta, spazi soggetti a tutela diretta, disponendone la creazione di nuove e assegnando 57 milioni di ettari di terreno pubblico attualmente senza protezione speciale, un’area approssimativamente equivalente alla dimensione della Francia. L’allevamento del bestiame, tra le principali cause della deforestazione, è stato disincentivato a vantaggio della produzione di bacche di açai, tra i frutti più nutrienti di tutta l’Amazzonia.

Oltre alla protezione della preziosa flora locale, le misure tutelano anche direttamente la fauna, ad esempio ponendo limitazioni alla pesca del pirarucú, il pesce più grande dell’area, da poco tornato a popolare i laghi del Medio Jurua. In un piano allargato di tutela del verde nazionale, Lula ha anche posto il veto alla legislazione approvata dal Congresso che avrebbe consentito il taglio delle restanti aree della Foresta Atlantica, nel sud-est del paese. Secondo Suely Araújo, consulente politico dell’Osservatorio climatico del Brasile, il piano d’azione è fondamentale per la ricostruzione della governance ambientale, dopo un quadriennio che da questo punto di vista si è rivelato il più distruttivo della storia dell’Amazzonia.

L’EREDITÀ DI BOLSONARO
Un nuovo rapporto di MapBiomas, rete collaborativa brasiliana formata da ong, università e startup tecnologiche, evidenzia come soltanto nel 2022 Bolsonaro abbia portato a termine una carneficina ambientale, deforestando un’area di 18mila chilometri quadrati, quasi un quarto in più rispetto al 2021, già segnato da un record in questo senso. Con l’estrema destra al potere, nella foresta Amazzonica sono stati abbattuti 21 alberi al secondo: un totale di oltre 300mila interventi di deforestazione, con il dato peggiore registrato il 25 luglio scorso, quando in 24 ore fu raso al suolo l’equivalente di 8.400 campi da calcio.

Ma questo sembra essere il passato. Le nuove politiche di Lula vanno anche nella direzione di un ripristino dei rapporti tra la capitale Brasilia e le comunità indigene che abitano l’Amazzonia, costrette a ritirarsi sempre più nella foresta per colpa del land grabbing massivo degli ultimi anni.

IL NUOVO CORSO DI LULA
Il nuovo governo ha riconosciuto sei nuovi territori indigeni per un’estensione complessiva di poco meno di 1.200 chilometri quadrati, aree in cui le estrazioni minerarie sono vietate e l’agricoltura su scala commerciale, così come il disboscamento, sono consentite soltanto attraverso autorizzazioni specifiche. Il chiaro messaggio sull’inversione di marcia arriva anche dalla scelta della città che ospiterà la trentesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop30, che si terrà a Belem, in piena foresta Amazzonica. “Ho già partecipato alle Cop in Francia e in Egitto – ha dichiarato Lula – e tutti parlavano incessantemente dell’Amazzonia. Per questo mi sono detto che ospitare la conferenza lì possa rappresentare un modo per far conoscere davvero la foresta a tutti”.
*( Fonte: Wired. Massimiliano Cassano. Napoletano, giornalista professionista)

 

06 – Andrea Pipino*: EVEREST È IL NUOVO NUMERO DI INTERNAZIONALE STORIA E RACCONTA LE SPEDIZIONI PER CONQUISTARE LA VETTA DELL’HIMALAYA ATTRAVERSO LA STAMPA DELL’EPOCA. SI PUÒ COMPRARE IN EDICOLA E ONLINE, OPPURE IN DIGITALE SULL’APP DI INTERNAZIONALE.

“Non sono molte le avventure moderne, almeno tra quelle pacifiche, ad aver conquistato lo status di allegorie. […] Una è stata l’impresa definitiva dell’esplorazione umana: l’arrivo dell’Apollo 11 sulla Luna. L’altra, la prima ascensione del monte Everest”, ha scritto Jan Morris, che raccontò per il Times di Londra la conquista della vetta più alta del mondo, il 29 maggio 1953. E in effetti in quell’impresa s’intrecciano suggestioni, temi e questioni di natura diversissima.

Per gli esploratori del primo novecento il picco dell’Himalaya era l’ultimo grande traguardo rimasto sulla Terra. “Perché è lì”, rispose George Mallory a chi nel 1924, prima della spedizione in cui sarebbe morto, gli chiese perché fosse così determinato a scalare l’Everest. Tre parole che distillano l’essenza dell’alpinismo: la sfida con se stessi, con le montagne, con la morte.
Nella scalata del 1953 c’è però anche molto altro. L’ostinazione con cui i britannici inseguono l’impresa per più di trent’anni è infatti in qualche modo eredità del conflitto militare e diplomatico combattuto tra le grandi potenze in Asia centrale lungo tutto l’ottocento, ed è alimentata dalla curiosità e dal coraggio di tanti esploratori, forse gli ultimi protagonisti di quel “grande gioco”. La conquista della vetta è anche uno dei sussulti finali dell’impero, sei anni dopo la perdita dei possedimenti indiani e tre anni prima della crisi di Suez, che segnerà il declino definitivo delle ambizioni di Londra di rimanere una potenza globale.
Ma la conquista dell’Everest riguarda soprattutto l’Asia, che proprio in quegli anni si stava liberando del dominio coloniale e stava ricostruendo identità nazionali il più possibile distanti dai modelli britannici. Su questo processo la missione del 1953 avrebbe avuto un’influenza non trascurabile. Ma non è ancora tutto: l’apertura di una via per la vetta solleva anche problemi ambientali, trasforma le pratiche dell’alpinismo e crea un nuovo rapporto con l’universo culturale e religioso dell’Himalaya. Insomma, parlando della scalata di Tenzing e Hillary si riflette necessariamente su colonialismo, politica, economia, geopolitica, antropologia, ecologia.
In Everest questi temi sono organizzati in tre sezioni, lungo un filo cronologico. La prima racconta le nove spedizioni organizzate tra il 1921 e il 1952, che aprono la strada alla scalata del 1953. Alla quale è invece dedicata la seconda sezione, con un lungo resoconto sul campo e i ritratti dei suoi due protagonisti. Nella terza parte si riflette sulle conseguenze della conquista dell’Everest con la consapevolezza – ambientale, culturale, politica – maturata negli ultimi decenni. Il tutto serve a fornire un quadro il più possibile ampio dell’impresa del 1953.
Ma di certo non basta a spiegare il dilemma più affascinante dell’alpinismo: da dove viene quel fuoco che spinge uomini e donne a rischiare la vita per raggiungere il punto più alto di una montagna e avvicinarsi un po’ di più al cielo.
*( Andrea Pipino, giornalista di Internazionale)

 

07 – Benoît Vitkine*: RUSSIA VLADIMIR PUTIN AFFRONTA L’AMMUTINAMENTO DEL GRUPPO WAGNER – IN RUSSIA, ORA C’È UN CAMPO “LEALISTA” E UN CAMPO “RIBELLE”. SABATO 24 GIUGNO, L’AMMUTINAMENTO GUIDATO DA EVGENIJ PRIGOŽIN E DALLA SUA MILIZIA WAGNER HA PRESO IL CONTROLLO DI UNA CITTÀ DI UN MILIONE DI ABITANTI, ROSTOV SUL DON, E HA PRESO IN OSTAGGIO ALCUNI GENERALI. QUESTO SCONVOLGIMENTO È AVVENUTO DURANTE LA NOTTE, DOPO CHE IL GIORNO PRECEDENTE PRIGOŽIN AVEVA ORDINATO A “25MILA COMBATTENTI” DI TORNARE DAL FRONTE UCRAINO PER “LIBERARE IL POPOLO RUSSO” E “RIPORTARE L’ORDINE NEL PAESE”. QUESTO FA PRECIPITARE L’INTERA RUSSIA IN UN ENORME BUCO NERO.

A Mosca le cose vengono dette altrettanto chiaramente. Da venerdì sera, tutte le istituzioni del paese, dal Cremlino al ministero della difesa, dai servizi segreti dell’Fsb al Comitato investigativo, usano le stesse parole inaudite: “ribellione armata”, “colpo di stato militare”. Ma Prigožin si difende, insistendo sul fatto che il suo obiettivo sono solo i vertici militari, non Vladimir Putin. Ma l’ascesso che si è formato in questi mesi è troppo grande per essere curato e la sfida allo stato impossibile da ignorare.

Sabato mattina, Vladimir Putin non ha provato a nascondere la gravità del momento. In un solenne discorso di cinque minuti, durante il quale non ha mai fatto il nome del suo ex chef, il presidente ha parlato di un “tradimento” commesso in nome di “ambizioni sproporzionate” e di una “pugnalata alle spalle” arrivata in un momento in cui la Russia stava “resistendo all’aggressione dei neonazisti e dei loro padroni”. Esortando il popolo russo a “unirsi”, Putin ha avvertito che le risposte dello stato saranno “dure”, promettendo “punizioni inevitabili a coloro che hanno consapevolmente intrapreso la strada del tradimento”.

Il patriarca della chiesa ortodossa, Kirill, da parte sua ha invitato i cittadini a pregare per Vladimir Putin, mentre i principali membri dell’élite, governatori e deputati, hanno moltiplicato i loro messaggi di fedeltà.

“Siamo tutti pronti a morire”
È probabile che le prossime ore o i prossimi giorni ruotino intorno al destino di Rostov. Dal 2014 la città, a circa 950 chilometri a sud della capitale, è servita come base di retrovia per le operazioni russe nel Donbass ucraino, comprese quelle del gruppo Wagner. All’alba di sabato è stata invasa da militari e carri armati che hanno preso il controllo di diversi edifici pubblici, tra cui il quartier generale dell’esercito. Per diverse ore, i residenti non sono stati in grado di identificare i soldati, che indossano uniformi decorate con nastri d’argento, che piazzavano mitragliatrici sui marciapiedi.

È in questo stesso quartier generale che poco dopo è apparso Evgenij Prigožin, che fino a quel momento non si era ancora visto. “I siti militari di Rostov sono sotto controllo, compreso il campo d’aviazione”, ha assicurato in un video diffuso dai suoi servizi, prima di mostrarsi in un secondo video insieme a un generale e al viceministro della difesa Junus-bek Evkurov. Il tono è cordiale, ma è difficile non capire cosa siano questi due alti ufficiali: ostaggi, o prigionieri. Solo il giorno prima il generale Vladimir Alexeyev era apparso in un video, trasmesso dall’esercito, in cui esortava i combattenti della Wagner a disobbedire al loro leader.

“Se inviate aerei [contro di noi], li distruggeremo”, avverte ora Prigožin, che ha chiesto un incontro con il ministro della difesa Sergej Šojgu e il capo di stato maggiore Valerij Guerassimov, i suoi due principali obiettivi nel braccio di ferro che sta conducendo da diversi mesi contro l’esercito. “Se non verranno, andremo a Mosca”, continua. “Tutti e 25mila siamo pronti a morire”.

Nessuna richiesta specifica
Fatto forse ancora più preoccupante per Mosca, Prigožin non avanza alcuna richiesta specifica. Nei suoi colloqui con i generali ha criticato l’esercito per aver “bombardato i civili”. Venerdì 23 giugno, prima che la crisi degenerasse, aveva già messo in dubbio le basi dell’”operazione militare speciale”, affermando che dal 2014 l’Ucraina si era limitata a colpire le posizioni militari nel Donbass e che Kiev non aveva “alcuna intenzione di attaccare la Russia nel 2022 con l’aiuto della Nato”.

Nel suo secondo video di sabato mattina, l’uomo d’affari originario di San Pietroburgo ha anche dedicato diversi minuti a denunciare le “bugie” del ministero della difesa sulla controffensiva ucraina. “Si sta perdendo una grande quantità di territorio” e “molti soldati vengono uccisi”, sostiene, citando la cifra di “mille al giorno”, compresi i feriti e i dispersi.

Sulla carta, la compagnia Wagner non rappresenta una minaccia eccessiva per l’esercito russo. Per ammissione del suo stesso leader, è stata decimata da dieci mesi di assalti alla città ucraina di Bakhmut. In primavera, il ministero della difesa aveva privato la milizia della sua principale risorsa, prendendo nelle sue mani il reclutamento dei detenuti. Allo stesso tempo, ai mezzi d’informazione è stato ordinato di non parlare più di lui o delle azioni della sua milizia.

Inoltre Prigožin non ha alleati, almeno per il momento. Venerdì sera, gli ambienti ultranazionalisti, spesso sedotti dalla sua verve, si sono dissociati da lui. E nella notte il generale Sergej Sourovikine, comandante in capo dell’operazione speciale e intermediario del capo della Wagner presso lo stato maggiore, è apparso in un video per chiedere ai mercenari di “non fare il gioco del nemico”.

Un evidente costo politico
È anche difficile sapere cosa abbia spinto le due forze a combattersi. Nella notte si erano già verificati brevi scontri di modesta entità nelle regioni di Rostov e Voronež. Almeno, questo è quanto indicano alcuni video girati da testimoni, che fanno sentire il rumore degli spari e degli elicotteri in volo. I combattimenti sono ripresi con maggiore intensità al mattino, con il rumore delle armi pesanti. Il gruppo Wagner sostiene, ma non è verificabile, di aver abbattuto tre elicotteri.

La minaccia per il Cremlino è grave. Il confronto di oggi si svolge sullo sfondo della controffensiva ucraina e il suo costo militare potrebbe essere significativo. Già nella notte, il ministero della difesa ha affermato che Kiev intendeva approfittare della “disorganizzazione” da parte russa per lanciare un assalto intorno a Bakhmut. Rostov è una città chiave per i rifornimenti al fronte del Donbass e Prigožin ha promesso di non interrompere le operazioni.

Il capo della Wagner ha spesso sottolineato che gran parte dell’esercito lo sostiene, soprattutto nei ranghi inferiori – ancora una volta un’affermazione non verificabile, ma che lo stato maggiore avrebbe preferito non dover affrontare. Già sabato si era appreso che le colonne della Wagner erano entrate nella città di Voronež senza trovare resistenza.

Anche il costo politico è evidente. Certo, Mosca sembra ancora lontana dall’epicentro delle tensioni, nonostante l’istituzione di un “regime di operazioni antiterrorismo” e la comparsa di blindati leggeri davanti ai siti strategici da proteggere. Ma la sfida che attende chi è al potere è notevole. Agli occhi di una parte dell’élite, Vladimir Putin aveva già dato prova di debolezza permettendo a Prigožin di attaccare senza sosta i suoi rivali al ministero della difesa. Per il Cremlino è fondamentale non permettere che la situazione si deteriori; fare marcia indietro sembra difficile. Venerdì sera l’Fsb ha formalmente aperto un’indagine contro Prigožin per “appello all’insurrezione armata”. La mattina seguente, tuttavia, il ministero della difesa ha offerto una forma di amnistia – “un ritorno sicuro alle basi” – ai combattenti della Wagner che erano stati “ingannati nell’avventura criminale di Prigožin”.

Le cose si sono deteriorate a un ritmo straordinario. Tre settimane fa, la cattura di un alto ufficiale dell’esercito da parte della Wagner, sullo sfondo di un presunto scontro a fuoco tra le due fazioni, era già una notizia sensazionale. Prigožin aveva già intenzione di provocare questo ammutinamento, che sembrava l’escalation definitiva? Si è forse lasciato sopraffare dagli eventi, visto che il suo primo video, venerdì scorso, è stato pubblicato dopo quelli che, a suo dire, erano stati attacchi aerei “molto letali” dell’esercito russo contro le basi della Wagner? Oppure stava reagendo alle voci secondo cui la sua avventura stava per finire? Il metodo – sbaragliare gli avversari per paralizzarli – ha finora funzionato bene per lui, in assenza di una seria resistenza.

Oltre al rischio di arresto del suo leader, auspicato da gran parte dell’élite politica e militare, la Wagner vedeva il cerchio stringersi con l’avvicinarsi della scadenza di un ultimatum fissato dall’esercito: entro il 1° luglio la milizia, come le altre “formazioni volontarie”, doveva firmare un “contratto” con il ministero della difesa per legalizzare la propria situazione. Vladimir Putin aveva approvato pubblicamente la mossa e per una volta era uscito dal suo silenzio.
(Benoît Vitkine, Le Monde, Francia – Traduzione di Stefania Mascetti, Questo articolo è stato PUBBLICATO SUL QUOTIDIANO FRANCESE LE MONDE.)

 

08 – Federico Rucco*: L’OCCIDENTE GUARDA MA NON CAPISCE MOLTO SU COSA È ACCADUTO IN RUSSIA.
LE REAZIONI OCCIDENTALI AGLI AVVENIMENTI IN RUSSIA RIVELANO UN VISCHIOSO MIX TRA SPERANZE E TIMORI, TRA VOGLIA DI COGLIERE L’OPPORTUNITÀ E TROPPE INCERTEZZE PER REGOLARE I CONTI CON LA RUSSIA. LE ANALISI APPAIONO MOLTO PIÙ ARTICOLATE NEGLI STATI UNITI E MOLTO SUPERFICIALI NELL’UNIONE EUROPEA. EMERGE IL GAP DELLE INFORMAZIONI MESSE A DISPOSIZIONI AI GOVERNI DALLE DIVERSE AGENZIE INTELLIGENCE.

Negli Stati Uniti, secondo il quotidiano “Washington Post”, l’intelligence degli Usa avrebbe appreso già alla metà di giugno che Prigozhin stava preparando un’insurrezione in Russia. Per il “New York Times”, i servizi avrebbero informato la Casa Bianca, il dipartimento della Difesa e il Congresso degli Usa della rivolta del gruppo Wagner 24 ore prima del suo inizio.
Oggi il New York Times scrive che “la minaccia immediata è stata scongiurata. Ma nel processo, Putin ha perso molto della sua reputazione di assicurare la stabilità”. Il fatto che Prigozhin e le sue forze non siano stati puniti ha perforato la reputazione del signor Putin come leader deciso che non avrebbe tollerato la slealtà.
Uno degli aspetti più confusi della crisi, secondo il NYT è stato il motivo per cui Putin ha permesso che il conflitto pubblico di Prigozhin con il Ministero della Difesa russo si intensificasse per mesi senza affrontarlo. Prigozhin era stato sfacciatamente schietto nell’attaccare e sminuire la leadership dell’esercito russo. “Due persone vicine al Cremlino, parlando a condizione di anonimato per discutere questioni politiche delicate, hanno descritto la crisi come prima di tutto il prodotto di un sistema di governo disfunzionale che rasenta il caos, vividamente catturato nella parola russa bardak”.

A giudizio dell’Istituto per lo Studio della Guerra (Isw) i mercenari del Gruppo Wagner di Evgeny Prigozhin non sarebbero stati in grado di affrontare un conflitto armato con le truppe dell’esercito russo e occupare Mosca senza un ulteriore sostegno. Secondo fonti russe, scrive il centro studi statunitense, la prima colonna del Gruppo Wagner che ha iniziato a muoversi verso Mosca era composta da 350 pezzi di equipaggiamento, tra cui nove carri armati, quattro veicoli da combattimento Tiger, un sistema di lanciarazzi multipli Grad e un obice. Le altre tre colonne della Wagner che si muovevano verso Mosca avevano rispettivamente 375, 100 e 212 pezzi di equipaggiamento, la maggior parte dei quali erano camion non blindati, auto e autobus. Il think tank statunitense commenta di non poter confermare l’esatta composizione delle colonne della Wagner. Tuttavia, sottolinea, le notizie attuali suggeriscono che le forze di Prigozhin avrebbero avuto difficoltà ad occupare completamente Mosca o a condurre combattimenti prolungati con le Forze armate russe. Prigozhin, conclude il rapporto, potrebbe essere diventato più disponibile a trattare con Lukashenko quando le sue forze si avvicinavano a Mosca ed ha capito che il tempo stava per scadere per raccogliere il sostegno militare necessario per un potenziale conflitto armato con l’esercito russo.
L’Associated Press scrive che non è ancora chiaro cosa avrebbe significato per la guerra in Ucraina la fessura aperta dalla ribellione di 24 ore. Ma il risultato è che alcune delle migliori forze che combattevano per la Russia sono state ritirate dal campo di battaglia. La rapida avanzata in gran parte incontrastata delle forze Wagner ha anche messo in luce vulnerabilità nelle forze di sicurezza e militari della Russia. “Onestamente penso che Wagner probabilmente abbia fatto più danni alle forze aerospaziali russe nell’ultimo giorno di quanto abbia fatto l’offensiva ucraina nelle ultime tre settimane”, ha detto in un podcast Michael Kofman, direttore degli studi sulla Russia presso il think thank Center for Naval Analisys.
Nella loro fulminea avanzata, sabato le forze di Prigozhin hanno preso il controllo di due centri militari nel sud della Russia e si sono avvicinate a 200 chilometri (120 miglia) da Mosca prima di ritirarsi. “Eppure la ribellione è svanita rapidamente, in parte perché Prigozhin non aveva il sostegno che apparentemente si aspettava dai servizi di sicurezza russi”.
Interessante l’analisi di Brian Withmore dell’Atlantic Coucil secondo cui la guerra contro l’Ucraina “ha diviso l’élite russa in due fazioni: i falchi che vogliono solo la conquista di Kiev e una parata militare sui Khreshchatyk e cleptocrati che vogliono tornare al mondo precedente al 24 febbraio 2022. Nessuna di queste cose accadrà, quindi nessuno è felice. Di queste due fazioni, i falchi sono di gran lunga la minaccia più potente e più seria per il regime. Questo ha messo Putin in una posizione molto precaria, indipendentemente da come si risolve la ribellione di Prigozhin”.
In secondo luogo, per Withmore la ribellione di Prigozhin illustra anche i pericoli della “politica estera del capitale di rischio” di Putin, che esternalizza compiti chiave ad attori nominalmente del settore privato al di fuori della normale catena di comando. Il sistema russo non si basa sulle istituzioni ma su reti clientelari informali con Putin come arbitro supremo. Quando Putin è forte, questo approccio funziona, fino a un certo punto. Ma quando Putin è indebolito, può andare fuori controllo.
In terzo luogo, i krysha di Prigozhin in questo sistema informale sembrano abbandonarlo. Il generale Sergei Surovikin e il leader ceceno Ramzan Kadyrov lo hanno già sconfessato. È anche difficile immaginare un altro presunto alleato, il leader di Rosgvardia Viktor Zolotov, schierarsi con Prigozhin su Putin. Questo probabilmente spiega la ritirata tattica di Prigozhin. Ma anche se la crisi immediata viene risolta, la sua causa sottostante continuerà a indebolire il regime.
L’ex direttore della CIA il generale David Petraeus intervistato dalla Cnn ha avvertito il leader della fallita rivolta in Russia, Yevgeny Prigozhin, di “stare molto attento alle finestre aperte”. Il generale in pensione apparentemente si riferiva al numero di importanti personaggi russi che sono morti in circostanze poco chiare, comprese le cadute dalle finestre.
In Europa la situazione che appare più imbarazzante, a seguito degli avvenimenti in Russia, si è rivelata quella della Germania sotto due aspetti.
Il primo è che il Bnd, ossia l’agenzia di intelligence della Germania, è stata colta di sorpresa dalla rivolta del gruppo paramilitare Wagner in Russia. Secondo quanto appreso dal settimanale “Der Spiegel”, il Bnd ha riferito sull’insurrezione all’esecutivo tedesco per la prima volta nella mattinata del 24 giugno, quando i mercenari al comando di Evgeny Prigozhin avevano già occupato Rostov sul Don. Nella giornata del 23 giugno, deputati del Bundestag hanno preso parte a un rapporto riservato sulla situazione in Ucraina presso il ministero della Difesa di Berlino. Alla riunione erano presenti anche funzionari di alto rango del Bnd, che “non hanno detto una parola” su una possibile lotta per il potere in Russia.
Il secondo aspetto è il dato di fatto che ha visto come i servizi di intelligence tedeschi non fossero a conoscenza di importanti sviluppi in Russia e questa sarà la questione al centro della riunione odierna della commissione Esteri del Bundestag. Se confermata, sarebbe la terza occasione in cui il Bnd viene colto di sorpresa, dopo la riconquista di Kabul da parte dei talebani nel 2021 e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia il 24 febbraio dello scorso anno. In quella data, il direttore del Servizio federale per le informazioni, Bruno Kahl, si trovava a Kiev e dovette essere esfiltrato mentre la capitale dell’ex repubblica sovietica veniva bombardata dai reparti russi.
Tutto questo conferma come i servizi di intelligence statunitensi col piffero che socializzano le loro informazioni con quelli alleati lasciandoli al buio anche nei momenti più difficili.
Il presidente francese Macron ha dichiarato in un’intervista che la ribellione armata condotta da Yevgeny Prigozhin e dal gruppo di mercenari Wagner rivela divisioni all’interno del governo russo. Il presidente Macron ha detto che “ho seguito gli eventi ora per ora, in collaborazione con i principali partner della Francia … emergono le divisioni che esistono all’interno del regime russo, la fragilità sia dei suoi eserciti che delle sue forze ausiliarie come il gruppo wagneriano”. Macron ha ribadito l’importanza di sostenere lo sforzo bellico ucraino nell’evidente instabilità delle strutture di potere interne della Russia.
Il più ottuso e svelto a battere cassa, come al solito, è Josep Borrell, responsabile della politica estera dell’Unione Europea. “Questo è il momento di sostenere Kiev più di ogni altro momento ed è un bene che l’Epf (il cd fondo europeo per la pace, ndr) sia rimpinguato con altri 3,5 miliardi. La guerra sta incrinando la forza militare russa e sta mettendo in crisi il governo: ora una potenza nucleare come la Russia potrebbe affrontare un periodo d’instabilità e dobbiamo prendere in considerazione questo scenario”
*(Fonte Il Manifesto. Federico Rucco, giornalista)

 

09 – COS’È LA POLITICA EUROPEA DI COESIONE – SONO TUTTI GLI INVESTIMENTI ATTUATI TRAMITE I FONDI STRUTTURALI EUROPEI CHE HANNO L’OBIETTIVO DI RIDURRE I DIVARI ECONOMICI E SOCIALI TRA I TERRITORI.
A livello europeo, sono previsti investimenti per sostenere le economie degli stati membri, con una forte attenzione alla riduzione dei divari tra le regioni. L’insieme di norme, fondi e interventi che hanno questa funzione specifica è definito dalla politica di coesione. L’espressione “coesione” viene intesa sotto tre aspetti principali: quello economico, quello sociale e quello territoriale.
Questo è il principale piano di investimento europeo, che si innesta su tutta una serie di fondi legati a diversi settori, come ad esempio il fondo europeo di sviluppo regionale (che promuove lo sviluppo economico) e il fondo sociale europeo (che comprende incentivi all’occupazione). Ha le sue basi giuridiche all’interno degli articoli che vanno dal 174 al 178 del trattato sul funzionamento dell’unione europea (Tfeu).
Per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme dell’Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale.

– TRATTATO SUL FUNZIONAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA – ARTICOLO 174

SONO DUE GLI AMBITI SPECIFICI SU CUI INSISTE LA POLITICA DI COESIONE:
INVESTIMENTI A FAVORE DELL’OCCUPAZIONE E DELLA CRESCITA;
COOPERAZIONE TERRITORIALE EUROPEA.
UNA PARTICOLARE ATTENZIONE VIENE RISERVATA ALLE ZONE RURALI E A QUELLE CHE PRESENTANO RILEVANTI SVANTAGGI DEMOGRAFICI COME LE AREE A BASSA DENSITÀ DEMOGRAFICA E LE REGIONI INSULARI, TRANSFRONTALIERE E DI MONTAGNA.

Dati
Per quel che riguarda il periodo 2021-2027, la politica di coesione verrà finanziata attraverso il quadro finanziario pluriennale, che viene redatto per definire i budget dei fondi strutturali.

392 MILIARDI LE RISORSE COMPLESSIVE DELLA POLITICA DI COESIONE 2021-2027.

Di questi, circa 11,3 miliardi saranno trasferiti al meccanismo per collegare l’Europa, un sistema di sostegno alle infrastrutture dei trasporti, e 2,5 invece avranno lo scopo di finanziare le funzioni tecniche e di supporto dei programmi. Sono quindi 378 miliardi quelli che verranno utilizzati per il finanziamento dei progetti e il raggiungimento degli obiettivi europei.

Di questi fondi, la maggior parte è destinata agli investimenti legati al primo obiettivo, quello relativo agli investimenti e alla crescita, con circa 369 miliardi. Per quel che riguarda i contributi del fondo europeo di sviluppo regionale e il fondo sociale europeo (complessivamente l’85% di questo primo obiettivo), vengono allocati seguendo un criterio di classificazione regionale. I territori sono quindi stati divisi a seconda del grado di sviluppo economico in modo da comprendere verso quali aree veicolare i fondi.

Le zone considerate meno sviluppate dal punto di vista economico si trovano in particolare nelle aree orientali e meridionali dell’Unione. Si può vedere come per numerosi casi sia la regione della capitale ad essere quella più avanzata, come nel caso di Bucarest e dell’area metropolitana di Lisbona. In Italia, le regioni meno sviluppate sono tutte quelle del mezzogiorno ad eccezione dell’Abruzzo che è in transizione.

Per quel che riguarda invece il secondo obiettivo, risultano stanziati complessivamente 9 miliardi di euro. Sono implementati principalmente nei programmi di cooperazione tra frontiere, transnazionali, interregionali e tra le regioni più esterne.

Gli strumenti della politica di coesione hanno portato ad alcuni risultati, principalmente nelle aree dell’Europa orientale in cui i livelli di reddito erano più bassi. Istat rileva che per le altre zone non è avvenuto questo processo di convergenza, comprese quelle italiane. Si evidenzia invece che tutte le regioni si stanno generalmente allontanando dalla media europea.
Non si è verificato il processo di convergenza delle regioni italiane classificate come “meno sviluppate” (pressoché quasi tutto il Mezzogiorno d’Italia ad eccezione dell’Abruzzo), che hanno continuato a crescere sempre molto meno della media dei Paesi dell’Ue27. Ma è l’intero sistema Paese Italia che si è contraddistinto per un processo di progressivo allontanamento dal dato medio europeo: nel 2000 erano ben 10 le regioni italiane fra le prime 50 per Pil pro capite in ppa e nessuna fra le ultime 50. Nel 2021 fra le prime 50 ne sono rimaste solo quattro (Provincia autonoma di Bolzano/Bozen, Lombardia, Provincia autonoma di Trento e Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste), mentre fra le ultime 50 ora se ne trovano ben quattro (Puglia, Campania, Sicilia e Calabria).
– Istat, la politica di coesione e il mezzogiorno – vent’anni di mancata convergenza
In questo scenario si inserisce anche lo strumento del Next generation Eu (Ngeu), che contribuisce alla coesione economica, sociale e territoriale dei paesi dell’Unione. A fianco dei fondi ordinari si affianca quindi anche questa componente straordinaria che è stata definita dal piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che ogni singolo stato ha dovuto compilare.

ANALISI DEI FABBISOGNI E COMPETENZE SONO LA CHIAVE PER RAGGIUNGERE UNA CONVERGENZA ECONOMICA.
Sono quindi numerose le possibilità di finanziamento per avere un avanzamento delle infrastrutture degli stati membri, ciascuna con le sue clausole e regole particolari. Si rivelano quindi cruciali il personale e le competenze per seguire i bandi europei e per presentare dei progetti che risultino ammissibili a finanziamento. Solitamente, è più facile per le aree sviluppate accedere a questi fondi proprio per questi motivi: senza lavoratori formati per seguire questi aspetti, si rischia di ampliare il divario invece che appianarlo. Ma in questo anche l’analisi dei fabbisogni gioca un ruolo fondamentale: in ambito politica agricola comunitaria (Pac), la corte dei conti europea ha puntualizzato che una delle complessità maggiori nella gestione dei fondi è data dal poco utilizzo di dati disaggregati, cruciali nella definizione delle aree locali più piccole in cui è necessario un intervento.
*( FONTE: elaborazione Open polis su dati politiche di coesione)

 

 

 

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